ANNO 1797

FINE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA

L'ARCIDUCA CARLO COMANDANTE SUPREMO DELLE FORZE IMPERIALI IN ITALIA - OFFENSIVA FRANCESE: IL MASSENA VERSO IL TARVISIO E IL JOUBERT NEL TRENTINO - L'ARCIDUCA, VINTO DAL BONAPARTE, SI RITIRA SULL' ISONZO - I FRANCESI OCCUPANO PALMANOVA, GRADISCA E GORIZIA - BATTAGLIA DEL TARVISIO - IL GENERALE BERNADOTTE A IDRIA E A TRIESTE - II BONAPARTE A VILLACCO E KLAGENFURTH - OPERAZIONI DEL JOUBERT - I FRANCESI NELLE PROVINCIE VENETE - TIMORI DEL BONAPARTE E INCERTEZZE DI VENEZIA - I FRANCESI MARCIANO SU VIENNA - PRELIMINARI DI LEOBEN - IL BONAPARTE E VENEZIA - II JUNOT A VENEZIA - ORATORI VENETI PRESSO IL BONAPARTE - LE "PASQUE VERONESI" - IL "LIBERATORE D'ITALIA" - I FRANCESI CONTRO VENEZIA - DELIBERAZIONI DEL MAGGIOR CONSIGLIO - I NOVATORI VENEZIANI - ULTIMA SEDUTA DEL MAGGIOR CONSIGLIO -TUMULTI DEL POPOLO VENEZIANO - I FRANCESI ENTRANO IN VENEZIA - LA MUNICIPALITÀ DEMOCRATICA - IL TRATTATO DI MILANO - RUBERIE FRANCESI A VENEZIA - FESTE DEMOCRATICHE - I FRANCESI A CORFÙ - GLI AUSTRIACI OCCUPANO L'ISTRIA E LA DALMAZIA - - UNA GABBIA DI MATTI

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Gli ultimi istanti della Repubblica Serenissima
Le truppe francesi soffocano a Ponte Rialto l'ultimo tentativo dei tumulti popolari

NAPOLEONE BONAPARTE E L'ARCIDUCA CARLO D'AUSTRIA 
 VITTORIE FRANCESI NEL TRENTINO, IN FRIULI, A TARVISIO
PRELIMINARI DI LEOBEN
NAPOLEONE  BONAPARTE E VENEZIA


Dopo le tre sconfitte patite, l'Austria affidò il comando supremo del suo esercito in Italia all'arciduca CARLO, famoso per le vittorie riportate sul Reno contro le truppe repubblicane dello JOURDAN e del MOREAU. Convinto che, per tener testa al Bonaparte e dare tempo ai rinforzi che aspettava di raggiungerlo, la tattica migliore era quella del temporeggiare; l'arciduca collocò nel Trentino ventiquattromila uomini comandati dai generali LAUDON e KERPEN e pose il grosso del suo esercito dietro la linea del Tagliamento, lasciando presso Conegliano il principe di HOHENZOLLERN con tremilasettecento soldati e tra Feltre e Belluno il LUSIGNAN con un corpo di tremiladuecento uomini.
NAPOLEONE BONAPARTE invece, che aveva ricevuto notevoli rinforzi e disponeva di oltre settantamila uomini, decise di portare la guerra nel cuore dell'Austria e, lasciati a Bologna con seimilacinquecento Francesi e quattromila Italiani il VICTOR, affidò l'incarico allo JOUBERT di affrontare il nemico nel Trentino, ordinò al MASSENA di marciare con diecimila uomini sulla strada del Tarvisio, e, presi con sé i generali SERRURIER, GUYEUG e BERNADOTTE con venticinquemila soldati, passò il 12 marzo il Piave ed affrontò sul Tagliamento l'Arciduca.

CARLO, sopraffatto dalle forze predominanti dei Francesi, il 16 marzo del 1797 si ritirò sull'Isonzo e inviò al passo del Tarvisio, minacciato dal Massena, tre divisioni comandate dal BAYALITSCH, che seguirono la via di Udine, Caporetto e Plezzo, ma nonostante la rapidità della loro marcia furono prevenute dal generale francese giuntovi dalla via di Pontebba dopo aver superata la resistenza dell'Ocskay.
Il Bonaparte, girando sulla sinistra dell'esercito nemico, occupò Palmanova, espugnò Gradisca, e, portatosi a Gorizia, tagliò le comunicazioni tra l'Arciduca e il Bayalitsch, quindi il 21 marzo mandò contro quest'ultimo la divisione del GUYEUG.
Impossibilitato a risalire l'alta valle dell'Isonzo, l'Arciduca Carlo si ritirò a Lubiana e, riuniti i superstiti dei corpi del Lusignan e dell'Ocskay ai rinforzi giuntigli dalla Germania, tentò di riprendere al nemico il passo del Tarvisio. Dapprima la fortuna gli fu favorevole: l'importante posizione fu occupata dagli Austriaci e sarebbe stata mantenuta se fosse giunta a tempo la colonna del Bayalitsch; il ritardo di questo generale fece nuovamente riperdere il passo all'Arciduca, il quale tentò di risollevar le sorti della battaglia lanciandosi valorosamente alla testa dei suoi ussari nella mischia, invano audacia perché alla fine dovette ritirarsi nella valle della Mura.

II contrattempo oltre che all'Arciduca riuscì fatale al Bayalitsch, perché, preso in mezzo dal Massena e dal Guyeug, fu costretto ad arrendersi con duemilacinquecento soldati e ad abbandonare ai vincitori venticinque cannoni e i bagagli. E dopo vigorosa resistenza, capitolarono pure i cinquecento granatieri comandati dal Koebloes (24 marzo).

Vinto l'Arciduca al Tarvisio, era ora aperta ai Francesi la via dell'invasione. II Bonaparte non volle perder tempo. Affidato al generale Bernadotte l'incarico di occupare Idria e Trieste, entrò in Villacco e quindi a Klagenfurth, assicurando astutamente gli abitanti di questa città che non alle conquiste ma alla pace lui mirava (31 marzo).
Con altrettanto successo guadagnavano terreno le armi francesi nel Trentino. Lo Joubert aveva, il 20 marzo, passato il Lavis, quindi, sconfitti il Kerpen e il Laudon a S. Michele all'Adige e a Newmarket (Egna) era riuscito a separarli; difatti aveva costretto il secondo a ritirarsi nella valle di Merano e il primo a Sterzing (Vipiteno) dopo averlo sconfitto a Chiusa. Avendo invano tentato di sloggiare il Kerpen dalle gole del Brennero, lo Joubert, nei primi giorni d'aprile, per la via di Toblaco (Dobbiaco) e Linz puntò verso Villacco per andar ad unirsi al Bonaparte.

Nonostante questi successi, la situazione dei Francesi non era delle più felici. Il Bonaparte si era spinto troppo avanti, inoltre si era lasciato dietro alle spalle fermenti di vario genere; d'altro canto lo Joubert non aveva affatto fiaccato del tutto l'esercito austriaco dell'Alto Adige, il quale, allontanatisi i Francesi, era tornato alla riscossa: il Kerpen, infatti, aveva sollevato i Tirolesi e ricuperata Bolzano e Chiusa, minacciava Bressanone, mentre il Laudon occupava Trento e si spingeva oltre Rovereto.
Ma il pericolo maggiore era il contegno delle province venete della terraferma. Emissari francesi e novatori lombardi erano riusciti nel marzo a sobillare qua e là i sudditi della Serenissima, e a Bergamo, a Brescia, a Salò e a Crema i democratici si erano impadroniti del potere, avevano costituito governi municipali, abbattute le insegne di S. Marco e piantati gli alberi della libertà.
Ma non tutti erano dello stesso parere, e ben presto da questi era venuta la reazione: alcuni sobillando il popolo a causa delle prepotenze e delle ruberie di alcuni funzionari Francesi, mentre altri (sostenuti dal clero) perché si dissero "indignati dallo spirito antireligioso dei rivoluzionari".
Treviso, Vicenza, Padova, Verona, Rovigo, Bassano, Conegliano, Portogruaro, Sacile e parecchie altre terre avevano mandato deputati a Venezia (dove viveva una "repubblica" oligarchica sempre un po' sorda alle richieste delle province della terraferma) per dichiararle la loro fedeltà; la Val Trompia, la Val Sabbia, la Val Seriana e la Riviera di Salò si erano levate in armi contro i democratici e i Francesi, e la Serenissima, che fino allora si era limitata a protestare debolmente a Parigi e presso il Bonaparte, aveva solo disposto che si provvedesse alla difesa di Venezia concentrandovi undicimila schiavoni, tremilacinquecento soldati italiani e duecento barche armate, fornendola di viveri e munizioni e deliberando un imposta straordinaria del decimo sulla rendita.

Se la repubblica veneta (meno isolazionista) avesse dato ascolto ai consigli dell'Austria e si fosse unita agli imperiali, il Bonaparte (forse) si sarebbe trovato a malpartito; invece la Serenissima non ebbe il coraggio di agire con energia e l'accortezza di sfruttare i disagi delle popolazioni e non solo lasciò senza aiuti alcuni abitanti della terraferma che si erano levati in suo favore, ma, impaurita dalle furiose proteste del generalissimo francese (si chiuse a riccio, come da un po' di tempo era avvezza) acconsentì a somministrargli un milione a mese per la durata di un semestre.

Imbaldanzito dalla debolezza e da questa remissività di Venezia e deciso ad uscir con un colpo d'audacia dalla situazione pericolosa in cui si trovava, il Bonaparte avanzò a Freisac, a Neumarkt, a Ungmarkt e a Judenburg e ordinò al Massena di impadronirsi di Leoben (7 aprile).

Vienna, minacciata dall'esercito francese, fu impressionata. Il 7 aprile i generali di BELLEGARDE e di MERVELDT si presentarono al Bonaparte, che stava a Judenburg, e gli chiesero una tregua. Fu concessa per cinque giorni, ma poi fu protratta fino al 18, e si approfittò per negoziare i preliminari della pace, basati sulla cessione del Belgio alla Francia, sulla rinunzia da parte dell'Imperatore al Milanese, che con le province estensi e le venete tra l'Adda, il Po, l'Oglio e la Valtellina avrebbe formato una nuova repubblica, e sull'acquisto da parte dell'Austria della Dalmazia, dell'Istria e delle province venete comprese fra l'Oglio, il Po e i confini dell'Impero.

Chi doveva far le spese dell'accordo era la remissiva Venezia, sui cui territori da tanto tempo aveva messo gli occhi l'Austria, che già il 3 gennaio del 1795 aveva stipulato con la Russia un patto segreto con il quale CATERINA II e FRANCESCO II s'impegnavano di aiutarsi reciprocamente per prendersi la prima Costantinopoli, e la terraferma veneta il secondo.

Con questo turpe mercato europeo, se voleva entrarci i pretesti non mancavano al Bonaparte. Come aveva fatto col duca di Modena, e, l'anno prima, con la stessa Venezia per farsi dare Verona, così fece ora.
Appena stipulata la tregua, scrisse al LOLLEMENT, ministro francese presso la Serenissima:

"…denunciando il sollevamento dei valligiani, gli assassini dei suoi soldati commessi dai contadini e più altre ingiurie che affermava recate alla Francia, i maltrattamenti usati da una nave veneta da guerra verso la fregata francese, l'incendio della casa del console francese a Zante, la parzialità per l'Austria, l'odio che era espresso contro la Francia; gli ordinò di chiedere dal Senato che, entro dodici ore, scegliesse tra la guerra o la pace; nel primo caso che iniziassero pure che lui era pronto; nel secondo esigeva la liberazione dei carcerati politici, degli schiavi, il disarmo dei villici, il ritiro delle milizie della terraferma, il castigo dei colpevoli, la riparazione delle offese. Inoltre di rendersi operante con la mediazione francese per contenere alcune ribellioni incitate da alcuni gruppi di filo-serenissimi a Brescia e a Bergamo…".
"…Nè ciò sembrandogli bastante, inviò il suo aiutante di campo JUNOT portatore di quella lettera, e di un'altra anche più risentita per il Doge stesso, con l'incarico di leggerla in Consiglio e di ottenere poi una risposta nello spazio di ventiquattro ore.." (Franchetti) .
Lo JUNOT giunse a Venezia il 15 aprile, e, sebbene ricorresse il sabato santo e che per consuetudine erano sospese durante la Settimana Santa tutte le udienze, il Collegio si radunò per ricevere l'inviato francese, prender visione delle minacciose lettere del Bonaparte ed ascoltare il linguaggio tracotante dell'aiutante del generalissimo che concluse dicendo:
"…Non siamo più ai tempi di Carlo VIII; se contro l'aperto desiderio del governo francese mi sforzerete alla guerra, non pensate che, ad esempio delle genti armate da voi, i soldati francesi siano qui solo per devastare le campagne del popolo innocente e sfortunato della terraferma: io lo proteggerò; ed esso benedirà un giorno anche i delitti che l'esercito francese è obbligato a commettere per liberarlo dal vostro tirannico governo…".

Il Doge non raccolse l'ingiuria; convocato in seduta straordinaria il Senato, il savio FILIPPO CALVO propose di "…dichiarare che la Serenissima era sempre stata amica devota della Francia, che non aveva colpa nei torbidi avvenuti, che ricercherebbe e punirebbe gli autori dei misfatti e manderebbe due oratori al Bonaparte…". Disapprovò questa proposta, MARCANTONIO MICHIEL, il quale dichiarò "..essere più dignitose per la repubblica perire con le armi in mano piuttosto che rimanere vittima dell'altrui prepotenza". Ma, poi messa ai voti, la prima proposta ebbe la maggioranza dei suffragi.
I commenti del popolino fu invece pungente "e' gha calà le braghe" (hanno calato le braghe).

La lettera pel Bonaparte, redatta dal Senato in termini molto umili, non soddisfece lo JUNOT, il quale, dopo averla letta, montò sulle furie e minacciò di dichiarare la guerra entro le ventiquattro ore, e solo si calmò quando il PESARO ottenne dal Senato un bando per imporre ai sudditi la più rigorosa neutralità e il permesso di mettere in libertà i prigionieri. Il Collegio dei Savi aveva proposto un altro bando per sospendere gli arruolamenti in terraferma, ma insorsero sdegnate (e fieri) ancora il MICHIEL, e DANIELE RENIER e GIROLAMO GIUSTINIAN e alla fine fu deliberata la continuazione delle leve (cosa non certo gradita a Napoleone).

Furono scelti come oratori FRANCESCO DONÀ e LEONARDO GIUSTINIAN, i quali furono ricevuti in malo modo dal Bonaparte a Gratz il 25 aprile. Speravano di persuaderlo che Venezia nulla aveva fatto per rompere la neutralità e che era animata da una sincera amicizia verso la Francia. Ma il generalissimo si mostrò irritato, non volle sentire scuse o ragioni e proseguì con delle terribili minacce:

"....Fin quando non saranno puniti tutti i rei d'offese ai Francesi; fin quando non sarà cacciato il ministro inglese da Venezia e disarmati gli uomini, liberati tutti i prigionieri; fin quando non decida Venezia tra la Francia e la Gran Bretagna; io vi farò la guerra. Per questo ho fatto la pace con l'Imperatore, e, pur potendo andare a Vienna, vi ho rinunciato per questo; ho ottantamila uomini e venti barche cannoniere; io non voglio più a Venezia l'Inquisizione, né voglio quel Senato, io sarò un Attila per lo Stato Veneto. Finchè avevo dinnanzi il principe Carlo, io a Gorizia ho offerto al Pesaro l'alleanza della Francia e la sua mediazione per tranquillizzare le città sollevate. Fu respinta perché piaceva avere un pretesto per tenere in armi le popolazioni per così tagliarmi la ritirata, qualora io vi fossi stato costretto. Ora so che (l'alleanza) la cercate, io la rifiuto; non voglio progetti, voglio fare io la legge. Non si usi il tempo per ingannarmi per guadagnare tempo come voi state tentando di fare ora con questa missione. So molto bene, che come il vostro Governo dovette abbandonare il suo Stato (la terraferma) non essendo in grado di armarsi né in grado d'impedire l'ingresso alle truppe belligeranti, così non ha forza per disarmare le popolazioni; ma sarò io a disarmarle loro malgrado. I nobili delle province tenuti finora come schiavi devono far parte come gli altri al governo; perché questo è vecchio e deve cessare…" … "…Io batterò gli austriaci e farò in modo che i veneziani paghino le spese di guerra, giacché hanno dato il passo ai nemici…"

(Ricordiamo che l'oligarchia-aristocrazia cittadina contava fin dal 1310 solo circa 900 nomi (appartenenti a 198 famiglie) e in questo 1797, nel Libro d'Oro (lista delle casate aventi titolo per accedere al Maggior Consiglio) erano ancora gli stessi, circa 962. Le cariche 824. Ma, in effetti, ogni potere era concentrato nelle mani di una quarantina di persone. Sistematicamente esclusi tutti gli altri, compresi i nuovo ricchi, soprattutto della terraferma. I sudditi poi, a Bergamo come a Vicenza, a Padova come a Verona non contavano nulla, erano una vera e propria nullità. - (Paolo Scandeletti, "Venezia è caduta", ed. Neri Pozza).

I due oratori lasciarono Gratz convinti che con il Bonaparte non c'era nulla da fare; e in verità nessun negoziato avrebbe potuto far recedere il generalissimo dai patti sottoscritti a Leoben, e salvare Venezia la cui sorte oramai era stata già irrevocabilmente decisa.
C'è da ricordare l'atteggiamento fiero del Giustiniani, che quanto a coraggio non era quello di un uomo di pasta frolla. Replicò con ardire a Napoleone che lui comunicava solo gli ordini ricevuti dal suo Senato, ma che se voleva si offriva come ostaggio, poi levandosi la spada la consegnò al Bonaparte.
Napoleone apprezzò molto il virile coraggio di quest'uomo, e gli consentì di recarsi a Venezia a riferire, e restituiva l'amministrazione cittadina ai trevigiani, di cui il Giustiniani era il provveditore.


LE "PASQUE VERONESI " - IL "LIBERATORE D' ITALIA" I FRANCESI E VENEZIA - LE SEDUTE DEL MAGGIOR CONSIGLIO LE TRUPPE FRANCESI ENTRANO A VENEZIA - LA MUNICIPALITÀ DEMOCRATICA


A rendere maggiormente furioso il Bonaparte (mentre si trovava a Leoben) e ad affrettare la fine della repubblica veneta concorsero le "Pasque Veronesi" e l'incidente contemporaneamente occorso alla nave francese che si chiamava "Liberatore d'Italia".

Da undici mesi, cioè dal giugno del 1796, il presidio francese comandato dal BALLAND e dal BEAUPOIL spadroneggiava a Verona, opprimendo con prepotenze e con contribuzioni i cittadini ricchi e cercando di fomentare nella popolazione la rivolta contro le autorità venete.

La misura per qualcuno era colma; l'ira da qualche tempo repressa scoppiò improvvisamente il 17 aprile, nella seconda festa di Pasqua. Poco dopo il mezzodì di quel giorno sanguinose zuffe scoppiarono tra gli schiavoni al servizio di Venezia spalleggiati dal popolo, e i francesi, con la peggio di questi ultimi. Allora il Belland, che comandava le fortezze e le porte, preso dal panico ordinò di sparare alcune cannonate contro il palazzo pubblico.
Fu il segnale delle ostilità. Le campane suonarono a stormo, i cittadini si riversarono armati nelle vie e assalirono e trucidarono quanti francesi o loro simpatizzanti poterono trovare. Il "fattaccio" più grave
fu l'assalto al presidio di un ospedale francese dove uccisero guardie e degenti.
Molti, protetti dagli ufficiali della Serenissima, riuscirono a trovare scampo nelle fortezze.

La rivolta dei Veronesi non poteva essere sostenuta dalle milizie regolari e provinciali della repubblica veneta accampate nel territorio vicino. A Valeggio stava il conte ANTONIO MAFFEI con novecento fanti e cento cavalli condotti dal colonnello FERRO; nei paraggi c'era pure il conte NOGAROLA e il sergente generale STRATICO con la cavalleria; presso la Croce Bianca furono riuniti alcuni pezzi d artiglieria e mezzo migliaio di schiavoni; a Castelnuovo erano concentrati numerosi contadini armati sotto il comando del conte FRANCESCO degli EMILEI e non molto lontano stava il conte PEREZ a capo dei contadini di Val Pollicella.

Al primo annunzio della rivolta, il conte FRANCESCO degli EMILEI corse a Verona con duemilacinquecento contadini, seicento schiavoni e due cannoni, espugnò la porta di S. Zeno catturando centocinquanta Francesi, occupò Porta Nuova ed andò a schierarsi al centro della città, a Piazza Bra; il capitano CODOGNO s'impadronì di Porta Vescovo e il conte NOGAROLA prese Porta S. Giorgio.
Impressionati della piega che prendevano gli avvenimenti, il governatore GIOVANELLI e il vice-podestà CONTARINI (di nomina veneziana) iniziarono trattative con il BELLAND, il quale, essendosi incautamente presentato al popolo, fu catturato, malmenato e a stento, con l'aiuto delle autorità, riuscì a sottrarsi alla furia dei rivoltosi.
Infuriato per quest'atto, il generale troncò le trattative e fece conoscere le pesanti condizioni che intendeva dettare: consegna di sei ostaggi, disarmo entro tre ore dei cittadini e dei contadini ribelli, riapertura delle comunicazioni e sollecita soddisfazione del sangue versato dai francesi.
Napoleone non volle sentire nessuna giustificazioni.  Se Verona era di Venezia - disse Napoleone- la responsabilità del vile attentato ricadeva sulla Serenissima,  e non potevano i veneziani lavarsene le mani. Nel dislocare le sue truppe nel Veneto (tutto sotto Venezia) Napoleone non intendeva certo correre il rischio di muoversi in un ambiente che si dichiarava  neutrale ma poi  gli ammazzava gli uomini addirittura dentro un ospedale.

La mattina del 18 il GIOVANNELLI e il CONTARINI chiamarono a consulta i maggiorenti, gli anziani delle arti e dei mercanti e i capi delle milizie ed essendo prevalso il partito di coloro che non volevano scendere ad accordi o accettare le condizioni, abbandonarono Verona al suo destino e si ritirarono a Vicenza.

Rimasta la città senza governo, ebbero luogo deplorevoli disordini: il ghetto degli ebrei e le case dei novatori furono saccheggiati e furono liberati i carcerati dalle galere, che per prima cosa -nel caos- si misero subito a fare delle rapine. Ben presto però fu ristabilito l'ordine e fu istituita una reggenza provvisoria, che ordinò di barricare le strade, costruire trincee sulle alture di S. Leonardo, che fossero tirati fuori alcuni vecchi cannoni e si servì per allestire le opere di difesa dell'aiuto di cento prigionieri austriaci liberati dalle carceri Francesi.

Quello stesso giorno, mentre intorno a Castel Vecchio la lotta era accanita, giunse a Verona il conte NEIPPERG, generale austriaco. Il suo arrivo fu salutato dai cittadini con entusiasmo perché si credette che fosse stato mandato dal LAUDON per sostenere la ribellione; invece il Neipperg era sceso a Verona per concludere col Belland un armistizio nell'attesa che fossero ratificati i preliminari di Leoben; poi il giorno dopo ripartì conducendo con sè i cento Austriaci.
Contro Verona intanto - dove erano tornati il Giovanelli e il Contarini - avanzavano notevoli forze francesi. Giungeva da Peschiera il generale CHABRAN con duemila uomini, seimila ne conduceva il generale KILMAINE dal Mantovano; il LANDRIEUG si collocava con duemila soldati alla Croce Bianca e alla Casa di Carpi e con altrettanti il LAHOZ si preparava a passare a Pescantina l'Adige sulle cui sponde erano concentrati duemilasettecento francesi comandati dal generale CHEVALIER.

Minacciati da così tanti nemici, i difensori (ufficiali) di Verona non si sgomentarono. Il colonnello FERRO, con le milizie del MAFFEI, tentò da Somma Campagna di prendere alle spalle il CHABRAN, mentre i ribelli Veronesi lo avrebbero assalito di fronte, ma questi ultimi - non si sa bene il perché - non si mossero e lasciarono tutto il peso dell'impresa al Ferro, il quale, dopo una vivace lotta alla Croce Bianca e a S. Massimo, sopraffatto dal numero dei nemici (20 aprile), riuscì a malapena a riparare dentro Verona con le milizie decimate. Anche in altri punti, a Pescantina e sulle alture di S. Leonardo, i Francesi prevalsero e in breve la città si trovò bloccata da tre lati, sottoposta ad un furioso cannoneggiamento.

Di poco aiuto fu ai Veronesi l'arrivo del provveditore ERIZZO e del generale STRATICO mandati dal Senato veneziano con quattrocento fanti, mille villici e quattro cannoni; la difesa non poteva a lungo sostenersi, sia perché l'eroismo e la tenacia di semplici cittadini e delle poche milizie provinciali non bastavano come numero né erano in grado di competere con la disciplina, l'unità di comando, le artiglierie e le posizioni delle truppe francesi; sia perché mancava l'accordo tra le milizie regolari venete da una parte e gli irregolari dall'altra.

Il Giovanelli e il Contarini cercarono nuovamente di entrare in trattative con il Belland e con il Chabran, ma questi, avuta notizia che si avvicinava il Victor con settemila uomini, rifiutarono di scendere ad accordi e fecero sapere che avrebbero sospeso le ostilità solo a patto che la città si arrendesse alle condizioni unicamente dettate da loro. Il 23 aprile, il Belland prima e il Kilmaine poi dettarono le condizioni della resa: i soldati veneziani, i cittadini e i contadini dovevano essere disarmati, i cannoni inchiodati, sedici ostaggi, tra cui l'Emilei e il Maffei, dovevano esser consegnati ed infine la città doveva pagare un tributo di quarantamila ducati.

Fra le condizioni tuttavia c'era quella che le persone e i beni dei cittadini sarebbero stati salvi. Invece non fu così: fu posta alla città una taglia di centoventimila fiorini, si obbligarono i veronesi a pagare una gratificazione di ventiquattro lire a ciascun soldato francese; molte case e botteghe furono saccheggiate, spogliate le chiese, asportate le opere d'arte, requisiti i cavalli, predati i pegni del Monte di Pietà per un valore di cinquanta milioni, estorti agli abitanti sessantamila franchi di cui non si volle lasciare ricevuta.
Verona, dopo otto giorni sembrava un deserto; chiuse le botteghe, fuggite molte famiglie, fumanti parecchie case; ed aspetto peggiore presentava la campagna. Di tutto ciò fa fede, in una sua relazione al Bonaparte, proprio l'Augereau, che fu mandato a rimettere in ordine in Verona, anche se continuarono le violenze, i saccheggi, le estorsioni e gli incendi. Poi dal 9 di maggio all'8 di giugno entrò in funzione il tribunale militare che giudicò ottanta cittadini, fra i quali furono poi fucilati i conti Emilei, Valenza e Verità.

A questi incidenti se ne aggiunse contemporaneamente un altro. Il 20 aprile, mentre erano nella loro fase acuta le "Pasque veronesi", una nave francese detta il "Liberatore d'Italia", comandata da G. B. LAUGIER, si accostò al porto del Lido violando le disposizioni di un vecchio decreto che proibiva alle navi armate straniere l'ingresso nel porto di Venezia. Il comandante del Castello, DOMENICO PIZZAMANO, ordinò di fermarsi, ma il vascello continuò ad avanzare nonostante le intimazioni e il tiro d'alcune cannonate dal forte di S. Andrea.
Allora una galeotta, che difendeva l'entrata del porto, assalì la nave francese in difficoltà, vi uccise il Laugier, cinque marinai e fece prigioniero il resto dell'equipaggio.

Alla notizia di quest'altro fatto la furia del Bonaparte fu tremenda; subito chiese l'arresto degli inquisitori e del Pizzamano e la libera entrata delle navi francesi nella laguna e, non potendo trovar migliore pretesto per muovere guerra alla Repubblica Veneta (un pretesto fornito su un piatto d'argento) il 30 aprile scrisse al LALLEMENT che abbandonasse Venezia, poi ordinò ai suoi generali di iniziare le ostilità.

Queste in verità erano già iniziate da parecchi giorni; i generali francesi avevano fatto sollevare le province venete della terraferma, avevano cacciato i rettori veneziani da Padova, Vicenza, Treviso, Rovigo ed Udine, avevano dovunque istituito nuove municipalità con i più accesi sostenitori delle idee rivoluzionarie ed avevano messo sotto sequestro i beni dei patrizi veneziani. Nel frattempo un esercito, comandato dal BARAGAY D' HILLIERS, avanzava verso Venezia.

"…L'indolenza, la paura, la viltà - "scrive il Battistella" - dilagano da ogni parte ad eccezione di Legnago e di Treviso dove i provveditori BERTUCCI PIZZAMANO e ANGELO GIUSTINIAN fornirono prova di una coraggiosa fermezza, mentre in nessun altro luogo si tenta di contrastare alla violenza e dappertutto i magistrati veneti (della terraferma) cedono le armi e si ritirano davanti agli invasori, senza lotta e senza proteste, e dappertutto si pubblicano passionali proclami calunniosi e ingiuriosi contro il caduto governo dell'oligarchica Serenissima e si accoglie con feste clamorose l'occupazione francese, non presagendo che sarebbe stato vicino il giorno in cui le spogliazioni, le requisizioni, le sfrenatezze, i saccheggi avrebbero fatto scontare amaramente queste apostasie…".

Era intanto giunta a Venezia il 30 aprile una lettera del DONÀ e del GIUSTINIAN, che comunicava le intenzioni manifestate dal Bonaparte di modificare l'antica forma di governo. Quel giorno stesso si riunì una consulta, composta dei sedici Savi, dei tre capi della Quarantia criminale, dei tre capi del Consiglio dei Dieci, dei Savi usciti d'ufficio, dei tre avogadori e dei sei consiglieri ducati e presieduta dal Doge, il quale propose di chiedere al Maggior Consiglio la facoltà di trattare con il Bonaparte intorno alla mutazione della forma di governo.

II giorno dopo, 10 di maggio, si radunò il Maggior Consiglio e il vecchio doge Manin disse con voce lacrimosa che il nemico, dopo aver predato in tutto il territorio, dopo aver vuotate le pubbliche casse, dopo aver fatto ribellare tutte le province, marciava contro Venezia e non era molto distante; disse ancora che il Bonaparte voleva il mutamento del governo e che la repubblica non era in grado di opporsi alla volontà di quel generale; comunicò quindi la deliberazione della Consulta e raccomandò di approvarla prontamente perché "semo separadi dai loro vittoriosi eserciti, se non da un piccolo trato de acqua…" e che bisogna "… salvare questa città, le nostre famegie, i nostri altari, la nostra popolazione che ge minacciada de morte e saccheggi…".

Messa ai voti la proposta, essa ne ebbe 598 favorevoli, 7 contrari e 14 non sinceri (cioè degli astenuti). Dopo di ciò, il Maggior Consiglio incaricò il DONÀ, il GIUSTINIAN e ALVISE MOCENIGO di trattare col Bonaparte, che ricevette i deputati sul Pontile di Marghera e dichiarò loro di non potere entrare in trattative se prima non erano arrestati e puniti i tre Inquisitori e il comandante della fortezza di S. Andrea, concedendo quattro giorni per la risposta (2 maggio).

La risposta non poteva essere contraria ai voleri del Bonaparte. Il 4 maggio il Maggior Consiglio, esortato dal Doge che diceva: "…Bisogna che se rassegnemo anca nu, tanto più che ghe xe sempre l'alternativa de ferro e fogo…", con 704 voti contro 12 sfavorevoli e 26 astenuti, deliberò l'arresto di DOMENICO PIZZAMANO e dei tre inquisitori AGOSTINO BARBARIGO, ANGELO MARIA GABRIEL e CATERINO CORNER, e stabili di pregare il generalissimo francese di prolungare l'armistizio.
"…La larghissima maggioranza con la quale passa la decisione di "suicidarsi" si spiega anche con un'assicurazione, più sottintesa che formale: a chi sia rimasto senza lavoro (e non abbia dunque di che campare, e sono ormai i più fra i nobiluomini) sarà assicurata l'assistenza al nuovo Stato…". (Paolo Scandeletti, op. cit.)

Si voleva pure, per far piacere al Bonaparte, arrestare il procuratore PESARO, ma questi, avvertito dal savio PRIULI, si era messo in salvo due giorni prima, con una nave dell'Almirante Corner, suo nipote, ed era sbarcato già ad Istria dopo aver venduto tutto il possibile. Altre deliberazioni suggerite dalla viltà furono quella del 3 maggio con il quale si revocava l'ordine di chiamare alle armi le "cernide" della Dalmazia e quella dell'8 con la quale si stabiliva di disarmare e allontanare da Venezia i fedeli Schiavoni. Inoltre furono mandati al Baraguay d'Hilliers 283 prigionieri presi a Salò, si liberarono i pochi carcerati politici e il 7 maggio il Doge si dichiarò pronto ad abdicare e invitò gli altri a rinunziare ai propri uffici.
"Del resto, in quei giorni, il banchiere GASPARE LIPPOMANO scriveva al nipote ALVISE QUERINI: "Bisogna essere alte nullità, come noi siamo, per tenere tutto..". (P. Scandeletti, op. cit.)

Intanto i Francesi, sebbene continuasse la tregua, avanzavano, e a Venezia correva voce che a Trieste si stavano armando venti cannoniere e che dalla parte del mare Venezia era minacciata da una flotta francese già veleggiante nell'Adriatico. Erano false voci. Ma anche se vere, Venezia avrebbe potuto opporre una seria resistenza disponendo di oltre quindicimila uomini, più le "cernide", e di circa duecento navi, tra cui ventidue vascelli di linea, quindici fregate, tre brik, due cotter e ventidue galere; ma tutte queste forze erano inutili data l'inettitudine degli uomini che governavano la repubblica. Non deve quindi recare meraviglia la deliberazione della Consulta, che stabiliva, in caso d'assalto, di non opporsi al nemico, purché questo rispettasse la religione, la libertà, i beni, le persone, i cittadini (ovviamente dei nobili).

Oramai la vecchia repubblica si avvicinava precipitosamente alla fine, e più cresceva la paura dei governanti più alzavano il capo i novatori, i cui capi erano GIOVANNI ANDREA SPADA, ex-daziere, l'avvocato TOMMASO GALLINI e il grossista di droghe e dolciumi PIETRO ZORZI, i quali ubbidivano ciecamente al francese Villetard, ex-segretario del ministro Lallement. Questa combriccola era chiamata la "quinta colonna" e auspicava che le "idee di Francia" presto albergassero anche sulla laguna; intanto già facevano in gran segreto affari per i loro traffici con la legazione francese. Alcuni correvano dietro a Napoleone inseguendolo in Lombardia, a Stra, a Padova, o incontrandosi a cena con i vari generali e funzionari francesi. Alcuni "volarono" a Parigi pronti a vendere la città. Andrea Dolfin, un ex residente a Parigi, aveva proposto di corrompere con 6000 zecchini il tesoriere dell'armata francese.
Napoleone nelle suo Memoriale di San'Elena, ricorderà con amarezza questi momenti: "
".. gente abietta che sostava giorni e giorni sulle soglie delle mie stanze e che sembrava mi chiedessero l'elemosina...Io ho ammirato il genio potente di Venezia, ma ne ho disprezzato l'anima"

La sera dell' 8 maggio lo ZORZI, presentatosi al doge e spaventatolo con rivelazioni di supposte congiure (esagerando il rischio di sovversione) gli assicurò che, d'accordo con la legazione francese, era stato stabilito di chiedergli l'abdicazione e l'istituzione d'una municipalità provvisoria di ventiquattro membri. Dopo questo atto di rinuncia si sarebbe piantato l'albero-della libertà in Piazza S. Marco, si sarebbe cantato il Te Deum in tutte le chiese e si sarebbero invitati quattromila Francesi ad entrare in città.

Il vecchio doge, la mattina del giorno 9, radunò la Consulta: due consiglieri ducali ad alcuni "savi", tra cui GUIDO ERIZZO, affermarono che si dovevano respingere le proposte dello Zorzi, ma i sostenitori della Francia - che non erano pochi dentro la stessa Consulta - sostennero l'opportunità di convocare il Maggior Consiglio perché discutesse le proposte dello Zorzi; e il loro parere prevalse.
Il Maggior Consiglio si radunò per l'ultima volta la mattina del 12 maggio (Ippollito Nievo la definirà con rara efficacia "magistratura funeraria"). Il numero degli intervenuti - 537 su 1200 - non era legale, tuttavia la seduta si tenne lo stesso. Il Manin (la sera prima aveva mormorato ai suoi colleghi raccolti nel suo appartamento "Stanotte no semo sicuri gnanca nel nostro letto") piagnucolando, raccomandò che fosse accettato "…il sistema del generale Bonaparte…". Un solo consigliere, GIOVANNI MINOTTO, si dichiarò contrario alla proposta. Ad un tratto si udì fuori una scarica di moschetto: era il saluto che gli ultimi Schiavoni liberati che davano a Venezia nell'atto di imbarcarsi. Ma l'assemblea -credendo che era scoppiata la paventata la rivoluzione- fu invasa dal panico e in fretta e in furia si passò ai voti. La proposta venne approvata con 512 voti favorevoli, 20 contrari e 5 non sinceri.

Compiutasi l'indecorosa farsa, il doge, spogliate le insegne, si ritirò nelle sue stanze e i membri del Maggior Consiglio si affrettarono ad uscire. Dalla folla radunata nella piazza, una voce - quella del vecchio generale SALIMBENI, sostenitore della democrazia - si alzò, dicendo "Viva la libertà !". Ma il popolo agitando le bandiere con il leone alato, rispose con il grido di "Viva S. Marco !" Quindi rizzò sulle antenne i colori nazionali, portò in trionfo per le calli e nei campi, l'immagine del Santo Protettore e da ultimo, infuriato, assalì le case dei più noti democratici, parecchi dei quali furono costretti e fuggire a Mestre.

Durante la notte furono frenati i tumulti e il giorno dopo il doge con pubblico bando minacciò di morte i facinorosi ed ordinò che fossero restituite le cose rubate durante i saccheggi. Fu quindi mandato invito ai Francesi di entrare in Venezia e nella notte dal 15 al 16 maggio le truppe del Baraguay d'Hilliers occuparono S. Marco, Rialto, le isole, le foci del Lido e di Malamocco. Erano i primi stranieri armati che dopo undici secoli entravano dentro un'inviolata Venezia.

Nella casa del Villetard fu creata la Municipalità nuova che fu composta di sessanta cittadini d'ogni ceto, fra cui vi furono tre ecclesiastici, tre ebrei (*) e parecchi nobili. A sua volta la municipalità nominò un "comitato di salute pubblica" ed altri per la "Milizia", per le "Finanze" e la "Zecca", per il "Banco Giro" (la più grossa mazzata fu proprio questa!), il "Commercio e le arti", per le "Sussistenze e i pubblici soccorsi" e per la "Pubblica istruzione".
(*) Gli ebrei, che assommavano a 1626,. furono liberati, l'11 luglio, dopo aver soppresso il Ghetto, costruito nel 1516.

Il 16 maggio la Municipalità si riunì per la prima volta nella sala del Maggior Consiglio, quindi scese in piazza sfoggiando sciarpe tricolori. Quello stesso giorno, a Milano, il Bonaparte e i deputati veneziani sottoscrivevano un trattato con il quale, fra le altre cose, si stabiliva lo sgombro della terraferma, lo stanziamento provvisorio di una divisione francese in Venezia, la continuazione del processo contro gli inquisitori e l'amnistia per gli altri imputati.
Con questo trattato il Bonaparte - secondo quel che tre giorni dopo scriveva al Direttorio - mirava a conseguire tre scopi: "…1° di entrare senza ostacoli nella città, di avere in suo potere l'arsenale ed ogni altra cosa e di poterne cavare ciò che gli conveniva e quanto scritto nei capitoli segreti; 2° di essere in stato, ove gli accordi con l'imperatore per la pace non si concludessero, da legare con noi e volgere a nostro profitto tutti gli sforzi delle province venete; 3° di non tirarci addosso quella certa odiosità dell'attuazione dei preliminari di Leoben e insieme di somministrarci pretesti e mezzi per agevolarne l'esecuzione ..".

I capitoli segreti trattavano del cambio di alcune province e dell'impegno che Venezia si assumeva di pagare tre milioni in denaro, tre in somministrazioni navali, tre vascelli e due fregate, venti quadri e cinquecento manoscritti. In verità i milioni presi furono cinque, oltre ai centonovantamila zecchini che il duca di Modena aveva depositato a Venezia; fra gli oggetti d'arte che andarono ad abbellire i musei di Parigi ci furono i più bei dipinti del Tiziano, del Veronese, del Tintoretto, del Bellini e del Mantegna; preziosi manoscritti prelevati alle biblioteche di Venezia, di Treviso, di Padova e di Verona, statue, bassorilievi, medaglie, vasi. Nè ciò fu tutto: si presero gli argenti delle chiese e si saccheggiò l'arsenale, asportandone le corde, il legname e le navi in costruzione. Mentre i Francesi rubavano e le banche sospendevano i pagamenti, i novatori si davano alla demagogia; nei vari circoli si tenevano discorsi gonfi di retorica rivoluzionaria e le gazzette tuonavano contro i tiranni e inneggiavano alla libertà e all'eguaglianza.
I quattro Cavalli della Basilica, e il Leone sasanida posto sulla colonna della Piazzetta, calati a terra, inviati in Francia, sfileranno a Parigi nella gran parata del 27 e 28 luglio 1798 a Campo di Marte, assieme agli altri capolavori prelevati a Roma (fra cui la "trasfigurazione del Raffaello"), e in altre città d'Italia, in particolare le statue di epoca classica, sottratte a Napoli e Pompei.
Questi i furti ufficiali; poi c'erano quelli dei "commissaires" che completarono la spoliazione delle biblioteche monastiche e la distruzione di palazzi che rappresentavano la storicità e i simboli di Venezia (abbattimento di 61 palazzi in città e 15 a Murano). Non dimentichiamo poi che al momento a Venezia si contavano 845 librai con un patrimonio bibliofilo immenso, e quanto agli antiquari, quelli di Venezia come quantità e qualità erano i primi del mondo.

Il 4 giugno, domenica di Pentecoste, in Piazza S. Marco, adorna di lampadine, di ghirlande, di arazzi e di bandiere, alla presenza del generale Baraguay d'Hilliers e delle autorità cittadine, al suono di quattro orchestre e delle campane e al fragore delle artiglierie, venne piantato l'albero della libertà. Un discorso pronunziò l'arciprete FALLIER, un giovane ed una ragazza, accompagnati da una bandiera recante il motto "fecondità democratica", si diedero la mano di sposi, fu cantato nella Basilica l'inno delle grazie, si ballò nella piazza la "carmagnola", furono bruciate le insegne dogali e il "Libro d'oro", fu fatta a pezzi la bandiera di S. Marco e sulle pagine del libro tenuto dal leone alato al posto dell'antica leggenda "Pax tibi, Marce", fu scritto "Diritti dell'uomo e del cittadino". Il solito commento del popolino fu: "San Marco gà girà pagina".
Dalla fusione del tesoro di San Marco (messo su in tanti secoli) si salvò (ma per errore) solo la preziosissima iconostasi.

La spoliazione "ufficiale" fu pianificata da una commissione di esperti, presieduta dal matematico Gaspard Monge, dal botanico Thouin e La Ballardiè, dal chimico Berthollet, dai pittori Bertheleny, Tinet, Gros e Wicar, da gli scultori Morette, Dejou, Marin e Grulle, e dal celebre violinista Kreutzer. Il dettaglio delle opere, imballate e catalogate è raccontato chiaramente dal matematico Mongè ogni sera inviando una lettera alla moglie.

Mentre Venezia si "democratizzava" così, il Bonaparte, dichiarando di volere impedire che i domini veneziani cadessero in mano ad altri, ordinava che la flotta di Venezia comandata dal cittadino MINOTTO, e una flotta francese capitanata dal BOURDÉ recante a bordo il commissario Gentili, di dirigersi nelle acque di Corfù. Le navi partirono il 13 giugno e giunsero il 28. Il Gentili, indirizzò una lettera amichevole al provveditore Widmann e un proclama in cui invitava gli abitanti a rinnovare le glorie dell'antica Grecia; quindi fu istituita una municipalità democratica sotto la presidenza del Teotochi; fu bruciato il vessillo di S. Marco e piantato l'albero della libertà e, ciò che più importava al Bonaparte, l'importantissima fortezza ricevette un presidio di soldati francesi.

Continuavano frattanto le trattative di pace tra la Francia e l'Austria e questa, "…sia per mantenere il buon ordine, sia per preservare gli antichi e incontrastabili suoi diritti ..", faceva occupare l'Istria dal conte di THURN e la Dalmazia dal generale RUKAVINA (giugno-luglio del 1797).
Gli abitanti di quelle province, dove le idee democratiche non avevano fatto molta presa, non opposero nessuna resistenza agli invasori, ma non mancarono di dare un'ultima dimostrazione dell'effetto che nutrivano per la vecchia repubblica. A Zara, il 1° di luglio, le gloriose bandiere di S. Marco furono accompagnate da tutto il popolo, fra gli spari delle artiglierie, alla Cattedrale e, deposte sull'altare, furono baciate e bagnate di lacrime dal generale STRATICO, da tutti gli ufficiali dalmati e poi da tutti i cittadini. Lo stesso fu fatto in molte altre terre di Dalmazia, dove parve che quei lontani e fedeli sudditi di Venezia, non solo volessero sottrarre alla profanazione il sacro vessillo dell'evangelista, ma volessero custodirlo gelosamente nei templi con la speranza di tirarlo fuori in tempi non lontani e spiegarlo al vento delle nuove, chissà, future glorie.

Ci piace chiudere questo capitolo non con la sterile protesta del governo veneto per l'usurpazione austriaca, diramata il 1° luglio a tutte le potenze d'Europa, ma con le commosse parole che il capo della Comunità di Perasto, dopo che la bandiera veneta venne sepolta sotto l'altare della Chiesa, pronunziò ai cittadini:

" Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa, che Perasto ha degnamente sostenuto fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon, onorandolo co sto atto solenne e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto. Sfoghemose, cittadini, sfoghemose pur; ma in sti nostri ultimi sentimenti, coi quali sigilemo la nostra gloriosa carriera sotto al Serenissimo Veneto governo, rivolgemose verso sta insegna che lo rappresenta e su ella sfoghemo al nostro dolor. Per 377 anni la nostra fede, el nostro valor l' ha sempre custodìa per terra e per mar, per tutto dove ne ha chiamà i so nemici, che xe stai pur quelli della Religion. Per 377 anni le nostre sostanze, il nostro sangue, le nostre vite le xe sempre stae per tì, o S. Marco, e felicissimi sempre se avemo reputà, tì con nù, nù con tì; e sempre con tì sul mar nu semo stai illustri e virtuosi .... Se i tempi presenti infelicissimi per imprevidenza, per dissenzion, per arbitri illegali, per vizi offendenti la natura e il gius delle genti, non avesse tì tolto dall'Italia, per tì in perpetuo sarave stae le nostre sostanze, el sangue, la vita nostra, e piuttosto che vederti vinto e disonorà dai toi, el coraggio nostro, la nostra fede se averave sepelìo sotto di tì. Ma za che altro non ne resta da far per tì, el nostro cuor sia l'onoratissima to tomba, e el più puro e el più grande to elogio le nostre lagrime ".

Nell'organismo improvvisato, cioè la nuova Municipalità, dopo aver fatto scalpellare dai palazzi pubblici i leoni di San Marco, dopo aver bruciato a palazzo Ducale gli scranni del doge e dei consiglieri, fatto distruggere i vari mausolei degli stessi nelle chiese, dopo i primi duri provvedimenti, dopo il prestito forzoso di un milione di ducati caricato sui cittadini più abbienti, dopo avere con una imposta patrimoniale su case e imprese incassato poco più di due milioni di ducati, e dopo aver demagogicamente abbassato alcuni prezzi di alimentari, rivelò subito i suoi limiti di ingovernabilità. Doveva far fronte ad un debito pubblico pari a 44 milioni di ducati di debiti, con le casse dello Stato "svuotate" dai liberatori fino all'ultimo soldo.
I nobili veneziani che da molto tempo non investivano più in attività economiche, ma campavano investendo in titoli del debito pubblico, si videro improvvisamente sospendere i pagamenti dal Banco Giro; e quelli che più oculatamente avevano invece investito nelle ville, nelle campagne o nelle industrie delle città della Terraferma, ora diventate Municipalità provinciali, queste, a furor di popolo "democratico" non furono più disposte a pagare i vecchi padroni.
Del resto i francesi non lasciavano di certo consolidare né la municipalità di Venezia, né quelle della Terraferma (Dovendo da lì a poco consegnare "il tutto" all'Austria).

Insomma fu un caos organizzativo, economico, oltre che politico (a molti ancora ignoto); e il riformismo si rivelò solo demagogico, oltre che essere ingenuo. Infatti, le Municipalità democratiche, presa alla lettera questa "democraticità", ognuna cercò (agitandosi) di fare da sé, non prevedendo che nell'agire così, non camminavano verso un'unione, ma verso una pericolosa disgregazione.
Quando se ne resero conto (e il Veneto e Venezia, non erano né la Lombardia, né Milano) era già troppo tardi.

Crollò tutto un mondo, che negli ultimi tempi non rispecchiava quello reale ma era tutto artificiale.
Anche quell' Unità" dello Stato Veneziano (fatto di città della Terraferma) era fittizia, era una federazione di membri senza parità di diritti. Uno stato sovrano, libero, originale, splendido e democratico, ma solo all'interno della laguna e per di più solo dentro il patriziato che aveva un preciso scopo: far coincidere il progresso personale con quello della "loro" Repubblica, o l'incontrario.
Ma negli ultimi anni la Serenissima aveva rinunciato a entrambi i due progressi; e si era abituata a ricevere dallo Stato più denari di quanto pagassero con le imposte, perso il gusto per le imprese rischiose, i patrizi si limitavano ormai a investire nei titoli del debito pubblico. Il 75% delle entrate di Venezia  provenivano dalla miserabile Terraferma (2,5 milioni di abitanti), mentre i 900 nobili veneziani (fra effettivi e decaduti) pagavano il 25% pur possedendo il 90% di tutto il patrimonio della Serenissima. Ignorando così gli investimenti nelle nuove produzioni che invece altrove, in tutta Europa stavano portando nuovo ossigeno all'economia di ogni Nazione. Per non parlare della moneta: ancora nel 1721 i patrizi veneziani bocciarono l'idea di una banconota per gli scambi, lasciando l'economia languire, ispirandosi sempre a quel motto antimodernista che Foscarini ripeteva ancora nel 1761 "Impedir le novità perniziose e lassar le cose come le sta". Che alla fine del XVIII secolo equivaleva dire "lentamente lasciarsi morire", in un collettivo suicidio.

L'ultimo doge (il 120° della storia della Serenissima) LUDOVICO MANIN, voleva con i suoi ex colleghi, dare una mano ai nuovi arrivati, detti "progressisti" ma piuttosto "semplicisti" ed inesperti nelle cose di governo e non di meno in quelle economiche. Ma fu costretto a rinunciare, perché insultato dagli innovatori ad ogni uscita, tanto che fu ridotto a vivere quasi segregato in casa. Ma per poco, morirà nello stesso anno, lasciando in eredità al Manicomio San Servolo di Venezia, una somma enorme, 50.000 ducati.
Una cosa fuori del comune? Una bizzarria? O un messaggio beffardo e profetico?
Non più di tanto, infatti in vita, il Manin negli ultimi tempi soleva dire:
"..Sto mondo ze na cheba de matti, e i più sani sta de casa a San Servolo.."
(Questo mondo è una gabbia di matti, i più sani sono al manicomio)

E come suo ultimo ironico messaggio, non è che si era poi sbagliato di molto.
E non aveva ancora visto quello che accadrà a Venezia subito dopo, e nei successivi anni!

Dopo i fatti accennati sopra, mentre Venezia rovinava,
(e nel prossimo riassunto accenneremo anche al Trattato di Campoformio)
anche a Genova i "novatori" cantavano la "Marsigliese"
invitando Napoleone a scendere a "liberare" i patrioti.
E Bonaparte non aveva dimenticato Genova;
anzi aveva preparato un piano già a maggio

quindi restiamo in questo anno 1797 > > >  

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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