ANNO 1798

I FRANCESI A NAPOLI - LA REPUBBLICA PARTENOPEA 


I Francesi a Napoli attendati al Largo delle Pigne,
e al Largo del Palazzo Reale (oggi p. Plebiscito) viene innalzato l'albero della Libertà

 

RAPPORTI TRA I FRANCESI E LA CORTE DI NAPOLI - FERDINANDO IV SI PREPARA ALLA GUERRA - TRATTATO DEL RE DI NAPOLI CON L'AUSTRIA - OCCUPAZIONE FRANCESE DI MALTA - IL BONAPARTE IN EGITTO - BATTAGLIA DI ABUKIR - NELSON A NAPOLI - TRATTATI DELLA CORTE DI NAPOLI CON LA RUSSIA, L'' INGHILTERRA E LA TURCHIA - IL GENERALE MACK CAPO DELLE FORZE NAPOLETANE - I NAPOLETANI INVADONO LA REPUBBLICA ROMANA - I FRANCESI LASCIANO ROMA - FERDINANDO IV A ROMA - SCONFITTE DEI NAPOLETANI A TORRE DI PALMA, A CIVITA CASTELLANA, A PAPIGNO E A CALVI - RITIRATA DELL'ESERCITO NAPOLETANO - I NAPOLETANI A LIVORNO - FINE DELLA REPUBBLICA OLIGARCHICA DI LUCCA - SPEDIZIONE FRANCESE NEL REGNO DI NAPOLI - LA GUERRIGLIA IN ABRUZZO - FUGA DI FERDINANDO IV DA NAPOLI - VICENDE DELLA GUERRA NEL REGNO DI NAPOLI - TREGUA DI SPARANISE - TUMULTI DI NAPOLI - LA PLEBE PADRONA DI NAPOLI - I FRANCESI ALLE PORTE DI NAPOLI - IL PAGGIO E "MICHELE IL PAZZO" - L'ANARCHIA A NAPOLI - ASSALTI DEI POPOLANI AL CAMPO FRANCESE - I PATRIOTI S'IMPADRONISCONO DI CASTEL S. ELMO - I FRANCESI ASSALTANO NAPOLI - EROICA RESISTENZA DEL POPOLO NAPOLETANO - PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA NAPOLETANA - IL GENERALE CHAMPIONNET A NAPOLI - IL GOVERNO PROVVISORIO

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RAPPORTI TRA LA FRANCIA E LA CORTE DI NAPOLI - TRATTATI DI FERDINANDO IV CON L'AUSTRIA, LA RUSSIA, L' INGHILTERRA E LA TURCHIA - OCCUPAZIONE FRANCESE DI MALTA - BATTAGLIA DI ABUKIIL - I NAPOLETANI INVADONO LA REPUBBLICA ROMANA - RITIRATA DELL'ESERCITO NAPOLETANO.


Fra gli stati italiani rimasti sotto i vecchi governi quello che prima di ogni altro risentì del mutamento di regime avvenuto a Roma fu il Regno di Napoli. Subito dopo proclamata la repubblica, il generale BERTHIER mandò al re FERDINANDO il generale BALAIT per chiedergli che pagasse alla Repubblica Romana, erede della Santa Sede, il tributo dovutole come riconoscimento dell'alta sovranità, che restituisse i principati di Benevento e Pontecorvo e infine che licenziasse il ministro ACTON, nemico dichiarato della Francia.
La regina CAROLINA, nelle cui mani erano le redini dello Stato, respinse sdegnosamente le richieste del Berthier e tra le due parti si sarebbe venuti ad una guerra se il Direttorio francese, cui non sembrava opportuno creare in quel momento una rottura, non avesse creduto di intraprendere trattative per un accordo.

Questo accordo, fu poco dopo fatto: Ferdinando promise di tenere un contegno amichevole verso la Francia, fece finta, di rimuovere l'Acton sostituendogli il marchese del GALLO e ottenne Benevento e Pontecorvo rinunziando ai beni farnesani di Roma e obbligandosi al pagamento di venti milioni di franchi.

L'accordo concluso non fece però dissipare le reciproche diffidenze e i malumori. Questi, anzi aumentarono quando la regina Carolina vide giungere a Napoli quale rappresentante della Francia quel cittadino GARAT che aveva letto al cognato Luigi XVI la sentenza di morte alla ghigliottina. Inoltre, la flotta francese del BRUYES concentrata a Tolone per l'impresa d'Egitto rappresentava agli occhi dei sovrani napoletani una continua minaccia rivolta alla Sicilia. Temendo perciò che da un momento all'altro, era presumibile un assalto dei Francesi, e non volendo esser colto alla sprovvista, il re di Napoli, da un lato mandò truppe e navi a difesa dell'isola e radunò un esercito di sessantamila uomini negli Abruzzi e nella Terra di Lavoro, dall'altro iniziò con l'Austria trattative per una lega difensiva che ben presto fu ratificato.

Il trattato tra il Regno di Napoli e l'Austria fu firmato a Vienna il 19 maggio del 1798 dal ministro THUGUT e dal duca di CAMPOCHIARO. Con questo patto i due sovrani, in vista di nuovi conflitti in Europa, allo scopo di premunirsi si impegnavano a tener pronti ciascuno un esercito, di cui si fissavano gli effettivi; in tre articoli segreti si stabiliva inoltre che il "causus foederis" si sarebbe considerato avvenuto non appena la Francia avesse assalito l'Austria, la quale però prometteva di correre in aiuto dell'alleato ove questi fosse minacciato dalla Francia o dalle repubbliche satelliti. A FERDINANDO IV non piacquero le condizioni degli articoli segreti, pretendendo che si considerasse come "casus foederis" un'aggressione francese nei suoi stati, e per questo motivo il trattato non ebbe la sua ratifica.

Lo stesso giorno che il re e l'imperatore stipulavano la lega difensiva, il BRUYES partiva da Tolone con tredici vascelli di linea, diciassette fregate e trecento navi onerarie. Aveva con sé diecimila marinai e conduceva trentaseimila soldati comandati dal BONAPARTE. La flotta francese si presentava il 9 giugno dinanzi a Malta e gli intimava la resa.
GOZZO resistette valorosamente, salvando l'onore dell'Ordine Gerosolimitano cui apparteneva quel gruppo di isole, ma il Gran Maestro, barone FERDINANDO HOMPESCH di Brandeburgo, nulla seppe fare per difendere i domini dell'Ordine e lasciò che Malta, con una vergognosa capitolazione, cadesse il 12 giugno nelle mani dei Francesi.

Da Malta poi la flotta fece vela verso l'Egitto. Il 1° luglio il Bonaparte sbarcava con le sue truppe, il 2 s'impadroniva di Alessandria e, dicendo di voler liberare il paese dalla tirannide dei Mamelucchi, li sconfiggeva presso le piramidi di Gizech e il 13 luglio entrava al Cairo. A questi e ad altri rapidi successi dei Francesi doveva però ben presto seguire una grave sconfitta. Il l° agosto l'ammiraglio inglese NELSON attaccò la flotta francese ancorata nella rada di Abukir e, dopo una terribile battaglia, durata trentasei ore circa, nella quale cadde l'ammiraglio Brueys, la distrusse tutta, eccetto due vascelli e due fregate.

Quando arrivò alla corte di Napoli la notizia della sconfitta francese, la gioia fu immensa. La regina Carolina chiamò il Nelson "liberatore" e quando, il 22 settembre, l'ammiraglio vincitore comparve nelle acque napoletane, Ferdinando IV gli andò incontro festante e lo accompagnò fino dentro alla capitale che gli tributò entusiastiche accoglienze.
Questo contegno della corte napoletana, apertamente ostile alla Francia trovava la sua giustificazione in precedenti azioni della repubblica, e specialmente nella presa di Malta, che era una palese violazione dei diritti che su quell'isola vantava il re di Napoli. Non mancò il Direttorio francese, per mezzo del suo rappresentante, di protestare, ma usò un linguaggio molto moderato e, non volendo spingere le cose agli estremi, né fare il gioco dell'Inghilterra che stava abilmente soffiando sul fuoco, decise persino di sostituire il malvisto GARAT con il LACOMBE SAINT-MICHEL e di offrire a Ferdinando IV la cessione di Malta.

A Napoli però la volontà del re non contava niente; chi comandava era la regina e questa si lasciava guidare in politica dal suo odio verso la repubblica francese e dai consigli dell'Acton, del Nelson e di Lady Hamilton. Si aggiunga che il re il 18 luglio aveva stipulato con l'Austria una "convenzione addizionale segreta" in cui si dichiarava compreso nel "casus foederis" un assalto della Francia e delle repubbliche satelliti e che la coalizione europea, che allora si andava stringendo tra la Russia, l'Austria, l'Inghilterra e la Turchia contro la Francia, aveva propositi bellicosi anzichè pacifici. E sotto questa influenza di propositi cadde anche la corte napoletana.
La quale, difatti, il 29 novembre del 1798 a Pietroburgo concludeva, un trattato d'alleanza per otto anni con lo Zar PAOLO I, che s'impegnava a mandare una flotta a protezione delle coste siciliane e nove battaglioni di soldati con duecento cosacchi; il 1° dicembre stipulava un altro trattato d'alleanza con l' Inghilterra e trattava intanto con la Turchia per concludere una lega che doveva essere sottoscritta nel gennaio dell'anno successivo.

Ma già, prima ancora che questi trattati fossero stipulati, la corte di Napoli aveva deciso di muover guerra alla Francia; il numero dei soldati sotto le armi era stato accresciuto di parecchie migliaia; il comando dell'esercito era stato affidato al generale austriaco MACK giunto a Caserta fin dal 9 ottobre, e il 24 novembre era stato pubblicato un manifesto, che equivaleva ad una dichiarazione di guerra, nel quale Ferdinando IV, annunziando che l'occupazione francese di Malta e "le continue minacce di prossima invasione lo avevano determinato a far avanzare il suo esercito nello Stato romano fin dove l'urgenza lo avrebbe richiesto per ristabilirvi la cattolica religione, far cessare l'anarchia e metterlo sotto il regolare governo del suo legittimo sovrano", dichiarava di non voler muover guerra a nessuno ma nello stesso tempo "ammoniva i comandanti di qualunque esercito straniero a ritirare le truppe fuori dal territorio romano".

Il MACK, sicuro di sbaragliare facilmente i quindicimila francesi di cui nella Repubblica Romana disponeva il generale Championnet, mosse da S. Germano il 23 novembre con un esercito di circa quarantamila soldati.
Le forze del nemico, oltre che esigue, si trovavano per necessità politiche divise nelle varie province: tremila uomini, sotto il Duhesme, stavano nella Marca d'Ancona; altrettanti, sotto il Lemoine, presso Terni: il resto con lo Championnet e il Macdonald difendeva Roma e la Campagna romana.
Sarebbe stato quindi agevole al Mack avere ragione degli avversari se avesse portato successivamente tutto il peso del suo esercito contro ciascuno dei vari corpi francesi. Invece il generale austriaco pensò di opporre ad ogni corpo nemico un corpo delle sue truppe: contro il Duhesme mandò lungo l'Adriatico il Micheroux con settemila uomini; contro Terni inviò il colonnello S. Filippo con quattromila soldati; altri ottomila con il generale Damas, fuoruscito francese li mandò lungo la Via Appia; mentre lui e il re con il grosso dell'esercito, per la Via Latina, marciò su Roma.

All'avvicinarsi. dei Napoletani lo CHAMPIONNET mandò a chiedere al MACK ragione dell'avanzata. Il generale austriaco rispose, che il re di Napoli non riconosceva gli stravolgimenti avvenuti dopo la pace di Campoformio nelle province romane usurpate dalla Francia, e che avrebbe sospeso le operazioni di guerra solo se i Francesi si fossero ritirati dallo Stato Pontificio senza invadere alcun altro stato e in modo speciale la Toscana.
Avuta questa risposta, il generale Championnet lasciò al presidio del forte di Castel Sant'Angelo un migliaio dei suoi e, durante la notte del 25, abbandonò Roma incaricando il MACDONALD di comandare la retroguardia e proteggere le strade di accesso, infine ordinò ai consoli di trasferirsi a Perugia. La mattina del 26 un GENNARO VALENTINO assunse il titolo di commissario napoletano e il popolo assalì con furore gli ultimi carri dei francesi che attraversavano le vie della città. Dal forte furono allora sparate alcune cannonate a mitraglia e il Macdonald, rientrato subito a Roma con alcune migliaia dei suoi, vi restò parecchie ore, impegnando qua e là scaramucce con i cittadini.

La sera del 27 entrarono nella metropoli dodicimila napoletani e la mattina del 28 fece il suo ingresso in Roma FERDINANDO IV accolto dalle acclamazioni del popolo, che diede sfogo alla sua ira contro i Francesi abbattendo stemmi, insultando i patrioti e gli ebrei e demolendo il monumento marmoreo che era stato eretto poche settimane prima in memoria del generale Duphot. Ben presto però subentrò la calma per le energiche misure repressive prese dal governo provvisorio composto dal principe ALDOBRANDINI, dal principe GABRIELLI, dal Marchese MASSINI e dal cav. RICCI.

Il giorno stesso che i Napoletani entravano in Roma, il MICHEROUX con i suoi settemila uomini scontratosi in battaglia con i DUEHESNE a Torre di Palma, presso il Porto di Fermo, fu sconfitto da soli tremila Francesi e Cisalpini e costretto a ripassare il Tronto. Era questa la prima disfatta dei Napoletani, i quali, sebbene superiori numericamente al nemico, erano, mal addestrati alle armi oltre che essere comandati da ufficiali inetti e da un generale vanaglorioso quanto inabile a guidare in campagna un esercito.
A questa sconfitta seguì, pochi giorni dopo, quella toccata allo steso generalissimo MACK. Questi, diviso il grosso delle sue truppe in cinque colonne, il 5 dicembre si scagliò contro il Macdonald a Civita Castellana; ma fu sbaragliato e, inseguito a Nepi, a Falleri, a Vignanello e a Rignano, lasciò in mano del nemico duemila prigionieri, ventitré cannoni e quarantacinque carri di munizioni.

Miglior successo non ebbero le altre imprese tentate dai Napoletani: il colonnello S. FILIPPO, che era riuscito ad occupare Rieti e muoveva incontro al Mack, a Papigno fu sconfitto e fatto prigioniero, e il 9 dicembre, a Calvi, il luogotenente METCH, assalito e circondato dal Macdonald, dopo una breve battaglia fu sconfitto e anche lui catturato con tutti i suoi.
Due giorni prima Ferdinando IV si era recato ad Albano. Alle notizie delle ultime disfatte, travestitosi -"secondo quel che narra il Colletta"- partì alla volta di Caserta e intanto il Mack ordinava la ritirata generale. Le ultime truppe napoletane sgombrarono Roma il 12 dicembre e il 14 i Francesi, usciti da Castel Sant'Angelo, rioccuparono la città.

Rimaneva tagliato dal grosso il generale DAMAS, che si era spinto fino a Civita Castellana non avendo ricevuto l'ordine della ritirata. Tornato indietro e trovata Roma in mano del nemico, trattò con il commissario francese WALVILLE, il quale gli promise libero passaggio attraverso la città. Ma più tardi i Francesi, avendo ricevuti rinforzi, mancando alla promessa, gli intimarono di arrendersi. Il Damas rifiutò e retrocedette per la via Cassia, molestato prima dal presidio di Roma, poi dal Kellermann, con il quale il 18 dicembre sostenne un vigoroso combattimento a Montalto. Riuscito ad entrare in Orbetello, pattuì un accordo con il nemico, che gli concesse di imbarcarsi con tutte le truppe dal porto di S. Stefano a condizione che lasciasse nelle mani del Kellermann tutte le artiglierie.

Così terminava l' impresa romana: l'esercito napoletano non aveva avuto che un migliaio di morti ed altrettanti feriti; ma aveva lasciato in mano ai francesi diecimila prigionieri, trenta cannoni e numerosissime salmerie, aveva perso la riputazione di cui fino allora aveva goduto e quel che era peggio si tirava dietro, nella ritirata, le truppe Francesi che, incalzandolo, si preparavano ad invadere il Regno di Napoli e ad abbattervi il regime monarchico.

I NAPOLETANI A LIVORNO
FINE DELLA REPUBBLICA OLIGARCHICA DI LUCCA

Il 22 novembre del 1798, un giorno prima cioè della partenza del generale MACK per l' impresa contro Roma, l'ammiraglio NELSON faceva vela per Livorno. Conduceva con sé una parte della flotta inglese e della portoghese, settemila soldati napoletani e una squadra navale di Ferdinando comandata dal generale NASELLI. Il 28 novembre la flotta giunse davanti a Livorno e il generale LA VILLETTE, governatore a interim, fu costretto quello stesso giorno a firmare una capitolazione e a consegnare la fortezza e la città al Naselli, il quale, ripartito il Nelson, vi rimase con le truppe del suo sovrano.

L'arrivo dei Napoletani a Livorno non poteva certamente recar piacere al Granduca di Toscana, che si stava dando da fare per salvare la sua corona con la più stretta neutralità e non voleva a nessun costo danneggiare le relazioni con i Francesi. Egli fece di tutto per allontanare la tempesta dal suo capo: comunicò ai ministri esteri residenti a Firenze una nota in cui, fra l'altro, manifestava la speranza che l'occupazione sarebbe stata di breve durata; scrisse al Re di Sicilia, che era suo suocero, proponendogli di ritirare nei suoi Presidi (neutrali) i napoletani sbarcati a Livorno; si consigliò con il residente francese REINHARD sul partito da prendere; sollecitò l' ANGIOLINI, residente toscano a Parigi, affinché assicurasse il Direttorio a Parigi della condotta leale del governo granducale e infine, quando seppe che il generale VICTOR, luogotenente del JOUBERT, marciava minaccioso verso la Toscana, a quel punto ingiunse al NASELLI di sgomberare Livorno.

Il 31 dicembre il generale napoletano ebbe con il granduca un colloquio a Pisa e, poiché aveva saputo delle prime sconfitte toccate dal suo re e non sperava di ricevere aiuti contro un prossimo attacco francese, promise di uscire dalla città con i suoi soldati a patto però che gli si mandasse un'intimazione scritta e che vi acconsentissero il De SANGRO e il WINDHAM, ministri l'uno di Napoli, l'altro d'Inghilterra. L'intimazione fu consegnata quello stesso giorno e il 1° gennaio il Naselli annunciò la propria partenza da Livorno.
Il granduca di Toscana riuscì così per allora salvare la sua corona; ma una vittima dell'impresa di Livorno ci doveva essere e questa fu la vecchia repubblica oligarchica di Lucca. La quale, fin dal primo apparire in Italia degli eserciti repubblicani di Francia, era vissuta in continuo pericolo e negli ultimi due anni aveva dovuto lottare non solo contro i novatori e le minacce dei Liguri e dei Cisalpini, ma anche contro l'avidità dei generali BERTHIER e BRUNE che a più riprese le avevano estorto più di un milione e mezzo di lire tornesi, promettendo il reciproco quieto vivere.

Ma il 2 gennaio del 1799 il generale francese SERRURIER entrò a Lucca con quattrocento cavalli, cui nei giorni seguenti si aggiunsero seimila fanti, e subito si fece dare cinquemila zecchini, pose sulla nobiltà una taglia di due milioni di franchi e sequestrò tutto il denaro che si trovava nelle casse pubbliche e in quelle del Monte.
Il Senato, sperando di salvare l'antica repubblica con quel sacrificio pecuniario e con qualche riforma, nell'adunanza del 15 gennaio abolì i privilegi della nobiltà e le leggi del 1556 e del 1628, dichiarando di volere restituire allo stato l'antica forma democratica, e nominò una commissione di dodici membri cui diede l'incarico di studiare una riforma popolare. Non essendo riuscita la commissione a mettersi d'accordo, il Senato invitò la nazione ad eleggere quarantaquattro deputati per la città e cinquanta per il contado, i quali, insieme con sei ex-nobili dovevano costituire gli ordini nuovi. Le assemblee elettorali ebbero luogo il 2 febbraio e le elezioni si svolsero senza incidenti, ma i patrioti forti della presenza dei "liberatori", e non soddisfatti dell'esito, accusarono i nobili di avere influito sulla votazione e stimolarono il SERRURIER affinchè scegliesse egli stesso gli uomini da mettere al governo.

Il generale francese non solo scelse lui le persone più gradite ma stabilì anche la forma di governo: due assemblee legislative, di ventiquattro seniori l'una e di quarantotto juniori l'altra, e un direttorio esecutivo di cinque membri. Il 3 febbraio riunì in una sala il vecchio Senato e in un'altra i nuovi uomini del governo. A questi egli rivolse una breve arringa, invitandoli a bene operare e consegnando loro le redini dello stato; quindi si recò dai Senatori, lodò la saggezza e la temperanza dell'antico governo e "li invitò a cedere il potere ai nuovi governanti e a seguire i loro consigli". Appena il Serrurier finì di parlare si alzò il gonfaloniere NICOLAO MONTECATINI e con dignitoso silenzio abbandonò la sala, seguito dagli altri senatori indignati.

La repubblica oligarchica lucchese era finita. Il 15 febbraio, nella piazza di S,;Michele, venne piantato l'albero della libertà, che venne inaugurato con un discorso del cittadino abate FERLONI; seguirono i soliti balli popolari e alla sera luminarie e processioni in cui si portarono in trionfo i busti del Voltaire e del Rousseau.

SPEDIZIONE FRANCESE NEL REGNO DI NAPOLI - FUGA DI FERDINANDO IV
TREGUA DI SPARANISE - LA PLEBE PADRONA DI NAPOLI
I PATRIOTTI A CASTEL S. ELMO
EROICA RESISTENZA DEL POPOLO NAPOLETANO CONTRO I FRANCESI
PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA NAPOLETANA
IL GOVERNO PROVVISORIO

Il 19 dicembre lo Championnet, dopo avere imposto alla città una taglia di centomila scudi, lasciava Roma e iniziava la marcia verso il Regno di Napoli. L'esercito francese, forte di circa trentamila uomini, fu diviso in cinque colonne: tre, quelle comandate dallo Championnet, dal Macdonald e dal Mathieu, per vie diverse puntarono su S. Germano, dove si congiunsero il 30 dicembre per proseguire alla volta della capitale; le altre due invasero l'Abruzzo. Di esse, una,capitanata dal Lemoine, occupava, dopo una lunga lotta Aquila e Popoli, l'altra, agli ordini del Duhesme, s'impadroniva di Civitella, del Tronto, di Pescara e Chieti.

Negli Abruzzi i Francesi non incontrarono che scarsissima resistenza da parte delle milizie regolari napoletane, ma trovarono un forte ostacolo nelle popolazioni, le quali, rispondendo all'appello lanciato dal sovrano, spinte dal desiderio di vendicare le violenze commesse dal nemico nei primi giorni dell'invasione, stimolate da sentimento religioso e nazionale ed eccitate da preti e frati, si levarono in armi e iniziarono una spietata guerriglia contro i Francesi, causando a questi gravi perdite e spronando con l'esempio le regioni vicine alla resistenza o alla rivolta.

Ma la guerriglia degli Abruzzesi, per quanto fosse condotta con valore, non poteva arrestare la marcia delle truppe repubblicane. Ben lo sapeva il generale Mack, che, il 18 dicembre, scriveva dal suo quartier generale al re di porsi in salvo non essendovi più speranza di fermare il nemico.
La lettera del generalissimo mise in subbuglio la popolazione della capitale. Per tre giorni consecutivi la plebe si mise a rumoreggiare e, accalcatasi intorno al palazzo reale, supplicava il sovrano affinché non abbandonasse la città, dicendosi pronta a difenderlo. Il parossismo del popolo giunse a tal grado che un corriere di gabinetto, certo ANTONIO FERRERI, scambiato per una spia francese, fu catturato, linciato, trucidato e trascinato sotto le finestre della Reggia dalla plebe furente che si calmò solo quando Ferdinando e Maria Carolina promisero di rimanere in mezzo ai loro fedeli sudditi.

Ma i sovrani non avevano proprio nessuna intenzione di restare a Napoli. Infatti, nel frattempo, avevano posto in salvo su alcune navi le opere più pregevoli delle gallerie e dei musei, i gioielli della corona e il denaro dei banchi per un valore di oltre settantadue milioni. Nella notte dal 21 al 22 dicembre, passando per un sotterraneo, s'imbarcarono sulla "Vanguardia", la nave ammiraglia del Nelson.
La mattina seguente, sparsasi la notizia dell'imbarco dei Sovrani, tutti i corpi civici mandarono sulla nave deputati a pregare il re che ritornasse in città; ma Ferdinando non si piegò e, affidata l'autorità di vicario generale al principe FRANCESCO PIGNATELLI di Strongoli e impartiti gli ultimi ordini per la difesa al Mack chiamato apposta dal quartier generale, il giorno 23, accompagnato dagli ambasciatori austriaco e inglese e da un largo seguito, fece vela per Palermo, nel cui porto giunse la sera del 25 dicembre dopo una traversata faticosa, durante la quale perdette l'infante Don Alberto, suo terzogenito.

I Siciliani non erano ben disposti verso il loro sovrano, che proprio nel corso dell'anno aveva tentato di violare l'antica costituzione dell' isola imponendo un donativo straordinario di duecentocinquantamila lire al mese per tutta la durata della guerra; tuttavia, quando videro sbarcare il loro re, affranto dal dolore, e udirono la regina che con voce di pianto diceva: "Ci volete fra voi, figli miei?" dimenticarono i torti ricevuti e offrirono il loro sangue e le loro sostanze per difendere il trono.

Mentre Ferdinando riceveva generose accoglienze in Sicilia, il Principe Pignatelli si preparava a costituire una milizia urbana e prendeva quei provvedimenti che gli sembravano utili a mantener l'ordine in una città minacciata dal nemico, abbandonata dal sovrano e agitata da contrarie passioni; ma fin dai primi giorni fu costretto a lottare contro gli "Eletti", rappresentanti della nobiltà e del popolo, che, invitati a collaborare con lui, volevano prima unirsi nel governo ma poi finirono con lo schierarsi contro, appoggiando (opportunisticamente) chi stava per vincere! (come avevano fatto a Venezia, nominati subito dal popolino "calabrache" e il banchiere Ippomanno precisò "essendo noi una nullità lo dobbiamo fare per poter tenere tutto quello che abbiamo")

Continuavano intanto le operazioni di guerra. Il 3 gennaio il Macdonald si spinse con una brigata fin sotto Capua e diede l'assalto ad un campo trincerato difeso da seimila uomini sulla destra del Volturno, ma fu respinto dai tiri ben diretti delle artiglierie dei bastioni; tentò allora di passare il fiume a Cajazzo, ma, fu ricacciato da un reggimento di cavalleria comandato dal colonnello LUCIO CARACCIOLO, lasciando sul campo quattrocento tra morti e feriti e un centinaio di prigionieri.
Questi successi dei Napoletani furono però annullati dalla perdita di Gaeta, che con il suo presidio di quattromila soldati, con i suoi settanta cannoni di bronzo e dodici mortai e le provviste per un anno, avrebbe potuto sostenere un lungo assedio e invece si arrese a discrezione alle prime cannonate per la viltà del senile maresciallo svizzero TSCHUDI che ne aveva il comando.

Intanto in mezzo a gravi difficoltà procedevano le operazioni negli Abruzzi. La rivolta si era propagata nella Terra di Lavoro e nel Molise; le bande crescevano di numero e in audacia: avevano preso Teramo, sconfitto un reggimento francese sul Tronto, catturato alcuni cannoni, distrutto un ponte sul Garigliano, portato via un parco di riserva al nemico, occupato Sessa, Teano, Itri, Castelforte, Aquila, Fondi, S. Germano.
Se il generale Mack avesse messo in campo tutte le sue forze, senza dubbio i Francesi sarebbero stati ridotti a mal partito; invece non seppe trarre profitto dalla rivolta e mostrò la propria inettitudine chiedendo a più riprese la tregua e non mantenendo i dovuti contatti con il principe Pignatelli. Il quale, continuamente osteggiato dagli Eletti e privo del favore popolare, pur di uscire dalla difficile situazione in cui si trovava, era disposto a venire a patti con il nemico.

Lo Championnet era a Venafro quando si presentarono a lui, inviati dal Vicario generale, il principe di Migliano e il duca di Gesso. Iniziate subito le trattative, queste condussero alla TREGUA di SPARANISE, firmata il 12 gennaio del 1799, con la quale la guerra fu sospesa per due mesi, Capua, Acerra e Benevento furono cedute ai Francesi con il territorio che andava fino ad una linea le cui estremità erano segnate dalla foce dei Regi Lagni e quella dell'Ofanto e del Lombardo, si dichiaravano neutrali i porti del Regno e il governo regio, ci s'impegnava di pagare alla Francia dieci milioni di lire tornesi, metà al 15 e metà al 25 gennaio. La notizia dell'ignominiosa tregua appena si sparse a Napoli mise in fermento la plebe, che accusava il vicario di tradimento.

Il fermento diventò tumulto quando la sera del 14 gennaio, giunse il commissario francese ARCAMBAL incaricato di riscuotere il giorno dopo i primi cinque milioni. La plebe, credendo che fosse venuto a prendere possesso della città, circondò minacciosa l'albergo in cui aveva preso alloggio, ma non avendolo potuto avere tra le mani perchè il Pignatelli lo aveva fatto partire di nascosto, assalì le case del principe di Migliano e del duca di Gesso e disarmò la milizia urbana.
Il giorno dopo il tumulto aumentò di intensità: la plebe, sorda alle ammonizioni del Cardinale arcivescovo CAPECE (che da un lato si faceva vedere pacificatore, dall'altro incitava alla rivolta), percorse le vie al grido di "Viva la Santa Fede ! Viva S. Gennaro ! Morte ai Giacobini !" quindi andò al porto a saccheggiare le navi giunte proprio in quel momento da Livorno con parte delle truppe del Naselli, aprì le carceri da cui uscirono seimila malfattori che, mischiatisi alla folla, si diedero ad ogni sorta di violenze e a far rapine nelle case, infine occupò gli arsenali e i castelli facendosi consegnare le armi dai presidi.

Padroni della capitale, i Lazzaroni mossero verso Casoria per togliere il comando al generale Mack. Questi si era avvicinato alla città per esortare i ribelli alla calma ma, quando vide che -ormai senza freno- anche contro di lui era rivolta l'ira irrazionale popolare, rifugiatosi in una casa. indossò la divisa austriaca e il 16 gennaio si recò dallo Championnet, dal quale ricevette un passaporto; sperava di raggiungere il territorio austriaco; invece a Bologna venne arrestato e quindi mandato a Digione come prigioniero di guerra.
II generale Salandra, a cui il Mack aveva lasciato il comando, cercò di riordinare l'esercito, ma non vi riuscì; molti soldati si sbandarono, molti altri fecero causa comune con i popolani, e il generale stesso, assalito con parecchi ufficiali da una banda di Lazzaroni tra Caivano e Casoria, fu ferito gravemente.

Il 16 gennaio la plebe acclamò generale del popolo il colonnello GIROLAMO PIGNATEA di Moliterno, che si era distinto combattendo a capo della cavalleria napoletana, nel 1794, contro i Francesi in Lombardia. Gli "Eletti", riuniti a S. Lorenzo Maggiore, gli confermarono la nomina ed elessero a loro volta, come generale in sott'ordine, un altro prode, il colonnello LUCIO CARACCIOLO che aveva sconfitto il Macdonald a Cajazzo; quindi inviarono una deputazione al vicario generale ingiungendogli di rassegnare il potere se non voleva che glielo strappassero con la forza.
Il vicario, che ormai aveva perso ogni autorità, mise in salvo sopra una fregata, tutto il denaro che aveva in custodia e la notte del 16, si imbarcò segretamente e fece vela per Palermo, ma dove, appena giunto, fu incarcerato per ordine di Ferdinando IV.
Fuggito il vicario, il Moliterno si adoperò a fare tornare la calma nella città; fece sì che la custodia dei quattro principali castelli fosse affidata a patrizi (il Castel Nuovo a D. Giambattista Caracciolo di Vietri, quello di S. Elmo a D. Nicola Caracciolo di Roccaromana, quello del Carmine a D. Fabio Caracciolo dei principi di Forino e quello dell' Uovo a D. Luigi Muscettola dei principi di Luperano), ordinò alla plebe la restituzione delle armi, minacciò i facinorosi di severissime punizioni; e perché si costatasse che faceva sul serio e che le sue non erano vane minacce fece rizzare in anticipo le forche.

Nel frattempo il governo prendeva vari provvedimenti per l'annona, per la zecca, per il tesoro e per il porto e cercava di indurre i Francesi a concludere una pace onorevole. A tale scopo il 18 gennaio mandava allo Championnet una deputazione per farlo desistere dal proposito di entrare a Napoli e confermare i patti della tregua; ma il generale francese che, considerando rotto l'armistizio, era avanzato fino ai sobborghi della capitale, rispose - "È forse vincitore il popolo napoletano e vinto l'esercito francese? ". L'infelice esito di questa missione esasperò la plebe. Non curandosi degli ordini e delle raccomandazioni di Girolamo Pignatelli e di Lucio Caracciolo, che già cominciavano ad accusare di tradimento, i Lazzaroni ricominciarono a tumultuare, abbatterono le forche e la sera dello stesso giorno 18 s'impadronirono nuovamente delle armi che avevano poco prima restituite.

Il giorno 19 acclamarono loro capi due popolani, un PAGGIO mercante di farine un certo MICHELE il PAZZO, servo di un vinaio; quindi uscirono confusamente dalla città con il proposito di dare battaglia ai Francesi. Un piccolo presidio nemico, che guardava il Ponte Rotto, fu sbaragliato, ma oltre il fiume Lagni i Francesi affrontarono i Lazzaroni e li costrinsero a tornare in disordine nella città, dove la plebe si diede a febbrili preparativi e a fare barricate per sbarrare la via al nemico.
Ma non tutti erano animati da sentimenti patriottici; molti desideravano pescare nel torbido, altri bramavano estinguere la loro sete di sangue. Corse voce che il Duca della Torre fosse in segreto rapporto epistolare con lo Championnet, e bastò quella voce e subito una turba inferocita corse al suo palazzo incendiandolo. Il duca della Torre e il fratello Clemente Filomarino furono catturati, condotti alla Marina della Strada Nuova legati a un palo e bruciati vivi.
Dopo questo fatto la plebe corse alla casa di NICOLA FASULO, dove di solito si adunava il Comitato Centrale dei Patrioti, ma vi giunse quando Nicola e il fratello erano fuggiti. Cercarono l'elenco dei Patrioti, ma la sorella dei Fasulo l'aveva dato già alle fiamme; trovarono invece una cassa piena di coccarde francesi e questo bastò perché la casa venisse saccheggiata e poi incendiata.

Per salvare Napoli dall'anarchia in cui era caduta, la sera del 19 il Cardinale arcivescovo fece esporre in Duomo la testa e il sangue di S. Gennaro poi uscì in processione per le vie, seguito da un numeroso codazzo di fedeli tra cui si notava GIROLAMO PIGNATELLI di Moliterno in veste da penitente. La vista del "capitano del popolo", scalzo, con i capelli disciolti e in atteggiamento di umiltà, commosse i ribelli. Quando, verso la mezzanotte, la processione ritornò in chiesa, il Pignatelli rivolse al popolo accorate parole di fede, interrotte spesso da singhiozzi, e disse di sperare nella protezione del Santo Patrono, esortò tutti a tornare nelle proprie case e a trovarsi la mattina seguente nella piazza di S. Lorenzo da dove si sarebbero poi mossi per andare ad affrontare l'esercito francese.

Il giorno dopo i Lazzaroni si trovarono nel luogo stabilito e, presi dai castelli alcuni cannoni, uscirono dalla città in disordine ma pieni di esaltazione pronti a dare battaglia al nemico. Nell'irruenza travolsero al primo assalto le grandi guardie prese alla sprovvista, poi assalirono furiosamente il campo francese posto tra Averla e Capua; ma il loro caotico entusiasmo si spezzò di fronte alla disciplina del nemico, che dopo un ricompattamento e una breve mischia li costrinsero a ritornare precipitosamente a Napoli.
Mentre i Lazzaroni si trovavano fuori della città per assalire i Francesi, i patrioti napoletani, segretamente favoriti da Girolamo Pignatelli e da Lucio Caracciolo, portavano a termine un'audace impresa. Trentuno di loro, tra cui notiamo Vincenzo Pignatelli di Strongoli, Vincenzo Pignatelli dei principi di Marsico, Vincenzo e Giuseppe Viario dei duchi di Corleto, Leopoldo Poerio, Gaetano Simone, Antonio Napoletano, Giuseppe Laghezza, Francesco Grimaldi, Raffaele Fargo, Antonio Sicardi, Alfonso Prato e Nicola Verdinois, travestiti ed inermi, sotto pretesto di rafforzar la guarnigione durante la sortita del popolo, s'introdussero a Castel Sant' Elmo, presidiato da centocinquantotto tra soldati e Lazzaroni capitanati da un certo Luigi Brandi.
Il comandante del forte, D. Nicola Caracciolo, che era d'accordo con i patrioti, mandò fuori la maggior parte della guarnigione, formando due ronde di vigilanza, quindi disarmò con uno stratagenmma gli altri, fece legare e chiudere in una prigione il Brandi e ordinò che fossero chiuse le porte affinché gli usciti non potessero più rientrare.
Impadronitisi, senza spargimento di sangue, dell'importantissimo castello, i patrioti issarono una bandiera tricolore, che doveva annunciare, secondo il convenuto, allo Championnet la presa del forte, e diedero ospitalità a molti altri novatori, tra cui si ricordata l' insigne poetessa ELEONORA FONSECA-PIMENTEL.

Il 21gennao il generale Championnet si preparò ad assalire Napoli e, levato il campo, divise il suo esercito in due colonne: una, sotto il comando del Duhesme, per la via di Acerra doveva puntare su Porta Capuana, l'altra, sotto il Dufresse, per Avera Melito doveva giungere a Castel Sant' Elmo.
Il generale francese era convinto di potersi impadronirsi di Napoli con poca difficoltà, essendo la città priva di bastioni ed uno dei principali forti in mano dei patrioti. Invece incontrò una resistenza accanita da parte dei Lazzaroni, i quali si batterono per tre giorni fino allo spasimo. La colonna del Dufresse, avanzandosi lentamente riuscì la sera del 21 a stabilirsi a Capodimonte. Più difficile fu il compito del Duhesme, che marciava fiancheggiatato alla destra dal Rusca e alla sinistra dal MEUNIER. Questi, giunto a un ponticello presso Porta Capuana, accolto dal fuoco dei popolani, fu costretto a indietreggiare soccorso dal Duhesme con il grosso della colonna, cercò di forzare la difesa e si spinse fino a piazza Capuana; ma qui, investito da raffiche furiose di moschetteria che partivano dalle case circostanti, non riuscì a resistere e fu costretto a ritirarsi con gravi perdite incalzato dai Lazzaroni.

Ritornato all'assalto, il Meunier riuscì poi a riconquistare la piazza e per restarci appiccò il fuoco alle case circostanti per eliminare i cecchini. Mentre la colonna s'accaniva dalla parte di Porta Capuana, una moltitudine di Lazzaroni e di contadini assalì alle spalle il campo del Duhesme e avrebbe messo a mal partito il nemico se a soccorrerlo non fosse giunto in tempo da Benevento il capobrigata Broussier, che mise in fuga i Napoletani verso il Ponte della Maddalena.

La battaglia fu interrotta dalla notte, ma ricominciò ancora più furiosa il mattino del 22. Il ponte della Maddalena, difeso da un battaglione albanese e da una banda di Lazzaroni, fu espugnato dalla brigata del Broussier. Nello stesso tempo il Kellermann, guidato dal principe Francesco Pignatelli di Strongoli, entrava nel castello di Sant' Elmo. Subito i patrioti, ai quali si erano uniti GIROLAMO PIGNATELLI e LUCIO CARACCIOLO, piantarono nella piazza del castello l'albero della libertà e proclamarono la repubblica; l'avv. GIUSEPPE LOGOTETA preparò un progetto in undici articoli per dichiarar vacante il trono e stabilire gli ordinamenti del nuovo governo, poi scrisse agli Eletti di adoperarsi per far deporre le armi alla plebe. Questa però più che mai, con le armi in mano, era decisa ad impedire al nemico di far progressi nella città; a quel punto Francesi e patrioti dovettero pensarci loro a organizzare la caccia nei quartieri in cui si erano asserragliati i ribelli. La battaglia, ricominciata, si frazionò poi in tante piccole azioni nei vari rioni, ma senza alcun risultato né da una parte né dall'altra. Doveva invece decidersi il giorno seguente.

Il 23 il generale Championnet diede l'ordine dell'assalto generale. Una banda di patrioti, uscita dal forte S. Elmo, occupò l'Ospedale degli Incurabili ed altre località; il Broussier dal Ponte della Maddalena, il Duhesme e il Rusca da Porta Nolana puntarono contro il forte del Carmine e dopo un vivace combattimento lo espugnarono; il Kellermann, spalleggiato da numerosi patrioti, scese dall'altura di S. Lucia de' Monti occupata il giorno prima e, investito Castel Nuovo, se ne impadronì, mentre il Dufresse, calato da Capodimonte, penetrava nella via di Toledo e lo Championnet dal largo delle Pigne dirigeva come meglio poteva le operazioni di assalto. La battaglia fu terribile e i Francesi furono costretti a conquistare a palmo a palmo il terreno, conteso dai Lazzaroni con valore straordinario. Dalle case e dietro le barricate, con sprezzo della vita, bersagliavano incessantemente il nemico, poi in certe azioni scacciati dalle loro postazioni, tornavano furiosamente all'assalto; sebbene spossati da circa tre giorni di accanito combattimento e fulminati dalle artiglierie e minacciati dagli incendi provocati dalle torce incendiarie dei Francesi, si ostinavano a resistere e mostravano un'audacia e un tale eroismo da meravigliare lo steso Championnet, il quale, nella sua relazione, da leale soldato, non mancò di riconoscere e lodare il valore dei suoi avversari: " I Lazzaroni - egli infatti, scrisse - questi uomini meravigliosi (etonnants), i reggimenti stranieri e napoletani, rimasugli dell'esercito fuggito dinnanzi noi, sono degli eroi chiusi dentro Napoli. Si battono in tutte le vie, il terreno viene disputato a palmo a palmo; i Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il forte S. Elmo li fulmina; la terribile baionetta li squarcia; essi ripiegano in ordine, poi ritornano alla carica, avanzano con audacia e spesso guadagnano terreno".

La resistenza dei Lazzaroni sarebbe stata più lunga se MICHELE il PAZZO, che si batteva come un leone a Porta Susciella, non fosse stato fatto prigioniero. Condotto davanti allo Championnet fu da questo lodato per il suo valore e colmato di promesse. Sapendolo capopopolo, il generale cercò di ingraziarselo, gli disse che i Francesi rispettavano la religione ed avevano in gran venerazione S. Gennaro, e seppe così bene convincerlo delle buone intenzioni dell'esercito repubblicano che il popolano, convinto o plagiato, gridò "Viva la Repubblica!" e si offrì di pacificare i ribelli della sua città.

Il suo consiglio di mandare una guardia d'onore alle reliquie del Santo Patrono fu subito accettato, ed egli stesso la accompagnò scortato da una squadra di granatieri; quindi si mise a percorrere le vie della città gridando "Viva i Francesi ! Rispetto a S. Gennaro !" ed esortando i Lazzaroni a deporre le armi.
Questi, stanchi dalla lotta, abbandonati dagli elementi peggiori della plebe che non trovò di meglio che darsi al saccheggio del Palazzo Reale e di altri edifici, viste le bandiere francesi sulle fortezze ed esortati dalle parole del loro capo, misero fine alla resistenza e così i Francesi furono i padroni di Napoli.
Lo Championnet era un prode soldato, ma era anche dotato di un fine intuito e furbizia politica: sapendo quanto il popolo napoletano fosse religioso, scrisse al Cardinale arcivescovo di fare aprire tutte le chiese, di fare esporre il Santissimo e di far predicare la pace, la tranquillità e il buon ordine; poi al popolo indirizzò un manifesto in cui fra l'altro era detto: " .. Cittadini, .... rientrate nell'ordine, deponete le armi nel Castel Nuovo, e la religione, le proprietà, le persone saranno conservate. Da quella casa da dove partirà un solo colpo di fucile sarà bruciata e gli abitanti fucilati. Ma se la calma sarà ristabilita, io dimenticherò il passato e la felicità ritornerà su queste ridenti contrade".

Il giorno stesso della presa di Napoli i patrioti presentarono allo Championnet - un promemoria in cui, rievocata l'opera nefanda del passato governo e ricordato quanto essi avevano fatto per acquistare la libertà, rinnovavano il giuramento, fatto in San l' Elmo "…odio eterno ed implacabile al regio potere ed a qualunque arbitraria autorità..".

Lo Championnet rispose con un bando (23 gennaio), in cui, dopo di avere assicurato il rispetto del culto e dei beni, lodata la costanza dei patrioti, stigmatizzata l'aggressione del Re e poi promesso alla libertà napoletana l'aiuto dell' "Esercito Francese", che da quel giorno assumeva il nome significativo di "Armata di Napoli", ammoniva: "Le autorità repubblicane che saranno create, ristabiliscano l'ordine e la tranquillità sulle basi di un'amministrazione paterna, dissipino gli spaventi dell'ignoranza e colmino il furore del fanatismo con uno zelo uguale a quello che è stato impiegato dalla perfidia per inasprirli ed irritarli, e la disciplina che si ristabilisce con tanta facilità nelle truppe di un popolo libero, non tarderà di mettere un termine ai disordini provocati dall'odio, e che il diritto di rappresaglia ha appena permesso di reprimere".

Il 24 gennaio il generale promulgava, in nome della Francia, una legge con la quale, in attesa che venisse organizzato un governo costituzionale completo, veniva creato un governo provvisorio di venticinque cittadini, i quali, riuniti insieme costituivano l'assemblea legislativa, divisi in sei comitati (centrale, dell'interno, militare, di finanza, di polizia e giustizia, di legislazione) esercitavano il potere esecutivo. La presidenza del governo fu affidata all'ex-SCOLOPIO CARLO LAUBERT, matematico e filosofo, cui fu dato per segretario il francese IULLIEN; gli altri ventiquattro cittadini della rappresentanza nazionale furono l'Abamonti, d'Albanese, il Baffi, il Bassal, il Bisceglie, il Bruno, il . Cestari, il Ciaja, il De Gennaro, il De Filippis, il De Rensis, il Doria, il Falcigui, il Fasulo, il Forges, il Logoteta, il Manthoné, Mario Pagano, il Paribelli, il principe di Moliterno, il Vaglio, il Riari e il Rotondo. L'illustre medico e patriota DOMENICO CIRILLO, nominato, Non volle accettare l'ufficio.

Il giorno 25 gennaio fu istituita la municipalità della quale lo Championnet chiamò a far parte venti dei più ardenti repubblicani, a cui per acquistarsi il favore della plebe aggiunse un popolano analfabeta, certo ANTONIO AJELLO detto PAGLIUCHELLA. Per lo stesso motivo nominò suo segretario MICHELE il PAZZO sebbene questi non sapesse né leggere né scrivere.
Nello stesso giorno 25, il generale francese, nella Casa del Comune, consegnò le redini del governo ai rappresentanti nazionali e ai membri della municipalità radunati e per l'occasione pronunciò un discorso.
Gli risposero, a nome del governo provvisorio, il presidente LAUBERT e MARIO PAGANO e, finita la cerimonia dell'insediamento, lo Championnet invitò al Palazzo Reale i principali ufficiali e magistrati per un grande pranzo conviviale.
Mentre fuori il popolo, cambiato d'umore, si dava alla pazza gioia, piantava gli alberi della libertà e intrecciava danze fra applausi e canti.

Quel giorno, "quarto delle repubblica napoletana", si chiuse con una cerimonia, religiosa svoltasi in Duomo. Qui -con il solito opportunismo- si recò lo Championnet per venerare le reliquie ed invocare il favore di S. Gennaro, al quale offrì una mitria d'oro tempestata di gemme. Il Cardinale arcivescovo lo ricevette con onori reali e cantò il Te Deum, quindi ebbe luogo il miracolo del Santo Patrono - la liquefazione del sangue di San Gennaro- che, compiutosi in breve tempo, parve ai fedeli un segno tangibile della volontà del Santo e di Dio.

Lo stesso Dio e lo stesso Santo infondeva la volontà in quello stesso giorno a FERDINANDO IV che firmava il decreto con il quale dava l'ordine al Cardinale FABRIZIO RUFFO di armarsi (con le "armate della fede", i cosiddetti "Sanfedisti" al grido di "Viva Maria") e di andare a difendere le province del regno non ancora invase dai Francesi e di liberare dall'anarchia e restituire alla legittima corona le altre dov'era stato istituito il regime repubblicano.


Qui facciamo una pausa e andiamo a scoprire chi erano i LAZZARI, che più che difensori dei monarchi erano i difensori della "Napoletaneità".


1798- 1799 - CHI ERANO I LAZZARI > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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