ANNO 1806 - 1809

INSURREZIONE CALABRESE - RITORNA FRA' DIAVOLO
LA FINE DELL'ETRURIA


GIUSEPPE BONAPARTE NEL REGNO DI NAPOLI - GLI ANGLO-SICILIANI A CAPRI E PONZA - CADUTA DI CIVITELLA DEL TRONTO - FRA DIAVOLO AD AMANTEA - BATTAGLIA DI MAIDA - RESA DI REGGIO E SCILLA - IL GENERALE REYNIER A CATANZARO - DISASTROSA RITIRATA FRANCESE A CASSANO - ASSEDIO E CAPITOLAZIONE DI GAETA - L'INSURREZIONE CALABRESE - I FRANCESI INCENDIANO LAURINO, ROCCA GLORIOSA E TORRACA - SACCHEGGIO DI LAURIA - IL MASSENA A COSENZA - PRESA DI CAMEROTTA E SORA - ACRI E IL CAPOBANDA SANTORO - ASSEDIO DI AMANTEA, MARATEA E COTRONE - BATTAGLIA DI MILETO - I FRANCESI OCCUPANO REGGIO E SCILLA - PROCESSO E MORTE DEL MARCHESE RODIO - FINE DI FRA DIAVOLO - LA GUERRA DELLA QUARTA COALIZIONE - PACE DI TILSIT - IL BLOCCO CONTINENTALE - I FRANCESI IN PORTOGALLO - TRATTATO DI FONTAINEBLEAU - FINE DEL REGNO D' ETRURIA - I FRANCESI A CATTARO E A CORFÙ

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VISITA DEL RE GIUSEPPE ALLE CITTA DEL SUO REGNO
GLI ANGLO-SICILIANI A CAPRI E A PONZA
CADUTA DI CIVITELLA DEL TRONTO
BATTAGLIA DI MAIDA RITIRATA DEI FRANCESI


I resti dell'esercito borbonico del Damas avevano - come abbiamo letto nel precedente riassunto - sgombrata la Calabria riparando in Sicilia. Ma i Francesi che li avevano cacciati non è che potevano dirsi completamente padroni del Regno di Napoli, perché Civitella del Tronto e Gaeta resistevano ancora, inoltre nelle Calabria e nelle Puglie, incitate dalle bande borboniche o dall'odio non recente verso il nome francese, le popolazioni insorgevano contro gli invasori, tendevano loro agguati, assalivano i convogli, i presidi, provocando così altre reazioni e dure rappresaglie.
Esortato dall'Imperatore a muovere sulla Sicilia, GIUSEPPE BONAPARTE stabilì prima di fare un viaggio in Calabria sia per vedere a che punto erano i preparativi per la spedizione sull'isola, sia per calmare con la sua presenza gli eccitati animi dei Calabresi.

Data l'agitazione che regnava nel paese, un viaggio in questa regione non era certo privo di pericoli; ma Giuseppe nonostante i consigli contrari del generale REYNIER e del colonnello LEBRUN volle ugualmente intraprenderlo e, accompagnato dal colonnello CLARY, suo nipote, dal segretario particolare FERRI-PISANI, dal Ministro dell'Interno MIOT de MELITO e dal ministro della Guerra MATHIEU DUMAS e scortato da mille soldati al comando del generale Saligny, si mise in viaggio il 3 aprile.
Giuseppe Bonaparte non ebbe a lamentare nessun atto ostile degli abitanti, tuttavia costatò la grande miseria delle popolazioni in mezzo cui passava, le quali, rassicurate dall'avvenenza e dall'affabilità del principe, si mostravano a lui laceri ed umili, piangendo ed esternando il vivo desiderio di una pace.

Il giorno 11 partiva da Cosenza. In questa seconda parte del viaggio Giuseppe fu perfino fatto segno di manifestazioni di gioia da parte degli abitanti sebbene attraversasse paesi che per le recentissime insurrezioni erano stati messi a ferro e a fuoco dai Francesi. Per Stigliano, Nicastro e Palmi, giunse il 17 a Reggio e qui ricevette il decreto che lo nominava re delle Due Sicilie.
Ripartito tre giorni dopo, il sovrano visitò Squillace, Catanzaro e Cotrone, accolto dovunque con archi di trionfo, luminarie, fuochi d'artificio, segni di letizia, apparente ma non tanto sincera, che tuttavia Giuseppe ricambiava con il punire gli abusi che erano stati commessi, con il rimborsare le spese per le forniture militari, con l'ordinare lavori di pubblica utilità e con il dare udienza a chiunque.

Il 3 maggio giunse a Taranto, dove visitò la città e ammirò il bellissimo porto, poi proseguì per Matera, Gravina, Foggia e Caserta e l'11 maggio rientrò a Napoli.
La capitale, che l'aveva visto partire con il grado di luogotenente imperiale, ora lo rivedeva re e lo accoglieva con onori degni di un sovrano. Nella chiesa dello Spirito Santo l'arcivescovo LUIGI RUFFO cantò il "Te Deum" e al Palazzo reale una deputazione del senato francese, di cui il nuovo re era stato prima presidente, andò a porgergli le congratulazioni e gli auguri.

Non si era spenta l'eco dei festeggiamenti napoletani quando, sul far della notte, si presentò davanti l'isola di Capri la flotta inglese comandata da sir SIDNEY SMITH, che intimò la resa ai duecentosessanta uomini della guarnigione comandati dal capitano CHEVET. Essendosi questi rifiutato, gli Inglesi diedero l'assalto all'isola a colpi di cannone e nel combattimento accanito che ne seguì cadde proprio lo sfortunato comandante del presidio francese. Il capitano ETANG, succedutogli nel comando, continuò la resistenza tutto il giorno 12, ma a mezzanotte, perduta ogni speranza di soccorsi, capitolò al patto che i suoi soldati fossero condotti con armi e bagagli a Pozzuoli. Pochi giorni dopo anche Ponza fu tolta ai Francesi e delle due isolette occupate, gli Inglesi e i Siciliani che le presidiarono ne fecero il centro degli intrighi contro Giuseppe Bonaparte ed entrambe due utilissime basi per minacciare le altre isole vicine o per eseguire futuri sbarchi sulle coste napoletane.

La perdita per i francesi di Capri e di Ponza fu però compensata dall'acquisto di Civitella del Tronto. Questa importante fortezza, munita di ventidue cannoni e difesa da circa trecento nomini comandati dall'irlandese MATTEO WADE, oltre che dalle bande del brigante SCIABOLONE, che con audaci sortite riforniva di viveri e munizioni la fortezza, si trovava assediata fin dal 27 marzo da duemila soldati del FRÉGEVILLE. Un assalto generale sferrato il 15 aprile non era riuscito; un secondo, avvenuto il 19 maggio, aveva permesso ai Francesi di occupare il paese e i dintorni, che avevano durante l'assedio orribilmente saccheggiati e seminato del terrore.
Fortunatamente molti cittadini erano riusciti ad allontanarsi prima del combattimento e le bande di SCIABOLONE avevano potuto prendere il largo quando la resistenza era stata vinta. La guarnigione, ridotta a soli trenta uomini, capitolò il 21 maggio e assieme al Wade fu fatta prigioniera di guerra e inviata poi a Nimes.

Dopo la caduta di Civitella del Tronto non rimaneva da conquistare sulla terraferma che GAETA, e i Francesi già si preparavano a rivolgere contro di essa la maggior parte delle loro forze quando nella Calabria, che a Giuseppe durante il suo viaggio sembrava pacificata, scoppiarono parecchie insurrezioni promosse dagli Inglesi e dalla corte borbonica, che, tenendo impegnato il nemico in una lunga e pericolosa guerriglia oltre lo Stretto, miravano a distoglierlo dalla temuta impresa contro la Sicilia.
Verso gli ultimi di maggio, audaci e temuti capi, fra cui SCIARPA e PANE DI GRANO, sbarcarono a Pellaro con piccole bande, tentarono di occupare Reggio e Scilla, si spinsero nella Basilicata e nella Puglia e riuscirono a sollevare parecchie contrade contro i Francesi.
Il 29 giugno FRA DIAVOLO, reduce dalla Sicilia dove da Gaeta si era poco prima recato, sbarcò con seicento uomini presso Amantea, s'impadronì della città cacciandone la guarnigione polacca, e, lasciato il nobile RODOLFO MIRABELLI a difenderla, si avviò verso Cosenza, invitando alla ribellione alcuni villaggi.

Due giorni dopo lo sbarco di Fra Diavolo un altro più importante sbarco avvenne a nord del golfo di Sant'Eufemia. Seimila Inglesi, capitanati da generale STUARD, presero terra il 1° luglio e, respinto un corpo polacco comandato dal colonnello Grabinski, si inoltrarono nella pianura fino a MAIDA, dove furono affrontati da circa cinquemilacinquecento soldati del generale REYNIER.
I due eserciti erano quasi di pari forze; gli Inglesi mancavano di cavalleria, però in compenso ai sei cannoni francesi potevano opporre sedici pezzi d'artiglieria.
Erano con gli Inglesi le bande di FRA DIAVOLO e sembra che questi consigliò lo Stuard a dare subito battaglia, mentre il generale britannico avrebbe voluto ricondurre le sue truppe a bordo delle navi.
La mattina del 4 luglio lo STUARD dispose i suoi soldati in due file parallele e tenendo come riserva un reggimento al comando del colonnello ROBERTO ROSS, avanzò per passare il torrente Amato per interrompere le comunicazioni dei nemici con Monteleone.
Il REYNIER a sua volta schierò le truppe alla destra dell'Amato, mettendo al centro il generale FRANCESCHI-DELONNE con trecento cacciatori a cavallo e i sei pezzi di artiglieria con il maggiore GRIOIS, a destra il generale DIGONNET con milleduecentocinquanta uomini del 23° reggimento di fanteria leggera, a sinistra il generale COMPÈRE con il 1° reggimento leggero e con il 42° di linea che contavano in complesso duemilaquattrocento uomini, e in seconda linea il generale PEYRI con millecinquecento soldati tra Svizzeri e Polacchi.

La battaglia ebbe inizio verso le otto e mezzo del mattino. Avendo il REYNIER dato ordine all'ala sinistra di respingere il nemico alla baionetta, il Compère fece avanzare il 1° reggimento leggero; ma quando questo fu a quindici passi di distanza dagli Inglesi, lo accolse un nutrito fuoco di fucileria, che pose fuori combattimento ottocento francesi, uccise il GASTELAIS comandante del reggimento e ferì lo stesso COMPÈRE, che finì quindi prigioniero.
I resti del 1° leggero rimasti senza il comandante e senza il generale, si diedero a una fuga precipitosa scompigliando e trascinando con sé anche il 42° reggimento che si era appena mosso e pronto per sostenere il successivo assalto. Dello schieramento francese rimase così scoperta anche la seconda linea del Peyrì, che fu presto assalita dagli Inglesi. I Polacchi ebbero il loro comandante Neucha ucciso e si sbandarono; gli Svizzeri invece, animati dalla presenza del Reynier, tennero duro.
Anche alla destra i Francesi avevano ingaggiato battaglia e il generale DIGONNET cercava di aggirare la sinistra nemica. Essendo riposte nel 23° reggimento tutte le speranze, furono mandate in suo sostegno l'artiglieria e la cavalleria; ma la sinistra inglese non si lasciò sopraffare, anzi, soccorsa dalla riserva del colonnello Ross, riuscì ad avere il sopravvento.
Prima di mezzogiorno la battaglia era finita. Gli Inglesi erano padroni della via di Monteleone e del campo; avevano avuto quarantatrè morti e duecentottantatrè feriti; ma avevano ucciso cinquecento Francesi, avevano fatto mille e cento prigionieri e si erano impadroniti di bagagli, viveri e munizioni che il Reynier aveva dovuto lasciare nella retrovia, ritirandosi precipitosamente sulle colline con l'esercito sconfitto, in mezzo cui si trovavano circa trecento feriti.
La vittoria di Maida fu seguita da altri successi inglesi e borbonici.

Milleduecento Anglo-Siculi comandati dal generale Brodrik e dal Duca della Floresta con il concorso di alcune navi inglesi costrinsero alla resa il 10 luglio settecento Francesi circa del capitano Aubrèe che presidiavano Reggio, e il 23 luglio, dopo una quindicina di giorni di valorosa resistenza, nelle mani del generake Oswald, che aveva con sé una parte delle truppe dello Stuart, si arrese il capobattaglione Michel con i quattrocento uomini del presidio di Scilla.
La sconfitta dei Francesi a Naida diede il segnale della rivolta a quasi tutta la popolazioni della Calabria. Se ne accorse subito il general Reynier, giungendo la sera stessa della battaglia a Marcellinara, sulla via di Catanzaro; gli abitanti, credendo che i suoi Svizzeri, che portavano uniformi rosse, fossero Inglesi, andarono loro incontro urlando: "Viva, Ferdinando ! Morte ai Giacobini !" ma ovviamente a questo benvenuto risposero a fucilate, e a loro volta capito l'equivoco quelli di Marcellinara li accolsero anche loro a schioppettate.
Durante la notte, non ritenendo il posto sicuro il Reynier lasciò Marecllinara e il 5 entrò a Catanzaro. Qui rimase una ventina di giorni, uscendone talvolta per compiere qualche rappresaglia contro villaggi che si erano resi colpevoli di offese ai Francesi, come Isola c S. Giovanni in Fiore cui fu prima messa a sacco poi fu incendiata; ma intanto tutt'intorno si costituivano bande di ribelli che osavano spingersi fin sotto le mura di Catanzaro rendendo anche qui pericoloso il soggiorno al Reynier.
Ricevuto poi l'ordine di ritirarsi a Cassano, partì il 26 luglio, traendosi dietro i feriti e quella parte di popolazione che una volta partiti loro nel restare temevano le vendette degli insorti.

Fu quella di Reynier una ritirata disastrosa: il caldo opprimeva, l'acqua mancava; i soldati, estenuati dalla marcia o vinti dal vino con cui erano costretti a dissetarsi, cadevano lungo la via ed erano finiti dai ribelli che non davano un istante di tregua ai Francesi con la guerriglia lungo le strade.

A Cotrone, priva di acqua e di viveri, il Reynier si fermò soltanto poche ore; lasciati gli ammalati e un presidio di duecentocinquanta Polacchi con il capitano Soulpy (che però due giorni dopo, il 30, si arrese agli Inglesi) e continuò la ritirata; per via prese e saccheggiò Strongoli, che pareva disposta a resistergli; si rifornì a Cirò e a Cariati rimanendo però fuori le mura; entrò e riposò a Rossano; diede l'assalto a Corigliano difesa da SALVATORE PUGLIESE ed espugnatala dopo due ore di accanito combattimento non riuscì poi a impedire ai suoi di sfogare l'ira sulle persone e sui beni degli abitanti (1 agosto).

Il 3 agosto finalmente il piccolo esercito del Reyner giunse a Cassano, dove poteva dirsi in salvo perché in comunicazione con il Verdier. Questi il 9 luglio, alla testa di ottocento Polacchi, aveva lasciato Cosenza, e seguito da una parte della popolazione, tra le grandi difficoltà di una marcia in territorio montagnoso e le continue molestie di numerose bande d'insorti, era stato accolto a Cassano a fucilate dagli abitanti, quindi a Policoro, presso Matera, e l'8 agosto si era unito al Reynier.

Questi veniva ad avere così sotto i suoi ordini più di seimila uomini e riusciva a difendersi fino a che non giungessero i rinforzi da Napoli. Il re veramente, appena avuta notizia della sconfitta di Maida, già aveva mandato verso la Calabria due battaglioni composti in gran parte di Polacchi; ma questi erano stati respinti con fortissime perdite a Lauria (14 luglio); un altro corpo di millecinquecento uomini sotto il generale Vintimille, mandatovi poco dopo, non aveva potuto spingersi oltre Lagonegro. Non erano più quindi casi isolati ma la ribellione prendeva proporzioni sempre più grandi e il governo di Napoli sapeva che per stroncarla in ogni luogo occorreva mandare contro gli insorti un vero e proprio esercito; gran parte però di quello giunto con il Massena dal nord era impegnato nell'assedio di Gaeta; occorreva quindi aspettare che prima cadesse questa fortezza e poi pensare ad organizzare una spedizione nella Calabria in grande.

ASSEDIO E CAPITOLAZIONE DI GAETA - l'INSURREZIONE e CALABRESE
SACCHEGGIO DI LAURIA - PRESA DI CAMEROTTA E SORA
ASSEDIO DI AMANTEA, MARATEA E COTRONE
BATTAGLIA DI MILETO - PROCESSO E MORTE DEL MARCHESE RODIO
LA FINE DI FRA DIAVOLO

La fortezza di Gaeta difficilmente, al principio del secolo scorso, poteva esser presa da chi non avesse il dominio del mare; eppure i francesi vollero provarci ugualmente, ed avendo nel febbraio il comandante del presidio rifiutato di consegnare la città, il generale Reynier aveva occupato il vicino bastione di Sant'Andrea ed aveva lasciato nelle vicinanze della piazzaforte un piccolo corpo sotto il comando del Lacour perché iniziasse le operazioni d'assedio.

Più di centotrenta bocche da fuoco munivano i formidabili bastioni; le vettovaglie e le munizioni abbondavano inoltre potevano essere rinnovate dalla flotta inglese dell'ammiraglio SIDNEY SMITH, che difatti rifornì la città nei primi di maggio; infine dentro seimila uomini difendevano la piazza, che con i nuovi arruolamenti e con l'arrivo di galeotti liberati dagli Inglesi in Sicilia salirono ad ottomila. Comandava la piazzaforte di Gaeta il principe D'ASSIA PHILIPPSTHAL, nemico implacabile dei Francesi, capitano rude, attivo e valoroso, che solo grazie alla sua energia e severità era riuscito a tener salda la guarnigione composta di elementi così eterogenei ed indisciplinati (i galeotti)

Il generale LACOUR tenne il comando delle truppe assedianti fino al 16 maggio; tre volte (il 23 febbraio, il 21 marzo e il 6 aprile) ma senza successo fece cannoneggiare la fortezza, altrettante volte intimò la resa, spesso subì gli assalti improvvisi delle bande di FRA DIAVOLO e il 25 aprile, il 13 e il 15 maggio costrinse alcuni reparti della guarnigione usciti all'assalto a ritirarsi entro le mura. Quella del 15 fu la sortita più audace e più proficua di tutto l'assedio: quattrocento soldati, in pieno giorno, quasi mandati allo sbaraglio giunsero - fino al centro delle opere francesi sul Monte Secco, uccisero, ferirono e fecero prigionieri parecchi francesi, catturarono non poche armi e guastarono alcuni pezzi d'artiglieria.

Ma il 18 maggio la direzione dell'assedio fu assunta dal Massena. Sotto di lui le truppe francesi salirono a dodicimila uomini, le batterie a ventotto, i pezzi di artiglieria a piú di cento; s'intensificarono i lavori d'approccio, che furono diretti dai generali CAMPREDON e VALLONGUE; quest'ultimo il giorno 11 giugno fu ferito gravemente e cessò di vivere sei giorni dopo.
Il 15 gli assediati tentarono una sortita, ma con scarsi risultati. Allora rinunziarono ad ogni tentativo di offensiva e dedicarono tutta la loro attività alla difesa, mentre nei Francesi si andava di giorno in giorno sviluppando lo spirito aggressivo. Sul mare, alla flottiglia borbonica avevano opposta una flottiglia di ventiquattro imbarcazioni cannoniere sotto il comando del genovese BAVASTRO e del napoletano BAUSAN. Quest'ultimo, il 4 luglio, a Castellone, assalito dalla squadriglia nemica, non solo le tenne testa, ma riuscì a metterla in fuga.

Il 7 luglio, essendo stati ultimati i lavori d'approccio, disposte le artiglierie, alla presenza del re Giuseppe cominciò il bombardamento martellante della piazzaforte. Il 10 il principe di Philippstahl, che in quei giorni non si era risparmiato rimanendo sempre esposto al fuoco, fu ferito alla testa e fu trasportato a bordo della nave inglese Tonnant. Gli successe nel comando della piazza il maggiore Francesco HOZ, che respinta un'intimazione di resa, continuò la resistenza. Ma questa non doveva durare a lungo. Sebbene la città fosse ben provvista di viveri e munizioni e difesa da seimila uomini e le artiglierie nemiche non avessero fatto nei bastioni che due brecce facilmente difendibili, la sera del 18, all'insaputa degli Inglesi, l'Hoz chiese un armistizio di tre giorni e, non essendo riuscito ad ottenerlo, capitolò a condizione che al presidio fossero concessi gli onori militari e il permesso di recarsi in Sicilia.
Dopo cinque mesi di assedio, durante il quale i Francesi avevano perduto due generali, il Grigny e il Vallongue, una trentina di ufficiali e un migliaio di soldati, la mattina del 19 luglio del 1806 Gaeta apriva le porte al generale Massena. La guarnigione, secondo i patti della capitolazione, salì a bordo delle navi, ma mille soldati circa rimasero a terra e chiesero di arruolarsi sotto le bandiere del Bonaparte.

Dopo la resa di Gaeta, subito si pensò a reprimere l'insurrezione della Calabria, e con decreto del 31 luglio, fu messa in stato d'assedio. Il comando dell'impresa fu affidato al maresciallo Massena che, compresi i corpi del Verdier e del Reynier, ebbe una forza di circa quindicimila uomini, con una dozzina di generali: il Mermet, il Gardanne, il Massel, il Valentin, il Digonnet, il Donzelot, il Debelle, il Ventimille, il Peyrì e il Franceschi-Delonne.
Il corpo di spedizione si mise in marcia sulla fine di luglio, diviso in due colonne: la prima, che comprendeva il grosso ed era sotto il comando diretto del Massena, marciò verso Lagonegro per la via Eboli-Sala; la seconda composta di millecinquecento uomini sotto gli ordini del Mermet, si diresse lungo la costa verso Sapri.
Il 3 agosto, giunto a Montano, il Mermet mandava il capobattaglione VINCENZO GENTILE con un distaccamento di quattrocento Còrsi ad assalire Laurino, che, nonostante la disperata difesa del capobanda SPERANZA, fu prima espugnata, poi saccheggiata infine incendiata. Sorte eguale ebbe Rocca Gloriosa, assalita nello stesso periodo dal Mermet e invano difesa dal capobanda ROCCO STODUTI.

Il giorno dopo da Torre Orsaia il Mermet si recò a Policastro, ma poiché la via di Sapri era sotto il tiro della flotta inglese, ritornò a Torre Orsaia per aspettarvi i rinforzi del Massena. Questi, giunto a Lagonegro, distaccò dal suo corpo una colonna sotto il Gardanne, il quale prima espugnò e diede alle fiamme Torraca, poi si unì al Mermet e con lui andò ad occupare Sapri.
Dal canto suo il Massena, lasciata a Lagonegro una guarnigione di cinquecento uomini, l'8 agosto marciò contro Lauria, l'assalì da tre lati e alla fine riuscì a penetrarvi. Dentro la città i Francesi furono accolti dagli abitanti, che sparavano dalle finestre, dalle porte, dai tetti e dalle barricate. Per vincere la viva resistenza il Massena ordinò di incendiare la città in più punti e in breve gran parte di questa fu in preda alle fiamme. Gli abitanti, quelli che non furono uccisi, dovettero subire ogni sorta di violenze da parte dei Francesi i quali inoltre diedero il sacco alla città ricavandone un bottino che il giorno dopo fu venduto per novantamila ducati.

Quelle di LAURIA non furono le prime né le ultime violenze commesse dai Francesi nell'Italia meridionale. Sia nel 1799 che nel 1806 e nel 1807, proprio loro che davano la caccia ai "briganti", si comportarono da "veri briganti"; commisero atti che nessun esercito civile oserebbe commettere. Saccomanni, incendiari, ladri, violenti, suscitarono contro il nome francese presso quelle popolazioni un odio così grande, che neppure a distanza di due secoli, si è riusciti a cancellare, cancellato. Nella coscienza collettiva i francesi stanno alla pari con i turchi come nefandezze nei ricordi degli abitanti, trasmessi fin dalla culla. Ovviamente chi in seguito ha poi ricevuto prebende, onorificenze, proprietà, benefici, è invece stata una manna.

Il giorno dopo la barbara distruzione di Lauria, il Masseria fu raggiunto dal Mermet e il 10 agosto dal Reynier a Castrovillari; quindi marciò su Cosenza, dove entrò pacificamente perché le bande di PANE DI GRANO, di FRANCESCO CARBONE e del GERNALIZ avevano deciso di non fare resistenza. Entrato a Cosenza, il Masseria cercò di organizzare una guardia civica, quindi promise perdono a quegli insorti che avessero deposto le armi. Qualche cosa ottenne, ma quando verso la fine del 1806 lasciò il comando al Reynier per recarsi a Napoli e quindi raggiungere l'esercito imperiale al nord, la rivoluzione in Calabria era tutt'altro che domata.

Della repressione della rivolta calabrese ci limiteremo ad accennare gli episodi principali, che ebbero per teatro Camerotta, Acri, Sora, Amantea, Maratea, Reggio e Scilla.
CAMEROTTA, nel Cilento, forte per la natura del luogo, era difesa dal duca di POLLERIA, dalla banda del GUARIGLIA e da un distaccamento del presidio di Gaeta che, secondo i patti della capitolazione, doveva astenersi per un anno dal combattere contro i Francesi. Questi, comandati dal generale LAMARQUE, si presentarono davanti Camerotta il 1° del settembre del 1806 e, approfittando di un uragano, riuscirono ad espugnarla, passando a fil di spada tutti i difensori che non erano riusciti a fuggire.

SORA era il quartier generale di FRA DIAVOLO. Nel settembre fu affidato al generali ESPAGNE, al colonnello CAVAIGNAC e al caposquadrone FORESTIER, il compito di espugnare il covo del temuto bandito. Sebbene circondato, Fra Diavolo riuscì a fuggire; la città invece fu espugnata e messa a sacco (26 settembre 1806).

ACRI aveva una guarnigione di pochi Còrsi e di qualche centinaio di patrioti comandati dal tenente GIUSEPPE FERRARA. Il 14 ottobre del 1806 ANTONIO SANTORO, detto "RE COREMME", occupò la città costringendo i difensori a chiudersi nel castello; aveva una banda di circa tremila uomini, eppure, al sopraggiungere di una cinquantina di Còrsi provenienti da Bisignamo, credendola una colonna di maggior numero, si ritirò. Ritornato ad Acri, il Santoro si disponeva a bloccare la rocca quando questa volta fu assalito da una vera colonna francese comandata dal Verdier e costretto a fuggire fino a Longobuco, mentre Acri dopo averla saccheggiata fu data alle fiamme. Il Santoro si rifugiò in Sicilia, ma al principio del 1807 ritornò in Calabria e tentò di impadronirsi di Rossano. Respinto dagli abitanti e dal presidio, ritornò a Messina. E ancora verso la fine di maggio del 1807 lo troveremo con le sue bande ancora a Cotrone da dove il principe di Philippsthal, sdegnato dalle ruberie, confiscatogli il bottino, lo rimanderà in Sicilia.

AMANTEA rimase famosa per la resistenza accanita che oppose ai Francesi. Occupata da FRA DIAVOLO - come si è detto - qualche giorno prima della battaglia di Maida, era rimasta sotto il governo del nobile RODOLFO MIRABELLI. Per due mesi e mezzo non aveva avuto noie da parte dei Francesi, ma il 27 settembre del 1806 giunse da Cosenza il generale Verdier con due reggimenti di fanteria, due cannoni e alcune squadre della guardia civica. Tutte queste truppe assalirono la città, ma furono facilmente respinte e si ritirarono a Cosenza.
Il Verdier ritornò con un numero maggiore di soldati il 3 dicembre e due giorni dopo diede l'assalto ad Amantea, ma fu respinto con sensibili perdite; ritentò la notte dell'8 ma fu nuovamente sconfitto e, scoraggiato dalle perdite che gli avevano inflitto gli Amanteoti e da quelle che aveva subite per opera delle bande di VINCENZO PRESTA, che da Belmonte lo molestava, fece ritorno ancora a Cosenza, e da qui, informati i suoi superiori della difficoltà dell'impresa, chiese qualche altro pezzo d'artiglieria, altre munizioni per rinnovare con maggiore probabilità di successo l'assalto della piccola città difesa così tenacemente dagli abitanti e dalle bande del Presta, di GIUSEPPE MELE e di IGNAZIO MORRONE.

Il 1° gennaio del 1807 il Verdier, accompagnato dal Reynier, si presentò per la terza volta davanti ad Amantea questa volta con tremiladuecentocinquanta soldati, sei pezzi d'artiglieria e una schiera di guardie civiche comandate dal maggiore FALCONE. Il 15 gennaio il Verdier guidò personalmente le truppe all'assalto, ma questo non ebbe esito migliore dei precedenti. Allora il generale fu richiamato a Napoli e sostituito dal generale PEYRI'.
Il nuovo comandante il 31 gennaio fece al MIRABELLI proposte per una onorevole capitolazione. Essendo state rifiutate, il Peyrì il 4 febbraio fece aprire il fuoco delle sue artiglierie ed il 6 ordinò l'assalto. Anche questa volta i Francesi furono respinti; ma la città, priva di comunicazioni con il mare per la vigilanza degli assedianti, trovandosi a corto di munizioni non era ormai più in grado di resistere. Le bande la notte del 6 febbraio abbandonarono la terra e la mattina del 7 il Mirabelli firmò una capitolazione; i Francesi concedevano l'amnistia agli abitanti e si permetteva al Mirabelli e al colonnello Stocchi di ritirarsi in Sicilia.

MARATEA, nella Basilicata, difesa da Alessandro Mandarini, che aveva sotto di sé i colonnelli ROCCO STODUTI e RAFFAELE FALSETTI, i maggiori ANTONIO GUARIGLIA e GIUSEPPE NECCO, il capitano DE CUSATIS, il tenente DE LIETO e un migliaio d'uomini, a differenza di Amantea non riuscì a resistere che pochi giorni ai quattromila uomini del generale Lamarque giunto ad assediarla.
Il Mandarini, abbandonato dalla flotta borbonica che avrebbe dovuto rifornire la città di viveri e di munizioni, il 10 dicembre del 1806 fu costretto a capitolare ottenendo che le persone e i beni dei cittadini non fossero molestati, che gli ufficiali, data la parola d'onore di non brandire più le armi contro i Francesi, potessero ritirarsi in Sicilia e alle truppe, con eguale promessa, rimandate a casa.
Tentò il governo francese di guadagnare alla sua causa il Mandarini, di cui conosceva l'ingegno e il valore, ma questi non volle tradire i Borboni. Giurò, secondo i patti della capitolazione, di non combattere contro il re Giuseppe ma volle anche giurare che non lo avrebbe mai servito, quindi si ritirò in Sicilia, da dove, nel 1815, ritornò in patria in qualità di Intendente per la Calabria Citeriore.

Come abbiamo gia accennato sopra, il Reynier, ritirandosi da Catanzaro a Cassano, aveva lasciato a Cotrone il capitano Soulpy con duecentocinquanta Polacchi. Questi il 30 luglio si arresero agli Inglesi, ma il Reynier, ignorando questa capitolazione, il 15 agosto lasciò Cosenza alle testa di una colonna per recare soccorso al piccolo presidio di Cotrone. Era appena partito quando incontrò le bande del GERMALIZ. Ingaggiatosi il combattimento, il Gernaliz cadde ucciso e le bande sbandandosi ripiegarono su quelle di FRANCESCO CARBONE e PANE DI GRANO, le quali, invece di sostenerle, si diedero alla fuga. Il Reynier continuò a marciare verso Cotrone, ma, saputa la resa del Soulpy, preferì tornare indietro.

L'8 gennaio del 1807 Cotrone fu occupata dal colonnello Billard; ma il 27 maggio una flottiglia borbonica vi sbarcò le bande di ANTONIO SANTORO e di NICOLA GARGIULO, che occuparono la città ma poi vi furono poco dopo assediate dai Francesi. Bella la difesa dei borbonici; provvisti di munizioni e soccorsi anche da truppe regolari, non solo ostacolarono con le artiglierie i nemici nei lavori d'assedio, ma fecero frequenti ed audaci sortite.
Per vincere la resistenza della fortezza i Francesi vi ammassarono intorno numerose truppe e vi trasportarono grossi pezzi d'artiglieria. Il 9 luglio le batterie degli assedianti iniziarono e aprirono un fuoco violento sulle fortificazioni di Cotrone, che furono sottoposte anche nei giorni successivi ad un bombardamento incessante oltre che efficace. La notte dal 12 al 13, prevedendo prossima la caduta della città, il presidio e non pochi abitanti, noti pei loro sentimenti antifrancesi, s'imbarcarono per la Sicilia, e la mattina seguente le truppe del generale Reynier occuparono Cotrone.

Ultime ad esser ridotte all'ubbidienza furono Reggio e Scilla, più difficili a tenerle che ad essere occupate per la vicinanza con la Sicilia. Esse rappresentavano per il governo borbonico una base eccellente per propagare ed organizzare le varie insurrezione sul continente. Il 9 maggio del 1807, infatti, vi sbarcò il principe di Philippsthal con il proposito di ribellare nuovamente la Calabria oramai quasi interamente domata. Conduceva con sé circa cinquemila uomini, fra cui c'erano parecchi capimassa, PANEDIGRANO, NECCO, FRANCATRIPPA ed altri, destinati ad organizzare la rivolta.

Da Reggio il Philippsthal marciò su Mileto, che cadde in suo potere poi intimò ai Francesi, che in numero di cinquemila si erano riuniti a Monteleone, di arrendersi. I Francesi invece cacciarono loro i borbonici da Mileto (29 maggio 1807) e impegnati con loro un furioso combattimento sulla via di Rosarno, li sconfissero totalmente, uccidendone quattrocento, ferendone seicento, prendendone prigionieri circa tremila e sbandando tutto il resto. Il principe ASSIA DI PHILIPPSTHAL ritornò a Reggio con soli trenta uomini dei cinquemila che aveva. Dopo questa vittoria i Francesi avrebbero potuto facilmente impadronirsi di Reggio e Scilla; ma il Reynier non mosse contro di loro che otto mesi dopo: la prima, difesa da settecento soldati comandati dal Sandier, capitolò il 2 febbraio del 1808; la seconda fu occupata il 9, ma il castello, difeso da duecento Inglesi, resistette fino al 17.

Grandi fatiche costò ai Francesi la repressione dell'insurrezione; gravissimi danni ne ebbero le province. Nonostante le frequenti amnistie e l'ordine di re Giuseppe di non incendiare i paesi, i Francesi si comportarono con una ferocia tremenda, che non trova giustificazione nel contegno degli insorti. Incendi di casali, di paesi, di città, saccheggi, rapine, violenze di ogni specie, carcerazioni, fucilazione in massa di amnistiati, impiccagioni desolarono per due anni le Calabrie, la Basilicata e parte della Puglia; molto da fare ebbe il tribunale militare, che, dopo processi sommari, pronunziò numero sentenze.

Fra i condannati due ve ne furono che per la loro rinomanza e meritano un cenno in questa Storia, che più volte si è occupata di loro: RODIO e FRA DIAVOLO.

G. B. RODIO, era nato a Catanzaro nel 1779 e di professione faceva avvocato. Si era acquistato gran fama già a vent'anni prendendo parte come audace e intelligente capobanda alla reazione borbonica del 1799. Conquistata Napoli dal Ruffo, aveva invaso la Repubblica Romana; la corte lo aveva ricompensato dei preziosi servizi ricevuti, nominandolo preside di Teramo e poi di Cosenza, poi brigadiere, cavaliere dell'Ordine Costantiniano e marchese. Nel 1804 era stato mandato commissario regio presso il generale Saint-Cyr in Puglia; nel 1806 fu spedito nell'Abruzzo alla testa di un corpo regolare di cavalleria per organizzare le bande; ma, non essendo riuscito nel suo intento, si ritirò nella Puglia, dove nel marzo fu fatto prigioniero dalle truppe italiane del generale Ottavi.
Condotto davanti alla commissione militare, questa, il 25 di aprile, lo mandò assolto, considerandolo giustamente non come capo di briganti, ma come ufficiale borbonico incaricato dal re di provvedere alla difesa di province non ancora invase; ma il Massena, interprete forse dei sentimenti del re e del ministro di polizia Saliceti, con procedimento scandaloso, quel giorno stesso costituì una nuova commissione straordinaria, ordinando a questa di giudicare entro ventiquattro ore il Rodio, colpevole di avere eccitato alla rivolta i popoli sottomessi e perché trovato con le armi in pugno nelle retrovie dell'esercito francese.
Evidentemente si voleva la morte del giovane brigadiere, il quale, condannato il 26 alla pena capitale, fu il giorno dopo fucilato alla schiena.

MICHELE PEZZA, noto sotto il soprannome di FRA DIAVOLO, era nato ad Itri nel 1771. Gli studiosi di lui - "scrive il Lemmi" - ignorano quando, perché e come, si rese colpevole di due omicidi, (alcuni dicono forse per vendetta) e quando abbandonò il paese natio per vivere randagio sui monti, campando con un po' di rapine, un po' di lavoro (se è vero che fu, per qualche tempo nello Stato Pontificio) e con i soccorsi, che in un paese, dove non esisteva giustizia pronta e sicura, nessuno osava rifiutare e qualche volta spontaneamente li offriva ai delinquenti anche peggiori. Certo è che, nel gennaio del 1798, stanco di essere ricercato fece domanda di scontare con tredici anni di servizio militare il delitto commesso, gli fu concesso ed entrò nell'esercito. Ma sbandatosi questo dopo la disastrosa ritirata del Mack, si mise lui alla testa, nel suo paese natio, di quanti, irrequieti e violenti come lui, volevano usare le armi per resistere alle invasioni delle truppe dello Championnet.
In quella circostanza svolse allora un'azione veramente efficace piombando al momento opportuno dalle sue montagne, sugli sparsi reparti invasori, catturando i convogli, rendendo poco sicure o interrompendole del tutto le loro comunicazioni fra Roma e Napoli lungo la grande via Appia. L'opera di questa sua guerriglia, energica e spietata, non ebbe tregua durante l'intiero anno 1799: alcune volte con parecchie centinaia di uomini, altre con pochissimi compagni, ma sempre con la stessa determinazione e il medesimo entusiasmo, ma anche desiderio di vendetta (il 16 gennaio i Francesi, nel saccheggio di Itri, gli avevano ucciso il padre)

Poi molestò la ritirata del Macdonald, contribuì al blocco di Gaeta difesa dal Girardon, prese parte alla spedizione di Roma. In quest'ultima circostanza le sue bande, costituite quasi intieramente di pessimi elementi (erano la maggio parte ex galeotti liberati in Sicilia), si abbandonarono a una serie di violenze contro il patrimonio che egli stesso fu imprigionato a Castel S. Angelo.
E' fuori dubbio che i generali napoletani non lo stimavano, lo consideravano un brigante e forse lo avrebbero condannato come tale se egli non fosse riuscito a fuggire a Napoli e di là a Palermo. La corte invece, che poco prima lo aveva nominato colonnello e una cospicua pensione, lo accolse benevolmente; passando sopra a tutte le accuse, gli confermò il grado e, non molto dopo, gli diede l'ufficio di comandante del dipartimento d'Itri.
Nel 1806 contribuì alla difesa di Gaeta assalendo continuamente l'esercito assediante; ma anche qui non si guadagnò le simpatie del Principe di Philippsthal, sia perché lo riteneva un volgare malfattore, sia perché sospettava che aveva relazioni con i francesi, i quali, infatti, avevano, sebbene invano, tentato di corromperlo con denaro. Presa Gaeta ritornò poi a Palermo, e di là, il 29 giugno, con 600 galeotti, sbarcò ad Amantea cooperando, poco prima della battaglia di Maida allo scoppio della grande insurrezione in quelle altre località che abbiamo visto sopra.
Nell'agosto fu, con lo SMITH, all'attacco della Torre di Licosa nel golfo di Policastro, poi a Capri e, il 5 settembre, a Sperlonga, in Terra di Lavoro, con una numerosa banda raccolta nel Cilento o presa a S. Stefano.

Battuto a S. Marco, riuscì tuttavia a sorprendere ad Itri il presidio francese che fu da lui massacrato; e dopo aver compiuta questa vendetta, si rifugiò a Sora dove qui il generale Espagne andò ad attaccarlo. Sora fu presa e saccheggiata, e molti cittadini furono uccisi: ma Fra Diavolo riuscì a fuggire con pochi seguaci. Una grossa colonna al comando del capo battaglione HUGO, (il futuro padre del grande scrittore) fu mandata a inseguirlo, tutti i passi dell'Appennino verso l'Abruzzo furono presidiati e fu messa in armi tutta la guardia nazionale della regione; ma l'abile guerrigliero, ottimo conoscitore dei luoghi, abituato ad ogni fatica e ad ogni privazione, ricco di espedienti e di astuzie, sembrava proprio in grado di poter raggiungere la Calabria, per poi mettersi di là in salvo in Sicilia.
Ma a Baronissi fu riconosciuto in una farmacia dove era entrato per medicarsi, scalzo, ferito, esausto e, ironia della sorte, era solo, non scortato da nessuno dei suoi briganti !

Era il 1° novembre; la caccia era durata quasi due mesi! Condotto a Napoli e affidato a un tribunale straordinario, si afferma che al processo scagliò ingiurie e improperi contro la regina Maria Carolina e contro tutti gli Inglesi.
Il "Marulli" invece afferma che FRA DIAVOLO, rifiutò sdegnato la grazia offertagli a condizione che servisse il re GIUSEPPE.
Certo è che SIDNEY SMITH e lo stesso HUGO si adoperarono, sebbene invano, affinchè fosse trattato come un qualsiasi prigioniero di guerra. Ma il 10 novembre fu condannato a morte, e la sentenza fu eseguita, l'11 novembre, nella solita piazza del mercato a Napoli. Mentre la Corte siciliana gli rese solenni onoranze funebri; il suo nome rimase famoso più di quello di qualsiasi altro capo di bande in quel periodo.
Ma non bisogna lasciarsi vincere dalla seduzione di facili glorificazioni. Fra Diavolo fu energico e coraggioso, abile e intelligente, desideroso d'innalzarsi anche moralmente a gradi più alti di quelli consentitigli dalla sua origine; ma conservò pur sempre, nella sua condotta, gli istinti del brigante. La sua fama deriva in gran parte dal suo nome: la sua uccisione, che non può ritenersi ingiustificata, non rassomiglia affatto a quella, sotto ogni aspetto iniqua, del marchese RODIO…".


LA GUERRA DELLA QUARTA COALIZIONE - PACE DI TILSIT
IL BLOCCO CONTINENTALE - TRATTATO DI FONTAINEBLEU
FINE DEL REGNO D' ETRURIA - I FRANCESI A CATTARO E A CORFÙ

Mentre questi fatti avvenivano nel regno di Napoli, Napoleone combatteva vittoriosamente contro la quarta coalizione, promossa dalla Prussia. Questa, che fino allora aveva mantenuto buoni rapporti con la Francia, non poteva rimanere impassibile di fronte ai mutamenti avvenuti nella carta politica d'Europa dopo la pace di Presburgo. L'impero francese si era circondato di stati vassalli ad alcuni dei quali Napoleone aveva dato come sovrani propri congiunti: al regno italiano il figliastro EUGENIO, al Regno di Napoli il fratello GIUSEPPE, alla repubblica batava trasformata in regno, il fratello LUIGI; erano stati mutati in regni e ingranditi a spese dell'Austria i ducati di Baviera e di Wiirttemberg, con le cui famiglie regnanti l'imperatore aveva stretto legami di sangue; infine era stata fondata una Confederazione del Reno, unita alla Francia da un'alleanza offensiva e difensiva.

FEDERICO GUGLIELMO III, preoccupato dalla straordinaria potenza della Francia e indignato anche dalle trattative di Napoleone con il ministro inglese FOG per una pace tra la Francia e l'Inghilterra, alla quale si proponeva di ceder l'Hannover, togliendolo alla Prussia, costituì con la Russia ed altri Stati una quarta coalizione e intimò il 1° ottobre a Napoleone di ritirare entro una settimana gli eserciti francesi sulla sinistra del Reno.

Il re di Prussia faceva grande assegnamento sul proprio esercito e su quello della Russia; ma la rapidità di Napoleone non diede tempo al secondo di unirsi al primo e questo al primo urto con i Francesi si sfasciò ! In un medesimo giorno, 14 ottobre del 1806, Napoleone sconfiggeva i Prussiani in due grandi battaglie, distinte l'una dall'altra, JENA ed AUERSTÁDT; il 27 ottobre entrava a Berlino alla testa delle sue truppe vittoriose e un mese dopo, il 28 novembre, GIOACCHINO MURAT faceva il suo ingresso a Varsavia, dove il 19 dicembre l'imperatore fu accolto con delirante entusiasmo. Rimanevano i Russi. l'8 febbraio del 1807 i Francesi davano battaglia ad EYLAU al generale russo BENINGSEN e lo costringevano a ritirarsi; quattro mesi circa dopo, il 14 giugno, anniversario di Marengo, avveniva la battaglia di FRIEDLAND nella quale i Russi furono pienamente sconfitti.

In questa battaglia si distinse il piemontese MAURIZIO FRESIA che per il valore dimostrato fu promosso al grado di generale di divisione. Con lui combatterono a Friedland parecchi reggimenti italiani, fra i quali i bersaglieri córsi e del "Po" che avevano combattuto anche a HEILSBERG, a LUBECCA e ad EYLAU ed avevano partecipato alle giornate di JENA e di AUERSTÁDT insieme con i reggimenti italiani 17° leggero, 103, 111, 21° dragoni e 26° cacciatori a cavallo.

Nè queste furono le sole truppe italiane che presero parte alla guerra della quarta coalizione. Si guadagnò gli elogi di Napoleone la divisione italiana del TEULIÈ, che partita dalla Francia, andò a bloccare COLBERG, dopo aver combattuto con successo nell'Assia e nell'Hannover, presso Lubecca, a Storgard, a Neugarten, a Greiffsnberg, a Treptow e a Sallnow; e dopo, sotto il generale PINO, insieme con altre truppe italiane, costrinse Stralsunda alla capitolazione (20 agosto 1807) e prese l'isola di Rugen (8 settembre 1807).

L'8 luglio il TRATTATO di TILSIT poneva fine alla guerra della quarta coalizione e univa in alleanza NAPOLEONE e lo ZAR ALESSANDRO, il quale dietro promessa di una espansione territoriale in Finlandia e in Turchia riconobbe (in questo caso a lui utile) tutti i mutamenti apportati dall'imperatore nell'Europa, occidentale e cedette alla Francia Cattaro, Corfù e le isole jonie.

Dalla pace di Tilsit la carta d'Europa risultò nuovamente trasformata: FEDERICO GUGLIELMO, che accettò il trattato e si sottopose ad una contribuzione di cento milioni, ebbe soltanto la Prussia, la Slesia, il Brandeburgo e la Pomerania; delle sue province occidentali fu formato, insieme con l'Assia Cassel e il Brunswich, il regno di Westfalia, la cui corona fu data a GEROLAMO BONAPARTE; delle province orientali fu costituito il granducato di Varsavia che fu assegnato al Duca di Sassonia, il quale fu elevato alla dignità regale.

Con un articolo segreto del trattato di Tilsit lo Zar si obbligava a chiudere i suoi porti alle navi dell'Inghilterra se questa si fosse ostinata a non voler fare la pace. Era, questa, una condizione che aveva moltissimo interesse per Napoleone, il quale, per vincere l'Inghilterra colpendola nei suoi commerci, il 21 novembre aveva decretato da Berlino il "BLOCCO CONTINANTALE" con il quale ordinava che tutti gli Stati che erano soggetti a lui o alleati chiudessero i porti alle navi inglesi e arrestassero i sudditi e distruggessero le merci della nazione nemica. Com' è noto, l'Inghilterra rispose (7 gennaio 1807) dichiarando bloccati tutti i porti che ubbidivano al decreto imperiale e sottoponendo le navi dei neutri alla visita dei suoi incrociatori, e Napoleone, più tardi, il 19 dicembre del 1807, da Milano decretò che fossero considerate una legittima preda tutte le navi che avessero accettata la visita degli incrociatori inglesi.

Vittime del blocco furono la Danimarca e il Portogallo. L'Inghilterra, informata che la Danimarca stava per aderire al blocco, mandò l'ammiraglio GAMBIER con una flotta davanti a Copenaghen perché si facesse consegnare tutte le navi danesi. Al rifiuto, la, città fu cannoneggiata dal primo al 5 settembre del 1807, quindi capitolò e gli Inglesi s'impadronirono di tutte le navi e spogliarono l'intero arsenale. Dopo questi fatti la Danimarca come reazione si alleò con la Francia, e la Russia e l'Austria ruppero le relazioni diplomatiche con l'Inghilterra.

GIOVANNI VI di BRAGANZA, Reggente del Portogallo in nome della madre pazza, aveva aderito al decreto di blocco, ma si era rifiutato di confiscare le proprietà degli Inglesi. Napoleone ordinò al generale JUNOT di invadere il Portogallo e lo Junot, il 17 ottobre del 1807, passò con ventimila uomini la Bidassoa, si unì ad un corpo di soldati spagnoli e marciò su Lisbona che fu occupata il 30 novembre. La famiglia reale, la Corte e parecchi nobili erano già fuggiti con i tesori e la flotta del Portogallo e la sorte di questo stato era stata decisa il 29 ottobre a Fontainebleau con un trattato concluso tra la Francia e la Spagna in cui era stabilito di dividere quel regno in tre parti, di dare la meridionale ad Emanuele Godoi, principe della Pace, la centrale con Lisbona all'impero francese e di assegnare la settentrionale alla Regina d'Etruria come consenso della perdita della Toscana che doveva passare a Napoleone.

Napoleone non poteva lagnarsi in Toscana (Regno d'Etruria) della politica di MARIA LUISA (lei era una Asburgo!), perfino troppo ligia alla Francia; ma voleva soddisfare l'ambizione della sorella ELISA sposata BACIOCCHI, cui non bastava il trono di Lucca e ambiva al desiderio di sedersi su quello di Firenze.
Maria Luisa ebbe notizia del trattato di Fontainebleau il 23 novembre dal rappresentante francese Ettore D'Abusson; il 10 dicembre, ricevute istruzioni da Napoleone, che la invitava anche ad un incontro a Milano o a Torino, sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà, consegnò il regno al generale Reille e, accompagnata da parecchi cortigiani, prese la via di Bologna, portandosi dietro la salma del re Ludovico, suo marito.

L'imperatore si trovava in Italia da una ventina di giorni circa. Il 21 era giunto a Milano e il giorno dopo aveva assistito ad un Te Deum in Duomo, aveva passato in rivista le truppe del presidio e si era recato a Monza a visitare la viceregina Augusta Amalia; il 25 aveva visitato il Melzi, ammalato di gotta, e il 26 era partito per Brescia con un largo seguito di personaggi, tra cui notiamo il Viceré Eugenio, il Murat, il Berthier e il Talleyrand. Il 29, dopo una breve fermata a Peschiera, era giunto a Verona, dove lo attendevano il re e la regina di Baviera con la principessa Carlotta; quindi era partito il 28 per Vicenza ed evitata Padova ed unitosi lungo la via con la sorella ELISA, nel pomeriggio del 29 era entrato a Venezia, dove il 2 dicembre era stato raggiunto dal fratello Giuseppe.
Dopo Venezia aveva visitato Treviso, Palmanova, Udine, Mestre, Mantova e Cremona e il 15 dicembre aveva fatto il rientro a Milano.

Il 16 Napoleone ricevette una deputazione toscana di cui facevano parte DON NERI CORSINI, il marchese PIETRO TORRIGIANI, il conte GUIDO DELLA GHERARDESCA, il conte GIROLAMO BARDI, il SENATORE IPPOLITO VENTURI, il marchese TOMMASO CORSINI, il banchiere LORENZO BALDINI e i livornesi SPRONI, MASTELLINI, PELLETTIER e MAGGI, i quali pregarono l'imperatore di lasciar la Toscana "Stato Autonomo" sotto un principe napoleonico. Napoleone rispose che l'avrebbe unita al regno italico, ma più tardi divise la regione in tre dipartimenti (dell'Arno, del Mediterraneo e dell'Ombrone) mettendola sotto un governatore francese e il 3 marzo del 1809, eretta la Toscana in granducato, vi mandò come governatrice, con il titolo di granduchessa, la sorella Elisa.

Il 17 dicembre giunse a Milano l'ex-regina d'Etruria Maria Luisa, che invano scongiurò l'imperatore di lasciarla in Toscana. Partita dall'Italia dopo una quindicina di giorni, essa si recò in Spagna, ma non cinse la corona di Lusitania e visse un po' qua e un po' là, prima a Baiona, poi a Fontainebleau, quindi a Compiègne e da ultimo, nell'aprile del 1809, a Nizza, donde pensò di fuggire in Inghilterra con l'aiuto del livornese GASPARE CHIFENTI; ma non vi riuscì e fu rinchiusa in un monastero di Roma. Dopo il congresso di Vienna, alla Restaurazione ebbe il ducato di Lucca e in questa città mori nel 1824.

Il 20 dicembre Napoleone nominò il figliastro EUGENIO viceré e Principe di Venezia, la figlia di lui Giuseppina Principessa di Bologna e FRANCESCO MELZI Duca di Lodi; promulgò alcuni statuti che modificavano la costituzione del regno e ricevette i tre collegi elettorali, cui fra le altre cose disse: "…Di ritorno fra voi dopo tre anni di assenza, mi compiaccio di osservare i progressi fatti da questo popolo. Ma quante cose restano a farsi per cancellare le colpe dei vostri padri e rendervi degni dei destini che vi preparo. Le divisioni intestine dei vostri antenati e il loro miserabile egoismo, affrettarono la perdita di tutti i vostri diritti. La patria fu diseredata del suo grado, della sua dignità, essa che nei secoli più remoti aveva portato così lontano l'onore delle sue armi e lo splendore delle sue virtù. Italiani, molto ho fatto per voi: farò ancora di più…".

Quattro giorni dopo lasciò Milano e per Pavia si portò ad Alessandria e a Torino. Ad Alessandria trovò una deputazione inviatagli da Parma, la quale città, al pari di Piacenza, governata con leggi francesi, non sapeva ancora qual'era la sua sorte. Parma fu annessa all'impero nel maggio del 1808 e formò un dipartimento, detto del Taro. Due mesi dopo al CAMBACÉRÈS fu dato il titolo di duca di Parma e un po' più tardi a Lebrun quello di duca di Piacenza.
Il 29 dicembre Napoleone lasciò l'Italia e fece ritorno in Francia.

Secondo i patti fatti a Tilsit, lo Zar doveva cedere ai Francesi Cattaro e Corfù. Della prima andò a prendere possesso, il 16 agosto del 1807, il generale Lauriston, della seconda il generale CESARE BERTHIER, che vi condusse da Otranto tremila soldati in gran parte italiani. Ben presto però Corfù fu bloccata dalla flotta inglese e le comunicazioni con il Regno di Napoli furono rese difficilissime.
Per vettovagliare Corfù, alla quale Napoleone dava una grandissima importanza (perfino ossessionante) come base navale, e nello stesso tempo impadronirsi della Sicilia, Napoleone, prese accordi con il fratello GIUSEPPE, inviò da Tolone il 10 febbraio del 1808 una flotta comandata dall'ammiraglio GANTEAUME. Durante il viaggio questa flotta, che contava quattordici navi da guerra e numerosi trasporti, fu colta dalla tempesta e una squadra, agli ordini dall'ammiraglio COSMAO, si trovò separata dalle altre navi e fu costretta a ripararsi noi porti della Tunisia, da dove poi, sfuggendo alla sorveglianza degli Inglesi, a stento riuscì a raggiungere Taranto.
Il Cosmao chiese istruzioni al re Giuseppe, lo consigliò di andare ad unirsi al Ganteaume, che, rotto il blocco e fatte allontanare le poche navi inglesi, aveva il 1 2 marzo vettovagliata Corfù. Il Cosmao compì il rifornimento scortando da Otranto e da Brindisi navi cariche di soldati e di munizioni. Così in aprile il presidio dell'isola si trovò ad esser forte di undicimila uomini, di cui prese il comando il generale DONZELOT.
L'impresa di Sicilia, che del resto non era facile, fu abbandonata e i Francesi si limitarono a render forte la base di Corfù, la quale fu messa in grado di opporre una resistenza e, infatti, non si arrese che nel 1814, dopo la caduta dell'impero.

Lasciamo le fasi e gli intrighi delle spartizioni
e andiamo a vedere invece i rapporti che Napoleone ha in questo periodo
con lo Stato della Chiesa, e più precisamente quelli con Pio VII...

ed è questo stesso periodo che va 1805 al 1810 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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