ANNO 1813 - 1814

FINE DEL REGNO D'ITALIA
LA CADUTA DI NAPOLEONE

BATTAGLIA DEL TARO E DI REGGIO - MURAT E PIO VII - LORD BERTINCK IN LIGURIA - CADUTA DI NAPOLEONE - LA CONVENZIONE DI SCHIARINO-RIZZINO - I PARTITI A MILANO NEL 1814 - I MOTI MILANESI DEL 20 APRILE E L'UCCISIONE DEL MINISTRO PRINA - LA REGGENZA PROVVISORIA - PARTENZA E FINE DI EUGENIO - GLI AUSTRIACI A MILANO - FINE DEL REGNO D' ITALIA
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Il saccheggio della casa del ministro Prina (da una stampa dell'epoca)

BATTAGLIE DEL TARO E DI REGGIO - GLI ANGLOSICULI IN LIGURIA
CADUTA DI NAPOLEONE - CONVENZIONE DI SCHIARINO-RIZZINO
I MOTI MILANESI DEL 20 APRILE - UCCISIONE DEL MINISTRO PRINA
LA REGGENZA PROVVISORIA - GLI AUSTRIACI A MILANO
FINE DEL REGNO ITALICO


La battaglia del Mincio non ebbe quelle conseguenze che avrebbe potuto avere perché il principe Eugenio non seppe o non riuscì a sfruttare la vittoria inseguendo il giorno dopo il nemico. Forse il vicerè rimase inoperoso perchè temeva di essere assalito al fianco o alle spalle dal re di Napoli, il quale invece era tutto impegnato ad impadronirsi dell'Italia centrale e non voleva scendere in campo contro il principe Eugenio, in primo luogo perchè non aveva ancora potuto vincere la ripugnanza di combattere contro i Francesi, in secondo luogo perchè aspettava che gli giungesse da Vienna la ratifica dell'alleanza.
Più forte la prima causa della seconda, e ne è prova chiarissima il contegno successivo del Murat. Questi, per non esser costretto a battersi con il vicerè, non solo sconsigliò il generale NUGENT, verso la metà di febbraio, di assalire Piacenza, che non avrebbe potuto resistere alle numerose forze austriache che vi erano giunte dei pressi, dopo i combattimenti di Fontanafredda e Cadeo, fino a S. Lazzaro, ma lui abbandonò anche Guastalla, S. Benedetto, Carpi e Novi, ritirandosi tra Modena e Bologna.
Ne seguì che il Nugent dovette ripiegare fin dietro al Taro, e il principe Eugenio ebbe il tempo dì concentrare a Piacenza diciottomìla uomini sotto il comando del generale GRENIER. Questi, sicuro che il MURAT non avrebbe recato aiuto agli Austriaci mantenendo la promessa che il CARASCOSA aveva fatta al generale ZUCCHI in un colloquio avvenuto a Sailetto presso Borgoforte il 28 febbraio, assalì, il 2 marzo, il NUGENT, lo sconfisse costringendolo a ritirarsi in disordine dietro la Secchia e, passata l' Enza, occupò Reggio.
All'indomani della BATTAGLIA DEL TARO, il re MURAT riceveva la ratifica dell' imperatore Francesco al trattato dell'11 gennaio.

Oramai quasi tutta l'Italia centrale era in suo potere; il BARBOU aveva ceduto il 15 febbraio la cittadella di Ancona; il 24 il FOUCHÉ a nome di Napoleone si era impegnato con una convenzione scritta di consegnargli tutti i forti della Toscana e dei dipartimenti romani; il 6 marzo il generale MIOLLIS cedeva Castel S. Angelo.
Il Murat non poteva che essere lieto di tutto questo, ma il pensiero di dover decidersi, dopo la ratifica, a marciare contro il Viceré lo angustiava.

Dello stato d'animo -in agitazione- del re di Napoli in quei giorni fanno testimonianza le sue lettere.
Al METTERNICH scriveva: "…Alleato dell'Austria, mi abbandono interamente alla fiducia che deve ispirare la lealtà dei suoi principi e specialmente quella del sovrano che oggi regna…", ma nello stesso tempo scriveva al cognato NAPOLEONE, con il linguaggio da esaltato: "…La M. V. versa in pericolo. La Francia è minacciata perfino nella sua capitale ed io non posso morire per Voi; l'amico più affezionato di V. M. è in apparenza suo nemico ! Sire, dite una sola parola ed io sacrificherò famiglia e sudditi; io mi perderò, ma vi avrò servito, ma vi avrò provato che fui sempre il vostro amico migliore. Le lacrime che mi riempiono gli occhi m'impediscono di continuare questa lettera. Sono qui solo, in mezzo a stranieri, e debbo nascondere perfino il pianto. Questa lettera, sire, vi rende completamente arbitro dei miei destini; la mia vita è vostra, ho giurato di morire per V. M. Se mi vedeste, se poteste farvi un'idea di quanto soffro da due mesi, ne avreste pietà. Amatemi sempre; io non fui giammai più degno del vostro affetto. Sino alla morte vostro amico…".

La parola che il Murat voleva che il cognato pronunziasse era quella che da tempo bramava: l'unità d'Italia sotto il suo scettro. Date le condizioni in cui si trovava, Napoleone l'avrebbe forse pronunciata quella parola, ma ci voleva tempo prima che giungesse dalla Francia ed intanto il NUGENT si lagnava del contegno dell'alleato e il BELLEGARDE lo esortava a muoversi.

Il 7 marzo, il re di Napoli, costretto ad uscire dall' inerzia, assalì la divìsione SEVEROLI che il GRENIER, tornando alla sinistra del Po, aveva lasciata a Reggio. La battaglia fu impetuosa e in questa si distinsero i generali napoletani GUGLIELMO PEPE (di cui sentiremo parlare molto nei prossimi anni) e MAJO, che dal ponte di S. Maurizio sul torrente Rodano respinsero il nemico fin dentro la città. Il Severoli ebbe una gamba rotta da un colpo di cannone e dovette cedere il comando al generale Rambourg, che chiese - e gli fu concesso - di potersi ritirare oltre il Taro.

Dopo la battaglia di Reggio, poichè il Bellegarde rimaneva sulla sinistra del Mincio (l' 11 marzo distrusse il ponte di Borghetto e abbandonò il villaggio), il re di Napoli rimase sulle posizioni raggiunte e rivolse il pensiero alla Toscana, dove un uomo che non gli era stato mai favorevole, lord BENTINCK, sbarcava proprio in quei giorni a Livorno con un corpo di truppe anglo-sicule destinate ad occupare la Liguria. Il Bentinck voleva fare della Toscana una base per le sue operazioni di guerra e non solo insisteva perché i Napoletani la sgombrassero, ma trattava altezzosamente i Generali LECHI e FILANGIERI, incitava il popolo con proclami a rendersi indipendente, elogiava i Borboni e riaffermava il diritto di Ferdinando IV sul trono di Napoli.
Il Murat si rifiutò di ritirare le sue truppe dalla Toscana e allora il Bentinck si recò a Verona dal BELLEGARDE, sperando d'indurlo a costringere Gioacchino a cedere.

Proprio in quei giorni Napoleone scriveva ad Eugenio che rinunziava all'Italia, eccetto Genova e il Piemonte, e che acconsentiva al vicerè e al Murat di dividersela. Il principe informava di ciò il re di Napoli e il 22 marzo, a S. Giacomo Po, si incontravano i generali Zucchi e Carascosa. Ma le pretese del Murat non erano tali da potere essere accettate da Eugenio; egli infatti voleva che il confine fosse segnato dal Taro e dal Po, che le truppe francesi tornassero in Francia e che le comunicazioni delle Alpi fossero distrutte.
Mentre pendevano le trattative tra il Murat e il Vicerè, che durarono fino ai primi d'aprile, ai fastidi che il Bentinck dava a Gioacchino altri se ne aggiungevano:
* i carbonari abbruzzesi proclamavano in provincia di Teramo il regno costituzionale di Ferdinando IV di Borbone,
* il Papa, liberato da Savona, avanzava nell' Emilia.

A rimettere in ordine l'Abruzzo MURAT ci inviò prima il generale FLORESTANO PEPE (fratello di Guglielmo) poi il generale MONTIGNY; con il Pontefice, che il 23 era giunto a Piacenza, non sapeva come comportarsi; gli mandò incontro, successivamente, i generali Filangieri e Carascosa per indurlo a fermarsi o a cambiare strada, ma Pio VII prosegui per Bologna, dove giunse il 31 marzo.

Quello stesso giorno gli alleati entravano vittoriosi a Parigi.

Il Murat, non potendo evitare l' incontro, andò ad ossequiare il Pontefice a Bologna e fece di tutto per dissuaderlo di proseguire per Roma, ma invano; gli chiese allora che lo riconoscesse re di Napoli, ma si sentì rispondere che avrebbe fatto questo solo quando le altre potenze avessero dato l'esempio. I ministri suggerirono al re di offrire al Pontefice la "chinea", ma Gioacchino si rifiutò e, poiché gli alleati volevano così, restituì al Papa i suoi stati e ne diede notizia il 10 aprile da Bologna con un proclama:

"…Romani, il Capo della Chiesa è restituito alla capitale del mondo cristiano …".
Il BELLEGARDE nel frattempo mandava a Bologna il conte Mier per risolvere la controversia tra re Gioacchino e lord Bentinck, che vi aveva mandato come suo rappresentante sir Robert Wilson. Stavano i negoziati per fallire quando il Murat, persuaso dalla moglie, dal Mier e dal generale russo Balachoff, accettò di incontrarsi con il Bellegarde. Il colloquio ebbe luogo il 9 aprile a Revere, e il re di Napoli, avendo promesso di attenersi al piano di guerra degli alleati, ottenne di lasciare le sue truppe in Toscana, mentre gli Anglo-siculi avrebbero operato in Liguria.

Questi ultimi il 25 marzo erano giunti a Sarzana e l'indomani avevano occupato La Spezia; quindi si erano inoltrati fino a Levanto e Borghetto e avevano respinto le truppe del generale ROUGER SAINT-VICTOR da Sestri e Chiavari fino a Rapallo. Il 9 aprile, il generale PÉGOT, successo al Saint-Victor, si ritirava su Recco e Sori e si rafforzava a Monte Fascia, presso Nervi; qui il 12 aprile respingeva un attacco nemico; nonostante questo successo, si ritirava sulla Sturla, ad Albaro, e il giorno dopo, rimasto ferito, cedeva il comando al generale PIAT.

Lo stesso giorno in cui il Pégot ad Albaro veniva ferito, il re di Napoli, alla testa delle sue truppe e di quelle del Nugent, passò il Taro e costrinse, con una serie di vivaci combattimenti, in cui si distinse il generale GUGLIELMO PEPE, i franco-italiani comandati dal MANCUNE a ritirarsi su Piacenza. Si trovava sotto le mura di questa piazza e pensava al modo d'impadronirsene, quando gli giunse la notizia che gli alleati erano entrati a Parigi.

In due mesi Napoleone aveva perduto tutto quanto il suo genio guerresco aveva fatto conquistare. Assalito da tutte le parti, tradito da qualcuno dei suoi parenti e da uomini politici, ridotto con un esercito di poche diecine di migliaia di uomini stanchi e sfiduciati, non aveva mai cessato di battersi, e se qualche volta era stato sconfitto, spesso poi aveva distrutto il nemico con i suoi ultimi colpi d'artiglio.
Spintosi tra il BLUCHER e lo SCHWARTZENBERG, aveva ottenuta una vittoria a Brienne il 27 gennaio ed aveva toccato una sconfitta alla Rothière cinque giorni dopo, ma tra il 10 e il 18 febbraio aveva vinto i nemici a Champaubert, a Montmirail, a Chàteau-Thierry, a Vauchamps, a Mormant, a Villenueve e a Montereau.

Erano le ultime vittorie; il 20 marzo le sue truppe furono disfatte ad Arcis-sur-Aube; ritirato l'UGEREAU da Lione, questa città era caduta in mano agli Austriaci; uscito il SOULT da Bordeaux, vi erano entrati gli Inglesi; uniti i loro eserciti, il BLUCHER e lo SCHWARTZENBERG avevano respinto i ventimila francesi del Marmont e del Mortier fin sotto Parigi; la sera del 30 marzo, dopo combattimenti sanguinosi, la capitale si era dovuta arrendere e, il giorno dopo, gli eserciti vittoriosi con alla testa lo ZAR ALESSANDRO e il RE DI PRUSSIA avevano fatto il loro ingresso nella capitale della Francia e di un ex impero che non esisteva più.

Il 10 di aprile il Senato, invitato dal TALLEYRAND si riuniva e decretava la formazione di un governo provvisorio e la decadenza dell' Imperatore e della sua famiglia; ma Napoleone, accorso a Fontainebleau con sessantamila uomini entusiasmati dalla sua parola era deciso a gettarsi su Parigi e liberarla dai vincitori e forse la fortuna gli avrebbe arriso, perché quasi tutta la Francia era con lui, se i suoi generali, e molti suoi "amici" al governo, sfiduciati, non lo avessero indotto con il loro contegno (non di amico) ad abdicare.

Il 4 aprile Napoleone abdicò difatti in favore del figlio, il piccolo Re di Roma, ma gli alleati lo costrinsero, due giorni dopo, a dover rinunciare il trono anche per i suoi successori, alle corone di Francia e d'Italia; e il Senato richiamò LUIGI XVIII come sovrano.

Napoleone rimase a Fontainebleau un paio di settimane ancora. Il 20 aprile, accettata la sovranitá dell'isola d'Elba con 1a rendita di due milioni, salutò la vecchia guardia, baciò fra la commozione dei soldati la gloriosa bandiera e si avviò a quello che era già a tutti gli effetti un esilio.

In questo frattempo il principe EUGENIO rimaneva vigile sul Mincio di fronte agli Austriaci ed apprendeva con dolore l'avanzata del Murat verso Piacenza. II 13 aprile, mentre la moglie dava alla luce una bambina, riceveva a Mantova una lettera del BELLEGARDE: "…Io ho l' onore di rimettere a Vostra Altezza Imperiale dei documenti ufficiali che Vi mostreranno le reali condizioni della Francia e Vi proveranno che dipende solo da Voi di trovarvi in stato di pace con l'esercito da me comandato. Io vi invito a comunicarmi le vostre decisioni, lusingandomi che la vostra risposta sia conforme ai voti della Francia e agli ordini delle autorità che la governano…"

LA CONVENZIONE DI SCHIARINO-RIZZINO

Ad Eugenio non rimaneva che venire ad accordi. Sospese le ostilità, il giorno 15 furono iniziate le conversazioni e il 16, nel castello di Schiarino-Rizzino, tra i generali DODE e ZUCCHI da parte del Regno d'Italia e il generale NEIPPERG per l'Austria, fu stipulata una convenzione.
In virtù di essa, doveva esservi tregua fra gli eserciti del principe Eugenio e quelli del Bellegarde, del Murat e del Bentinck; le truppe francesi del Regno dovevano rientrare nei vecchi confini della Francia passando per il Moncenisio o il Monginevro; le truppe italiane dovevano tenere quelle piazze del Regno non ancora occupate dagli alleati; le trippe austriache potevano attraversare il regno d'Italia per le strade di Cremona e di Brescia, dieci giorni dopo però che i Francesi si fossero messi in marcia per rientrare in patria; una deputazione poteva essere spedita dal principe Eugenio in Francia per conoscere le intenzioni degli alleati sulla sorte del Regno e se le decisioni loro non fossero state di gradimento degli Italiani le ostilità non potevano ricominciare che quindici giorni dopo la denuncia dell'armistizio; entro il 20 aprile dovevano essere consegnate agli Austriaci le fortezze di Palmanova, Osoppo, Venezia e Legnago, le cui guarnigioni avrebbero avuti gli onori di guerra; infine le autorità civili potevano uscire dalle piazze purché rimettessero a quelle austriache le carte, i documenti e gli archivi riguardanti la loro amministrazione…".

Il 17 aprile il principe Eugenio si congedò dai suoi commilitoni francesi rivolgendo loro (ma indirettamente anche agli italiani -ne parleremo più avanti) un commosso proclama: "… Mi sarebbe stato di enorme gradimento potervi io ricondurre. In altre circostanze non avrei ceduto a chicchessia la cura di guidare alla meta del riposo quei bravi che hanno proseguito con una devozione così nobile e così costante i sentieri della gloria e dell'onore. Ma separandomi da voi, mi rimangono altri doveri da compiere. Un popolo buono, generoso e fedele reclama il resto di un'esistenza che gli è consacrata da circa dieci anni. Io non pretendo più disporre di me stesso finché potrò occuparmi della sua felicità, che è stata e sarà l'opera di tutta la mia vita …".

Il principe Eugenio, come si evince da questo proclama, sperava molto di poter succedere a Napoleone sul trono del regno italico ed aveva molte probabilità di riuscirci. Presso gli alleati, com'era naturale, intercedeva in favore di lui suo suocero re di Baviera, e anche lo zar Alessandro lo avrebbe visto volentieri sovrano di uno stato indipendente nel nord della penisola; inoltre erano con lui molti ufficiali superiori, i francesi Stefano Méjean ed Antonio Darnay, uomini di fiducia del Viceré, e tutti quegli "italiani forestieri", cioè non lombardi, che erano saliti alle più alte cariche e venivano chiamati le "marsine ricamate".

Certo quello del principe Eugenio non era il partito più forte. Per tacere dei pochi che favorivano le ambizioni del generale PINO e dei partigiani del MURAT, che godeva le simpatie del direttore di polizia GIACOMO LUINI, dei generali MAZZUCCHELLI e T. LECHI e di non pochi gregari della massoneria; vi era un partito austriacante capitanato dal pavese conte GAMBARANA, dal conte ALFONSO CASTIGLIONI, dal bolognese conte GHISLIERI, dal veneziano marchese MARUZZI e dai conti GIACOMO MELLERIO, DIEGO GUICCIARDI, CARLO VERRI, che disponeva di molte forze; ed un altro, numerosissimo, detto degli "Italici", fra cui militava il conte FEDERICO CONFALONIERI, che caldeggiava l'indipendenza del regno senza Eugenio.

Uno dei capi più ragguardevoli della fazione del vicerè era il MELZI, il quale aveva consigliato il principe di convocare a Milano i tre Collegi elettorali affinché lo proclamassero sovrano del regno italico indipendente e di invitar poi il Senato e i Comuni a ratificare l'atto dei Collegi. Incalzando gli avvenimenti, si tralasciò di convocare i Collegi elettorali e fu invece convocato il Senato in seduta straordinaria.
Il giorno 17 si riunì. Non era presente il cancelliere Melzi, trattenuto a letto dalla gotta che lo travagliava, ma aveva inviato un messaggio con il quale invitava il Senato a scegliere due suoi membri e ad inviarli a Parigi per ottenere dagli alleati la conservazione del regno italico come stato indipendente sotto lo scettro del principe Eugenio. Del messaggio del Melzi diede lettura il reggiano VENERI, presidente, quindi si levò a parlare il cancelliere del SENATO DIEGO GUICCIARDI, che respinse le proposte del Melzi; infine il ministro VACCARI modenese, diede notizia dell'armistizio stipulatosi il giorno prima a Schiarino-Rizzino ed esortò i senatori, se volevano evitare l'occupazione austriaca di Milano, e mandare a Parigi una deputazione, seguendo l'esempio dell'esercito che aveva acclamato re il principe.

Il Senato però stabili di chiedere spiegazioni al Melzi e nominò a questo scopo una commissione di sette membri che doveva il giorno stesso riferire sui risultati del colloquio.
La sera stessa il Senato tornò a riunirsi e il conte DANDOLO lesse il rapporto della commissione, la quale chiedeva che si inviasse a Parigi una deputazione per chiedere l'indipendenza del regno italico ma senza far parola del Viceré. Insorsero allora i ministri VACCARI e PRINA, il quale propose di aggiungere un articolo sull'eventuale diritto di Eugenio al trono, ma il GUICCIARDI fece osservare che, abdicando l'Imperatore, lo scettro toccava al Re di Roma e CARLO VERRI, senza sottintesi, disse che la popolazione non desiderava come sovrano Eugenio. La seduta continuò molto animata e alla fin fine tutti furono d'accordo di dare ai deputati l'incarico di esprimere ai sovrani alleati ".. i sentimenti di ammirazione del Senato per le virtù del principe Vicerè e della sua riconoscenza per il di lui governo…".

La deputazione risultò composta da DIEGO GUICCIARDI, da LUIGI CASTIGLIONI e dal ministro TESTI, il quale ultimo però, fingendosi ammalato, declinò l' incarico.
La notizia della seduta straordinaria del Senato e dell'invio di una deputazione a Parigi, sebbene non si conoscessero con precisione le istruzioni date al Guicciardi e al Castiglioni, provocò un grave fermento fra i partiti, che colsero l'occasione per sfogare il loro malanimo contro il Senato e i "forestieri". Gli "Italici" protestarono che la sovranità non spettava al Senato, ma ai Collegi elettorali, rappresentanza legittima della nazione, che doveva subito essere convocata.
In casa del FREGANESCHI fu stesa una protesta, la quale diceva "…essere opinione universale, che nel Senato si fosse definito un affare della maggiore importanza per il regno, ma che nulla era stato comunicato al pubblico. Che se nelle attuali straordinarie vicende era necessario di invocare straordinari provvedimenti, si riteneva indispensabile, per coerenza ai principi della costituzione, che fossero convocati i Collegi elettorali, nei quali soli in quelli risiedeva la legittima rappresentanza della nazione…".

La protesta fu nei giornì 18 e l9 firmata da persone di tutti i partiti, in numero di oltre centocinquanta fra cui il PINO, il PORRO LAMBERTENGHI, il CONFALONIERI, il TRIVULZIO, il FAGNANI, il podestà conte DURINI ed ALESSANDRO MANZONI.
Intanto veniva pubblicato il saluto del Viceré ai commilitoni francesi, saluto che però sembrò tendenzioso ai partiti contrari ad Eugenio, i quali - come dice il FOSCOLO - ci videro che Eugenio "…voleva illudere gli Alleati facendo credere che gli italiani lo preferivano ad ogni altro Principe, o illudeva gli italiani, quasi che gli Alleati lo avessero investito con trattative segrete del principato di una parte almeno del regno…".

Il 19 aprile molti cittadini si recarono dal podestà incaricandolo di consegnare al presidente VENERI la protesta. Nel medesimo tempo, i caporioni dei vari partiti si mettevano d'accordo per un'azione concorde contro il Senato e i partigiani del viceré; il conte VAMBARANA, dietro consiglio dell'avvocato TRAVERSA, faceva venire a Milano dal novarese e dalle altre province, uomini risoluti, pagati a sei lire al giorno e con promessa di maggior ricompensa se uccidevano qualche pezzo grosso; e perché i tumulti che si preparavano non potessero esser repressi dalla forza pubblica, il generale Pino sguarniva la città della maggior parte delle truppe, inviando alla volta di Varese e di Sesto Calende due colonne con il pretesto di difendere i ponti sul Ticino da nessuno minacciati.
Il MELZI, sospettando che qualche cosa di grave si preparasse, scrisse a Eugenio, che era a Mantova, di accorrer subito nella capitale o di mandarvi un buon contingente di truppe. "… Il fermento degli animi - gli scriveva fra l'altro - cresce a Milano e ne è senza dubbio causa l'odio profondo, universale contro i Francesi…".
Ma Eugenio non andò a Milano, né ci mandò dei soldati, tanto necessari al mantenimento della quiete pubblica, essendo stato per il 20 aprile convocato in seduta straordinaria il Senato; e sola o entrambe le due cose, non avrebbero mancato di suscitar disordini e violenze.

Preoccupato dalla presenza in città di tanta gente delle province, il DE CAPITANI, .che reggeva provvisoriamente il ministero degli Interni, la mattina del 20 si recò al ministero della guerra, retto, in assenza del FONTANELLI, dal generale BIANCHI D'ADDA e chiese che si mantenesse pronto un numero conveniente di truppe per fronteggiare una eventuale critica situazione. Quando seppe che due colonne erano state inviate a Varese e a Sesto Calende, chiese subito il rientro, ma il Bianchi, uomo timido e irresoluto, rispose che non aveva istruzioni al riguardo e consigliò al De Capitani di rivolgersi al generale PINO, che si trovava a Milano. Il Pino fu pregato di assumere il comando delle sparute forze rimaste a Milano; e che queste restassero consegnate nelle caserme.

Era una giornata piovosa quella del 20 aprile e davanti al palazzo del Senato, custodito da pochi dragoni a piedi e da una diecina di soldati del 9° di linea, stazionava molta gente, che stava a guardare i senatori che si recavano alla seduta ed applaudiva a coloro che erano avversari del governo e fischiava quelli che ne erano i sostenitori.
Apertasi la seduta fu data lettura del verbale della riunione precedente, quindi il VENERI comunicò la protesta e la lettera che il podestà conte Durini ne era latore. Aveva appena il presidente finito di parlare quando entrò nell'aula il capitano MARINI, il quale chiese ed ottenne che per quel giorno anziché dai soldati regolari, il Senato fosse custodito dalla Guardia Civica.
La folla, vedendo allontanare i soldati, cominciò imbaldanzita rumoreggiare. Uscì dall'aula per calmarla il conte VERRI, ma non riuscì a far cessare gli schiamazzi e le minacce. Per ben tre volte si presentò davanti alla ressa, ma sempre invano. Uno sconosciuto gli porse un foglio in cui c'era scritto che l'Italia doveva imitare la Spagna e la Germania le quali avevano scosso il giogo francese; un altro gridò che la folla voleva sapere che cosa il Senato aveva deliberato nella seduta; il Verri rispondendo che il Senato aveva stabilito di chiedere ai sovrani alleati la fine delle ostilità e l'indipendenza del regno, la folla urlò: "Abbasso il Viceré ! Abbasso il Senato ! Siano convocati subito i Collegi elettorali !"

Ritiratosi il Verri, la folla si fece minacciosa e il tumulto aumentò. Allora il VENERI firmò un foglio in cui era scritto: "… Il Senato richiama la deputazione e convoca i Collegi elettorali. La seduta, è sciolta …".E mentre i Senatori, impauriti, siallontanavano, si comunicò la decisione alla folla, la quale penetrò nell'aula, chiedendo ad alta voce il PRINA, ministro delle finanze, che il popolo odiava perchè lo considerava come il rappresentante del sistema vessatorio del governo napoleonico. Il Prina non c'era perchè non era venuto alla seduta, e allora i dimostranti si sfogarono distruggendo quanto trovarono nel Palazzo. Il conte Federico Confalonieri - secondo alcuni - colpì con la punta dell'ombrello il ritratto di Napoleone, opera dell'Appiani, e, fattolo a brani, lo buttò nella strada.

Questo tumulto si sarebbe indubbiamente evitato se il Pino non l'avesse favorito con la sua condotta. Egli infatti non solo non mandò sul luogo dei tumulti le truppe consegnate nelle caserme ma non si curò nemmeno di concedere il permesso all'intendente di finanza Frigerio di accorrere con i duecento uomini che teneva in S. Giovanni alle Case Rotte e quando il prefetto di polizia Villa mandò contro i dimostrarti il capobattaglione Vercellon con quaranta granatieri e il capitano Bosisio con ventotto dragoni, egli ordinò loro per mezzo del suo aiutante di campo colonnello Luigi Ciuuq di condurre quei soldati nel castello e di tenerveli chiusi fino a nuovo ordine.

Sazia del saccheggio, la folla intanto era uscita dal Senato e tutto forse sarebbe finito se una voce non avesse gridato: A San Fedele !, alludendo al palazzo Marino in cui abitava il ministro Prima. Questi, qualche giorno prima, consigliato da amici e da parenti ad allontanarsi dalla città, s'era rifiutato; quello stesso giorno non aveva voluto ascoltare le preghiere del viceparroco di S. Fedele di nascondersi nei sotterranei della chiesa e solo quando seppe che la folla lo cercava era andato a rifugiarsi nella soffitta.
Quel nascondiglio però non salvò l' infelice ministro. Scovato dalla folla, che aveva messo a sacco il palazzo, fu trascinato nel pianterreno e di li scaraventato da una finestra nella via dove venne accolto a colpi di ombrello. Dicesi che il generale Pino e il conte Porro -Lambertenghi sconsigliassero il popolo dall' infierire contro il Prina.

Se è vero, avrebbe fatto meglio il generale a mandare in difesa del disgraziato un manipolo di soldati. Pochi furono quelli ch'ebbero pietà del Prina. Alcuni riuscirono a spingerlo nell'ingresso della casa Blondel, ma la plebaglia lo trasse di nuovo nella via e ricominciò ad insultarlo e a percuoterlo; in piazza S. Fedele, approfittando di un momento di confusione, alcuni coraggiosi lo fecero rifugiare nella casa del vinaio Perelli; ma la folla, inferocíta, voleva la sua vittima e cominciò a lanciar sassi alle finestre e a reclamare il ministro, invano esortata ad allontanarsi dal poeta Ugo Foscolo e dal cantante Filippo Galli. Il generale Pevri, scambiato pel Prina, a stento riuscì a sottrarsi all'ira del popolaccio. II quale, deciso a riavere nelle mani il ministro, cercava di sfondare la porta e ammucchiava fascine per dar fuoco alla casa, quando il Prina eroicamente si presentò alla folla e, percosso, insultato, punzecchiato, fu per ben quattro ore trascinato per le vie della città, e alfine, ridotto in uno stato pietoso, venne trascìnato al Cordusio, legato ad un asse e appoggiato alla casa del Demanio, alla quale la plebaglia decise dì appiccar l' incendio.

Mentre tutto ciò si svolgeva, all' invito del podestà numerosi cittadini s'erano radunati nei quartieri della Guardia Cìvica. Due divisioni vennero costituite e tosto si mossero verso il Cordusio, dolade la plebe si diede alla fuga. Allora, temendosi che la, plebaglia tornasse a riunirsi e facesse altre vittime, furono aperte le caserme e il Pino fece leggere un suo proclama, col quale esortava la popolazione alla calma e prometteva che il giorno dopo si sarebbero convocati i Collegi elettorali.
Il corpo del Prina, privo di vita, fu portato nel cortile del Broletto. Era irriconoscibile, pure a giudizio dei medici nessuna delle moltissime ferite ricevute era mortale e si dovette concludere che l' infelice ministro fosse morto per l'angoscia e lo spavento. Il cadavere, durante la notte, fu portato al cimitero fuori porta Comasina e sulla sua sepoltura non venne messo segno alcuno.

Quella medesima notte il conte Durini convocò il Consiglio comunale, che si radunò riel palazzo del Broletto sotto la presidenza del conte Ci. Luca della Somaglia. Si stabilì di riunire i Collegi elettorali e si formò una Reggenza provvisoria che risultò composta dei conti Gilberto Borromeo, Giorgio Giulini, Alberto Litta, Giacomo Medlerio e Carlo Verri, di Giovanni Bazzetta e del generale Pino. Segretario fu il barone Giuseppe Pallavicini.

La Reggenza, installatasi nel palazzo reale, stabilì che il distintivo nazionale fosse la coccarda bianca e rossa, diminuì il prezzo del sale e del tabacco, il dazio consumo e la tariffa postale, abolì la tassa, del registro ed esonerò dal servizio militare . i figli unici. La mattina del 21, poichè dalle campagne erano venute numerose persone col proposito di saccheggiare la città, la Reggenza organizzò prontamente una milizia volontaria che disperse facilmente i facinorosi e ristabilì l'ordine, molto prima che, mandati dal Municipio, i conti Luigi Porro e Giovanni Serbelloni giungessero al quartier generale del Bellegarde e il barone Sigismondo Trecchi a quello di lord Bentine.k, recando agli Austriaci e agli Anglosiculi I' invito di occupare la città.

Il vicerè, prima di venire a conoscenza dei fatti del 20 aprile, seguendo i consigli del Melzi, il giorno stesso in cui avvenivano i tumulti milanesi, aveva mandato al Pino nn decreto col quale ordinava la convocazione dei Collegi elettorali pel 10 maggio e nominava una Reggenza provvisoria presieduta dal Melzi e composta dei ministri, di due senatori, dì due consiglieri di Stato e di tre notabili della capitale. Ma il 21, essendo stato informato degli avvenimenti di Milano, scrisse al Pino, pregandolo di assumere il comando supremo delle forze e di scongiurare nuovi disordini. Il giorno dopo giunsero a Mantova il Castìglionì e il Gizìceiardi, i quali, apprese le notizie milanesi, rinunziarono di proseguire per Monaco e fecero ritorno alla capitale.

La mattina del 22, dietro ordine del METTERNICH, il generale FIQUELMONT si presentò al viceré e in nome degli Alleati gli chiese la consegna del Regno. Quel giorno stesso, tra i generali FIQUELMONT e ZUCCHI, fu conclusa una convenzione militare con il quale il principe consegnava al BELLEGARDE quello che era stato il regno italico.
La notizia della convenzione mise in gran fermento gli ufficiali dell'esercito italiano i quali non solo non volevano umiliarsi a sottomettersi agli Austriaci senza essere stati vinti, ma, preoccupati della loro carriera, dichiararono che non avrebbero ceduto Mantova se prima non ricevevano garanzie circa il loro avvenire.

I generali TEODORO, LECHI, PALOMBINI, PAOLUCCI anzi partirono per Milano con il proposito di invitare il PINO ad unirsi a loro e impedire agli Austriaci che occupassero il regno, ma il generale Pino rispose loro sorridendo: "…Non parliamo, cari amici, di queste cose; eseguite la convenzione; abbiate piena ed intera fiducia sulle intenzioni degli Alleati poiché essi vogliono, siatene ben certi, l'indipendenza italiana quanto e più di quello che noi medesimi desideriamo…"

Il 26 aprile il principe Eugenio salutò con un proclama il popolo d'Italia e il 27 lasciò Mantova, salutato con intensa commozione da quei compagni d'arme che gli erano rimasti fedeli. Appena giunse a Verona, scrisse una lettera ai generali FONTANELLA e BERTOLETTI a Parigi affinché cessassero di patrocinare presso gli alleati la sua causa e il 30 congedatosi dal Bellegarde, partì per Monaco. Ebbe, dopo Waterloo, oltre i beni di sua proprietà in Italia e le donazioni ricevute da Napoleone; un'indennità di cinque milioni; godette le rendite del principato di Eichstadt assegnategli dal suocero e visse ancora dieci anni una vita privata e modesta. Si spense a Monaco il 24 febbraio del 1824 e la moglie gli eresse nella cattedrale un monumento col motto "Onore e Fedeltà".

Mentre a Milano la plebe tumultuava, il generale SERRAS, in seguito alla convenzione di Schiarino-Rizzino, consegnava agli Austriaci Venezia (20 aprile), il cui arsenale con la flotta e l'intero materiale da guerra fu, il 22, consegnato dall'ammiraglio francese DUPERRÈ all'Austria.
Quel giorno stesso si riunirono a Milano i Collegi elettorali, che elessero presidente il conte LODOVICO GIOVIO, confermarono la Reggenza provvisoria e al generale PINO il comando di tutte le forze dello Stato; sciolsero tutti i funzionari civili e militari dall'obbligo di fedeltà al viceré; abolirono il Consiglio di Stato e il Senato; dichiararono nulla la deputazione mandata a Parigi; liberarono i prigionieri politici e i detenuti per renitenza e diserzione; nominarono una nuova deputazione composta dai nobili MARC'ANTONIO FE DI BRESCIA, SERAFINO SOMMI di Cremona, FEDERICO GONFALONIERI, ALBERTO LITTA, G. GIACOMO TRIVULZIO, G. LUCA DELLA SOMAGLIA milanesi e dei banchieri GIACOMO CIANI e PIETRO BALABIO, pure di Milano, con GIACOMO BECCARIA come segretario, la quale doveva recarsi a Parigi e chiedere alle potenze alleate:

* l'indipendenza assoluta del nuovo Stato;
* la maggiore estensione possibile dei confini;
* una Costituzione liberale;
* la stessa redatta dalla rappresentanza nazionale
* assicurare la libertà individuale;
* libertà del commercio e quella della stampa;
e infine un governo monarchico ereditario con il giusto grado di primogenitura ereditario; e un principe la cui origine e le cui doti possano fare dimenticare i mali sofferti durante il governo caduto.

Forse a Milano erano convinti di aver vinto la guerra!!
Ma l'illusioni durò solo poche ore.

Il 26 entrava a Milano con un contingente di soldati austriaci il marchese
ANNIBALE SOMMARIVA e pubblicava il seguente; bando:

" Il commissario imperiale Annibale Sommariva ciambellano, capo dell'Ordine di Maria Teresa, generale tenente maresciallo, colonnello proprietario di un reggimento di corazzieri di S. M. l'Imperatore d'Austria, prende possesso in nome delle Alte Potenze Alleate, i dipartimenti, i distretti, le città e i luoghi tutti, appartenenti al Regno d'Italia e anche dove le truppe alleate non li hanno ancora conquistati. Esorta il popolo italiano di aspettare con calma e fiducia quella più felice sorte, che ben presto daranno all'Europa grazie ai gloriosi fatti d'arme degli Augusti Sovrani alleati i preziosi benefici della pace. Conferma la Reggenza provvisoria di Milano, così anche i pubblici ufficiali che sono in carica presentemente nella città suddetta e negli altri luoghi summenzionati.."

I Collegi elettorali si aggiornarono nell'attesa che venissero da Parigi le decisioni delle potenze alleate e il 27 la Reggenza provvisoria pubblicò un manifesto in cui fra l'altro si diceva:

"….Gli eserciti delle alte Potenze coalizzate entrano ora in questa parte del territorio italiano, che esse non avevano ancora occupato. Le alte Potenze vogliono l'ordine e il benessere della nazione. Esse non hanno preso le armi solo per il maggior bene dei popoli; e nessuno ha mai combattuto se non sotto l'impulso di principii più generosi.
Questi principii saranno tramandati alla posterità dalla storia, che scriverà fra i nomi immortali quelli dei sovrani oggi regnanti. Ricordatevi, o Italiani, di queste intenzioni benevole dei sovrani; accogliete come liberatori i soldati che hanno esposto la loro vita per la vostra salvezza, e riceveteli con l'ospitalità che a loro è dovuta ".


Il giorno dopo, il 28 aprile 1815, da porta Romana, entrò il generale NEIPPERG alla testa delle truppe austriache. Milano, di fatto, non era più la capitale del regno d'Italia, eppure (sognando, illudendosi) molti speravano ancora nell'indipendenza e in ciò che in favore dell'Italia avrebbe fatto l'Inghilterra; i patrioti guardavano con fiducia al generale MACFARLANE, giunto il 17 da Genova con il TRECCHI, e a sir ROBERT WILSON, e aspettavano notizie dalla deputazione mandata a Parigi.
Ma i deputati a Parigi, fin dai primi vaghi colloqui, si erano accorti che il regno era oramai in piena balia dell'Austria. Il 7 maggio furono ricevuti dall'imperatore Francesco, che tolse loro tutte le ultime illusioni, dichiarando: "… Voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista; vi amo come miei buoni sudditi e come tali nulla mi starà più a cuore della vostra salvezza e del vostro bene…"
Intanto da Milano partivano il MACFARLANE, il WILSON e il BENTINEK, che vi aveva fatto una rapida apparizione, e subito dopo vi giungevano diciassettemila Austriaci comandati dal maresciallo BELLEGARDE, plenipotenziario dell'Imperatore.

Il 26 maggio erano sciolti i Collegi elettorali, e il 12 giugno un proclama del maresciallo annunciava che le province lombarde erano state annesse all'impero austriaco:

"… Noi siamo convinti che gli animi vostri nel contemplare un'epoca felice
saranno pieni di gioia; felicità e gioia pari alla nostra.
La vostra riconoscenza trasmetterà alle future generazioni
una prova indelebile della vostra devozione e fedeltà ".

DOPO LA REPUBBLICA, FINIVA COSI' ANCHE IL REGNO D'ITALIA

Via uno straniero, dentro un altro.
Dobbiamo ora andare al capitolo delle Restaurazioni,
all'ultima pazzia del Murat, al ritorno di Pio VII a Roma e dei Borboni a Napoli,
a qualche rimpianto di Napoleone, alle prime cospirazioni, ed infine
al Congresso di Vienna con gli articoli che riguardano l'Italia...

Continuiamo quindi questo periodo che va dal 1814 al 1815 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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