ANNI 1816 - 1820

RESTAURAZIONE DE' BORBONI -- CONCORDATO - I MOTI NAPOLETANI
LA COSTITUZIONE DATA E GIURATA

FERDINANDO I DI BORBONE E IL "REGNO DELLE DUE SICILIE" - I DECRETI DELL' 8 E DELL'11 DICEMBRE 1816 - MALCONTENTO DEI SICILIANI E DEI NAPOLETANI - SANTA SEDE: TESTO DEL CONCORDATO DEL 16 FEBBRAIO 1818 - DISSESTO ECONOMICO DEL REGNO - TRATTATI COMMERCIALI - I NUOVI CODICI ISTITUZIONE IN NAPOLI DEL COMITATO CENTRALE DELLA CARBONERIA - DISEGNI PER UN'INSURREZIONE
GAETANO RODINO' - IL GOVERNO E L'AZIONE DEI CARBONARI - LUIGI MINICHINI - IL CAMPO DI SESSA - LE TITUBANZE DEI CARBONARI - I CARBONARI DI SALERNO E IL GENERALE PEPE - I TENENTI MORELLI - INIZIA A NOLA IL MOTO RIVOLUZIONARIO - LA MARCIA SU AVELLINO - DE CONCILIJ CAPO DEGLI INSORTI - GUGLIELMO PEPE ALLA TESTA DELL'INSURREZIONE - FERDINANDO I CONCEDE LA COSTITUZIONE - IL PRINCIPE VICARIO - I NUOVI MINISTRI - LA GIUNTA PROVVISORIA - GLI INSORTI ENTRANO A NAPOLI - IL RE GIURA LA COSTITUZIONE - TESTO DELLA COSTITUZIONE - LA CONVOCAZIONE DEI COMIZI ELETTORALI

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I due tenenti dell'esercito napoletano, Michele Morelli e Giuseppe Silvati che in Nola,
il 2 luglio 1820, iniziarono la rivoluzione costituzionale.

IL « REGNO DELLE DUE SICILIE » - IL CONCORDATO CON LA SANTA SEDE
CAUSE DI MALCONTENTO


A Vienna, al Congresso, l'articolo 104 dell'atto finale, aveva consentito a FERDINANDO di BORBONE di procedere alla definitiva unificazione del regno con l'annessione della Sicilia al nuovo Stato.

La denominazione Regno delle Due Sicilie derivò dal fatto che il reame borbonico si estendeva al di qua e al di là del Faro (stretto di Messina), cioè al di qua e al di là della Sicilia. Tale denominazione fu approvata con Statuto dell'11 dicembre 1816. Il Regno delle Due Sicilie, con capitale Napoli, ed era diviso nelle seguenti province: Al di qua del Faro (continente) · Napoli (capoluogo Napoli); · Terra di Lavoro (capoluogo Caserta); · Principato Citeriore (capoluogo Salerno); · Basilicata (capoluogo Potenza); · Principato Ulteriore (capoluogo Avellino); · Capitanata (capoluogo Foggia); · Terra di Bari (capoluogo Bari); · Terra d'Otranto (capoluogo Brindisi); · Calabria Citeriore (capoluogo Cosenza); · Calabria Ulteriore Prima (capoluogo Catanzaro); · Calabria Ulteriore Seconda (capoluogo Reggio); · Molise (capoluogo Campobasso); · Abruzzo Citeriore (capoluogo Chieti); · Abruzzo Ulteriore Primo (capoluogo Aquila); · Abruzzo Ulteriore Secondo (capoluogo Teramo). Al di là del Faro (Sicilia) · Palermo (sede del Luogotenente del Re); · Catania; · Messina; · Siracusa; · Girgenti; · Caltanissetta; · Trapani.
(Per quanto riguarda la popolazione: nel Settimo Libro della "Geografia Statistica Mondiale della Geografia Universale" del Marmocchi", edita nel 1855 (una delle uniche e più complete allora in circolazione) riportava questi dati indicandoli che sono all'incirca degli anni 1825-1840.
Popolazione Totale circa 8.000.000 di abitanti - NAPOLI 420.000 - AVELLINO 16.000 - CASERTA 20.000 -SALERNO 14.000 - CHIETI 17.000- CAMPOBASSO 8.000 - TERAMO 9.000 -FOGGIA 22.000 - LANCIANO 16.000 - BARI 22.000 - TRANI 19.000 - BITONTO 18.000 - LECCE 22.000 - BARLETTA 24.000 -TARANTO 18.000 - COSENZA 17.000 - CATANZARO 14.000 - REGGIO 23.000 - PALERMO 185.000 - CATANIA 52.000 - TRAPANI 30.000 - CALTANISSETTA 18.000 - CORLEONE 18.000 -ALICATA 14.000 - MARSALA 22.000 - SCIACCA 18.000 - SIRACUSA 20.000 -ACIREALE 18.000 - NOTO 20.000 - RAGUSA 18.000 - I. LIPARI 14.000
(circa 1.200.000 abitanti in queste città, 6.800.000 in altri piccoli comuni).

I decreti di quest'unificazione estesero sull'Isola alcune riforme già introdotte a Napoli nel decennio murattiano, come pure quell'organizzazione amministrativa provinciale e comunale sorta nel Regno di Napoli durante il periodo francese. Ma per quanto accettabile, suscitarono la forte opposizione non solo dei borghesi liberali e del popolo, ma anche negli ambienti baronali. Sotto la precedente amministrazione, pur regnando Ferdinando (quando si era rifugiato in Sicilia - ma lo abbiamo visto nelle precedenti puntate - erano gli inglesi ad aver imposto e a guidare un governo) in quel periodo, perfino negli ambienti conservatori nacquero sentimenti indipendentistici. Ora con la Restaurazione, con il ritorno di Ferdinando e con l'unificazione, la grande delusione riuscì a condensare nei fermenti democratici, gruppi liberali di estrazione borghese e a far sviluppare il movimento carbonaro. Ma non erano assenti né i baroni né alcuni preti. Inquietudini che ben presto - come vedremo - si diffonderanno rapidamente dando origine a focolai insurrezionali.
Fermenti che scoppiano prima a Napoli e, approfittando della confusione, la Sicilia si ribella proclamando la sua indipendenza (Di quest'ultima dedicheremo il successivo capitolo).

Qui iniziamo con i fermenti di Napoli dopo il rientro del re. L'8 dicembre del 1816, Ferdinando di Borbone emanava da Caserta il seguente decreto:

" Il congresso di Vienna nell'atto solenne cui deve l'Europa il ristabilimento della giustizia e della pace, confermando la legittimità dei diritti della nostra corona, ha riconosciuto noi e i nostri eredi e successori, re del Regno delle Due Sicilie. Ratificato con tale atto da tutte le potenze volendo noi, per quanto ci riguarda, mandarlo pienamente ad effetto, abbiamo determinato di ordinare e costituire per legge stabile e perpetua dei nostri Stati le disposizioni seguenti:
I. - Tutti i nostri reali domini al di qua e al di là del Faro costituiranno il Regno delle Due Sicilie.
II. - Il titolo che noi assumiamo fin dal momento della pubblicazione della presente legge è il seguente: FERDINANDO I, per grazia di Dio, re del Regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme, ecc., infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza, Castro, ecc. ecc., gran principe ereditario di Toscana ecc. ecc. ecc.
III. - Tutti gli atti che emaneranno da noi o che saranno spediti nel nostro nome da' funzionari pubblici nel nostro Regno delle Due Sicilie, porteranno nell'intestazione il titolo che abbiamo enunciato nell'articolo precedente.
IV. Le plenipotenze e patenti che si trovano date ai nostri ambasciatori, ministri ed agenti qualunque presso le potenze estere saranno immediatamente ritirate e contraccambiate nel tempo medesimo con altre da spedirsi a tenore dell'art. secondo.
V. - La successione nel Regno delle Due Sicilie, sarà perpetuamente regolata con la legge del nostro augusto genitore Carlo III, promulgata in Napoli nel dì 6 d'ottobre dell'anno 1759.
VI. - Stabiliamo una cancelleria generale del Regno delle Due Sicilie, che sarà sempre nel luogo della nostra ordinaria residenza, e sarà presieduta da uno dei nostri segretari di Stato ministri, il quale avrà il titolo di ministro cancelliere del Regno delle Due Sicilie.
VII. - Si terrà in essa cancelleria generale il registro ed il deposito di tutte le leggi e decreti che saranno emanati da noi

Seguivano altri tre articoli in cui si fissavano le attribuzioni del ministro cancelliere, s'istituiva un supremo consiglio di cancelleria e si annunciava la pubblicazione di una legge particolare che avrebbe regolato l'organizzazione interna della cancelleria generale.

Dall'8 di dicembre del 1816 il Borbone quindi non era più FERDINANDO IV di Napoli e Ferdinando III di Sicilia, ma FERDINANDO I delle Due Sicilie; e inoltre non era più sovrano di due regni separati, ma di uno solo. A questo la Sicilia dava, in certo qual nodo, il nome; ma essa perdeva l'autonomia alla quale tanto teneva, la costituzione che le si era promesso di mantenere. Da regno diventava semplice provincia e perciò non era né poteva essere contenta di quella unificazione che, se allora poteva sembrare, come l'unione della Liguria al Piemonte, un fatto che rendeva più facile l'avvento storico dell'unità, per i Siciliani rappresentava una menomazione dei loro diritti secolari, un grave danno ai loro interessi economici, un'offesa al loro orgoglio e un atto d'ingratitudine del re verso l'isola, che gli era stata fedele nell'ora più critica di Ferdinando e Maria Carolina.

Per render meno dura ai Siciliani la perdita dell'autonomia, Ferdinando emanava, l'11 dicembre del 1816, un secondo decreto, con il quale affermava di voler
"confermare i privilegi concessi da noi e dai sovrani nostri augusti predecessori ai nostri carissimi siciliani, e combinare insieme la piena osservanza di tali privilegi con l'unità delle istituzioni politiche che debbono formare il diritto pubblico del nostro Regno delle Due Sicilie"

Il decreto costava di dodici articoli, di cui riportiamo i primi undici:

I. - Tutte le cariche ed uffici civili ed ecclesiastici della Sicilia al di là del Faro saranno conferiti privatamente ai Siciliani a tenore dei capitoli dei sovrani nostri predecessori, senza che possano aspirarvi mai gli altri sudditi di nostri reali domini al di qua del Faro, nello stesso modo che i Siciliani non potranno aspirare alle cariche ed agli uffici civili ed ecclesiastici dei suddetti altri nostri reali domini. Includiamo nella mentovata privativa a favore de' Siciliani anche l'arcivescovado di Palermo, quantunque lo stesso fosse stato riservato al sovrano arbitrio nell'amplissima grazia concessa ai medesimi dal nostro augusto genitore Carlo III.
II. - A tutte le grandi cariche del nostro Regno delle Due Sicilie, i nostri sudditi della Sicilia al di là del Faro saranno ammessi in proporzione della popolazione di quell'isola. Formando questa la quarta parte della intera popolazione di tutti i nostri reali domini, il nostro consiglio di Stato sarà composto per una quarta parte di Siciliani, e per le altre tre parti di sudditi degli altri nostri reali domini. La stessa proporzione sarà osservata per le cariche dei nostri ministri e segretari di Stato, per quelle dei capi della nostra reale corte, e per quelle dei nostri rappresentanti ed agenti presso le potenze estere.
III. - In vece dei due consultori siciliani che per concessione del nostro augusto genitore formavano parte dell'estinta giunta di Sicilia, vi sarà sempre, con la stessa proporzione indicata nell'articolo precedente, un numero di consiglieri siciliani nel supremo consiglio di cancelleria del Regno delle Due Sicilie.
IV. - Gl'impieghi della nostra armata di terra e di mare, e quelli della nostra, casa reale saranno conferiti promiscuamente a tutti i nostri sudditi di qualsivoglia parte dei nostri reali domini.
V. - Il governo dell'intero Regno delle Due Sicilie rimarrà sempre presso di noi. Quando risiederemo in Sicilia, lasceremo nei nostri domini al di qua del Faro come nostro luogotenente generale un principe reale della nostra famiglia, o un distinto personaggio che sceglieremo tra i nostri sudditi. Se sarà un principe reale, avrà presso di sé uno dei nostri ministri di Stato il quale terrà, la corrispondenza con i ministri e i segretari di Stato residenti presso di noi, ed avrà inoltre due o più direttori che presiederanno a quelle porzioni dei detti ministeri e segreterie di stato, che giudicheremo necessario di lasciare per il governo locale di quella parte dei nostri domini. Se non sarà un principe reale, il luogotenente avrà egli stesso il carattere di nostro ministro e segretario di Stato, corrisponderà egli stesso con ministeri e segreterie di Stato, residenti presso di noi, ed avrà presso di sé due o più direttori per l'oggetto anzidetto.
VI. - Quando risiederemo nei nostri reali domini al di qua del Faro, vi sarà allo stesso modo in Sicilia per nostro luogotenente generale un real principe della nostra famiglia, o un distinto personaggio ecc. ecc. - Se non sarà un principe reale, il luogotenente di Sicilia avrà egli medesimo il carattere di nostro ministro e segretario di Stato: corrisponderà egli medesimo con ministeri o segreterie di Stato residenti presso di noi, ed avrà presso di sé per l'oggetto indicato due o più direttori.
VII. - Codesti direttori, tanto nel primo, quanto nel secondo caso, saranno scelti tra i nostri sudditi di qualsivoglia parte dei nostri reali domini, come relativamente alla Sicilia era stabilito per le antiche cariche di conservatore, e di segretario del governo, alle quali in sostanza vanno ad essere sostituite quelle de' suddetti direttori.
VIII. - Le cause dei Siciliani continueranno ad essere giudicate fino all'ultimo appello nei tribunali di Sicilia. Vi sarà perciò in Sicilia un supremo tribunale di giustizia superiore a tutti i tribunali di quell'isola, ed indipendente dal supremo tribunale di giustizia dei nostri domini di qua dal Faro; come questo sarà indipendente da quello di Sicilia, quando noi faremo la nostra residenza in quell'isola. Una legge particolare determinerà l'organizzazione di questi due tribunali supremi.
IX. - L'abolizione della feudalità in Sicilia è conservata, ugualmente che negli altri nostri domini di qua dal Faro.
X. - La quota della dote permanente dello Stato spettante alla Sicilia sarà in ogni anno fissata e ripartita da noi, ma non potrà eccedere la quantità di annue once un milione ottocento quarantasettemila seicentottantasette, stabilita per patrimonio attivo della Sicilia dal parlamento del 1813. Qualunque quantità maggiore non -potrà essere imposta senza il consenso del parlamento.
XI. - Sulla: quota anzidetta sarà prelevata in ogni anno una somma non minore di once centocinquantamila e sarà impiegata nel pagamento dei debiti non fruttiferi e degli arretrati degli interessi dei debiti fruttiferi della Sicilia fino all'estinzione degli uni e degli altri. Seguita tale estinzione, la stessa annua somma rimarrà destinata per fondo di ammortizzazione del debito pubblico della Sicilia".


Nonostante i privilegi annunciati in questo decreto, parecchi dei quali però rimasero sulla carta, rimase negli animi dei Siciliani e a poco a poco anzi si fece più profondo il malcontento, che, covato per alcuni anni, doveva nel 1820 esplodere con gran violenza. Né minore fu il malcontento nell'ex-regno di Napoli nel quinquennio che seguì a questa restaurazione, malcontento dovuto a cause di varia natura, alcune gravi, altre lievi, ma nel loro insieme tali da generare una situazione molto preoccupante e propizia ad un'insurrezione.

Causa ulteriore di malcontento fu il concordato con la Santa Sede. Le trattative tra la Corte Borbonica e la Curia Romana ebbero molte vicende e durarono a lungo. Cominciate nel dicembre del 1815, furono interrotte un mese dopo; riprese nel maggio del 1816, furono sospese nel luglio; ricominciate dopo uno scambio di lettere nella primavera del 1817 furono troncate ancora; poi ancora alla fine dello stesso anno. Furono finalmente concluse il 16 febbraio del 1818 a Terracina, dove il Cardinal CONSALVI e il cav. MEDICI sottoscrissero un concordato che Ferdinando ratificò il 25 febbraio e il Papa il 7 marzo.

I patti stipulati con il cosiddetto
CONCORDATO DI TERRACINA furono i seguenti:

"…Cattolicesimo era la sola religione del Regno delle Due Sicilie con i diritti e con le prerogative che gli spettavano: quindi l'insegnamento nelle università regie, nei collegi e nelle pubbliche scuole doveva essere conforme alle dottrine cattoliche; diminuito il numero dei vescovadi, stabilita una nuova circoscrizione delle diocesi nelle province di qua dal Faro; mantenuti gli attuali vescovadi e aumento di numero nella Sicilia; tutte le mense vescovili dovevano avere una rendita annua non minore di tremila ducati in beni stabili e liberi da imposizioni; doveva provvedersi alla, dotazione dei Capitoli delle Chiese e dei seminari; i seminari dovevano essere regolati e i loro beni amministrati secondo le disposizioni del concilio tridentino; si doveva provvedere alla dotazione dei parroci; doveva appartenere alla Santa Sede le abbazie che non erano di regio patronato, e la Santa Sede e i vescovi dovevano conferire i benefici semplici di collazione libera con fondazione ed erezione a titolo ecclesiastico e i canonicati; tanto le abbazie che i benefizi dovevano esser conferiti a sudditi del re.
Si restituivano alle chiese tutti i beni ecclesiastici non alienati dal governo militare e che al momento della restaurazione erano in possesso del Demanio; la nuova amministrazione si affidava a persone scelte dai due governi; si riconosceva la legittima proprietà dei nuovi possessori di quei beni ecclesiastici che tanto al di là quanto al di qua del Faro erano stati alienati. Si ripristinavano nel numero consentito dai mezzi di dotazione, gli ordini religiosi di ambedue i sessi e particolarmente quelli dedicati all'istruzione della gioventù, alla cura degli ammalati e, alla predicazione; i beni non alienati di questi ordini si dovevano ripartire fra i nuovi senza avere rispetto ai titoli di proprietà anteriore; si poteva aumentare il numero dei conventi quando lo richiedessero le circostanze e i bisogni della popolazione; liberi erano i frati e le monache di ricever novizi in proporzione delle loro facoltà; le doti delle fanciulle che prendevano il velo sarebbero state impiegate a benefizio del convento; tutti gli ordini religiosi dipendevano dai loro superiori generali; il regio governo era obbligato a continuare il pagamento della pensione a quei religiosi che avrebbero ottenuto di secolarizzarsi e a quelli degli ordini non restaurati.
La Chiesa era libera di acquistare proprietà. Non poteva esser soppressa o riunita alcuna delle fondazioni ecclesiastiche senza l'intervento dell'autorità della Santa Sede. Il re non poteva esentare dalle imposte gli ecclesiastici, ma s'impegnava di far sì che essi non fossero gravati più dei laici e prometteva di supplire con largizioni in vantaggio del clero nei tempi di maggiore prosperità. Era soppresso il monte detto "frumentario", cioè, l'amministrazione reale delle rendite delle mense vescovili, delle abbazie e degli altri benefici vacanti, e la nuova amministrazione era affidata ai chierici. Il Pontefice si riservava in perpetuo sui vescovi e sulle abbazie una pensione annua di dodicimila ducati.
Liberi erano i vescovi e gli arcivescovi nell'esercizio del loro ministero; dinanzi al foro vescovile dovevano esser portate le cause ecclesiastiche e le matrimoniali; i tribunali ecclesiastici avevano libertà di sottoporre alle pene stabilite dal Concilio di Trento e ad altre reputate convenienti, i chierici che se ne rendessero meritevoli, e di usare le censure contro i fedeli che violassero le leggi ecclesiastiche e i sacri canoni.
Tutte le comunicazioni dei vescovi, del clero e del popolo con la Santa Sede per materie spirituali e per cose ecclesiastiche dovevano esser libere; abolite le circolari e le leggi del "licet scrivere". Il governo si obbligava a non permettere la pubblicazione dei libri, venuti di fuori o stampati nel regno in cui i vescovi avessero riscontrato cose contrarie alla dottrina della Chiesa e ai buoni costumi. Il re avrebbe soppresso il Delegato della Reale Giurisdizione e le funzioni del Cappellano Maggiore sarebbero state ristrette nei limiti prescritti dalle costituzioni di Benedetto XIV. La proprietà della Chiesa nei suoi possessi ed acquisti era sacra ed inviolabile. Il Pontefice concedeva al re e ai discendenti di lui il diritto di nominare gli arcivescovi e i vescovi del Napoletano e della Sicilia, riservandosi però la facoltà di assumere informazioni sulle persone che dovevano esser nominate, le quali non potevano esercitare la loro autorità se prima non ottenevano l'istituzione canonica.
Infine i vescovi erano tenuti a pronunziare davanti alla seguente formula di giuramento: "Giuro e prometto sopra i Santi Evangeli obbedienza e fedeltà alla Reale Maestà, prometto parimenti che non avrò alcuna comunicazione, che non farò parte di alcuna riunione e che non conserverò sia dentro sia fuori del reame alcuna riunione sospetta che nuoccia alla pubblica tranquillità; e che se nella mia diocesi come altrove verrò a conoscenza di trame a danno dello Stato ne avviserò sua Maestà". (Colletta)

Il CONCORDATO DI TERRACINA incontrò la disapprovazione generale; non furono contenti né i liberali né i cattolici più fanatici. Il COLLETTA, riportandolo, scrisse che con quel concordato "il decoro del Re, il bene dei popoli, lo sforzo di cento ingegni, i progressi filosofici di cento anni, perirono in un solo giorno".
In "Storia d'Italia dal 1815 al 1990, del De Agostini "lo stato borbonico fa una serie di concessioni, che da varie parti sono giudicate una grave capitolazione di fronte alla Chiesa".
Singolare che il papa riconosce al re il diritto di designare i vescovi, ma si riserva il diritto di consacrarli tali".
Per amor del vero dicono altri storici che il giudizio dei contemporanei sul concordato di Terracina fu eccessivamente severo.
Qui lasciamo al lettore la libertà di giudicare.

Ma a parte il concordato, molte altre cause di malcontento vi erano. Troppo era costata la restaurazione; Ferdinando aveva dovuto pagare all'Austria venticinque milioni per le spese di guerra ed altrettanto per il mantenimento dell'esercito austriaco nel regno; si aggiungano le pensioni corrisposte a ministri e generali stranieri: sessantamila lire di rendita con il titolo di Duca della Portella a METTERNICK, quarantamila con il titolo di Duca di Dino al TALLEYRAND e altrettante con il titolo di Duca di Casa Lanza al generale BIANCHI, un donativo di trecentocinquantamila lire e la vendita a prezzo irrisorio delle vaste tenute di Castelvolturno al NUGENT; in tutto, secondo il calcolo di alcuni, centotrentacinqne milioni di lire, pari a un quinto o a un quarto delle entrate del regno in quei cinque anni.

Il debito consolidato e vitalizio era cresciuto e il bilancio presentava un deficit considerevole; nuovi balzelli erano stati imposti; trattati vergognosi erano stati stipulati con gli stati barbareschi d'Africa perché le navi del regno avessero assistenza e protezione (!), coi quali trattati Ferdinando si impegnava di pagare annualmente al bey di Algeri ventiquattromila piastre di Spagna, un regalo consolare ogni due anni e mille piastre di Spagna per ogni suddito da liberare dalla schiavitù; al bey di Tunisi, un annuo regalo consolare di cinquemila piastre e trecento per ogni prigioniero; e al bey di Tripoli la somma di cinquantamila piastre per il riscatto di tutti gli schiavi e quattromila piastre per ogni cambiamento di console.

Causa di malcontento fu la nuova legge intorno al Tavoliere di Capitanata, che nel 1806 Giuseppe Bonaparte aveva dato in censo perpetuo, preferendo il sistema degli affitti, "evitando - scrive il Colletta - i (troppi) grandi acquisti, sciogliendo la servitù, facendo liberare le proprietà, revocando la dogana, la doganella, i cavallari, i guardiani, vincoli antichi che causavano danni continui all'industrie. I Censuari divenuti padroni, ristretti i pascoli ai soli bisogni, coltivate le residue terre a piante fruttifere e introdotta a profitto la coltivazione dei prati, arricchì la finanza, prosperò l'agricoltura, migliorando le sorti dei pastori, le condizioni delle greggi: e nel tempo stesso, per gratuite concessioni di non pochi terreni ai più miseri cittadini, la povertà fu sollevata e sorsero nuovi possidenti".

Questa nuova legge del governo borbonico, dettata per saldare i gravosi debiti accennati sopra, o da avidità di guadagni di pochi, distrusse l'opera del re Giuseppe, che aveva dato ottimi risultati, perché - scrive uno storico - "turbava la santità degli acquisti, disordinava le industrie, poneva vincoli alla libertà del possesso, impediva l'affrancamento delle servitù, ritornava quella già affrancata; e togliendo a pretesto che si volesse giovare alla pastorizia, una gran parte di quelle terre fu ridotta nuovamente a pastura nomada".(Giudici)

E vi fu dell'altro ancora che irritò l'animo dei sudditi di ogni classe, come i magistrati, i militari, i commercianti. Promulgatosi nel 1819 il nuovo codice, molti giudici furono rimossi da molti uffici e poiché furono licenziati i migliori, ne soffrì la giustizia; grave colpo fu portato al commercio e alla marina del regno con i trattati commerciali stipulati con l'Inghilterra (settembre 1816 - questa prima di andarsene ne fece incetta), con la Francia (febbraio 1817) e con la Spagna (agosto 1817), i quali accordavano il ribasso del 10 per cento sui dazi che le navi straniere e nazionali pagavano nei porti delle Due Sicilie; infine molti ufficiali, quasi tutti ex-murattiani, furono messi a riposo con pensioni magrissime.
Di fronte a tutte queste cause gravi di malcontento passavano inosservati i pochi provvedimenti buoni. E qui ricordiamo quelli in favore dell'Accademia Ercolanense presi con decreto dell'8 aprile 1817 e quelli dei 12 novembre del 1818 in favore degli archivi del regno e ad incremento degli studi di storia patria. Data la gravità del malcontento era naturale che le file della Carboneria s'ingrossassero, che la setta diventasse di giorno in giorno più potente insinuandosi in tutta la vita del paese e che, cresciuto il numero dei gregari, crescesse nei capi il desiderio di attuare con un'insurrezione popolare tutto o in parte il programma del Carbonarismo.

LA CARBONERIA PREPARA L'INSURREZIONE
IL MOTO DI NOLA - LA MARCIA SU AVELLINO
IL GENERALE PEPE CAPO DEGLI INSORTI
TRIONFO DELL'INSURREZIONE
IL RE CONCEDE E GIURA LA COSTITUZIONE

Fin dalla primavera del 1817 i capi della Carboneria cominciarono a capire che per fare la rivoluzione era necessario prepararla accuratamente disciplinando, intensificando e indirizzando a un medesimo fine tutte l'attività delle "vendite" che fino allora avevano esplicata un'azione fiacca, slegata e senza un unico indirizzo.
Nel maggio del 1817, ROSARIO MACCHIAROLO, capo dell'alta magistratura lucana, FRANCESCO MARIA GAGLIARDI, GEROLAMO ARCOVITO, DOMENICO E GABRIELE ABATEMARCO e parecchi altri carbonari napoletani e salernitani si riunirono fra le rovine di Pompei e stabilirono d'istituire A Napoli un Comitato Centrale carbonaro con lo scopo di preparare la rivoluzione che sarebbe dovuto scoppiare in quella stessa primavera. Messosi all'opera, il Comitato ebbe a costatare che le province mancavano di preparazione e rimandò al settembre lo scoppio dell'insurrezione; ma neppure in quel mese la preparazione parve tale da assicurare il successo e allora il comitato fu costretto a prorogare l'azione a tempo indeterminato.

Nel dicembre di quello stesso anno, un ardente rivoluzionario, GAETANO RODINÒ, nato a Catanzaro nel 1776, difensore della Repubblica Partenopea nel 1799, carcerato politico a Favignana, dal 1803 al 1806, prode soldato nella campagna del 1813 e in quella d'Italia, ed ora sottintendente di Bovino, faceva in modo che da parecchi luoghi della Capitanata giungessero al governo borbonico richieste affinché fosse concessa la Costituzione. Sperava il Rodinò d'impressionare con quelle richieste la Corte e, perché avessero maggiore efficacia, le fece seguire da manifestini manoscritti o stampati in clandestinità, inneggianti alla costituzione, che vennero asfissi in parecchi paesi delle province di Avellino, Foggia e Lecce. Uno di questi diceva: "Da tutti gli angoli del Regno sono state indirizzate a S. M. delle domande ragionate per una Costituzione liberale, che assicurava in un tempo il Re sul trono e la felicità della Nazione; quando S. M. non è pieghevole a questo giusto invito, è autorizzato ed invitato ciascuno a sostenere i suoi diritti, incominciando dal sospendere ogni contribuzione, perché non dovuta ad un Governo, che non riconosce i diritti della Nazione, e continuando fino allo spargimento del sangue. Guai a chi ardisce muovere il presente (manifesto)".

L'azione del Rodinò produsse l'effetto opposto. A Foggia fu mandato NICOLA INTONTI che, chiamati coloro che avevano la fama di essere dei liberali, affermò che non era possibile al governo concedere la costituzione; inoltre quella provincia fu riempita da un numero così grande di spie che la propaganda rivoluzionaria dovette subire un arresto. Peggio avvenne nella città di Lecce, dove il generale CHURCH giunto per combattere il brigantaggio, istituiva una Commissione Militare che con la sua severità rimosse ai liberali ogni desiderio di mettersi in azione.

Però dopo alcuni mesi di inattività, la propaganda carbonara cominciò nuovamente a svolgersi con grande attività nella Puglia, nella Basilicata, nelle province di Salerno e di Avellino e specialmente nella Terra di Lavoro e nel circondario di Nola, dove anima della ripresa carbonara era LUIGI MINICHINI, nolano, nato nel 1783, suddiacono o, come altri dissero, sacerdote, violento ed irrequieto carbonaro, che, nel 1818, esplicò un'opera veramente fattiva, fondando numerosi nuclei della setta cui apparteneva e dando nuovo vigore a quelli esistenti.

Gli anni che vanno dal 1818 al 1820 furono molto proficui per la Carboneria; nelle sue file erano entrati, per opera del generale GUGLIELMO PEPE, moltissimi soldati delle milizie provinciali. Aderivano al Carbonarismo ufficiali, magistrati, sacerdoti, impiegati, possidenti, commercianti, studiosi; le "vendite" erano in continuo contatto tra loro; il collegamento tra le gerarchie supreme e le sezioni era perfetto; la vasta associazione segreta poteva dirsi pronta ad agire; non mancava che l'ordine dei capi per brandire 1e armi.

Erano a questo punto le cose quando, nei primi giorni di gennaio del 1820 giunse notizia nel Regno del pronunciamento di Cadice. La Spagna, le cui condizioni erano molto simili a quelle del Regno delle Due Sicilie, inalberava il vessillo della rivolta. Il l° gennaio i capitani RIEGO e QUIROGA ribellavano nell'isoletta di Leon, presso Cadice, le truppe che aspettavano di esser trasportate in America; il moto si estendeva ad altre guarnigioni, una Giunta insurrezionale era costituita a La Corogna e si proclamava la famosa costituzione accordata nel 1812 e soppressa nel 1814 da Ferdinando VII, il quale, l'8 marzo, spaventato dall'avvicinarci dei ribelli e da un moto scoppiato nella stessa Madrid, rimetteva in vigore la costituzione e le giurava fede.

Le notizie della Spagna non potevano che preoccupare il governo borbonico delle Due Sicilie, il quale volendo impedire la propaganda carbonara dentro l'esercito, stabilì di riunirlo e trasferirlo in un gran campo presso Sessa, dove sarebbe stato più facile controllarlo e comandarlo. I Carbonari seppero che la partenza delle truppe sarebbe avvenuta alla fine di marzo e pensarono di prevenirla con un moto rivoluzionario. Una riunione di capi si tenne a Napoli, e si convenne che la rivoluzione dovesse iniziare con il pronunciamento di una guarnigione militare di stanza presso la capitale appena giungeva l'ordine di partire per Sessa.

Si offrì di cominciare il moto il tenente dei dragoni VINCENZO BOLOGNA con il suo reparto ad Aversa e che sarebbe stato spalleggiato dai Carbonari del luogo; ma il governo, forse informato della trama, sospese la partenza del reggimento, e l'azione concertata non avvenne.
Un'altra riunione di Carbonari nella capitale stabilì di impadronirsi della persona del re e di obbligarlo a concedere la costituzione; il 23 maggio una terza riunione avvenne a Napoli e qui fu eletta una commissione esecutiva di sette membri, che fissò per la notte dal 29 al 30 maggio lo scoppio della rivoluzione e spedì in tutte le province emissari perché avvertissero i settari di tenersi pronti.
Però, anche questa volta il moto non riuscì. Pare che uno dei cospiratori, il materassaio FRANCESCO ACCONGIAFUOCO, rivelasse la trama alla polizia; seguirono parecchi arresti e la prudenza consigliò ai Carbonari di rimandare l'azione a miglior tempo.

Questi ordini che poi erano disdetti, queste decisioni che non venivano mai eseguite, questo continuo rimandare lo scoppio della rivoluzione raffreddava l'entusiasmo dei Carbonari, faceva scemar la fiducia nel successo finale, intiepidiva i simpatizzanti, i quali finivano con il convincersi che non si trattasse di cosa seria e che l'organizzazione fosse o limitata o inetta. Fra questi scettici c'era il generale GUGLIELMO PEPE, il quale nel marzo aveva rifiutato di mettersi alla testa del movimento volendo che prima di brandire le armi, l'organizzazione fosse perfetta, quindi, credendo che non era più possibile la rivoluzione, per allentare i legami con i Carbonari napoletani e salernitani, chiese di essere trasferito dalla divisione militare di Salerno a quella della Calabria. Ottenne il trasferimento, ma essendo il generale ARCOVITO, che doveva sostituirlo, malato, il Pepe continuò a comandare la divisione di Salerno pur risiedendo a Napoli dove si era recato, quando aveva chiesto di essere trasferito.
Ma sempre a lui, come capeggiatore possibile del moto rivoluzionario, pensavano quei Carbonari che ancora si ostinavano a voler fare la rivoluzione. Parecchi di loro, riunitisi a Salerno, decisero di agire nel più breve tempo possibile e, scelta la data del 10 giugno, mandarono al generale Pepe il carbonaro ROSARIO MACCHIAROLI latore di vari proclami a stampa e di una pergamena in cui era nominato capo di tutte le forze insurrezionali.

Il Macchiaroli andò ad Avellino, dove il Pepe era solito risiedere come ispettore delle milizie provinciali, ma il generale si trovava, come si è detto, a Napoli, e il carbonaro si abboccò con il tenente colonnello DE CONCILI, capo di Stato Maggiore del Pepe, che, nascosti il diploma e i proclami, corse alla capitale per informare il suo generale. Questi, da una parte, lo incalzò per essere mandato al più presto in Calabria, dall'altra non diede alcuna risposta ai Carbonari, i quali offrirono il comando al colonnello VAIRO, che prima accettò e poco dopo rifiutò.

Senza dubbio il governo dovette aver qualche sentore di quel che si tramava a Salerno, perché prese delle misure pronte ed energiche per fronteggiare la situazione nella provincia; l'intendente fu sostituito, cambiato fu il comandante militare provinciale e il comando della divisione fu affidato con pieni poteri al generale VITO NUNZIANTE, fedelissimo alla Corte.

Questi provvedimenti non fecero recedere l'Alta Magistratura Carbonara di Salerno dal proposito di far la rivoluzione. Si capiva, che se non si fosse fatta presto, molto tempo sarebbe passato prima di ritentarla. Fu indetta per il 24 giugno un'adunanza definitiva, ma il 20 furono arrestati a Salerno parecchi Carbonari; molti allora ripararono ad Avellino e qui, con due giorni di anticipo, cioè il 22, ebbe luogo la riunione, nella quale si fissò la rivolta per il 4 luglio. In quei giorni c'era ad Avellino il generale Pepe, il quale informato delle intenzioni dei Carbonari e credendo che questa volta volessero fare sul serio, s'incontrò con loro; ma, non essendo forse rimasto soddisfatto del programma d'azione o per altre cause che non conosciamo, fece ritorno a Napoli. Il prete carbonaro LUIGI MINICHINI nel distretto di Nola si era intanto dato molto da fare; temendo però che anche questa volta la rivolta andasse in fumo e volendo ad ogni costo farla con Pepe o senza Pepe, decise di iniziare lui la ribellione e per meglio riuscire ad innescarla fece spargere la voce che Avellino era in mano degli insorti, stabilì per l'insurrezione la notte dall'1 al 2 luglio, diramò avvisi nei paesi vicini ed avvertì il tenente MICHELE MORELLI del Reggimento Borbone Cavalleria di tenersi pronto.

Nella notte fissata, il Minichini con venti Carbonari di Nola ed altri dei paesi vicini si recò alla caserma del reggimento, ridotto a soli centoventisette uomini; i soldati che erano pronti, guidati dai tenenti MORELLI e GIUSEPPE SILVATI, si posero in marcia alla volta di Avellino, preceduti dai Carbonari, alla cui testa cavalcava armato in abito talare LUIGI MINICHINI, che andava gridando: "Viva paesani ! Allegri ! Viva la libertà e la costituzione !".

A Casamarciano alcuni Carbonari si unirono alla colonna, poi a Sperone fu ingrossata dal distaccamento del reggimento che aveva stanza ad Avella; nelle vicinanze di Mugnano furono disarmate alcune guardie doganali e i loro fucili furono dati a quegli insorti che n'erano sprovvisti; altri Carbonari ed altri soldati si unirono alla piccola schiera, ma la popolazione del territorio che attraversavano si mostrava indifferente e assicurava che ad Avellino non era scoppiata nessuna rivolta.
Quando giunsero a Monteforte, anche la compagnia dei militi provinciali fece causa comune con loro ed indusse una compagnia di soldati regolari ad imitarli; inoltre giunse la notizia che le autorità di Avellino erano atterrite e che di là sarebbero giunti quella sera stessa alcuni reparti di fanteria che avevano abbracciato la causa della rivoluzione.

Gl'insorti proseguirono la marcia; si trovavano a soli sei chilometri da Avellino quando incontrarono un tenente dei gendarmi, mandato dal tenente colonnello DE CONCILJ con l'incarico di pregarli di non entrare quel giorno in città per evitare disordini e di indurli a tornarsene a Monteforte il cui sindaco aveva ordine di fornire viveri e foraggi.
Il De Concilj, pur essendo di sentimenti liberali, temeva di schierarsi risolutamente con i ribelli. Appena avuta notizia che da Nola era uscito il reggimento Borbone, aveva mandato a Napoli il capitano CIRILLO per avvertire il generale PEPE, ed aveva indotto il generale COLONNA comandante della provincia, a ordinare di riunir le milizie per opporsi agli insorti. La preghiera rivolta al Morelli di ritardar l'avanzata, altro scopo non aveva che quello di guadagnar tempo.

Il tenente Morelli invece inviò una lettera al generale Colonna, annunziandogli il suo prossimo arrivo ad Avellino per proclamarvi la costituzione e dicendosi certo che le autorità non si sarebbero opposte, quindi, per Mercugliano, fece ritorno a Monteforte, dove la sua schiera s'ingrossò di una ventina di militi provinciali, di cinquanta soldati di fanteria e di numerosi Carbonari. Intanto il capitano CIRILLO era giunto a Napoli; ma il generale PEPE era già stato informato della rivolta, anzi era stato incaricato dal NUGENT, generale austriaco a servizio del Borbone, di reprimere il moto. I due generali erano a colloquio quando giunse il Cirillo, il quale, richiesto dal Nugent come avesse potuto passare attraverso le file dei ribelli, rispose che tanto era il prestigio di cui godeva il Pepe che nessuno avrebbe osato di fermare un suo aiutante. Il Nugent, insospettito da quella risposta, disse al Pepe di rimandar la partenza e di mandare da Napoli al Colonna le istruzioni necessarie.

Quel stesso giorno furono mandate le istruzioni e all'alba del 3 luglio il DE CONCILJ uscì da Avellino con quattro compagnie di militi provinciali e mosse alla volta di Monteforte; ma i soldati lo abbandonarono e passarono sotto la bandiera della rivoluzione. Il Morelli, che ora disponeva di numerosi borghesi, fra cui trecento di Avellino, e di sette compagnie di milizia provinciale, decise di riprendere la marcia, e, lasciato a Monteforte il Minichini con tre compagnie di militi e numerosi civili, con le altre compagnie provinciali, con i trecento avellinesi e i suoi cavalieri del reggimento Borbone si pose in cammino per Avellino, dove fece il suo ingresso, fra gli applausi del popolo alle undici del mattino. Poco dopo una deputazione si presentava alle autorità e le invitava a chiedere al re la costituzione di Spagna.

A quel punto lo stesso DE CONCILJ, dietro invito del Morelli e di altri ufficiali, assumeva il comando delle forze insurrezionali e intanto da Napoli il governo ordinava ai generali CARASCOSA, NUNZIANTE, CAMPANA di muovere contro i ribelli e contemporaneamente disponeva che il reggimento di cavalleria di stanza a Foggia e le truppe della Basilicata al comando del colonnello del CARRETTO si mettessero in marcia contro gl'insorti. Questi non erano rimasti inoperosi. Raccolte nuove forze, avevano fortificato alcuni luoghi quali Monteforte, le Forche Caudine, Serino e Solofra, avevano indotto il ROSSAROL, che comandava la guarnigione di Capua, a schierarsi dalla loro parte e l'esempio era stato imitato dalle truppe della Basilicata e della Puglia e da parte delle milizie del generale CARASCOSA che aveva, sì, occupato Cimitilde e Mugnano del Cardinale, ma non aveva tentato neppure di assalire le posizioni di Monteforte.

La mattina del 4 luglio il generale CAMPANA con una colonna di truppe regolari assalì gli insorti tra Solofra e Serino, ma dovette poco dopo ritirarsi e lasciare che gli avversari occupassero Solofra. Giunto il NUNZIANTE, i due generali si accordarono per un'azione combinata contro Solofra; ma di mattino del 5 il Campana, dopo un successo riportato a Piazza di Pandola, minacciato di aggiramento, ripiegò precipitosamente su Salerno con il nemico alle calcagna, e il Nunziante rimasto con la destra scoperta per la ritirata del collega, si ritirò a sua volta verso Nocera.

Il Nunziante, effettuato il ripiegamento, allo scopo di ristabilire il collegamento con il Campana, mandò verso Salerno il reggimento Principe Cavalleria, ma questo passò al completo dalla parte degli insorti. Malgrado questo, il Nunziante volle tentare un colpo su Avellino e uscì con le truppe rimaste fedeli; ma dopo una breve ricognizione rientrò a Nocera.
Allora il Campana abbandonava Salerno e, riunitosi al collega, insieme con lui prendeva posizione sul Sarno.

Stavano così le cose, quando il 5 luglio, GUGLIELMO PEPE seppe dal generale NAPOLETANI che i due reggimenti della sua brigata di cavalleria avevano espresso il desiderio di andare a raggiungere gl'insorti e che il movimento fosse. diretto da lui. Il Pepe, offeso dalla diffidenza con cui era guardato dal Nugent e dalla Corte e spinto dall'amore per la libertà, decise di mettersi a capo della rivoluzione e la sera di quel giorno, con i due reggimenti comandati dal colonnello CELENTANO e dal tenente colonnello TUPPUTI, cui si unì poi una compagnia di fanti, uscì dalla capitale e si recò al quartiere generale degli insorti.
GUGLIELMO PEPE aveva allora trentasette anni, essendo nato a Squillace nel 1783. A sedici anni, nel 1799, aveva combattuto da prode sotto lo Schipani a Portici contro le bande del cardinale Ruffo; ferito e fatto prigioniero, era stato scacciato dal regno; rifugiatosi in Francia, si era arruolato nella legione italica e, valicate le Alpi con l'esercito napoleonico, si era battuto contro gli Austriaci sulla Sesia. Tornato in patria dopo la pace di Firenze (1801), insofferente del giogo borbonico, aveva cospirato con GAETANO RODINÒ ed altri; scoperto era stato gettato in prigione, dove era rimasto per tre anni fino a quando nel 1806, non era stato liberato. Entrato, con il grado di maggiore nell'esercito del re Giuseppe Bonaparte, aveva partecipato alla spedizione di Calabria, quindi era andato a Corfù, ma era ritornato a Napoli quando giunse in città il Murat, e da lui era stato fatto ufficiale d'ordinanza, per ripartir poco dopo, per la Spagna, dove, al comando di un reggimento aveva militato agli ordini del generale Suchet. Nella campagna del 1814, con il grado di generale, aveva comandato una brigata ed aveva promosso una sottoscrizione di generali per ottenere dal re Gioacchino la costituzione; nel 1815 si era battuto valorosamente contro gli Austriaci; dopo la restaurazione era rimasto nell'esercito, e comandante delle province di Avellino e di Foggia, aveva contribuito a liberarle dai briganti ed aveva organizzato le milizie provinciali che in gran parte si erano iscritte alla Carboneria.

La mossa improvvisa di Guglielmo Pepe portò lo sbigottimento nella Corte e segnò il trionfo della rivoluzione. Anche i generali del re capivano che la causa dell'assolutismo era ormai perduta. Il fedele NUNZIANTE scriveva al sovrano: "Degnatevi, o Sire, di udire la verità del più umile e insieme più fedele dei vostri soggetti. Ora non si tratta di combattere uomini sparsamente riuniti senza disegno, come in altre occasioni, diretti da private passioni o da malvagi interessi; ma intere popolazioni chiedono una costituzione, e tutti la invocano dal cuore, dal senno e dall'accorgimento della Maestà Vostra. Ogni indugio sarebbe funesto. Io spero dunque che la Maestà Vostra si risolverà a concedere alla nazione lo statuto, per il quale si comporranno gli animi in pace, e il popolo esaudito ne'suoi voti, farà dovunque risuonare il grido di viva il re ! Viva la costituzione !".

Lo stesso austriaco Nugent, esaminando con il Carascosa la situazione, riconosceva che l'insurrezione trionfava e non si era più sicuri nemmeno della stessa capitale.
Se si vuol credere al Colletta, nella notte dal 5 al 6 luglio, sparsasi in città la notizia della partenza del generale Pepe, cinque Carbonari si recarono alla reggia, chiedendo di parlare con il re. Essendo il sovrano a letto, furono ricevuti dal duca d'Ascoli, al quale chiesero in nome del popolo, della Carboneria e dell'esercito la costituzione. Il duca andò ad informare Ferdinando della richiesta dei cinque e, tornato, affermò che il re, aveva deciso ad accordare ai sudditi la costituzione, e aveva già chiamato con urgenza i ministri a consiglio.
"Quando sarà pubblicata ?" domandò un Carbonaro. "Fra due ore" rispose il duca. Allora uno dei cinque, OTTAVIO PICCOLELLIS, genero del duca, trasse dal taschino del panciotto del suocero l'orologio e, mostrandoglielo, disse: "È l'una dopo mezzanotte: alle tre la costituzione sarà pubblicata".
Alla mattina del 6 apparve un editto firmato da FERDINANDO e indirizzato alla Nazione del Regno delle Due Sicilie, in cui era detto:

"Essendosi manifestato il voto generale della nazione .... di volere un governo costituzionale, di piena nostra volontà consentiamo, e promettiamo nel corso di otto giorni di pubblicarne le basi. Sino alla pubblicazione della costituzione le leggi esistenti saranno in vigore. Soddisfatto in questo modo al voto pubblico, ordiniamo che le truppe ritornino ai loro corpi, ed ogni altro soggetto alle sue ordinarie occupazioni".

La rivoluzione aveva trionfato in quattro giorni; a Monteforte l'esercito degli insorti s'ingrossava sempre più e a Napoli, al Largo della Carità, si costituiva una Giunta Centrale carbonara, mentre un nuovo ministero era nominato col generale CARASCOSA alla Guerra, GIUSEPPE ZURLO agli Interni, il duca di CAMPOCHIARO agli Esteri, il conte RICCIARDI di Camaldoli alla Giustizia, il cav. MACEDONIO alle Finanze, il cav. DE TOMMASIS alla Marina, tutti elementi murattiani e in fama di liberali.

La scelta piacque, ma produsse cattiva impressione una lettera scritta da FERDINANDO I, al figlio FRANCESCO, nella quale, adducendo la sua malferma salute, gli cedeva il governo temporaneamente, nominandolo VICARIO GENERALE. Molti pensarono che il vecchio sovrano volesse eludere l'impegno preso con i sudditi, e far concedere dal figlio la costituzione per poterla in seguito violare o sopprimere. A molti tornarono alla mente le circostanze in cui era stata data nel 1812 la costituzione ai Siciliani e cominciarono a mugugnare.

Allora il Vicario radunò i ministri, alcuni generali e parecchi consiglieri di Stato e cercò di dimostrare che le diffidenze del pubblico erano infondate perché il re si trovava veramente ammalato. Uno dei presenti - secondo quello che scrive il COLLETTA - che partecipò all'adunanza - disse che, data la delicatezza della situazione, credeva necessario che si concedesse subito la costituzione e si accontentasse il popolo accordando "quella spagnola".

Interruppe il Vicario chiedendo se quella era veramente adatta ai Napoletani, e l'altro rispose: "Vano il cercarlo: oggi trattasi di come placare la rivoluzione, non del motivo di farla; essa è già fatta. Coloro che più altamente richiedono la costituzione di Spagna, non intendono il senso politico di questo atto; è un dogma per loro: ogni altra costituzione, anche la più adatta, anche la più libera, spiacerebbe".
Tutti, meno uno, si mostrarono del medesimo avviso e nella notte del 6 al 7 luglio fu pubblicato, a firma del Vicario, il seguente manifesto:
"La costituzione del Regno delle Due Sicilie sarà la stessa adottata per il regno della Spagna nell'anno 1812, e sanzionata da S. M. Cattolica nel marzo di questo anno; salvo le modifiche che la rappresentanza nazionale, costituzionalmente convocata, crederà di proporci per adattarla alle circostanze particolari dei reali domini".

Mancava al decreto la firma del re e i costituzionali sospettarono che non volesse sottoscrivere un atto che poi non intendeva mantenere. Pertanto la Giunta Centrale della Carboneria intimò al sovrano di apporre la firma all'editto; e Ferdinando, che il giorno prima aveva esonerato il Nugent dalla carica di generalissimo, pubblicò il 7 un nuovo manifesto, in cui "sotto la fede e parola di re" sanzionava l'opera del Duca di Calabria, Vicario Generale, e prometteva di giurare personalmente la costituzione.

Di questa elenchiamo i punti sostanziali:

"La nazione è libera e indipendente e non patrimonio di alcuna famiglia o persona: la sovranità risiede essenzialmente nella nazione, e perciò a questa appartiene il diritto esclusivo di stabilire le sue leggi fondamentali. La religione della nazione è e sarà perpetuamente la cattolica, apostolica romana, unica vera; la nazione ha da proteggerla con leggi sacre e giuste, e proibire l'esercizio di qualsivoglia altra religione. Il governo è una monarchia moderata, ereditaria: la potestà di far le leggi appartiene al parlamento e al re; a questo il farle eseguire, ed ai tribunali stabiliti dalla legge applicarle alle cause civili e criminali.
Il parlamento è la riunione di tutti i Deputati rappresentanti la regione e nominati dai cittadini secondo la popolazione: un deputato ogni settantamila anime: l'elezione si fa per giunte elettorali di parrocchia, di circondario e di provincia: a tale effetto i cittadini di ciascuna parrocchia si radunano nella prima domenica d'ottobre dell'anno precedente a quello delle convocazione del parlamento, e nominano un elettore parrocchiale per ogni duecento capi di famiglia: gli elettori parrocchiali si adunano nella prima domenica di novembre nel capoluogo di ogni circondario e nominano i deputati provinciali sulla base di uno ogni tre di loro: questi nella prima domenica di dicembre si uniscono nel capoluogo di ogni provincia per eleggere i deputati al parlamento con la proporzione di uno ogni settantamila abitanti.
Il parlamento si aduna nel giorno primo di marzo; le sue sessioni durano tre mesi consecutivi, sono pubbliche e, solo in quei casi in cui fosse necessaria la segretezza, si possono tenere a porte chiuse. I deputati si rinnovano tutti ogni due anni. Appartiene al parlamento di proporre le leggi, approvare i trattati d'alleanza offensiva, di sussidi e di commercio, fissare a proposta del re le forze di terra e di mare; stabilire le spese pubbliche e le contribuzioni.
Ogni deputato ha la facoltà di proporre una legge, e il re ha il diritto di sanzionarla: peraltro se questa sanzione è negata due volte o il parlamento approvasse per la terza volta la medesima proposta di legge, basta questo terzo voto perché la legge si ha come se fosse stata sanzionata dal re. Durante le vacanze del parlamento vi sia per essa una deputazione permanente con l'incarico di vegliare alla osservanza della costituzione: in caso di bisogno si convochi straordinariamente il parlamento con i medesimi deputati.

Il re è sacro ed inviolabile nella sua persona e non è soggetto a responsabilità: non può impedire la celebrazione del parlamento; non può scioglierlo o sospenderlo nei tempi stabiliti dalla costituzione; non può cedere alcuna parte del territorio, né uscire dal regno senza il permesso del parlamento: gli ordini del re debbono essere sottoscritti dal ministro del dicastero a cui appartengono: i ministri sono responsabili dinanzi al parlamento di qualunque ordine autorizzato da loro contro la costituzione. Vi è un consiglio di Stato composto di quaranta individui, fra i quali quattro ecclesiastici: i membri del medesimo si nominano dal re sopra triplice nota proposta dal parlamento: il re deve consultarlo in tutti gli affari del governo e specialmente per dare o negare la sanzione alle leggi, dichiarare la guerra o fare trattati.

Il parlamento ed il re non possono mai esercitare le funzioni giudiziali, chiamare a sé le cause pendenti, o far riaprire i giudizi terminati. Non si deve mai fare uso di tortura. Libertà a tutti di stampare e pubblicare le loro idee politiche senza anteriore licenza, ma sotto le limitazioni e responsabilità da stabilirsi dalla legge" (Coppi)


Intanto si svolgevano trattative tra il Vicario e Guglielmo Pepe, intermediario Rocco Beneventano, inviato del principe. Gli accordi presi furono i seguenti: il re giurerebbe sul Vangelo, nella sua cappella privata, in presenza del Pepe, dei ministri e della giunta governativa provvisoria di "osservare fedelmente la costituzione di Spagna"; in una lista di nomi presentata dal generale Pepe il Vicario sceglierebbe i quindici membri d'una Giunta provvisoria di governo, che durerebbe fino alla convocazione del parlamento; si metterebbero in libertà e si richiamerebbero dall'esilio i condannati politici e si rimetterebbero negli uffici quegli impiegati che n'erano stati cacciati per idee liberali; il generale Pepe avrebbe il supremo comando di tutte le milizie del regno per garanzia che la costituzione sarebbe mantenuta; la scelta dei generali e dei comandanti delle piazze e dei castelli si farebbe dai ministri d'accordo con la giunta; le milizie presterebbero giuramento di fedeltà al re e alla costituzione; si darebbero ricompense a tutti i militari e i civili che più si erano distinti nel moto e la provincia di Avellino sarebbe dichiarata di prima classe. A far parte della Giunta furono chiamati fra gli altri MELCHIORRE DELFICO, il generale FLORESTANO PEPE, DAVID WINSPEARE, il DUCA DI GALLO, GIACINTO MARTUCCI e il colonnello RUSSO.

La sera dell'8 luglio si adunarono nelle vicinanze di Capodichino quattordicimila soldati regolari e provinciali e parecchie migliaia di borghesi, quasi tutti Carbonari, armati di fucili, tromboni, sciabole e pistole, che al suono festoso delle musiche, dovevano sfilare per le vie della capitale e consacrare con quella parata il trionfo della rivoluzione.
Il giorno dopo ci fu il grandioso corteo. Precedevano i cavalieri del Reggimento Borbone, guidati dal MORELLI e dal SILVATI: erano gl'iniziatori del moto e furono chiamati lo "squadrone sacro". Seguivano le bande musicali, poi il generale PEPE con ai fianchi il generale NAPOLITANI e il tenente colonnello DE CONCILIJ, poi ancora le truppe regolari e le milizie provinciali e infine, precedute dal prete MINICHINI a cavallo, con il fucile a tracolla, le squadre dei Carbonari.
Il corteo sfilò tra gli applausi della folla; le vie echeggiavano del grido di "Viva Dio, il re e la costituzione!" al balcone della reggia si erano affacciati il VICARIO, il principe LEOPOLDO e le principesse reali, che sorridevano e sventolavano i fazzoletti plaudendo e salutando.

I generali Pepe e Napoletani, il tenente colonnello De Concilii, il tenente Morelli e Luigi Minichini salirono al palazzo reale e furono ricevuti dai principi e dal Vicario. Questi accompagnò il Pepe dal re, che giaceva a letto ammalato. Ferdinando porse la mano al generale, il quale, baciatala, disse: "Ora vostra Maestà regna sul cuore di tutti". Il sovrano fece mostra di accoglierlo benignamente e fra le altre cose gli disse: "Spero, generale, che ti comporterai con onore".

IL GIURAMENTO

Il 13 luglio, nella cappella della reggia, alla presenza dei ministri, dei primi ufficiali dello Stato e della Corte e dei membri della Giunta Provvisoria, terminata la Messa, FERDINANDO I, con una mano stesa sul Vangelo, pronunziò solennemente la formula del giuramento:

"Io, Ferdinando I, per la grazia di Dio e per la costituzione della monarchia napoletana, re delle Due Sicilie, giuro in nome di Dio e sui santi Evangeli che difenderò e conserverò la religione cattolica, apostolica, romana senza permetterne altra nel regno; giuro che osserverò e farò osservare la costituzione politica e le leggi della monarchia napoletana, non badando in qualunque cosa se non al bene ed al vantaggio di essa; che non impegnerò, cederò né smembrerò parte alcuna del regno; che non esigerò mai alcuna imposta o denaro né altra cosa, se non quelle che saranno decretate dal parlamento; che non mi impadronirò mai delle proprietà di alcuno, e che rispetterò soprattutto la libertà politica della nazione e la personale di ogni individuo; e se in ciò che ho giurato o in parte di esso facessi il contrario non dovrò essere ubbidito, ed ogni operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun valore. Così facendo, Iddio mi aiuti e sia in mia difesa, in contrario me ne domandi conto".

Secondo quel che scrive il Colletta, dopo avere pronunciata la formula, Ferdinando I mirò il Crocifisso e spontaneamente aggiunse questa invocazione:

"Onnipotente Iddio, che con lo sguardo infinito leggi nell'anima e nell'avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, tu in quell'istante dirigi sul mio capo i fulmini della tua vendetta".


Quindi il sovrano ribaciò il Vangelo e alla fine della cerimonia, incontratosi con il Pepe - come questi narra nelle sue memorie - gli disse con accento di sincerità: "Generale, credimi; questa volta ho giurato dal fondo del cuore". Giurarono, l'uno dopo l'altro, anche il principe ereditario e il principe Leopoldo, e il primo in qualità di Vicario, ricevette a sua volta i giuramenti dei ministri e del Pepe.
Il giorno dopo fu pubblicato un bando, con il quale il Vicario dichiarava di non aver trascurato nulla per fare rispettare la libertà e l'indipendenza. I Napoletani - diceva - dovevano mostrarsi degni del beneficio chiesto ed ottenuto; l'impazienza di goderne non doveva far tenere in poco conto i modi di mantenerlo e di assicurarlo; le imposte che di più gravavano sul popolo sarebbero diminuite, ma ogni diminuzione cagionava povertà all'erario e preparava quindi la rovina dello Stato. Infine il Vicario lodava la temperanza del popolo con la quale si era resa memorabile la rivoluzione e esortava i sudditi a proporre alla Giunta quanto si credeva utile allo Stato.

Essendo stata accordata una larga amnistia per tutti i reati comuni commessi anteriormente al 7 luglio, esclusi l'omicidio, il parricidio, la grassazione, l'avvelenamento, la calunnia e la falsa testimonianza in cause capitali, ed essendo uscito dalle carceri moltissimi uomini di malaffare, che avrebbero potuto turbare la sicurezza pubblica, il Vicario Generale, con decreto del 20 luglio, istituì nuovamente il Ministero di Polizia che, dopo il ritiro del principe di Canova, era stato unito a quello dell'Interno, e a reggerlo chiamò l'avvocato medico PASQUALE BORRELLI, uomo di grande ingegno, che aveva fatto parlare di sé con il suo libro "Principia Zoognosiae" e che si rese utilissimo al governo con la propria energia in un momento in cui i Carbonari, cresciuti enormemente di numero, mostravano apertamente di esser malcontenti che il potere fosse caduto in mano dei Murattiani e si agitavano minacciosamente, mentre i reazionari rialzavano a poco a poco la testa, fomentavano le discordie ed eccitavano alla rivolta soldati ed ufficiali del reggimento Farnese.

Il 22 luglio il Vicario pubblicò un terzo decreto con il quale fissava la riunione degli elettori parrocchiali per il 20 agosto, quella degli elettori distrettuali per il 27 agosto, quella dei provinciali per il 3 settembre e l'inaugurazione del parlamento per il 1° ottobre. In quel decreto il Vicario diceva che "all'avvicinarsi di un tempo nuovo per i Napoletani, il suo cuore era nell'ansia di chi aspetta un fortunato evento e ne teme gli ostacoli; che sperava che tutti fossero consapevoli dell'importanza della missione dei deputati e perciò fossero cauti nella scelta; che nel momento delle elezioni dovevano tacere le passioni e i partiti e doveva esser tenuto presente che quel parlamento era chiamato a adattare lo statuto al regno e ad assicurare la prosperità in casa e al di fuori l'indipendenza".

"Nella elezione del primo grado siano scelti uomini che abbiano l'universale fiducia, e la loro scelta sia agli altri d'esempio in modo che agli elettori provinciali resti la difficoltà di dovere eleggere fra i buoni i migliori; si guardi che gli eletti siano uomini probi, virtuosi, incorruttibili e segnalati per sincero amore di patria. I cittadini tutti innalzino l'animo sopra le passioni e le particolari utilità, poiché gli uomini e i personali interessi passano, ma le nazioni restano; e tengano innanzi alla mente più il futuro che il presente".

Il Vicario concludeva dichiarando di non aver di mira nessun altro interesse che quello dello Stato e di nutrire in cuore il medesimo desiderio manifestato dal re nell'atto del giuramento, cioè non essere in lui altra brama che quella di veder contenti i suoi popoli, non aver egli altra ambizione se non quella di aver primo cooperato al bene universale.

Ma mentre il principe Francesco parlava di prosperità e di libertà ed esortava i sudditi a reprimere nell'animo il tumulto delle passioni, una gravissima notizia giungeva alla capitale: Palermo era in rivolta.


La prossima puntata è proprio
quella della Rivoluzione Palermitana

dell' anno 1820 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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