ANNI 1821 - 1822

IL PIEMONTE E L'OCCUPAZIONE AUSTRIACA
CARLO FELICE e FERDINANDO - PROCESSI, CONDANNE - GLI ESULI

L'OCCUPAZIONE MILITARE AUSTRIACA IN PIEMONTE - CARLO FELICE CONCEDE L'AMNISTIA - PROCESSI E CONDANNE - CARLO FELICE A TORINO - IL MOTO RIVOLUZIONARIO DEL COLONNELLO ROSSAROLLA MESSINA - LA REAZIONE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE - IL PRINCIPE DI CANOSA - L'AMNISTIA - IL PROCESSO DI MONTEFORTE - FINE DEI TENENTI MORELLI E SILVATI - ALTRI PROCESSI ED ALTRE CONDANNE - LA REAZIONE IN SICILIA - GLI ESULI ITALIANI IN AFRICA, IN ASIA, IN FRANCIA, IN SVIZZERA, NEL BELGIO E NELL' INGHILTERRA - GLI ESULI ITALIANI COMBATTONO PER LA LIBERTÀ DELLA SPAGNA E DELLA GRECIA - EROICA MORTE DI SANTORRE SANTAROSA - SCRITTI DEGLI ESULI - LE DONNE IN ESILIO
---------------------------------------------------------------------

L'OCCUPAZIONE MILITARE AUSTRIACA IN PIEMONTE
CARLO FELICE CONCEDE L'AMNISTIA
PROCESSI E CONDANNE - RITORNO DI CARLO FELICE A TORINO


Una delle tristi conseguenze della cooperazione straniera alla restaurazione dell'assolutismo nel Piemonte fu l'occupazione militare austriaca. Il 24 luglio del 1821 era firmata a Novara dal conte BUBNA, dal barone BINDER, dal conte MOCENIGO, dal PETIT-PIERRE e da LA TOUR, in nome dell'Austria, della Russia, della Prussia e del Regno di Sardegna, una convenzione per l'occupazione temporanea di una linea militare nel Piemonte da un corpo austriaco; di questa convenzione riportiamo qui i capitoli principali (letteralmente):

"…La forza del corpo d'armata austriaco destinato ad occupare, in nome e conformità degli impegni generali delle potenze alleate, una linea militare negli Stati di S. M. CARLO FELICE Re di Sardegna, deve ascendere a dodicimila uomini, vale a dire otto battaglioni di fanteria di linea, un battaglione di cacciatori, due reggimenti d'ussari e tre batterie d'artiglieria. Questo corpo, che, rispetto al suo ordinamento interiore ed alla sua disciplina dipende dall'armata austriaca del nord d'Italia, di cui fa parte, è posto, come corpo ausiliare, a disposizione di S. M. il Re di Sardegna. Il rinnovamento di questo corpo, sia per intero sia in parte, relativamente al numero stabilito, è riservato al generale austriaco che ne ha il comando in capo. Egli formerà, per quanto è possibile, un corpo al tutto separato, i1 quale, essendo destinato esclusivamente a mantenere, insieme con le milizie di S. M. il Re di Sardegna, la tranquillità interna del regno, non eserciterà assolutamente alcuna giurisdizione nella parte del territorio occupato e non si mescolerà in alcun modo nelle funzioni delle autorità civili e militari stabilite dal sovrano; ma al contrario, a loro richiesta, darà loro attiva assistenza. Nel caso in cui circostanze impreviste spingono a desiderare a S. M. il re di Sardegna che questo corpo fosse rafforzato, il comandante generale in Lombardia è autorizzato a farlo senza bisogno di chiederne gli ordini dal suo governo. Però s'intende che questo rinforzo non resterebbe negli stati di S. M. più di quel tempo che lo giudicasse necessario, e che dovrà provvedere al suo mantenimento nello stesso modo che provvede per il corpo d'occupazione.
Il corpo ausiliare austriaco occuperà la linea militare seguente: Stradella, Voghera, Tortona, Alessandria, Valenza, Casale e Vercelli. Le linee di comunicazione fra le diverse parti saranno tracciate per Pavia e Buffalora. Se però S. M. il Re di Sardegna giudicherà opportuno trasferire una parte di questo corpo ausiliare in alcuni punti del suo regno fuori di queste linee, il generale comandante austriaco si rimetterà ai desideri di S. M. e prenderà i provvedimenti necessari per adempiere lo scopo propostosi. Il governo sardo, dovendo incaricarsi del mantenimento di questo corpo, vi provvederà nel seguente modo; l'alloggiamento, il fuoco, i lumi, le vettovaglie e i foraggi saranno somministrati in natura; è pattuito che il totale delle razioni non sorpassi le tredicimila (13.000) per gli uomini, le quattromila (4.000) per i cavalli, e queste razioni siano date secondo la tabella unita alla presente convenzione.

Quanto al soldo, al vestiario e agli altri oggetti necessari, il governo sardo farà le spese per la somma di trecentomila (300.000) franchi per mese, che sarà pagabile ogni quindici giorni a contare dal giorno della sottoscrizione di questi capitoli. S. M. I. e R. Apostolica rinunzia a un'indennità per le spese di mobilitazione del corpo di milizie ausiliari mandato a S. M. il Re di Sardegna; ma presto saranno nominati commissari austriaci e sardi per liquidare le spese di mantenimento cumulate dal giorno dell'entrata di questo corpo nel territorio piemontese fino il giorno della sottoscrizione dei presenti capitoli .... I detti commissari si accorderanno nello stesso tempo sui termini del pagamento dell'arretrato, che deve essere eseguito nello spazio di quattordici mesi a contare dalla sottoscrizione della presente convenzione. ....Essendo.... desiderio vivo che l'occupazione militare non si prolungherà oltre il tempo necessario per il riordinamento del regno di Sardegna e per il consolidamento del suo governo, è stato deliberato che questo provvedimento duri fino il mese di settembre 1822, nel qual tempo i sovrani alleati riunendosi a Firenze esamineranno d'accordo con S. M. Sarda la situazione del suo regno, e di comune concerto prenderanno la risoluzione di prolungare o far cessare l'occupazione della linea militare con un corpo ausiliare".


Invece l'occupazione austriaca durò fino al 30 settembre del 1823. Essa gravò sul paese per dieci milioni l'anno, oltre i due milioni per le spese di spedizione e gli otto milioni quanti era costata la rivoluzione.
Il 30 settembre del 1821, da Modena, CARLO FELICE pubblicò un editto di amnistia, ma dall'indulto che lui chiamò "pieno" il sovrano escluse:

"…i capi, gli autori e promotori delle congiure e sommosse per procurare lo sconvolgimento del governo; coloro nelle cui case si tennero adunanze per concertare atti rivoluzionari; coloro che con danaro, lusinghe e promesse smossero o tentarono di smuovere la fedeltà delle truppe; coloro che, preposti all'istruzione, fecero traviare la gioventù; coloro che, con scritti, stampati o no, promossero l'istituzione di nuove forme di governo; coloro che si opposero alla promulgazione dei bandi del Re; coloro che si dichiararono capi, direttori o membri della Federazione italiana; coloro che assunsero comando militare per promuovere o sostenere lo sconvolgimento; coloro che, per promuovere o sostenere lo sconvolgimento, si fossero resi colpevoli di omicidio; di estorsione di danaro dalle casse pubbliche o comunali, o di imposizioni arbitrarie, di contribuzioni ai comuni ed ai particolari ".

L'amnistia insomma con questi termini, non salvava quasi nessuno; pertanto coloro che avevano ragione di temere cercarono di salvarsi con la fuga. I tribunali speciali (R. Deputazione e Commissione militare) ebbero un gran da fare, giudicando, fra militari e civili, ottocento trentasette persone ed emettendo, tra il maggio del 1821 e il gennaio del 1823 ben…

NOVANTASETTE CONDANNE A MORTE

Il VANNUCCI (dalla sua opera, che possiedo - I Martiri della Libertà Italiana dal 1794 al 1848 - edita nel 1848 con i tipi di Lemonnier) ) ci fa sapere i nomi dei condannati alla pena capitale: i colonnelli cavalier Guglielmo Ansaldi, marchese Carlo Asinari di Caraglio, conte Carlo Vittorio Morozzo di S. Michele, cavalier Michele Regis; i maggiori conte Annibale Santorre Derossi di Santarosa, cavalier Giacinto di Collegno di Provana; i capitani conte Guglielmo Baronis, conte Carlo Bianco di San Iorioz, Tommaso Calvetti, cavaliere Cesare Ceppi, Giambattista Enrico, cavalier Vittorio Ferrero, Luigi Gambini, Giacomo Garelli, Andrea Garrone, conte Guglielmo Moffa di Lisio, Clemente Morovaldi, cavalier Giuseppe Pocchiurotti, conte Isidoro Palma di Borgofranco, cavaliere professore Evasio Radice, Giorgio Viglino; i luogotenenti e sottotonenti conte Carlo Armano di Grosso, Pietro Antonelli, Stefano Arbandi, Giuseppe Avezzana, Carlo Barandier, Lazzaro Borra, Giulio Cucchi. Secondo De-Rolandi, Giuseppe Goffredo Calvetti, Giambattista Laneri, Carlo Limonta, Luigi Monticelli, Giovanni Plasco, Fortunato Prandi, Celestino Rossi, Ignazio Rossi, Luigi Trona; gli Alfieri Vittorio Bertrandi, Vittorio Brunetti, Luigi Cassana, Luigi Giolitti, Giuseppe Osella; i sergenti forieri Giannantonio Macchia, Pietro Regis, Antonio Scavarda; i sergenti Vincenzo Aimino, Antonio Forzani, Giuseppe Faraud, Pietro Rebioglio, Damiano Rittatore, Leone Rolla; il brigadiere dei carabinieri reali Pietro Pausa; il caporale di cavalleria Giuseppe Barberis; il cornetta dei dragoni Gaspare Franchini; i nobili principe Emanuele Dal Pozzo Della Cisterna marchese Demetrio Turinetti di Priè, conte Ettore Perrone; gli avvocati Carlo Beolchi, Giovanni Dossena, Carlo Franzini, Pietro Fechini, Pietro Gillio, Fortunato Luzzi, Giambattista Marocchetti, Giuseppe Malinverni, conte Aleimo Palma di Ceresola, Giambattista Pollano, Giuseppe Pollone, Giuseppe Prina, Amedeo Ravina, Giambattista Testa, Gioacchino Trompeo Cristiano Vanni; i medici Pietro Carta, Luigi Castagnone, Giambattista Cerruti, Giuseppe Crivelli, Giuseppe Gervino, Giovanni Gadetti, Urbano Rattazzi, Francesco Tadini; l'ingegner Giovanni Appiani; il banchiere Pietro Muschietti; i preti canonico Gioacchino Ambrogi e don Giovanni Tubi; gli insegnanti Carlo Massa e Francesco Magliola; l'impiegato postale Giuseppe Strozzi; lo studente Ercole Maione; i cittadini Luigi Balladore, Pietro Gola, Francesco Oreglia, cavalier Luigi San Nazzaro, detto Fracassa, Giuseppe Facchino, Carlo Camillo Trompeo e Guglielmo De Vaudoncourt.

"Di questi novantasette condannati a morte, novanta erano già fuggiti e furono impiccati in effigie (sotto la forca -come monito- si metteva l'immagine del condannato nell'attesa di farlo penzolare appena catturato); il conte PALMA di Borgofranco, arrestato a Monaco, fu espulso dal regno solo perché il suo arresto fu considerato illegale, il RAVINA, catturato sopra una nave spagnola, fu rilasciato ed espulso dalle frontiere; due soli furono impiccati: GEROLAMO GARELLI, capitano nel reggimento Genova Cavalleria (21 luglio 1921) e GIAMBATTISTA LANERI, luogotenente dei Carabinieri (24 agosto 1921). Degli altri processati, cinquantuno furono condannati alla galera perpetua e cinquantadue al carcere per un numero vario d'anni,
"Né la reazione si fermò qui. Quattro brigate e tre reggimenti di fanteria furono soppressi; destituiti 242 ufficiali e degradati 75 sottufficiali; molti impiegati furono espulsi dai loro uffici; parecchi ecclesiastici relegati in monasteri; le università di Torino e di Genova chiuse per un anno per gli studenti, fatti eccezione quelli iscritti ai corsi di medicina; le scuole poste sotto la sorveglianza dei vescovi e dei parroci; agli studenti fu vietato di frequentare i caffè, i biliardi, i teatri ed altri luoghi di pubblico ritrovo e fu ingiunto di denunciare il loro indirizzo ai prefetti ecclesiastici preposti alla loro sorveglianza, che avevano il diritto di visitare il domicilio di chiunque e di accertarsi se nei giorni prescritti mangiassero di magro e si confessassero e comunicassero regolarmente" (Atto Vannucci)

CARLO FELICE ritornò in Torino il 18 d'ottobre del 1821. Pretese che l'esercito, i nobili, i procuratori delle città e dei comuni prestassero il seguente giuramento:

"Giuro di esser fedele a Dio e a S. M. il re CARLO FELICE e ai suoi reali successori; di servirlo con onore e lealtà; di sacrificare le mie sostanze ed anche la mia vita per la difesa della sua reale persona e a sostegno della sua corona e della sua piena autorità sovrana anche contro i suoi sudditi che cercassero di sconvolgere la forma del governo; e di non mantenere alcuna corrispondenza diretta o indiretta con Principi, Potenze o Ministeri stranieri; di non ricevere da quelli e questi né pensioni né distinzioni qualsiasi senza il permesso di S. M. e di allevare i miei figli nella lealtà di questi sentimenti. Giuro inoltre di non appartenere a nessuna setta né società proibita dal governo di S. M. né di entrarvi per l'avvenire".

Anche gli ecclesiastici dovettero prestare giuramento:
"Giuro d'essere e mantenermi fedele a S. M. CARLO FELICE nostro legittimo sovrano e ai Reali suoi successori; di sostenere con tutti i miei mezzi, la piena possanza ed autorità sovrana e di far nascere e propagare questi sentimenti in ogni occasione che mi si presenterà".

Quando, tornando da Modena, Carlo Felice giunse ai piedi del monte dei Cappuccini, il governatore THAON DI REVEL che stava ad aspettarlo con i decurioni della città, gli porse le chiavi e disse: "La città di Torino, afflitta e desolata dopo le luttuose sue vicende, era priva del più dolce suo conforto per l'assenza del suo monarca. Il ritorno delle MM. VV. fa rinascere il contento e il giubilo". Il sovrano rispose:
"Sono persuaso della sincerità dei sentimenti della città di Torino a mio riguardo e spero che per l'avvenire i suoi abitanti si studieranno di riparare con il loro perfetto sudditizio attaccamento e con il loro zelo per il servizio del Re allo scandalo che purtroppo un numero di scellerati hanno commesso fra le sue mura".

Entrato in città, Carlo Felice andò nella cattedrale ad assistere ad un Te Deum, quindi si ritirò nei suoi appartamenti, guardandosi bene dal metter piede in quelle sale della reggia dove era stato deciso di concedere la costituzione spagnola. La sera furono fatte grandi luminarie in città, ma una pioggia torrenziale spense tutti i lumi; il re commentando disse: "come me, il Cielo trova il momento più adatto al pianto che non alla gioia".
E, se in Piemonte il cielo piangeva, nel Regno delle Due Sicilie gemeva.

IL MOTO RIVOLUZIONARIO DEL ROSSAROLL A MESSINA
LA REAZIONE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
IL PROCESSO DI MONTEFORTE - FINE DEI TENENTI MORELLI E SILVATI
ALTRI PROCESSI ED ALTRE CONDANNE - LA REAZIONE IN SICILIA

Nel regno delle Due Sicilie la rivoluzione del 1820-21 non era per nulla finita con l'entrata degli Austriaci a Napoli. Un valorosissimo soldato, che aveva combattuto per la Repubblica partenopea, che aveva partecipato alla battaglia di Marengo e alla campagna del 1815 sotto il re Gioacchino, il generale GIUSEPPE ROSSAROLL, tentò di salvare, da Messina, del cui presidio era comandante, la costituzione.
A lui si erano rivolte le vendite carbonare quando, il 26 marzo, giungeva la notizia che in Piemonte era stata concessa la costituzione spagnola. L'annunzio valse a sollevare gli spiriti; una folla di cittadini, alla quale si unirono molti ufficiali e soldati del presidio, improvvisarono una dimostrazione e sulla porta della fortezza furono innalzate due bandiere tricolori.

Il principe di SCALETTA, luogotenente dell'isola, preso dal panico si diede alla fuga e il Rossaroll, presa la direzione del moto, chiamò alle armi i Siciliani e i Calabresi. Ma pochissimi risposero al suo appello; il generale NUNZIANTE, fedele borbonico, che si trovava a Palermo si preparò a fronteggiare il movimento costituzionale; ma i presidii napoletani dell'isola non si mossero e perfino nella stessa Messina erano molti i cittadini e i soldati ancora fedeli al re.
Il Rossaroll tentò di dare forza all'insurrezione con un colpo di mano su Reggio la notte dal 2 al 3 aprile; ma il comandante della cittadella di Messina si rifiutò di ubbidirgli, inoltre il comandante delle barche cannoniere non si trovò al luogo stabilito e parte delle truppe che doveva partecipare all'azione si disperse.
Il 3 aprile il ROSSAROLL riparò a bordo di un brigantino britannico (questo sa ad indicare che gli inglesi c'erano sempre; e al fianco dei rivoltosi) che lo portò a Barcellona. Contemporaneamente il cardinale GRAVINA, arcivescovo di Palermo, assumeva il governo dell'isola.

Non pochi di quelli che avevano partecipato all'insurrezione furono tratti in arresto e giudicati dalla "Commissione militare della Valle di Messina", la quale, con sentenza del 25 febbraio del 1922, condannò nove persone alla pena di morte, e cioè gli arrestati don GIUSEPPE BIGANDI, SALVATORE CESAREO, FRANCESCO CESPES, VINCENZO FUCINI, CAMILLO PISANI, e i contumaci GIUSEPPE NATUZZI, MICHELE DI MARCO, GIUSEPPE SAIJA, GIUSEPPE COFINO, e con altra sentenza condannò pure alla pena capitale il generale ROSSAROLL e ALESSIO FASULO. Di questi undici, cinque erano contumaci, tre ebbero commutata la pena in quella dell'ergastolo, tre - il prete BIGANDI, il FUCINI e il CESAREO furono fucilati. A varie pene furono condannate altre trentotto persone delle quali quindici erano contumaci.

Con il fallimento dell'insurrezione di Messina, cui seguiva la restaurazione in Piemonte; l'azione della Santa Alleanza trionfava nella penisola e la Corte di Vienna ne informava i suoi ambasciatori presso le capitali europee con il seguente messaggio (integrale e letterale):

"L'edificio innalzato della ribellione, tanto fragile nella sua costruzione quanto vizioso nei suoi fondamenti, non riposando che sull'astuzia degli uni e sul momentaneo accecamento degli altri, riprovato dalla massima parte del popolo, odioso anche in quell'esercito formato per difenderlo, crollò al primo contatto con la forza regolare destinata ad abbatterlo, il che non servì che a dimostrarne la nullità. Il potere legittimo è ristabilito; le fazioni sono disperse; il popolo napoletano è liberato dalla tirannia di quegli audaci impostori, che lusingandolo con i sogni di una falsa libertà, commettevano sopra di lui le più crudeli vessazioni, imponendogli enormi sacrifici a solo profitto della loro ambizione e della loro avidità e procedevano innanzi a gran passi verso l'inseparabile rovina di un paese, di cui non cessarono mai di gridare che erano loro i rigeneratori. Quest'importante restaurazione è compiuta, per quanto fu possibile essere compiuti dai consigli e dagli sforzi delle potenze alleate. Oggi che il re delle Due Sicilie è investito di nuovo dalla pienezza dei suoi diritti, i monarchi si limitano ad assecondare con i loro voti più ardenti le risoluzioni che questo sovrano sta per prendere al fine di ricostituire il suo governo sopra solide fondamenta, e per assicurare con sagge leggi ed istituzioni i veri interessi dei suoi sudditi e la costante prosperità del suo regno".

Se è vero quel che scrive il Colletta che cioè i monarchi alleati erano dell'avviso di non dovere nel regno delle Due Sicilie infierire troppo con la reazione, Ferdinando I non fece tesoro dei prudenti pareri dei suoi alleati. Si trovava a Firenze, dove il 2 aprile donò alla chiesa della SS. Annunziata una ricca lampada votiva d'oro e d'argento con quest'iscrizione: "Mariae Genitrici Dei Ferd. I utr. Sic. rex Don. DD. Anno XDCCCXXI ob pristinum imperii deeus ope eius praestantissima recuperatum"; e a Firenze, per precauzione, rimase qualche tempo ancora, stabilendo di là un governo provvisorio sotto la presidenza del marchese di CIRCELLO, ministro degli esteri.

Chi però ebbe incarico di ristabilire l'autorità del monarca nel regno fu il famigerato PRINCIPE di CANOSA. Si dovevano punire tutti i colpevoli, senza pietà, e non soltanto gli autori dell'ultimo rivolgimento, ma tutti coloro, la cui condotta politica dal 1793 in poi aveva dato luogo a lagnanze; si dovevano opprimere tutti gli insofferenti d'assolutismo con la morte, con la prigione e con l'esilio, non doveva essere osservato il trattato di Casa Lanza, i rei dovevano essere sottoposti a processi sommari e, infine, si doveva cogliere l'occasione per "pulire" il regno una buona volta dai nemici dei troni.
Si cominciò con l'ordinare il disarmo dei cittadini, si soppresse la libertà di stampa, si proibirono le società segrete, furono sciolte le milizie provinciali, licenziato l'esercito, create quattro Giunte di scrutinio con l'incarico di indagare sulla condotta degli ecclesiastici e dei funzionari civili e militari, fu istituita una Corte marziale, furono chiuse le università ed abolite tutte le leggi promulgate dal governo costituzionale; poi incominciarono le vendette.

"Non vi era giorno - scrive il Colletta (lo storico fu fra i perseguitati e condannati a morte in contumacia) - che non si udiva la campana della giustizia ed il pubblico invito alle sacre preghiere, segni ed offici muti e pietosi usati tra noi quando un nostro misero è condotto a morte per condanna: erano giudizi delle corti marziali per i possessori di arme o i detentori di qualche segno di sette. In quel mentre arrivò in città, ministro di polizia, il principe di Canosa, che volle al pubblico annunciarsi, prima che per editto o per fama, con uno spettacolo atroce ormai dimenticato dal popolo, e perfino ignoto ai più giovani: cioè l'uso della frusta.
A mezzogiorno, nella popolosa via di Toledo, fu visto in militare ordine un numeroso reparto di soldati austriaci, poi l'assistente del carnefice, che ad intervalli dava fiato alla tromba, e poco dietro altri tedeschi ed altri sgherri di polizia, i quali accerchiavano un uomo, dalla cintura in basso coperto di ruvida tela, con i piedi scalzi e dalla cintura in su nudo, con i polsi strettamente legati, portando in mano ed appesi al collo tutti i fregi e le insegne dei settari, ed in capo un berretto di tre colori collo scritto a grandi note: "Carbonaro".
Quel misero, messo sopra un asino, aveva dietro il carnefice, che ad ogni squillo di tromba con sferza di funi e chiodi gli flagellava le spalle; così che il sangue aveva mutato colore alle carni, ed il volto, smorto e chino al petto, dimostrava il martirio. Seguiva la plebe spietata ma taciturna; gli onesti fuggivano, nascondendo, per prudenza, la pietà e l'orrore. Chi domandò i particolari di quel supplizio udì che il flagellato era uno appartenente a una setta, un gentiluomo di provincia (e gentiluomo appariva il suo volto e la sua persona) che, dopo la frusta, scontò in galera quindici anni, non per giudizio emesso da un magistrato, ma per la sola sentenza del ministro della polizia, principe di Canosa, che era giunto in città".


Molti di quelli, che avevano avuto parte importante nella rivoluzione, e fra questi i generali GUGLIELMO e FLORESTANO PEPE e MICHELE CARASCOSA, il colonnello DE CONCILII, GABRIELE ROSSETTI e l'abate MINICHINI, lasciandosi guidare dalla prudenza, si rifugiarono su navi inglesi e presero la via dell'esilio.
Circa quattrocento furono quelli che abbandonarono le loro case per fuggire alle vendette degli sbirri e quelli che rimasero nella speranza che il governo non avrebbe loro fatto del male caddero nelle grinfie della polizia. Fra questi furono i generali ARCOVITO, BEGANI, COLLETTA, COSTA, COLONNA, PEDRINELLI, RUSSO, i DEPUTATI BORRELLI, GABRIELE PEPE, PICCOLELLIS, POERIO, CATALANI, DONATI, SAPONARA, DRAGONETTI, e i consiglieri di STATO BOZZELLI, BRUNI e ROSSI.

Alcuni patrioti, anziché fuggire, si diedero a correr le province tentando di suscitare la guerriglia contro il tiranno. Fra questi vanno ricordati il capitano VENITE, il capitano CORRADO, il maggiore POERIO e il colonnello VALLANTE. Il Venite, un giorno, assalì Laurenzana, in Basilicata, sbaragliò i difensori e liberò un prigioniero politico, indi assalì le carceri di Calvello e ne liberò un frate. Ma la guerriglia non ebbe fortuna, anzi rese più feroce la reazione. Dei capi, il maggiore Raffaello Poerio riuscì ad esulare, il capitano Corrado morì combattendo.

"Inique leggi, - scrive il Colletta, - pratiche inique, reggitori spietati ed ingiusti, passioni del popolo ardenti e ree, coscienze sfrenate generavano misfatti gravi e continui, famiglie intere distrutte, cento e cento vendette satollate. Né solamente nell'infima plebe, ma negli alti ceti della società per natali e grado. Si udivano tutti i giorni dire, di preti ribelli ed uccisi, o di preti sicari di polizia; ufficiali dell'esercito onorarsi del mestiere di sbirro, oppure intendenti e comandanti di provincia straziare persone innocenti; o magistrati denunciatori in segreto, e poi con le delle loro accuse iniqui giudizi".

FERDINANDO I, partito da Firenze, celebrava la Pasqua a Roma, e il 15 maggio del 1821 rientrava a Napoli scortato dalle truppe austriache, fra i lazzi della plebaglia e le artificiose dimostrazioni di gioia dei funzionari e degli impiegati.
Il 21 maggio il sovrano nominò una giunta provvisoria di diciotto membri, fra cui erano il CANOSA, il CIRCELLO e il famoso cardinal RUFFO, e con loro deliberò il nuovo ordinamento da dare allo Stato: Napoli e la Sicilia avrebbero avuto un'amministrazione separata con funzionari propri, con giustizia penale e civile, con imposte e bilancio distinti; il re avrebbe trattato le cose del regno in un Consiglio di Stato di dodici membri; le leggi, i decreti, le ordinanze sarebbero state esaminate da una consulta di trenta consiglieri almeno per Napoli e da una di diciotto per la Sicilia; ogni provincia avrebbe avuto un consiglio di benestanti nominati dal re con l'incarico di distribuire equamente le quote d'imposta diretta fra i vari comuni e con la facoltà di proporre miglioramenti nell'amministrazione delle opere pubbliche o di pietà.

Il 30 maggio Ferdinando I, ricorrendo il suo onomastico, decretò un'amnistia per tutti coloro che si erano iscritti a società segrete dall'8 luglio 1820 al 24 marzo 1821, purché non avessero cospirato; amnistia che poco dopo fu resa quasi nulla con un successivo ordine di "destituire e mettere sotto processo tutti gli ufficiali che in quel ("famoso") l°- 5 luglio 1820 si erano recati a Monteforte".

Qualche mese dopo furono sciolti 14 reggimenti e 4 battaglioni staccati di fanteria e 5 reggimenti di cavalleria; un certo numero d'ufficiali mandati a casa ebbero la misera pensione di sei ducati al mese. Segui l'abolizione della coscrizione e si stabilì di assoldare tre reggimenti stranieri.

Si pattuì inoltre con l'Austria che rimanessero a guardia del regno trentamila Austriaci cui il governo borbonico s'impegnava di dare gli alloggi, le vettovaglie. E cinquecentosettantaseimila (576.000) fiorini al mese e di pagare tutte le spese sostenute dall'esercito d'occupazione dal febbraio in poi e a quelle che avrebbero fatte al ritorno.
Infine furono dispensati ai militari austriaci titoli, dignità e pensioni; una rendita di duecentomila (200.000) ducati e il titolo di principe di Antrodoco furono assegnati al generale FRIMONT. Era cominciato intanto quello che passò alla storia con il nome di PROCESSO DI MONTEFORTE. Molti degli imputati erano distinti ufficiali, quali il colonnello GENNARO CELENTANI, il tenente colonnello marchese OTTAVIO TUPPUTI, i maggiori GASTON PINEDO e STAITI e i capitani PRISTIPINO e NAPPO. I principali imputati erano i tenenti MORELLI e SILVATI, comandanti dello "squadrone sacro" di Nola. Questi, dopo l'ingresso degli Austriaci in Napoli, avevano iniziato la guerriglia alla testa di una banda di cinquecento armati, quindi, sciolta la loro truppa, si erano imbarcati su piccola nave per la Grecia. Sbattuti da una tempesta sulle coste dalmate erano stati arrestati dalle autorità del luogo e poiché si erano spacciati per romagnoli erano stati mandati ad Ancona; ma riconosciuti poi per Napoletani erano stati restituiti al governo borbonico.

"Cammin facendo, il MORELLI ebbe modo di fuggire e - come scrive il Colletta - errando "di foresta in foresta, camminando nella notte, riparò negli Abruzzi, poi scese nelle Puglie; intendeva passare nella Calabria, procurarsi denaro dai suoi parenti, per imbarcarsi di nuovo, con più felici speranze, per la Grecia. Incontrato da ladri fu derubato e percosso; ma, poiché serbò nascoste in una cinta poche monete d'oro, proseguì il cammino. Quasi nudo, tutto scalzo, camminando poco, soffrendo molto, entrò nel piccolo villaggio chiamato Chienti: si procurò da un calzolaio scarpe, poi di cibo e di vestiti e lo pagò con una moneta di sei ducati, una ricchezza non conforme alla visibile povertà del suo stato. Il calzolaio insospettito rivelò i dubbi al ministri locale. Il Morelli, fu fermato, riconosciuto, arrestato e in catene spedito a Napoli".

Il processo (che sembra anticipare quello più famoso di Norimberga un secolo dopo) fu dibattuto davanti alla "Gran Corte Speciale di Napoli". Si "voleva ad ogni costo" la condanna degli imputati e si trovarono giudici disposti a darla. Dal governo fu cassata una prima sentenza favorevole ai rei; il cavalier Di Giorgio, ministro della giustizia, che voleva fare rispettare le leggi, fu esonerato e l'onesto procuratore generale CALENDA sostituito con un altro magistrato; il presidente POTENZA, non avendo la forza di sfidar l'ira dei potenti e non volendo giudicare a torto, si finse ammalato.
Il processo durò tre mesi e iniziò con una coraggiosa domanda del virtuoso giudice DE SIMONE, il quale, essendo stati condotti dal carcere al tribunale quattro imputati infermi ed essendo stato negato il differimento del giudizio, chiese ad alta voce:
"Domando al signor presidente e al procuratore del Re se qui siamo giudici o carnefici. Il re, se fosse presente, biasimerebbe l'inumanità nostra".


Ammirato fu il nobile contegno del colonnello CELENTANI, il quale, difendendo gli ufficiali del reggimento Regina, da lui comandato a Monteforte, affermò che erano innocenti perché avevano, "in ossequio alla disciplina militare, obbedito al suo comando", ed affermò energicamente che lui solo doveva esser considerato colpevole se tale poteva chiamarsi chi aveva invocato quella costituzione che fu però accettata, promulgata e giurata dal re.
Se si voleva affermare che il re l'aveva concessa perché sottoposto a pressioni, allora anche i soldati lo erano. E se era innocente il re lo erano pure i soldati o altri subalterni che avevano eseguito gli ordini dei loro superiori. Un soldato mica può, ne deve decidere lui cosa fare, deve solo ubbidire.

A nulla valsero le arringhe dei quattordici avvocati difensori; il FISCALE chiese la pena di morte per il MORELLI, il SILVATI ed altri 28 ufficiali; tre giudici si pronunziarono per la condanna capitale, tre per l'assoluzione: il voto del presidente appoggiò quello dei primi e così fu pronunciata sentenza di morte per trenta imputati. Tredici furono condannati all'ergastolo.

Citiamo i nomi dei condannati a morte: MICHELE MORELLI e GIUSEPPE SILVATI, tenenti nel reggimento Borbone-Cavalleria; GREGORIO PRISTIPINO, capitano dei Fucilieri Reali, ANTONIO NAPPO, capitano, e FRANCESCO CAMPANILE tenente dei Militi di Monteforte; GIOVANNI PINEDO, maggiore, ERMENEGILDO PICCIOLI, capitano, FERDINANDO LA VEGA, GAETANO VILLANI, ATLANTE CANUDO, GIUSEPPE ALLEVA, LUIGI GIRONDA, ufficiali del reggimento Principe Cavalleria; OTTAVIO TUPPUTI, tenente colonnello, NICOLA STAITI, maggiore, FERDINANDO PENNASILICO, capitano, CARLO FERRARA, EMANUELE MARCIANO, FILIPPO ESPERTI, GIUSEPPE MACDONALD, VINCENZO GENARELLI, RAFFAELE ESPERTI, ufficiali del reggimento Dragoni Ferdinando; GENNARO CELENTANI, colonnello, MICHELE ALBANO, capitano, CIRIACO ROMANO, PASQUALE PESCE, TOMMASO FRANCIONE, NICCOLA RUGGERO, ufficiali del reggimento Regina; ANTONIO GASTON, maggiore, IGNAZIO RAPPOLI, FEDERICO DOLCE, ufficiali del reggimento Real Napoli. Alla pena capitale furono condannati pure i preti LUIGI MINICHINI e GIUSEPPE CAPUCCIO, contumaci.

Il MORELLI e il SILVATI furono impiccati il 10 settembre del 1822 ed affrontarono con grande dignità la morte, specie il Morelli che, mentre era condotto alla forca, ricordando i martiri della Repubblica Partenopea, rinfacciava a Ferdinando i vecchi ed i nuovi spergiuri. Gli altri 28 ufficiali avrebbero seguita la sorte del Morelli e del Silvati se non avesse interceduto per loro il conte di Frimont, generalissimo dell'esercito austriaco, il quale chiese in nome dell'imperatore la commutazione della pena e ottenne che quegli ufficiali fossero condannati ai ferri per un numero di anni che andava dai diciassette ai trenta.

Altri processi seguirono quello di Monteforte ed altre sentenze capitali furono pronunciate dalla "Gran Corte Speciale di Napoli", la quale condannò a morte in contumacia i generali GUGLIELMO PEPE e CARASCOSA, i colonnelli DE CONCILIÌ, RUSSO e PISA, i capitani PAOLELLA e GRAZIANI e il tenente D'AURIA. I deputati POERIO, BORRELLI, GABRIELE PEPE, i generali ARCOVITO, COLLETTA, PEDRINELLI furono deportati a Gratz, a Praga e a Brunn. Pene minori furono inflitte ad altre settantaquattro persone.

In seguito furono processati oltre a 500 cittadini dei vari ceti, colpevoli soltanto di aver bramata la libertà e solo per aver gioito per la costituzione. Inoltre - come narra il Colletta - fu dalla polizia "intimato per editto a 700 e più cittadini di andare volontari alle prigioni, per essere giudicati secondo le leggi, ovvero uscire dal Regno con passaporti liberi, senza minaccia di pena: aggiungendo promesse di benignità agli obbedienti, ma anche minacce ai riluttanti. Erano costoro individui sospetti che armati nelle campagne, non entravano nelle città, che cambiavano luoghi, relativamente sempre liberi, ritenuta quindi dagli sbirri una "libertà" troppo pericolosa".

Dopo l'editto, alcuni non fidandosi rimase nascosto nei boschi, altri fidandosi della propria innocenza, si presentarono al giudizio; e 560 di loro chiesero di partire.
Ottennero come promesso i passaporti; poi stabilito il cammino ed il tempo, ciascuno nel giorno fissato si recò presso il confine del Regno, per lasciarlo ed entrare in quell'altro.
Ma, nell'entrarci furono impediti dai ministri pontifici; cosicché si radunarono nella piccola città di Fondi; ma il successivo giorno, gli agenti della polizia li accerchiarono e li condussero, prima nella fortezza di Gaeta, poi nelle prigioni della città. La polizia fu soddisfatta di quest'inganno ben riuscito: parecchi di quegli ingenui, furono giudicati e condannati a varie pene, altri ottennero di passare a Tunisi o ad Algeri, luoghi che allora erano considerati "regni barbari" ma furono questi i soli stati (fra quelli "civili") a dare rifugio ai fuorusciti.

Il maggior numero, né giudicato né espulso, restò a languire nelle carceri, ne uscirono alcuni anni dopo o per il volere di uomini o per puro caso.
Era tanto il numero dei Napoletani proscritti o fuggiti, che se ne trovavano in Italia, in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in America, così nelle "città barbare", in Egitto, in Grecia, la maggior parte di loro ridotti in misere condizioni, vivendo come uomini di fatica o di mente; nessuno fu responsabile di delitti e di qualche bassezza umana; e nessuno marciò mai sotto altre bandiere contro i Greci. Si videro tuttavia casi miserevoli: figliuoli privati di padre, in un paese straniero abbandonati; padri privati di figli morti poi di stenti; intere famiglia (madre, moglie e giovani figli) nella disperazione; altri cacciati da ogni città, con moglie inferma, in cattive stagioni, indossando stracci, con due bambini in braccio e reggendo il terzo per mano, andare alla ventura, cercando ricovero e pane, altri preferirono gettarsi nel Tevere e morire. Nonostante queste disperazioni e tristezze, alcuni infelici trovarono gente pietosa disposta ad aiutarli o per consolarli delle loro sventure".

Questi di cui abbiamo parlato non furono i soli processi della reazione borbonica. Quello contro gli uccisori dell'ex-direttore di Polizia cavalier GIAMPIETRO terminò con la condanna a morte di MICHELE VALENZANO e PASQUALE AMMIRATA e con la condanna all'ergastolo di diciassette persone.
A Catanzaro, in seguito a processi contro liberali e carbonari, il 24 marzo del 1823 furono impiccati FRANCESCO MONACO, LUIGI DE PASCALE, GIACINTO DE IESSE, e condannati ai ferri il prete GIUSEPPE ANTONIO FERRARA ed altre sei persone. A Salerno fu appeso alla forca ANTONIO GIANNONE per aver preso parte ai moti del 1820-21.

Proporzioni assai vaste assunse il processo per i fatti di Laurenzana e di Calvello; 61 furono gl'imputati e di questi, con sentenza del 12 marzo del 1822, ventiquattro condannati a morte, nove all'ergastolo e dieci a pene minori. Dei condannati a morte, quindici ebbero commutata la pena in quella dell'ergastolo, ma nove furono fucilati il 13 marzo a Calvello, e cioè il monaco fra LUIGI DA CALVELLO, il prete don EUSTACHIO CIANI, il sottufficiale FRANCESCO PAOLO GIUSTI, il suo domestico GIUSEPPE LA ROCCA, l'operaio ROCCO LATELLA, il medico CARLO MAZZIOTTA, il sarto GIUSEPPE SAGARIA, il possidente FRANCESCO VENITE e il capitano GIUSEPPE VENITE.

Con altra sentenza del 12 aprile furono condannate, per gli stessi fatti, altre 18 persone, di cui quindici ebbero commutata la pena in quella dell'ergastolo; gli altri tre - il capitano DOMENICO CORRADO, LEONARDO ABATE e GIUSEPPE CAFFARELLI - furono fucilati.

Nel dicembre del 1823 per associazione segreta furono impiccati a Napoli RAFFAELE ESPOSITO e FRANCESCO SAVERIO MENICHINI e condannate ai ferri diciannove persone; a Capua, furono condannati ai ferri cinque cittadini e alla forca GIUSEPPE CARABBA e PIETRANTONIO DE LAURENTIIS. Dodici persone furono impiccate a Lanciano e nel Principato Citeriore.
Nell'agosto del 1825, l'indefessa "Gran Corte Speciale di Napoli" condannò al carcere duro per periodi che andavano dai trenta ai venti anni sedici carbonari e cinque alla pena capitale. Questi ultimi, che erano VINCENZO ESCOBEDO, ANTONIO MONTANO, GAETANO PASQUALE, CAMILLO PEPE, DOMENICO SICILIANI, ebbero commutata la pena in quella dell'ergastolo dal nuovo re Francesco I successo al padre Ferdinando I.

Sette mesi dopo, e cioè nel marzo del 1826 la Commissione militare di Napoli giudicava gli associati alla setta dei "Pellegrini Bianchi", che era una filiazione della Carboneria. Fra gl'imputati figuravano quattro donne, ricamatrici di mestiere. ELISABETTA CATALINO, CARMELA MELE, ANGELA CALMIERI, TERESA PESA. Due settari, e cioè NICOLA FUSCO e GIAMBATTISTA PIATTI, furono condannati a morte, ma Francesco I commutò la loro pena in quella dell'ergastolo, alla quale, con la stessa sentenza, erano state condannate per trent'anni altre cinque persone.
Anche in Sicilia infuriò la reazione contro i Carbonari che erano cresciuti in poco tempo di numero e preparavano un nuovo Vespro contro i magistrati e i soldati borbonici che doveva avvenire il 12 gennaio 1822. Scoperta la congiura, molti si misero in salvo con la fuga, ma molti altri furono arrestati e processati dalla Corte marziale straordinaria di Palermo.
Il 23 gennaio del 1822 furono condannati a morte i canonici BUONAVENTURA CALABRÒ e GIUSEPPE LA VILLA, il furiere GIUSEPPE CANDIA, il poeta GIUSEPPE LO VERDE, il dottor PIETRO MINNELLI, i fornai ANTONINO PITAGGIO, NATALE SEIDITA, MICHELE TERESI, il canonico VINCENZO INGRASSIA, il barone GIOACHINO LANDOLINA, il notaio GAETANO DI CHIARA, un SALVATORE MARTINEZ, il nobile GEROLAMO LA MANNA e il nobile FERDINANDO AMARI, padre dell'illustre storico MICHELE.
Gli ultimi cinque ebbero commutata la pena in quella dell'ergastolo a vita, i primi nove furono mandati a morte il 31 gennaio e scrive il "LA FARINA":
"…le loro teste chiuse in gabbie di ferro, furono appese alle porte di S. Giorgio di Palermo, dove rimasero molti anni; e l'edera e le viole a ciocche, dall'umana carne concimate, crebbero rigogliose sul muro, e, quasi senso di pietà avessero, inghirlandarono i bianchi teschi dei martiri". Più civili di così!

Il 17 settembre del 1822, fu condannato a morte SALVATORE MECCIA, procuratore, e due giorni dopo rotolò anche la sua testa dal patibolo. Per la stessa congiura furono condannati a varie pene, dai dieci anni ad un anno di carcere, altre venti persone, fra cui nobili, ecclesiastici, legali, militari ed artigiani.
Nel 1823 e nel 1824 due sentenze furono pronunciate: la prima nel novembre del 1823 condannava a ventiquattro anni di ferri sei imputati e ad otto anni un altro, tutti contumaci; la seconda del 30 aprile 1824 condannava a morte il dottor GIACOMO TORREGROSSA e il sarto GIUSEPPE SESSA, imputati di avere fondata una vendita carbonara sotto il nome di "Nuova Riforma". Il Torregrossa si avvelenò in carcere; il Sessa fu impiccato il 5 maggio; con la stessa sentenza e per la stessa imputazione furono condannate altre cinque persone da ventiquattro a diciannove anni di ferri. Il 22 dicembre del 1826 fu infine, condannato a morte il siracusano cavalier GAETANO ABELA, che abbiamo già accennato, narrando le vicende della rivoluzione palermitana del 1820.

Dal 1821 al 1826 nel regno delle Due Sicilie furono sottoposte a processo per motivi politici oltre millecinquecento persone. Di queste, centocinquantuno furono condannate alla pena capitale, ma solo cinquantacinque furono messe a morte; alle altre fu commutata la pena. Più del quadruplo fu il numero dei condannati all'ergastolo. Né queste cifre sono complete, perché non è stato mai fatto un esame dei vari processi politici e non furono poche le persone le cui colpe politiche furono presentate sotto l'aspetto di reati comuni.
Tuttavia in questo doloroso inventario, non si tiene conto dei moltissimi che fuggirono e vissero randagi, come esuli in molti luoghi stranieri e di cui si persero poi del tutto le tracce. Altri, nel loro pieno fervore liberista, si unirono ai vari combattenti per la libertà in numerosi Paesi d'Europa.
Di cui alcuni ora, narreremo le gesta.

ESULI ITALIANI COMBATTONO PER LA LIBERTA
DELLA SPAGNA E DELLA GRECIA
EROICA FINE DI SANTORRE SANTAROSA
GLI SCRITTI DEGLI ESULI - LE DONNE PATRIOTE

I moti carbonari del 1820 e del 1821 riempirono le prigioni austriache ed italiane di centinaia e centinaia di patrioti, i quali nelle orribili celle dello Spielberg, dei Piombi, di Marettimo, di Pantelleria, di Santo Stefano e di Favignana, fra sofferenze, non crollò la fede per i futuri destini d'Italia. Occorsero molti anni, molte altre sofferenze, trascorse un'intera generazione, ma alla fine su quella strada che avevano tracciato camminarono poi tutti compatti verso quel destino.

E se i condannati nelle varie carceri furono tanti, notevolmente più numerosi furono gli esuli napoletani, siciliani, piemontesi e lombardi che si sparsero nei vari stati d'Europa e si spinsero fino in America, in Asia e in Africa, portando in giro la loro miseria, il loro inestinguibile amore per la patria, l'odio per la tirannide e il desiderio intenso di libertà.
In Inghilterra dove da parecchi anni, esule volontario, viveva già il FOSCOLO, si rifugiarono GABRIELE ROSSETTI, GIUSEPPE PECCHIO, GIOVITA SCALVINI, SANTORRE DI SANTAROSA. LUIGI ANGELONI, l'abate MINICHINI, i generali GUGLIELMO PEPE e MICHELE CARASCOSA, il capitano RADICE, il marchese di CARAGLIO, il conte PORRO- LAMBERTENGHI, condannato a morte nel 1822, il POERIO, il RAVINA, il TESTA, il FECHINI, il MALINVERNI, il colonnello PISA, FORTUNATO PRANDI, GIACOMO CIANI, ANTONIO PANIZZI, GIOVANNI BERCHET, OTTAVIANO FABRIZIO MOSSOTTI e molti altri, che insegnarono la lingua della loro patria, ne fecero conoscere le tristi condizioni e diffusero il culto della nostra letteratura.
Prima di andare in Inghilterra alcuni di loro erano stati in Francia: il BERCHET, l' ANGELONI, il SANTAROSA, il POERIO. Anche la Francia offrì asilo ai patrioti italiani: vi furono il principe della CISTERNA, il conte GIACINTO di Collegno, il conto PALMA, il conte ETTORE PERRONE di San Martino, LUIGI ORNATO, ENRICO GAMBINI, FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, il colonnello SAN MICHELE, il capitano BARONIS, PIETRO GIANNONE, BARTOLOMMEO SESTINI, FRANCESCO SAFFI, TULLIO DANDOLO, CARLO BOTTA, il principe EMILIO BELGIOIOSO, e, per non citare altri, il conte GIOVANNI ARRIVABENE.
Quest'ultimo passò poi a Bruxelles, che fu larga di ospitalità agli esuli italiani, fra cui ricordiamo il capitano DUBONI, il prof. FRANCESCO OREGLIA, e il marchese GIUSEPPE ARCONATI VISCONTI, che amorevolmente aiutò il Berchet e lo Scalvini. Nella Svizzera, dove da lunghi anni viveva quella forte tempra di cospiratore che si chiamò FILIPPO BUONARROTI, andarono invece il generale DE MEESTER, HAYDEL BENIGNO BOSSI, PISANI DOSSI, MUSCHIETTI, COSTANTINO MANTOVANI, MOFFA DI LISIO, PELLEGRINO ROSSI.

La maggior parte degli esuli, dopo aver cospirato e combattuto per l'indipendenza della propria patria, andarono a combattere - e non pochi a morire - per la libertà di altre nazioni, la Spagna e la Grecia, contro l'oppressione francese e turca. Circa millecinquecento furono gl'Italiani che si recarono nella Spagna e, di questi, trecento erano ufficiali dell'esercito piemontese e di quello napoletano anche se combatterono da semplici soldati gregari.
Fra gli esuli italiani che offrirono il braccio per l'indipendenza spagnola ricordiamo il maggiore PAOLELLA, napoletano, che organizzò una legione; i colonnelli napoletani ROSSAROLL e PISA, l'altro colonnello napoletano LORENZO DE CONCILII, che passò dopo in Inghilterra e quindi a Malta e a Corfù e, nel 1831, nelle Marche e, nel 1848, a Napoli (mori novantenne e senatore nel 1866); i piemontesi GIUSEPPE PACCHIAROTTI, che costituì un battaglione e morì eroicamente a Figueras, GAETANO BORSO di Carminati, CARLO ANGELO BIANCO di San Ioroz che formò una squadrone di lancieri, e dopo essersi battuto da prode si rifugiò a Malta e finì suicida la vita a Bruxelles; i colonnelli REGIS ed ANSALDI; il maggiore GIACINTO PROVANA di Collegno; il capitano VITTORIO FERRERO, CARLO BEOLCHI; il lombardo colonnello OLINI; i genovesi LAVEDACI e ZECCA; il livornese colonnello ARDA; il piacentino capitano ROMANI, il tenente parmigiano PALAFINET, i romani maggiore PIERLEONE e sottotenente CESARINI e gli studenti piemontesi e lombardi FOSTI, RASSETTI, ROSSI, MONTEGGIA, RONNA e BARBIERI. E tutti indistintamente combatterono con valore a Olot, a Pineda, a Tordera, a Santa Coloma, a Roda, a Casa della Silva, a Grosnolley, a Matarò, a Puteja e a Soladò; in quelle battaglie caddero per la libertà spagnola ventuno ufficiali e trecento soldati italiani ed altrettanti furono feriti.

Quasi quattrocento furono gli Italiani che accorsero in Grecia e furono elementi preziosi nella guerra contro i Turchi perché organizzarono, disciplinarono e guidarono i soldati ellenici.
Il maggiore GIACINTO di Collegno organizzò l'artiglieria e combattè eroicamente all'assedio di Navarrino. A Reta caddero da prodi il colonnello piemontese PIETRO TARELLA, il maggiore lombardo ANTONIO PECORARA e il capitano genovese ANDREA DORIA; a Nauplia il maggiore ANDREA AZOLANI e i capitani VINCENZO AIMINO e ANTONIO FORZANI con altri sette italiani; a Matena il maggiore MICHELE ROCCAVILLA, a Tripolitza il capitano FRANCESCO ANDRIETTI, a Patrasso il tenente SCAVARDA e ad Atene un manipolo di esuli italiani, tra cui degni di memoria il colonnello napoletano VINCENZO PISA, il capitano GIUSEPPE DOSIO e quel RITTATORE che il 12 marzo del 1821 aveva nella cittadella di Torino ucciso il colonnello Des Geneys.
Per l'indipendenza greca diede il suo sangue colui che era stato l'anima del moto rivoluzionario piemontese: SANTORRE DI SANTAROSA. Padre di cinque figli, dopo essere vissuto in Francia e in Inghilterra ed avere scritto la storia della rivoluzione piemontese del 1821, andò in Grecia e combattendo da semplice soldato, cadde quarantaduenne nell'isoletta di Sfacteria l'8 maggio del 1825.

A Nauplia, nel 1841, fu innalzato un monumento ai duecentosessantasei stranieri morti per la libertà della Grecia. Vi si leggono nomi di Francesi, di Prussiani, di Austriaci, di Inglesi, di Svizzeri, di Badesi, di Bavaresi, di Danesi, di Wurtemburghesi, di Polacchi, ma più numerosi sono i nomi dei caduti italiani: quarantadue, di cui ventuno piemontesi.
Combattè anche in Grecia il ROSSAROLL, il quale, scampato al piombo francese e turco, morì di febbre il 2 dicembre del 1825 ad Egina. Inviatovi dal comitato filellenico di Londra con denari e munizioni, fu pure in Grecia il conte LUIGI PORRO LAMBERTENGHI, il quale assunse importanti incarichi, come quello di intendente generale dell'esercito greco.

Né solo con le armi gli esuli italiani diffondevano il nome e le sventure della patria Italia, ma anche con gli scritti. LUIGI ANGELONI dava alla luce, in Francia, un volume "Dell'Italia uscente il 1818", e un altro, in Inghilterra, "Della forza delle cose politiche"; GABRIELE ROSSETTI pubblicava poesie calde di amor patrio e il "Commento analitico della Divina Commedia"; GIUSEPPE PECCHIO stampava il "Saggio storico sull'amministrazione dell'ex Regno d'Italia" e la "Relazione della rivoluzione ellenica"; AMEDEO RAOMA i "Canti italici", GIOVITA SCALVINI "l' Esule"; CAMILLO UGONI continuava la "Storia della letteratura italiana"; GIACINTO DI COLLEGNO scriveva il "Diario d'un viaggio in Spagna nel 1823" e il SANTAROSA la storia già citata della rivoluzione piemontese.
La lista degli scrittori esuli non finisce qui. GIOVANNI BERCHET componeva le più belle e popolari sue poesie, GUGLIELMO PEPE dava alla luce le "Révelations des événements poditiques et militaires de Naples en 1820-21", PASQUALE BORRELLI i suoi "Principi della genealogia del pensiero", FRANCESCO PAOLO BOZZELLI scriveva "Sulle attinenze della filosofia con la morale", CARLO BOTTA pubblicava la "Storia d' Italia dal 1789 al 1814", TULLIO DANDOLO le sue "Lettere sulla Svizzera", e le "Lettere ad una giovane sposa", PELLEGRINO ROSSI il famoso "Trattato dì diritto penale", ALAIMO PALMA la "Difesa della rivoluzione piemontese del 1821" e il "Catechismo politico ad uso della gioventù", CARLO TROYA "Del Veltro Allegorico dì Dante", CARLO ANGELO BIANCO "La guerra d' insurrezione per bande" e le "Storie della caserma", CARLO BEOLCHI le "Reminiscenze dell'esilio".

Chiudiamo questo capitolo ricordando i nomi di alcune nobilissime donne che furono cospiratrici ed esuli: la milanese BIANCA MILESI; la contessa ERMINIA FRECAVALLI, nota per aver portato oltre il Ticino, nascosta nelle sue trecce, una lettera dei congiurati lombardi; COSTANZA TROTTI, moglie del marchese Arconati Visconti, che visse nel Belgio e fu prodiga di aiuti ai compagni d'esilio e, infine, la principessa CRISTINA BELGIOIOSO TRIVULZIO, che, più tardi, tanta parte ebbe nei cenacoli politici e letterari di Parigi.

Nei due ultimi "riassunti" abbiamo accennato al Regno delle Due Sicilie,
al Piemonte e alla Lombardia.
E negli altri stati minori ? Cosa accadeva con la Restaurazione ?
e cosa si stava tramando ancora per quella "colonia" che era diventata
l'Italia sotto la "protezione paterna" dell'Austria
una semplice "ESPRESSIONE GEOGRAFICA" ?

andiamo al prossimo "Riassunto"...

Il decennio degli Stati Italiani dal 1820 al 1830 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI