ANNI 1833-1840

LE RIVOLTE E LE REPRESSIONI

LA "GIOVINE ITALIA" IN LOMBARDIA - PROCESSI CONTRO I CARBONARI E I MAZZINIANI
FERDINANDO I IMPERATORE D'AUSTRIA, IN ITALIA - LA "GIOVINE ITALIA" A PARMA E NELLA TOSCANA
IL CONGRESSO DEGLI SCIENZIATI A PISA - IL CARDINALE LAMBRUSCHINI
TUMULTI NELLO STATO PONTIFICIO - IL MOTO DI VITERBO - PARTENZA DEGLI AUSTRIACI E DEI FRANCESI - FERDINANDO II SPOSA MARIA TERESA DI SAVOIA - GOVERNO DI FERDINANDO II
MOTI RIVOLUZIONARI NEL REGNO DELLE DUE SICILIE - IL GENERALE DEL CARRETTO REPRIME FEROCEMENTE LA RIVOLTA SICILIANA - IL MOTO DI AQUILA
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LA « GIOVINE ITALIA » IN LOMBARDIA
PROCESSI CONTRO CARBONARI E I MAZZINIANI
FERDINANDO I IMPERATORE D'AUSTRIA IN ITALIA


Tutto quello che era accaduto in Piemonte e in Liguria (narrato nel precedente "Riassunto") non era certo passato inosservato agli Austriaci; anzi, fu lo stesso CARLO ALBERTO ad informarli, forse con una lettera molto simile a quella inviata al Duca di Modena che abbiamo già accennato nelle precedenti pagine. A Vienna dovevano essere più che soddisfatti. Infatti, il Sabaudo, che pochi anni prima aveva fatto impensierire Metternich, con la salita al trono non è che erano terminate le diffidenze nel principe di Carignano.
Del resto a Vienna non era sfuggito neppure quelle speranze che i liberali piemontesi -nonostante tutto- nutrivano dal successore di Carlo Felice (la lettera di Mazzini al nuovo sovrano ne è la testimonianza). Speranze mal riposte, visto che CARLO ALBERTO, non solo ignorò la lettera, ma si stava rivelando uno zelante persecutore dei liberali, e aveva infiltrato un po' dappertutto spie con "…lo scopo d'impadronirmi dei capi rivoluzionari italiani e di rendere impossibili le loro imprese, se non per sempre, almeno per molti anni"….."…tuttavia non posso ancora persuadermi che hanno il coraggio di fare sul serio: ma se l'osassero, io spero di acquistare qualche nuovo diritto alla vostra stima e al vostro affetto".
E se questo era il tenore della lettera a FERDINANDO I (che proprio tanto amico del nipote di Carlo Felice non era mai stato, perchè sperava lui di subentrare nel regno sardo, per via della moglie, una Savoia) figuriamoci come doveva essere quella inviata a Metternich per rassicurarlo che la sua politica era in linea con Vienna, in altre parole di perseguire i liberali con una feroce repressione con la galera e con la "ignominiosa morte" sulla forca (i più fortunati con una "meno disonorevole" fucilazione).

Ovviamente agli austriaci non bastavano nè gli atti, né le assicurazioni di Carlo Alberto, nè avevano smesso di diffidare nei suoi confronti, e intensificarono i controlli negli Stati dove avevano sovrani legati alla casa degli Asburgo, e in modo particolare dove governavano loro stessi, come nel Lombardo Veneto. E come mezzi, per eventualmente stroncare ogni moto di ribellione, da qualsiasi parte questa poteva scaturire, sempre efficiente era il Quadrilatero veronese con la costante presenza del maresciallo Radetski alla guida di un consistente esercito di pronto impiego, oltre il rafforzamento dei presidi dislocati nei punti strategici e il consolidamento delle gendarmerie nelle grandi città.

Ma nonostante l'oculatissima vigilanza della polizia, la "Giovine Italia" era penetrata dal Canton Tícino in Lombardia e vi aveva fatto numerosi proseliti per merito specialmente del meccanico VITALE ALBÈRA e del dottor LUIGI TINELLI, i quali avevano fatto un'attiva propaganda in ogni ceto, avevano fondato congreghe e comitati e vi avevano iscritto professionisti, operai, commercianti e non pochi studenti delle università di Pavia e di Padova.
Come in Piemonte e nella Liguria, così anche nella Lombardia la polizia -con la stessa tecnica usata da Carlo Alberto, se non migliore- aveva finito con lo scoprire nomi e le trame degli affiliati e subito erano cominciati gli arresti, le perquisizioni, le fughe e i processi.
I primi ad esser processati furono il marchese ODOARDO VALENTI GONZAGA, GIUSEPPE ARRIVABENE, G. FRANCESCO MARCHESI, ATTILIO PARTESOTTI ed altri carbonari mantovani accusati di aver già cospirato nel 1831 per liberare CIRO MENOTTI; ma non vi furono contro di loro delle gravi condanne. Era solo forse per dare un segnale forte a chi aveva forse velleità simili a quelle messe in atto nella Savoia da Ramorino e dal Mazzini, purtroppo fallite miseramente.

Venne poi la volta di GIOVANNI ALBINOLA di Viggiù, del marchese CAMILLO D'ADDA SALVATERRA del marchese ANDREA SPINOLA e di FILIPPO ARGENTI, i quali anche loro se la cavarono con condanne piuttosto lievi.
II processo più importante fu quello contro gli affiliati alla "Giovine Italia" che terminò con la sentenza del 27 febbraio del 1835, che condannava alla pena di morte diciannove persone e cioè: il dottor LUIGI CINELLI di Laveno, BENZONI CESARE di Cremona, il dottor PIETRO STRADA di Cremona, il dottor GIOVANNI DANZI e l'ing. ANGELO POLAROLI di Codogno, l'incisore RINALDO BRESSANINI di Riva di Trento, lo scrittore ANDREA CAVALLERO di Solero Alessandrino, il dottor GIACOMO POLI di Brescia, il commerciante milanese FILIPPO LABOR, il dottor FILIPPO GUENZATI di Gallarate, GIACINTO MIGLIO di Pizzighettone, il prete DON CARLO CATTANEO di Maccio, l'architetto bergamasco ALESSANDRO MOSCHENI, il letterato GABRILE ROSA d'Iseo, il legale milanese CARLO BUSSI, lo studente di matematica GIOVANNI ZAMBELLI di Vailate, il farmacista CARLO FORESTI di Tavernola, lo studente di veterinaria GIOVANNI BATTISTA PIARDI da Pegare e il dottor CARLO LAMBERTI di Stresa. (Da come si è visto dalle professioni non erano né plebei, non erano miserabili contadini, né malviventi contro la corona e la fede)

Di questi condannati il Bressanini impazzì in carcere, gli altri diciotto ebbero commutata la pena chi in venti, chi in quindici, chi in dieci anni di carcere duro. Ma questa clemenza non fu un magnanimo atto del Sabaudo, ma un abile atto di politica del Metternich, il quale (comandava dunque anche la giustizia piemontese) volle rendere evidente la mitezza della giustizia austriaca di fronte al rigore di quella piemontese e porre in cattiva luce presso gli Italiani, la figura di Carlo Alberto.
Degli altri imputati, una sessantina circa furono condannati al carcere da venti a tre anni, moltissimi furono assolti e fra questi fu CESARE CANTÙ che era rimasto in prigione quasi un anno. Gli esuli, fuggiti all'estero abbandonando l'Italia averi e professioni, raggiunsero il numero di trecento, e fra questi l' ALBERA.

La sentenza contro gli affiliati alla "Giovine Italia" fu firmata personalmente dall'imperatore FRANCESCO I mentre si trovava a letto gravemente ammalato. Alcuni giorni dopo, e precisamente il 2 marzo del 1835, egli cessava di vivere e GIUSEPPE GIUSTI gli cantava l'elogio funebre con i versi famosi del "Dies irae", mentre al trono di Vienna saliva FERDINANDO I.

Questi -più magnanimo dello stesso padre- accordava completa amnistia a quei prigionieri politici che erano, nel 1821-23, stati condannati al carcere duro allo Spielberg, vietando però loro di rientrare nel Lombardo-Veneto. Nel 1838, accompagnato dall'imperatrice e dal principe di Metternich, scendeva in Italia, e a Milano il 6 settembre dall'arcivescovo cardinale GAYSRUCH, l'Imperatore era incoronato con la corona di ferro dei re Longobardi.

In quella circostanza l'imperatore ricostituì l' "Istituto di scienze, lettere ed arti", concesse una nuova e più ampia amnistia ai condannati politici, formò una Guardia nobile italiana di sessanta giovani destinata a risiedere presso di lui, aumentò il numero delle cattedre universitarie e si cattivò così quella simpatia di buona parte dei sudditi che Giusti deplorava nell'Incoronazione.
Con la visita in Italia dell'imperatore, il governo austriaco si consolidò nel LombardoVeneto e s'inaugurò un periodo di tranquillità che non poteva non influire sulle condizioni economiche del paese, che erano davvero floride. "L'agricoltura e le industrie, specialmente quella della seta, prosperavano, il commercio era ampio ed intenso, gli studi scientifici si propagavano nel "Politecnico", di cui stava per divenire direttore CARLO CATTANEO, una delle migliori riviste del tempo; in quelli letterari, nei quali primeggiava il MANZONI che nel 1826 aveva pubblicati i "Promessi Sposi", gli autori lombardi avevano così poco a lagnarsi della censura che MASSIMO D'AZEGLIO, quando "voleva tirare il fiato" -così diceva- scappava da Torino a Milano, e qui, infatti, pubblicò, nel 1833, l' "Ettore Fieramosca".

Per alcuni anni gli antichi istinti di rivolta parvero spenti nel lusso fastoso dei nobili, nel soddisfatto benessere del popolo, nel desiderio diffuso di cogliere serenamente tutti i piaceri della vita. Milano si governava con il "Teatro della Scala" (voluto dalla ex imperatrice M. Teresa), dove non solo le grandi creazioni artistiche del Bellini, del Rossini e del Donizzetti, ma anche le cantanti famose Malibran, Frezzolini, Grisi e Pasta, e persino le ballerine Taglioni, Cerrito ed Ester, regine e dive del cuore della ricca gioventù spensierata, assumevano l'importanza di avvenimenti politici di prim'ordine.
Allora al governo di Vienna (parve giunto il momento propizio per privare il Lombardo-Veneto di quelle certa autonomia amministrativa che Francesco I, nonostante la sua durezza, gli aveva lasciata. Sin dal 1816 il BELLEGARDE aveva ammonito:
"L'Italia deve essere considerata come un corpo affatto distinto dal resto della monarchia, mentre la sua completa unione all'Impero si potrà effettuare solo governandola con forme e con mezzi particolari e soprattutto astenendosi da qualsiasi tentativo di fusione o di accomunamento non naturale con i Tedeschi. Ma a ciò non si arriva con l'abbagliare questo popolo arguto con poche disposizioni e con poche istituzioni".

"Cinque anni più tardi gli stessi avvertimenti li mandava a Vienna lo STRASSOLDO; ma l'idea dell'accentramento, sebbene di origine rivoluzionaria, era fatta per sedurre i sovrani più assoluti, il Papa non meno che l'Imperatore d'Austria.
E fu una fortuna, perché soltanto il rispetto di tutte le autonomie locali avrebbero forse potuto rendere meno vivo, se non proprio sopprimere, il bisogno dell'indipendenza politica, il che è quanto dire della fusione con il Piemonte.
Così, dopo il 1835, i ministri imperiali (Metternich) fecero il tentativo di tedeschizzare l'Italia, e non si avvidero che, sotto un'apparente stanchezza, il popolo lombardo preparava invece, allora con febbrile lavoro la sua emancipazione nazionale, qua con una letteratura ed un'arte interessante entrambe di accorate nostalgie e d'irresistibili slanci, là con lo sviluppo continuo ed intenso di correnti economiche che volevano aprirsi la libera via nella Pianura Padana e scendere nei porti (liguri o veneti) loro assegnati dalla natura. Senza dubbio, il Risorgimento italiano - questo lo dicono in molti- ebbe un carattere essenzialmente intellettuale, ma vi fu anche in varia misura e in vario senso l'azione degli interessi materiali: la politica inaugurata dal METTERNICH in Italia sotto Ferdinando I contribuì di certo a determinare quello stato d'animo da cui sarebbe uscito a suo tempo lo scoppio eroico delle "Cinque Giornate" (Lemmi).

Lo stesso -poco lungimirante- Metternich fu travolto dalla rivoluzione del 1848. Metternich trionfò di fronte alle rivoluzioni del 1820-21, ma entrò già in difficoltà in questi anni, a partire dai moti del 1830. Al rinvigorimento del movimento liberale e democratico -non solo italiano ma europeo- corrispose la rottura della solidarietà tra le potenze orientali conservatrici da un lato e la Francia e l'Inghilterra dall'altro. L'influenza di Metternich in Austria diminuì molto dopo la morte proprio di Francesco I e dopo l'ascesa al trono di Ferdinando I (anche se costui era malato di epilessia, e paradossalmente proprio Metternich aveva più potere. Anche se non la lucidità per esercitarlo).

Metternich che -al Congresso di Vienna- sosteneva l'idea dell'equilibrio tra le cinque maggiori potenze (per garantire la pace internazionale, per difendere l'ordine politico e sociale interno) fu poi proprio lui a rompere questo equilibrio volendo far tornare l'Austria a quel secolo che (e i motivi ci sono noti) aveva fatto esplodere la Rivoluzione Francese.


LA "GIOVINE ITALIA" A PARMA E NELLA TOSCANA
IL CONGRESSO DEGLI SCENZIATI A PISA
IL CARDINALE LAMBRUSCHINI
TUMULTI NELLO STATO PONTIFICIO - IL MOTO DI VITERBO
PARTENZA DEGLI AUSTRIACI E DEI FRANCESI

Anche a Parma, come a Modena - dove avevano avuto luogo i processi contro il Ricci e il Mattioli di cui abbiamo già accennato nei rispettivi anni - si era propagata la Giovine Italia e nel 1833 la polizia, stimolata da quella austriaca di Milano, si era mostrata attivissima nel perquisire ed arrestare tutti coloro che erano sospetti di appartenere ad associazioni segrete. Era direttore della polizia ducale parmense il bergamasco ODOARDO SARTORIO, malvisto per il suo rigore e per il suo fanatismo reazionario (che da Vienna gli lasciavano fare).
La sera del 19 gennaio del 1834 fu ucciso con una pugnalata a teatro e nessuno seppe mai chi fosse stato l'uccisore.
Furono eseguiti numerosi arresti, fra cui notevole quello del letterato PIETRO GIORDANI, il quale rimase ottanta giorni in prigione ma poi, risultato estraneo ai fatti fu rimesso in libertà. L'uccisione del Sartorio forse non era che la conseguenza di una vendetta privata, o il prodotto dell'odio di qualcuno di quei liberali che erano stati maggiormente perseguitati; ma parve un avvertimento e una minaccia tanto più gravi poiché avveniva in uno stato che da tempo -con Maria Luisa- godeva una tranquillità considerevole.

Anche nella Toscana, dove il Mazzini era conosciuto per aver fondato una vendita a Livorno e per gli articoli pubblicati nell' "Indicatore" del GUERRAZZI e nell' "Antologia", la "Giovine Italia" si era diffusa, provocando una debole reazione nel governo granducale. Uno dei provvedimenti del mite LEOPOLDO II contro i liberali fu la soppressione dell' Antologia" (soppressa il 26 marzo del 1833, indubbiamente su pressione austriaca).

Più grave sarebbe stato il colpo vibrato contro il liberalismo toscano se il provvedimento fosse stato esteso al gabinetto VIESSEUX, ma questo rimase aperto e continuò ad essere focolare d'italianità. Alto focolare d'idee nuove e luogo di raccolta di giovani pieni d'amor patrio era l'università di Pisa, in cui gli studenti manifestavano apertamente la loro avversione al regime disertando le lezioni dei professori legittimisti ed accorrendo ad ascoltare quelle dei patrioti come GIOVANNI ROSINI, CARLO PIGLI ed altri. Succursale scapigliata dell'Ateneo era il famoso caffè dell'"Ussero", dove gli studenti avevano il loro quartier generale e da qui erano diffuse per tutta la Toscana e per le altre parti della penisola le poesie di GIUSEPPE GIUSTI.
Nel 1832 il geografo COSTANTINO MARMOCCHI, accusato di appartenere alla Giovine Italia, fu condannato ad alcuni mesi di carcere; ad un mese furono condannati FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI ed altri livornesi.

Crescendo in tutto lo Stato toscano il malumore contro il CIANTELLI, questi fu tolto dalla presidenza del Buon Governo e in sua vece fu messo GIOVANNI BOLOGNA; ma anche sotto di lui si procedette con un certo rigore contro i liberali. Nel 1833, in seguito alle rivelazioni fatte dal dottor FRANCESCO GUERRI, capo della congrega senese della Giovine Italia, furono arrestati VINCENZO SALVAGNOLI, CARLO BINI, PIETRO CONTRUCCI, il GUERRAZZI ed alcuni altri a Siena, a Livorno e a Firenze. Ma dal processo non risultò che la semplice costituzione di una Congrega a Siena e la misera raccolta a Livorno di settemila lire che furono poi spedite al Mazzini, per questo verso la fine dell'anno la maggior parte degli arrestati furono messi in libertà e pochi condannati al confine. Il Salvagnoli, il Bini e il Guerrazzi furono liberati ed ammoniti a trarre profitto dalla lezione per non incorrere in guai maggiori; il Guerrazzi inoltre fu messo sotto la vigilanza della polizia.
A qualche anno di carcere furono invece condannati alcuni livornesi arrestati nel settembre del 1833 perché appartenenti alla società carbonara dei "Veri italiani", che faceva capo al Buonarroti e ai marchesi Arconati di S. Marzano. Ma dopo questi limitati rigori sull'operato del governo leopoldino ritornò la tranquillità.

A Pisa, dove in quel tempo insegnavano valentissimi professori, quali RAFFAELLO PIRIA, LEOPOLDO PILLA, FRANCESCO PUCCINOTTI, CARLO MATTEUCCI, FABRIZIO OTTAVIO MOSSOTTI, COSIMO RIDOLFI, SILVESTRO CENTOFANTI, GIUSEPPE MONTANELLI, GIOVANNI CARMIGNANI e GIOVANNI ROSINI, il Granduca permise che nell'ottobre del 1839, dietro iniziativa, di CARLO LUCIANO BONAPARTE, principe di Caccino, nipote dell'imperatore Napoleone I e dotto naturalista e fervente socio della "Giovine Italia", si tenesse il primo congresso degli scienziati italiani ed egli stesso partecipò alle loro adunanze.
Circa quattrocento scienziati accorsero a Pisa dagli Stati Sardi, dal regno LombardoVeneto e dai Ducati. Mancarono quelli dello Stato Pontificio e del regno delle due Sicilie perché il Pontefice e Ferdinando II non permisero ai loro sudditi di intervenire al congresso: "sospettando - nota il Coppi - che in tali adunanze si potessero trattare o insinuare cose contrarie allo Stato".

In realtà qualche accenno alla libertà ci fu nei discorsi, e questi interventi furono la causa di un formale rimprovero inviato al granduca da Vienna con la minaccia d'intervenire se il governo granducale non cambiava "sistema".
Leopoldo continuò nella sua mitezza, perché era convinto che l'Austria non avrebbe messo in pratica le sue minacce e che i Toscani non avrebbero mai fatto la rivoluzione.
E invece nella tranquilla Toscana c'era una grande vitalità negli spiriti liberali; correvano clandestinamente numerose copie dell' "Assedio di Firenze" del GUERRAZZI, erano lette avidamente le poesie del GIUSTI, si applaudiva freneticamente alla "Rosmunda" di GIAMBATTISTA NICCOLINI, la "Giovine Italia" faceva proseliti e gli esuli degli altri stati italiani cominciavano a ricevere nel Granducato quell'ospitalità che doveva poi farsi sempre più generosa ed esser creativa all'idea dell'unità e dell'indipendenza nazionale. Nello Stato Pontificio la "Giovine Italia" si propagò rapidamente, ma, dopo il 1932, ci fu un certo stallo e una relativa distensione nella repressione.
Nel gennaio del 1836, cedendo alle pressioni del Metternich (Che a Vienna è quasi da solo al potere, essendo il sovrano epilettico), il Pontefice sostituì nell'ufficio di segretario di Stato il cardinale BERNETTI con il cardinale genovese LUIGI LAMBRUSCHINI, dotto barnabita, legittimista convinto, amico dell'Austria e perciò bene accetto al governo di Vienna, e a seguirne la politica. E se era il caso -come in passato aveva fatto i suoi predecessori- anche invocarne la protezione.
In quello stesso anno fu scoperta a Roma una congrega della "Giovine Italia" e furono condannate, come abbiamo detto altrove, diciassette persone, fra cui tre frati agostiniani. Nel 1837, per paura di tumulti a Roma furono proibite le maschere, ma questo divieto non impedì che l'ultima sera di carnevale scoppiasse una manifestazione un po' troppo rumorosa, definita "chiassata" (per non allarmare o attirare pericolosi emulatori), ma che per smorzarla ci fu l'immediato intervento delle truppe papaline.

Nonostante nello Stato Pontificio la quiete non fosse turbata da seri incidenti, pure il governo pontificio viveva in continuo sospetto e teneva sul chi vive i governatori delle province come risulta dalla seguente circolare del LAMBRUSCHINI (che aveva i suoi infiltrati) diretta ai capi delle province nel febbraio del 1837 (che riportiamo fedelmente):

"Da varie e non spregevoli sorgenti mi giunge l'annuncio di un nuovo tentativo politico di sconvolgimento, che vogliono fare i liberali in diversi punti d'Europa, e specialmente in tutta Italia. Per accingersi essi a tale detestabile impresa con la lusinga di riuscirci, mi si dice che abbiano cercato notizie sugli elementi occorrenti allo scopo, onde procedere sopra basi di calcolata probabilità per ottenerne l'intento. I convitati generali, per quanto ci viene riferito, si sarebbero rivolti ai capi delle congreghe d' Italia, per essere da questi informati, dello stato e del numero delle persone sulle quali possono contare, quanti prenderanno le armi, e quanti cooperanno con altri mezzi alla rivoluzione; se sono a sufficienza le dette persone provviste di armi o se in caso queste mancassero quanti hanno i mezzi per procurarsele. Sarebbero pure state dirette le ricerche per sapere se il partito contrario al liberalismo sia in grado di opporsi ad un movimento, anche se è composto d'individui pacifici; e se le masse del popolo siano indolenti oppure siano suscettibili a ricevere uno stimolo a contribuirvi.
Si sarebbe pure ricercato lo stato delle casse delle Società e sarebbe stato raccomandato l'impinguamento delle medesime. Dalle suddette relazioni emergono delle note, nelle quali sono riportati i nomi di sei individui per ogni città dei più decisi al liberalismo, scelti nella classe dei nobili e dei cittadini, idonei a condurre il governo di un paese e di una provincia. Altrettanto sarebbe stato ordinato intorno ai militari addetti al Partito, ossia sarebbe stata ordinata la formazione di squadre, per la guida nominati sottufficiali, pronti per la fine del prossimo entrante mese di febbraio. Tutte queste cose hanno avuto luogo per mezzo di due circolari spedite dai suddetti convitati alle congreghe, con ingiunzione di dare sollecito e preciso riscontro sui predetti quesiti e sulle accennate istruzioni. Sebbene mi si dica che agli esecutori sia stato raccomandato il più alto segreto, fino al punto di non far nulla di quanto viene loro prescritto qualora in pericolo o per aver destato sospetti ai governi, tuttavia non mi sembra possibile che di tante cose che si dicono non abbia lei V. S. Illustrissima un qualche sentore qualora veramente si producessero tali macchinazioni in codesta provincia. Non credo di dover prestare piena fede a tutte le cose su riferite e specialmente nel loro complesso; ma in pari tempo, nella persuasione in cui sono che il liberalismo non stia in questi momenti ozioso, non ho creduto potermi dispensare dal mettere V. S. Illustrissima in avviso sulle cose. Perciò con l'aria di tutta la freddezza e tranquillità, senza dar da vedere di essere entrato in qualche sospetto, ma bensì con tutta l'energia, metta in attività le accurate sorveglianze in codesta provincia, per conoscere e riferirmi ogni emergenza in proposito, e quindi prendere le misura contro il tentativo che si vorrebbe far temere".


Le "dicerie" cui il Lambruschini accenna in questa circolare non erano del tutto infondate. Infierendo nell'anno 1837 il colera (soprattutto proprio nell'Italia Centrale e Meridionale - A Roma dal 13 aprile al 26 settembre furono 9372 i casi accertati; A Napoli 21.765 (in cinque mesi 13.798 morti). A Catania, nel solo mese di agosto e settembre, morirono 6929 abitanti, a Palermo 24.000 cittadini e circa 2000 regi soldati inviati da Napoli. Il panico suscitato dal morbo scatenò la "caccia all'untore", tumulti, violenze, saccheggi, tollerati e talvolta favoriti dalle autorità locali. Ne approfittarono i carbonari e gli indipendentisti, per rilanciare le lotte costituzionaliste e attaccare i governi.

I liberali suscitarono qua e là dei tumulti contro il governo che era accusato di diffusione dell'epidemia (inviando truppe ammorbate). A Roma si preparava un moto insurrezionale, ma la polizia sventò le trame ed arrestò parecchi individui. Messi sotto processo, venti di loro furono condannati a dieci e ad otto o a cinque anni di carcere.
Il tumulto più grave avvenne a Viterbo, dove il 10 settembre gli affiliati alla "Giovine Italia" tentarono d'impedire l'ingresso ad una compagnia di granatieri proveniente da Perugia. Il tumulto fu sedato e il governatore di quella provincia, monsignor GIACOMO ANTONELLI istituì una commissione militare, la quale il 27 ottobre del 1837 pronunciò sentenza di morte contro quattro giovani, fra cui era GIUSEPPE ARCANGELI, figlio del gonfaloniere di Viterbo e condannò sette imputati, tra i quali il marchese PIO MUTI-BUSSI a vari anni di carcere. Il Pontefice però commutò a tutti la pena.
Verso la fine del 1838, trovandosi il principe di METTERNICH a Firenze, il cardinale LAMBRUSCHINI intavolò con lui, per mezzo di monsignor CAPACCINI, trattative per lo sgombro delle truppe austriache. Uguali trattative furono tentate a Parigi tra il legato pontificio e il ministro francese degli esteri.

Deciso lo sgombro delle milizie dell'una e dell'altra potenza, gli Austriaci partirono il 30 novembre, i Francesi il 3 dicembre. Allora cessò nelle Legazioni il commissariato generale; a Bologna rimase come legato il cardinale MACCHI, a Ferrara fu mandato il cardinale UGOLINI, a Ravenna l' AMAT, a Forlì il GRIMALDI.
La partenza degli Austriaci e dei Francesi fece sì che nelle Marche e nelle Romagne s'iniziasse tra Sanfedisti e Centurioni da una parte e Mazziniani e Carbonari dall'altra una feroce guerra. Qualche anno dopo lo sgombro, a Viterbo furono arrestate ventisette persone accusate di essere iscritte alla "Giovine Italia", e furono condannate una parte a venti, una a quindici e parte a trent'anni di galera. Nel 1841 fu scoperta a Bologna una società detta "Ferdinandea" che mirava, a quanto pare, di unire alla Lombardia le Legazioni; nello stesso anno furono nelle Marche arrestate ventiquattro persone, poi processate e condannate dai venti ai quindici anni di galera.

GOVERNO DI FERDINANDO II
MOTI RIVOLUZIONARII NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
IL DEL CARRETTO REPRIME FEROCEMENTE LA RIVOLTA IN SICILIA
IL MOTO DI AQUILA

Il 30 gennaio del 1836 moriva MARIA CRISTINA di Savoia, regina delle Due Sicilie, dopo quindici giorni che aveva dato alla luce l'erede della corona (Francesco Gennaro, che nel 1859 diventerà famoso come "Franceschiello").
Maria Cristina era figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia, e aveva sposato Ferdinando II di Borbone Re delle Due Sicilie, il 21 novembre 1832. Per il suo carattere mite, a Maria Cristina, i napoletani la chiamarono "la santa".

Pochi mesi dopo il re Ferdinando II faceva un viaggio in Italia, in Austria e in Francia, visitando Roma, Firenze, Modena, Vienna e Parigi e tornava a Napoli ai primi di settembre. Nel dicembre fu annunciato che il principe di Salerno, fratello del re, aveva chiesto per il re di Napoli la mano di MARIA TERESA, figlia dell'Arciduca Carlo d'Austria-Lorena. Il 9 gennaio del 1837 fu celebrato a Trento il matrimonio.

Pare che il principe di METTERNICH si attendesse molto da queste nozze, che lui stesso aveva favorito o combinato per i suoi scopi politici (anche qui credeva di essere ancora nell'altro secolo); ma presto dovette disilludersi perché FERDINANDO II, geloso della sua indipendenza, mostrò di non volere mettersi sotto il giogo né al carro dell'Austria né a quello della Francia (era il solito dilemma, abbondantemente provato da suo nonno omonimo, Ferdinando I, nei suoi burrascosi cinquant'anni di regno, con in più il giogo inglese di alcuni anni, e che anche con il nuovo re, a un altro giogo mirava. Fu poi Cavour a "rompere le uova nel paniere" di Palmerston, che forse era già pronto (con Garibaldi) a ripetere le gesta di Bentinck nel 1808-14. Inoltre siamo proprio sicuri che Cavour morì per quelle cause che sono poi passate allo storia? Certo è che un avvelenamento di Cavour contrasta con tutta la tradizione storiografica italiota - ma esiste un libricino, stampato nel 1870, ma che poi sparisce dalla circolazione - Sarà fantapolitica? E i motivi potevano esserci?).

FERDINANDO, il novello sposo (ora aveva 27 anni) pieno di attività ed energia, prese parte diretta al governo del suo stato e prodigò i suoi sforzi per farlo prosperare, costruendo strade, innalzando ponti, unendo Napoli a Caserta per mezzo di una via ferrata che fu la prima costruita in Italia (1838), iniziando bonifiche presso i laghi di Fondi e di Fucino, presso Pesto e Brindisi, cercando di migliorare l'amministrazione pubblica, dando incremento all'università di Napoli dove erano iscritti millecinquecento studenti e insegnavano cinquantacinque professori, tra cui l'insigne filosofo PASQUALE GALLUPPI, permettendo la pubblicazione di parecchi periodici come gli Annali civili, il Museo di scienze e lettere, l'"Omnibus", le Ore solitarie, l'"Iride", l'"Iside" e, famoso fra tutti, il "Progresso", fondato da GIUSEPPE RICCIARDI e diretto poi da GIUSEPPE DE CESARE e da PASQUALE DE VIRGILI.
Potente era nel Regno delle Due Sicilie la Carboneria, moltissimi i liberali di ogni gradazione e la Giovine Italia aveva fatto non pochi proseliti nelle province della terraferma propagando quell'idea di unità nazionale che in Sicilia solo pochi eletti ingegni avevano abbracciato.

Nell'isola, era sempre forte il sentimento separatista, cui andava unita una repulsione invincibile verso i Napoletani, e tutte le rivolte avevano avuto (e avranno ancora) per scopo sempre l'indipendenza del paese da quella che essi chiamavano dominazione napoletana. L'occasione per le nuove rivolte fu data dalla comparsa del colera, il quale, dopo avere infuriato tredici anni nell'Asia aveva infestato l'Europa e, entrato poi in Italia dal Piemonte, aveva causato stragi in tutta la penisola e in Sicilia.
Nelle province meridionali la moria fu terribile: nella città di Napoli in cinque mesi perirono tredicimila settecentonovantotto persone, a Palermo ne morirono ventiquattromila oltre duemila soldati della guarnigione e in tutta l'isola il morbo spense 69.250 persone.

Un po' qua un po' là nel regno delle Due Sicilie ebbero luogo sommosse occasionate dal colera. I liberali videro nel terribile morbo un prezioso alleato e sfruttarono l'ignoranza della plebe (Ferdinando a Modena lo aveva fatto con il terremoto) per suscitare rivolte, dando a credere che l'epidemia era diffusa ad arte dal governo, o almeno che questo non si curasse di combatterla. Altri ancora affermavano che inviava soldati sull'isola già ammorbati e già spacciati.

Nel luglio del 1837, a Penne negli Abruzzi, per iniziativa del notaio ANTONIO CAPORETTI e del ricevitore erariale SIGISMONDO DE SANCTIS e con la cooperazione del duca DOMENICO GANDOLI dei baroni FILIPPO FORCELLA e ALESSANDRO SCORPIONE, del marchese DIEGO ALIPRANDI e dei fratelli NICOLA, DOMENICO e CLEMENTE DE CESARIS, la popolazione insorse, disarmò la forza pubblica e fu istituito un governo provvisorio che durò due giorni e fu abbattuto dal colonnello TONFANO. I processati furono 102; di questi 8 furono condannati a morte, 1 all'ergastolo, 10 ai ferri per venti, quindici e dieci anni, 2 alla reclusione, 12 furono deportati all'isola di Ponza, e gli altri mandati in esilio.

Nello stesso mese un'altra rivolta fu tentata a Cosenza guidata dal sacerdote LUIGI DELMONTE, dal tenente LUIGI STAMPA, da CARMINE SCARPELLI, da LUIGI CLAUSI e da PASQUALE ABATI; ma il moto fu presto stroncato e il 27 ottobre questi cinque capi furono fucilati.
Ma le sommosse in Sicilia furono più gravi che altrove. Diffusa ad arte la voce che la causa dell' infierire del morbo era il governo borbonico, cominciarono i moti. Prima insorse Siracusa, dove la plebe abbatté le insegne borboniche acclamando la costituzione siciliana; poi Catania, dove furono distrutti i monumenti e le figure dei Borboni; poi disarmate le truppe fu formata una giunta provvisoria di governo. Anche in altri luoghi avvennero tumulti e si ebbe l'istituzione di governi provvisori, ma la maggior parte dell'isola rimase tranquilla e i paesi sollevati ritornarono in breve tempo all'ubbidienza del sovrano. Nonostante l'efficace risultato, Ferdinando II volle dare un esempio di fermezza tale da levare la voglia ai Siciliani di insorgere in avvenire e inviò nell'isola con pieni poteri e con numerose truppe l'odiato ministro di polizia SAVERIO DEL CARRETTO.
La punizione Del Carretto fu veramente terribile, l'odiato uomo diede le misure della sua ferocia. Molti riuscirono a fuggire, ma circa un migliaio di persone, uomini o donne, colpevoli o no, furono arrestate e processate sommariamente.

Dalle corti marziali furono pronunziate 133 sentenze di morte, tutte eseguite; altre 53 non furono eseguite solo perché i condannati riuscirono a fuggire prima di essere arrestati; altre 123 persone furono condannate all'ergastolo o a pene minori; mentre i nomi di altri 204 furono pubblicati nel "Giornale delle Due Sicilie" promettendo premi a chi li consegnava. La memoria di tale ferocia non si cancellò mai dalla mente di "alcuni" Siciliani nel cui animo crebbe immensamente da allora l'odio contro i Borboni, non più sovrani, ma oppressori. Partito il Del Carretto, il governo dell'isola fu affidato al duca di LAURENZANA che però poco dopo fu rimosso.

Tutto quanto attestava la tradizionale autonomia dell'isola fu soppresso; si abolirono le cariche dei direttori dei ministeri residenti presso il luogotenente; fu abolito l'ufficio di ministro per gli affari esteri di Sicilia; furono aumentate le tasse; le amministrazioni furono riempite di Napoletani; e fu eliminata la consulta. L'unico privilegio rimasto alla Sicilia fu l'esenzione dalla coscrizione, ma non perché il governo borbonico voleva fare il magnanimo, ma per evitare che all'interno dell'esercito o della milizia borbonica si formasse un nucleo militare armato, tutto siciliano, prestando così alla temuta rivoluzione liberale o all'indipendentismo -o a entrambe- un validissimo aiuto.

"Dopo la repressione del DEL CARRETTO la Sicilia
- scrive il Lemmi - rimase per un po' di tempo tranquilla. La "Giovine Italia" si diffuse con fatica e molto tardi, ma non per il suo carattere unitario, ma piuttosto perché le classi elevate, le sole che avevano importanza nell'isola, non simpatizzavano (e non simpatizzarono mai) con le idee di democrazia repubblicana. Così era anche a Napoli, dove gli stessi che si dicevano mazziniani - nobili di provincia e borghesi - salvo forse qualche raro giovane esaltato, preferivano l'antico programma della Carboneria, e sorvolavano, per dir così, senza esplicitamente respingerli, sugli ideali unitari del loro preteso Maestro.
Del resto non è possibile farsi una pallida idea dei partiti politici napoletani se si esce dal campo puramente intellettuale, senza tener conto della varietà degli interessi locali e non di rado delle ambizioni e delle passioni familiari e personali (nelle grandi famiglie, nelle antiche o recenti baronie e marchesati- da quelle bizantine alle arabe, alle sveve, alle aragonesi e fino alle ultime create, le murattiane) che li determinavano, specialmente nelle province; giacché queste forze che dappertutto influenzano in qualche misura nella formazione delle parti politiche nel mezzogiorno della penisola, per ragioni complesse che qui non possono essere elencate e tanto meno approfonditamente studiate, ebbero in ogni tempo un'importanza straordinaria, e molte volte anche drammatiche".

Dopo il 1834, fino al 1841 non si sentì più parlare, nel Mezzogiorno, di Giovine Italia.
Solo nel settembre del 1841, scoppiò ad Aquila una rivolta organizzata dal barone VITTORIO CIAMPELLA con la cooperazione del marchese DRAGONETTI dei baroni CALORI e CAPPA, dell'avvocato MORELLI, di GAETANO LAZZARO di Fossa e di CAMILLO MOSCONE di Ocre.
Il colonnello di gendarmeria GENNARO TONFONI fu ucciso, ma le milizie del re riuscirono a sopraffare gli insorti che si erano divisi in bande.
300 ribelli riuscirono a porsi in salvo con la fuga e tra loro il barone Ciampella; 150 furono arrestati; e contro di questi, nel 1842, una commissione stataria pronunciò 8 sentenze capitali, di cui 4 furono eseguite; 56 vennero condannati alla galera dai trenta ai cinque anni, altri con condanne minori. Di 25 contumaci 6 furono condannati a morte, 4 all'ergastolo e 15 a diversi anni ai ferri. Fra gli assolti fu il marchese LUIGI DRAGONETTI.


Nel frattempo nel Centro e in Alta Italia cosa accadeva in questi anni?

Lasciamo il meridione di questi anni (fino al 1840, poi li riprenderemo)
e torniamo indietro di qualche anno
in Romagna, nello Stato Pontificio e a Mazzini

il periodo che va dal 1834 al 1845 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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