ANNO 1848


ATTO II - LE COSTITUZIONI - PIEMONTE - TOSCANA - PIO IX

FERMENTO IN TUTTI GLI STATI ITALIANI - CARLO ALBERTO CONCEDE LO STATUTO - PRIMO MINISTERO COSTITUZIONALE PIEMONTESE, NUOVA LEGGE ELETTORALE ED AMNISTIA
AGITAZIONE IN TOSCANA - LEOPOLDO II PROMULGA LA COSTITUZIONE
L'ALLOCUZIONE PAPALE DEL 10 FEBBRAIO - RIFORME PONTIFICIE - PIO IX CONCEDE LO STATUTO
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Torino sera dell'8 febbraio 1848 - scene di giubilo all'annuncio della concessione dello Statuto
(Il Manifesto pubblicato di Carlo Alberto, la concessione autografata e l'intero testo dello Statuto,
più altre immagini in grande formato
sono presenti in queste pagine > > >

FERMENTO IN TUTTI GLI STATI ITALIANI
CARLO ALBERTO CONCEDE LO STATUTO


Alla notizia della costituzione napoletana (anche se pochi sapevano le dispute in corso) furono grandi e tante le manifestazioni di gioia nelle principali città della penisola: a Roma il Senato invitò il popolo a festeggiare con una luminaria l'avvenimento; a Firenze ne resero grazie a Dio in Duomo; luminarie furono fatte a Torino e a Genova; anche a Milano i cittadini convennero numerosissimi in Duomo ad ascoltarvi una messa cantata e a Venezia, infine, non potendosi fare altro, si approfittò di un ballo siciliano che con un altro era eseguito quel giorno in teatro, per esternare i sentimenti patriottici con il chiederne il bis: avendolo la polizia negato, un cittadino gridò: "Chi è italiano esca", e subito uscirono tutti lasciando il teatro vuoto.
Chi dei principi italiani seguì per primo l'esempio di Ferdinando II fu CARLO ALBERTO. Il 14 gennaio era scoppiata a Genova una violenta dimostrazione chiedente l'istituzione immediata della Guardia civica e l'espulsione dei Gesuiti, e una petizione firmata da ventimila cittadini era stata portata a Torino al re dai marchesi BALBI, DORIA, PARETO, RICCI e dagli avvocati CABELLA e CANALE, che però si rifiutò di riceverli.

Questo rifiuto aveva causato un vivo fermento fra i liberali e, allo scopo di discutere sulla linea di condotta che la stampa doveva tenere, si erano radunati, sotto la presidenza di ROBERTO D'AZEGLIO, i giornalisti GIACOMO DURANDO, GIOVANNI LANZA, e i MONTEZEMOLO, CORNERO, TORELLI, VALERIO, BERTI, CARUTTI, BONCOMPAGNI, BROFFERIO, CAVOUR, RICOTTI, REVERE, SINEO, PIETRO DI SANTAROSA.
Il VALERIO aveva proposto e quasi tutti avevano approvato che i giornali torinesi dovessero sostenere le domande dei genovesi, quando il conte di CAVOUR propose audacemente che si chiedesse al re la costituzione. La proposta fu accettata dalla maggioranza; fu dal Durando dettato una supplica e questa, firmata dagli aderenti, fu recata a Carlo Alberto, che però non volle ricevere la deputazione dei giornalisti, ma accettò di ritirare e quindi leggere la petizione.

Petizione che produsse nell'animo del re - nemico, com'egli stesso diceva, di certi...
"Governi costituzionali, ove la libertà è una finzione e l'amministrazione dello Stato si sostiene basandosi sulla corruzione" - un'impressione profonda; ma ancora più profonda fu l'impressione prodotta dalle notizie che giungevano dalla Sicilia e da Napoli, per le tante dimostrazioni popolari, e le informazioni che riceveva dai consigli del ministro inglese sir R. ABERCROMBY e di alcuni dei suoi stessi ministri.

A vincere le esitazioni del re giunsero le petizioni rispettose del corpo decurionale di Genova e del corpo decurionale di Torino. Quest'ultimo, riunitosi il 5 febbraio, aveva stabilito di chieder la costituzione aderendo in maggioranza alla proposta avanzata da PIETRO DI SANTAROSA. Carlo Alberto incaricò ALFIERI, BORELLI, DESAMBRAIS, SCLOPIS di compilare uno Statuto e questo fu discusso il 7 febbraio in una solenne assemblea di ministri ed altri autorevoli uomini dello Stato, tra cui era il vescovo di Vercelli monsignor D'ANGENNES, i quali, interpellati ad uno ad uno dal sovrano, sostennero la necessità di concedere ai sudditi una costituzione.

L'8 febbraio comparve un bando reale (era molto simile a quello di Ferdinando a Napoli del 29 gennaio).
In tutta Torino esplosero manifestazioni di giubilo, e per tutta le notte si fece festa dopo che un piccolo manifesto comparve sui muri della città:
"questa sera la città, sarà illuminata a festa, il Re ha colmato i voti del suo popolo".


seguiva il manifesto
1
(il manifesto e altre immagini delle feste,
compaiono come già sopra segnalato
QUI > >

manifesto in cui si diceva:

"In mezzo alle mutazioni seguite in Italia non dubitiamo di dare ai nostri sudditi la prova la più solenne che per Noi si possa, della fede che conserviamo nella loro devozione e nel loro senno. Preparate nella calma, si maturano nei nostri consigli le pubbliche istituzioni che saranno il complemento delle riforme da noi fatte. Ma fin da ora ci è grato il dichiarare che con il parere dei nostri ministri e dei principali consiglieri della nostra Corona, abbiamo determinato di adottare le seguenti basi di uno Statuto fondamentale per stabilire nei nostri Stati un compiuto sistema di governo rappresentativo. La religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato: gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi. La persona del Re è sacra od inviolabile: i suoi ministri sono responsabili. Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere. La prima sarà composta di membri nominati a vita dal Re, la seconda sarà elettiva sulla base del censo, da determinarsi. La proposizione delle leggi apparterrà al Re ed a ciascuna delle Camere. La stampa sarà libera ma soggetta a leggi repressive. Ci riserbiamo di stabilire una milizia comunale, composta di persone che pagano un censo, da fissare".

Il 27 febbraio "festa nazionale" e Te Deum alla Gran Madre di Dio



PRIMO MINISTERO COSTITUZIONALE SARDO

Il 4 marzo, cessate le feste prodotte dall'annuncio sopra,
fu promulgato lo Statuto.
* Il Manifesto pubblicato di Carlo Alberto,
* la concessione autografa e l'intero testo dello Statuto,
* più altre immagini di Torino in festa
* e la poesia " TENTENNA"

VEDI QUI )

Quel giorno stesso un decreto reale istituiva la milizia comunale; il 16 marzo un altro decreto creava il primo ministero responsabile, che vedeva alla presidenza il conte CESARE BALBO,

ai Lavori pubblici il cavalier LUIGI DES AMBROIS (1), all'Interno il marchese VINCENZO RICCI (2), all'Istruzione il cavalier CARLO BONCOMPAGNI (3), alla Guerra e Marina il generale conte ANTONIO FRANZINI (4), alla Grazia e Giustizia il conte FEDERICO SCLOPIS (5), agli Esteri il marchese LORENZO PARETO (6), e alle Finanze il conte OTTAVIO THAON di REVEL (7).


Il primo Ministero Costituzionale

NUOVA LEGGE ELETTORALE ED AMNISTIA


Il 17 marzo un terzo decreto promulgava la legge elettorale sulla base del censo di Lire 40 annue per il Piemonte e la Sardegna, di Lire 20 per la Savoia, Nizza e la Liguria.
Il 18 marzo, a coronare l'opera, si pubblicava un quarto decreto, che diceva...
"Dopo avere dato ai nostri popoli la maggior prova d'affetto e di fiducia, il più che si è potuto, chiamandoli a partecipare ai diritti della sovranità mercè lo stabilimento di un compiuto e sincero governo rappresentativo, vogliamo ora porgere a noi medesimi la soddisfazione di far cessare gli impedimenti che tolgono ad alcuno dei nostri sudditi, colpiti da condanna per titolo politico, il ricondursi sulla terra nativa e riunirsi con i loro fratelli in quell'accordo di sentimenti, d'opere e di voti che debbono assicurare il buono stato e il glorioso avvenire della nostra patria. Perciò è concessa piena amnistia e la restituzione d'ogni esercizio dei diritti politici e civili a tutti i nostri sudditi, condannati per titolo politico anteriormente alle pubblicazioni dello Statuto fondamentale. Condoniamo le multe in cui sono incorsi, e disponiamo il restituirsi la parte già pervenuta alle nostre finanze".

Furono anche restituiti gli onori, i gradi e le pensioni agli ufficiali civili e militari che per motivi politici n'erano rimasti privi. Così con la libertà e la concordia iniziava nel regno sardo un'era nuova; primo passo di quelli successivi che avrebbe visto riunite poi tutte le altre regioni della grande patria che portava un unico nome: Italia.

AGITAZIONE IN TOSCANA
LEOPOLDO II PROMULGA LA COSTITUZIONE

Come in Piemonte, anche in Toscana le notizie dell'Italia meridionale e della Sicilia produssero il loro effetto. Le varie agitazioni e poi i fatti di Pontremoli, oltre la propaganda di GIOVANNI LA CECILIA, sussistevano già da qualche tempo specie a Livorno. Anche qui, negli stessi giorni di Palermo, ai primi di gennaio, il giorno 6, fu diffuso a migliaia di copie uno scritto, nel quale con accese parole si dichiarava:
"…la patria in pericolo per le minacce di un'invasione austriaca: per salvarla era necessario che si chiamassero uomini non paurosi di morire, o ributtanti o volenti a reggere il timone dello Stato; d'accordo con il principe che si preparassero commissioni in seduta permanente; che si mandassero persone a procurarsi armi con la celerità di un lampo; che si fabbricassero intanto trecentomila picche e che si fondessero le campane delle chiese per farne cannoni".
Un programma ancora più chiaro, più audace e minaccioso di quello diffuso a Palermo.

La stessa sera del 6 gennaio, una gran folla si accalcò davanti al palazzo del Governo chiedendo armi. II generale SPRONI e CELSO MAZZUCCHI, nelle cui deboli mani erano le redini della città, non riuscirono ad impedire che si costituisse un Governo provvisorio, di cui fecero parte quindici liberali, moderati o mazziniani, tra i quali il GUERRAZZI, i conti DE LARDEREL e BARTOLOMMEI, il dottor MALENCHINI e LUIGI GIOIA. Scopo della Giunta di Governo era anche di chiedere al principe gli armamenti contro l'Austria; il Granduca invece mandò con pieni poteri e in qualità di commissario il ministro marchese COSIMO RIDOLFI, il quale giunse a Livorno il giorno 8 e con l'aiuto della Guardia civica e della parte più moderata della popolazione, il giorno dopo sciolse la Giunta provvisoria e fece arrestare sedici dei più esaltati, tra cui il GUERRAZZI e il LA CECILIA, che furono confinati a Portoferraio. Il FABRIZI, che si trovava a Pisa, sospettato di avere avuto parte al moto, ricevette l'ordine di sfratto, che però non ebbe esecuzione.

Quegli arresti, se fecero cessare i tumulti livornesi, non portarono la calma nelle altre città della Toscana, anzi inasprirono l'agitazione, la qual cosa fece forse comprendere al governo granducale che quelli non erano più i tempi adatti al sistema repressivo; poi i successivi fatti di Palermo furono ancora più convincenti. Nella stessa Livorno, nonostante la presenza del RIDOLFI e con i sediziosi più accesi già chiusi nella fortezza, gli animi anche meno caldi non aspettavano altro che un'occasione per esplodere e mostrare che la repressione non aveva spento il fuoco. E l'occasione ci fu il 29 gennaio, quando si venne a sapere che il capitano SALINAS, aveva come passeggero sulla sua nave "Nettuno" il famigerato DEL CARRETTO (cacciato da Napoli), e aveva chiesto acqua e carbone al porto per proseguire il viaggio; il popolo livornese si riversò minaccioso ai moli per impedire il rifornimento, e la Guardia Civica (da poco costituita) -saggiamente- si rifiutò di reprimere il tumulto dichiarando di "non esserci in Toscana simili strumenti di repressione autoritaria".

Oramai le cose erano giunte a tal punto che il resistere alle aspirazioni del popolo costituiva un pericolo gravissimo. Il 31 gennaio, mentre i Fiorentini festeggiavano la costituzione napoletana (concessa il 29), il Granduca annunciava:

"Con le prime franchigie già concesse alla stampa, con la creazione della Consulta di Stato, con la convocazione della Conferenza incaricata di studiare e proporre quelle riforme delle quali la legislazione municipale può essere suscettibile, ci facemmo un grato dovere d'inoltrare i Toscani nella via di quel progresso civile, nella quale già gli avi nostri li avevano felicemente incamminati, proponendoci il nobile e giusto fine di dotare gradatamente il paese di istituzioni, che per il loro carattere eminentemente patrio e nazionale contribuir potessero alla causa generale dell'unione e dell'indipendenza italiana. Fedeli a questo concetto, risoluti ora più fermamente di raggiungere lo scopo che ci siamo prefissi e di pervenirvi in quel modo per cui nella sincera ed intima concordia fra principe e sudditi, quel bene massimo si consegue senza disordini e senza perturbazioni, siamo dunque venuti nella determinazione di ordinare che ci sia presentato un progetto di riforma dell'attuale legge sulla stampa, ed un altro progetto di riforma dell'istituzione della Consulta di Stato, coordinato quest'ultimo ed armonizzato con quelle innovazioni che saranno per introdursi nel sistema municipale, onde giunger così a perfezionare al più presto quell'opera che deve assicurare la prosperità del paese. E sembrandoci che i lavori di tanta importanza si possano preparare meglio con un accurato studio di pochi piuttosto che in collegi troppo numerosi, abbiamo per la compilazione dei medesimi incaricato NICCOLÒ LAMI, GINO CAPPONI, LEONIDA LANDUCCI, PIETRO CAPEI, LEOPOLDO GALEOTTI.
Toscani! La manifestazione unanime e spontanea dei sentimenti dei vostri Municipi, quando altra volta era il cuor nostro contristato dai disordini livornesi, formò la nostra consolazione e la nostra forza. La nostra fiducia in voi fu da quel momento raddoppiata e niente potrà farla vacillare. Stringiamo ancor più, se è possibile, quella fiducia tra noi, e valga ad un tempo a condurci a completare tranquillamente le nostre riforme e ad escludere quelle tumultuarie manifestazioni, che, compromettendo la quiete del paese, oltre che indebolirci, fornirebbero occasione al disordine e farebbero forse precipitare i destini della patria comune".

Messasi all'opera, la commissione fu concorde nel sostituire, rispetto alla stampa, la legge repressiva alla preventiva; e discutendo sul modo di dare allo Stato una rappresentanza, concluse che non era opportuno né prudente entrare risolutamente negli ordini costituzionali e propose una rappresentanza nazionale formata da un senato e da un consiglio generale: i senatori, nominati dal principe, non dovevano essere più di sessanta e non meno di ventiquattro; i deputati del Consiglio, eletti da coloro che avrebbero diritto di eleggibilità nei consigli municipali, dovevano essere sessantotto; la rappresentanza doveva essere convocata ogni anno; le sessioni non dovevano durare più di due mesi; le attribuzioni della rappresentanza sarebbero state deliberative sui bilanci dello Stato e sulle leggi e regolamenti economici, consultive nelle altre cose. Era stato proposto inoltre un terzo collegio di dodici membri, scelti metà dal principe e metà dal consiglio generale, che negli intervalli tra le sessioni doveva fungere da Consulta di Stato.

Quando le proposte della Commissione furono presentate ai ministri, FERDINANDO e CARLO ALBERTO, avevano (come abbiamo visto dalle date) già concesso gli statuti ai loro sudditi e le proposte non erano più tali da appagare i desideri dei Toscani, che per mezzo di altre agitazioni e della stampa chiedevano di più, e prima di ogni cosa la costituzione.
Questa in gran fretta fu compilata sulle basi di quella francese del 1830 dalla stessa commissione e l'11 febbraio il Granduca ne diede così l'annunzio ai suoi sudditi:
"Col nostro "motuproprio" del 31 gennaio scorso intendemmo dotare il paese alle nostre cure affidato di una rappresentanza nazionale che mentre corrispondesse ai pubblici desideri ed ai bisogni dei tempi, conservasse alla toscana famiglia quel principio politico-amministrativo, al quale essa va debitrice della sua floridezza, e le desse quelle garanzie che possono assicurarle un felice avvenire. Questo pensiero era già corso alla mente dell'avo nostro immortale. I tempi e gli avvenimenti non permisero finora di vederne gli effetti; ma noi siamo lieti di ricordare al nostro popolo questa nostra gloria civile e ad un tempo ci è ben grato di trovarci al momento di dotare la nostra patria di quella rappresentanza nazionale, alla quale miravano già i nostri studi ed ogni provvedimento anteriore. Toscani ! La vostra fiducia in me non si smentirà in questo momento solenne, proprio mentre sento crescer per voi l'amor mio. Non vi lasciate sedurre da suggestioni impazienti ed aspettate tranquilli ancora pochi giorni affinché si compiano i progetti che debbono assicurare i vostri destini. Io voglio darvi quelle franchigie per le quali siete già pienamente maturi e che meritaste con la saggezza della vostra condotta. Voi datemi la gloria d'essere ora qui l'autore di una grande istituzione essenzialmente toscana e nello stesso tempo legata agli interessi generali d'Italia".

I giorni -e senza altre manifestazioni- furono veramente pochi: solo sei. Il 17 febbraio la campana di Palazzo Vecchio annunciava, sonando a distesa, al popolo di Firenze, la pubblicazione dello Statuto, di cui riportiamo fedelmente l'introduzione:

"Intesi noi a promuovere ogni prosperità dello Stato per via di quelle riforme economiche alle quali attendemmo con zelo indefesso per tutto il corso del governo nostro, il cielo benedisse le nostre cure in tal modo che ne fosse dato di giungere a questo per noi faustissimo giorno, senza che alcuna perturbazione togliendo la possibilità di operare il bene pubblico rendesse necessario il ricorrere alla istituzione di nuove forme politiche. Alle quali ora muove l'animo nostro il desiderio di adempiere con ferma, costante e deliberata volontà quel proposito che fu da noi annunciato precedentemente ai nostri sudditi amatissimi e di procurare a loro, ora che il tempo ne è giunto, quella maggiore ampiezza di vita civile e politica, alla quale è chiamata l'Italia in questa solenne inaugurazione del nazionale risorgimento. Né tale pensiero sorge nuovo nel petto nostro, perché non fu ignoto a quello del padre nostro e dell'avo, dei quali il governo ebbe gloria dal procedere sempre con i tempi o antivederli; né le nuove istituzioni, che a noi piace il concedere, tali sono che non si conformino alle abitudini di tutta la vita nostra o alle tradizioni della Toscana, cultrice antica di ogni sapere. Il compiuto sistema di governo rappresentativo che noi veniamo in questo giorno a fondare è prova della fiducia da noi posta nel senno e nella oramai compiuta maturità dei popoli nostri a dividere con noi il peso dei doveri, dei quali possiamo con intera sicurezza confidare che sia tanto vivo il sentimento nel cuore dei nostri popoli, quanto è, e fu sempre nella coscienza del loro principe e padre. Questo, preghiamo da Dio, rafforzando la preghiera nostra di quella benedizione che il Pontefice della Cristianità spandeva poc'anzi sull'Italia tutta, e nella fiducia del nostro voto promulghiamo il seguente Statuto fondamentale, con il quale veniamo a dare nuova forma al governo dello Stato ed a formare le sorti della diletta nostra Toscana".

RIFORME PONTIFICIE - PIO IX CONCEDE LO STATUTO

L'uomo che nel corso del '47, aveva fatto riempire le piazze di quasi tutte le città dei vari Regni, Ducati, Protettorati, dalla folla che inneggiava il "papa liberale", e in ogni più piccola parrocchia il grido "Viva Pio IX", spesso abbinato a "Viva l'Italia", a "Fuori gli stranieri", e anche "A morte gli Austriaci", che aveva però solo parlato ma concretamente fatto molto poco, fu l'ultimo a mettersi nella via costituzionale. Proprio Pio IX che per primo questa via aveva aperta, non pensando che essa avrebbe condotto alla costituzione. Per gli eventi narrati sopra, oltre i fatti precedenti di Ferrara, e di Parma e Modena, fin dal 10 gennaio una deputazione del Circolo romano, preoccupata del contegno dell'Austria, aveva presentato al presidente della Consulta, cardinale ANTONELLI, una petizione con la quale si chiedeva il riordinamento delle milizie:

"I disegni invasori dell'Austria sull'Italia - vi si diceva - non sono più un segreto. Modena è già invasa. Il popolo di Parma è ridotto al silenzio. Ferrara, dopo tante promesse, non è libera ancora dalle turbe di austro-croati. Vienna invia sempre nuovi reggimenti verso l'Italia. Già la Toscana (avevano letto forse il messaggio del 6 gennaio di Livorno) riordina le sue truppe e si prepara alla difesa. Il Piemonte chiama i contingenti e fa armare le sue fortezze; e noi, che siamo il primo segno dell'ira dei nemici del nostro paese, perché fummo i primi a dare il segnale del suo risorgimento, non dobbiamo oggi restare gli ultimi a prepararci per difendere il principe, le leggi e la patria. Ma la nostra milizia è divenuta un corpo debole ed infermo, perché privo di mente regolatrice. Torni a vivere con un nuovo e savio regolamento. Si concentrino le forze disperse; si aumenti, si acceleri la sua istruzione; ma sopratutto gli si diano comandanti attivi, educati alle armi e di meritata fiducia".

La Consulta, credendo giuste le ragioni esposte nella petizione, aveva proposto al Governo di chiamare ufficiali straniere per dirigere ed organizzare le milizie che erano già straniere, quando giunsero (dopo il 12 gennaio) le prime notizie dei vittoriosi moti di Palermo, seguite (il 29 gennaio) da quelle che annunciavano la promulgazione della costituzione napoletana. L'entusiasmo destato da queste notizie fu enorme e le dimostrazioni popolari ebbero termine solo quando, il 1° febbraio, il Pontefice nominò segretario di stato il cardinale BOFONDI in sostituzione del cardinal FERRETTI da qualche tempo dimissionario.
Il Bofondi giunse a Roma il 7 febbraio. Il giorno dopo, si sparse la voce che il ministero non voleva approvare gli armamenti proposti dalla Consulta, e a quel punto le dimostrazioni ricominciarono con una violenza mai prima d'allora vista: si gridava al tradimento, si reclamava lo scioglimento del ministero Bofondi, si volevano soldati, armi e un ministero laico. CICERUACCHIO non risparmiò fatiche per calmare gli animi, ma la moltitudine si sciolse solo quando il senatore CORSINI, che era andato al Quirinale, annunciò alla folla che il Pontefice avrebbe cambiato tutti i ministri, e quindi di riporre fiducia sul "papa liberale".

L'ALLOCUZIONE PAPALE DEL 10 FEBBRAIO

Il giorno 10 febbraio, il ministero Bofondi si dimetteva e PIO IX rivolgeva ai sudditi la, seguente allocuzione:

"Romani ! Ai desideri vostri, ai vostri timori non è sordo il Pontefice, che, in ormai due anni, ha da voi ricevuto tanti segni di amore e di fede. Noi non ci restiamo dal continuo meditare come possano più utilmente svolgersi e perfezionarsi, salvi i nostri doveri verso la Chiesa, quelle civili istituzioni che abbiamo poste, non da alcuna necessità costretti, ma persuasi dal desiderio della felicità dei nostri popoli e dalla stima delle loro nobili qualità. Abbiamo rivolti altresì i nostri pensieri al riordinamento della Milizia, prima ancora che la voce pubblica lo chiedesse, e abbiamo cercato il modo di ottenere da fuori ufficiali stranieri, che venissero in aiuto a quelli che già onoratamente servono il Governo pontificio. Per meglio allargare la sfera di quelli che possono con l'ingegno e con l'esperienza concorrere ai pubblici miglioramenti - se le riposate abitudini e i tranquilli studi degli uomini di Chiesa non opportunamente si confanno all'urgenza dei tempi presenti - avevamo pur provveduto ad accrescere nel consiglio dei ministri la parte laicale. Se la concorde volontà dei Principi, da, cui l'Italia riconosce le nuove riforme, è una sicurezza della conservazione di questi beni, con tanto plauso e con tanta gratitudine accolti, noi la coltiviamo, serbando e confermando con loro le più amichevoli relazioni. Nessuna cosa insomma, che possa giovare alla tranquillità e dignità dello Stato, sarà negletta, o Romani e sudditi pontifici, dal vostro Padre e Sovrano, che della sua sollecitudine per voi vi ha dato le prove più certe ed è pronto a darvene ancora se sarà fatto degno di ottenere da Dio che infonda nei vostri cuori e degli Italiani tutti lo spirito pacifico della sua sapienza; ma è pronto altresì a resistere, con la virtù delle già date istituzioni, agli impeti disordinati, come sarebbe pronto a resistere a domande non conformi ai doveri suoi e alla felicità vostra. Ascoltate dunque la voce paterna che vi assicura, e non vi commuova il grido che esce da ignote bocche ad agitare i popoli d'Italia con lo spavento di una guerra straniera, aiutata e preparata da interne congiure e da malevola inerzia di governanti. Questo è inganno; spingervi con il terrore a cercare la pubblica salvezza nel disordine, a confondere con i tumulti i consigli di chi vi governa, e con la confusione cogliere pretesto per una guerra che per nessun altro motivo potrebbe rivolgersi contro di voi.
Quale pericolo infatti può sovrastare all'Italia finché un vincolo di gratitudine e di fiducia, non corrotto da alcuna violenza, congiunga le forze dei popoli con la sapienza dei principi, con la santità del diritto ? Ma Noi massimamente, Noi, capo e pontefice supremo della Santissima Cattolica Religione, forse che non avremmo a nostra difesa, quando fossimo ingiustamente assaliti, innumerevoli figliuoli che sosterrebbero, come la casa del padre, il Centro della Cattolica unità? Gran dono del Cielo è questo, fra tanti doni con cui ha prediletto l'Italia, che tre milioni appena di sudditi nostri abbiano duecento milioni di fratelli di ogni nazione e di ogni lingua. La Cattolica Unità in altri tempi nello scompiglio di tutto il mondo romano, fu la salute di Roma; con questa che non fu mai intera la rovina d'Italia; e questa sarà sempre la sua tutela, finché nel suo Centro ci sarà questa Apostolica Sede. Oh ! perciò benedite, gran Dio, l'Italia e conservatele sempre questo dono preziosissimo di tutti, la fede ! Beneditela con la benedizione, che per lei Vi domanda, posta la fronte per terra, il Vostro Vicario ! Beneditela con la benedizione, che per lei Vi domandano i Santi cui diede la vita, la Regina dei Santi che la protegge, gli Apostoli di cui serba le preziose reliquie, il Vostro Figlio Umanato che in questa Roma mandò a risiedere il Suo Rappresentante sopra la terra".

Chiarissimo era il senso di questa allocuzione: il Papato non può essere costituzionale né volere la guerra; tutti i Cattolici sono suoi figli e, occorrendo, suoi difensori. Eppure quella chiusura lirica, con la quale si invocava la benedizione di Dio sulla patria, a molti sembrò una dichiarazione di guerra, e alla sera di quello stesso giorno una moltitudine di gente si radunò davanti al Quirinale, applaudendo.

Pio IX volle nuovamente ribadire il suo pensiero e così parlò alla folla:

"Prima che la benedizione di Dio scenda su di voi, sul resto del mio Stato, e, lo dico pure, su tutta l'Italia, debbo dirvi che siate tutti concordi ed i vostri animi siano uniti. Siate fedeli al Pontefice. Non fate domande contrarie alla Religione ed alla Chiesa. E perciò alcune voci, certe grida, che non sono del popolo ma di pochi, io non posso, non debbo e non voglio ammettere. Prego dunque Iddio di benedirvi con la condizione espressa di essere fedeli al Pontefice ed alla Chiesa. Con queste premesse io vi benedico con tutta la espansione dell'anima mia. Ricordatevi di esser fedeli a Dio e alla Santa Sede".

Tuttavia il Pontefice ritenne opportuno concedere qualche cosa. Fu ordinato che si preparassero delle liste della Guardia Civica nella parte rimasta incompleta della Riserva; che si concentrassero le milizie in determinati punti della città; che si aprisse un arruolamento di volontari. E il comando supremo delle milizie fu dato al piemontese GIOVANNI DURANDO.

Il 12 febbraio fu nominato il nuovo ministero che era composto di cinque ecclesiastici; stranamente tornava presidente il cardinal BOFONDI, con i cardinali MEZZOFANTI e i monsignori PENTINI, ROBERTI e MORICHINI; quattro laici, il conte GIUSEPPE PASOLINI, l'avvocato FRANCESCO STURBINETTI, il duca MICHELE CAETANI di Teano e il principe GABRIELLI.
A monsignor PENTINI, nominato ministro dell'Interno furono dati come consiglieri monsignor DELLA PORTA, don VINCENZO COLONNA e il principe COSIMO CONTI. Infine, per rispondere (quasi) alle richieste che già si facevano di una costituzione, il Pontefice nominò una commissione (14 febbraio) ma composta da SETTE CARDINALI e TRE MONSIGNORI, che dovevano studiare il modo di sviluppare e meglio coordinare le istituzioni già date e di proporre quei sistemi di governo che fossero compatibili con l'autorità del Pontefice e con i bisogni dei tempi.

Ma tutto ciò non bastava, e quella commissione fatta di soli preti preoccupava, e così il fermento popolare tornò a crescere di giorno in giorno. Ma la sera del 4 marzo giunse a Roma la notizia che a Parigi, dopo tre giorni (22, 23, 24 febbraio) di rivoluzione, il trono di LUIGI FILIPPO era crollato e che in Francia era stata proclamata la Repubblica; la mattina del 5 marzo la notizia fu confermata e suscitò grandissime dimostrazioni di gioia nella città. Non era una notizia di poco conto, e dopo gli eventi siciliani, napoletani, toscani, piemontesi, ancora in corso, la notizia che in una delle cinque potenze era crollato un governo sotto i colpi dei repubblicani dovette far riflettere un po' tutti.

Allora, cinque giorni dopo Pio IX tornò (il 10 marzo) a fare nuovamente il ministero dando maggior posto ai laici. La presidenza fu affidata con gli Esteri al cardinale ANTONELLI (che così ritornava), alle Finanze fu messo monsignor MORICHINI, all'Istruzione il cardinal MEZZOFANTI, all'Interno il conte GAETANO RECCHI, alla Grazia e Giustizia l'avvocato STURBINETTI, ai Lavori Pubblici MARCO MINGHETTI, al Commercio il conte PASOLINI, alle Armi il principe CAMILLO ALDOBRANDINI, alla Polizia l'avvocato GIUSEPPE GALLETTI
Quattro giorni dopo, Pio IX fece fregiare il vessillo pontificio con i nastri tricolori e promulgò lo Statuto, di cui riportiamo fedelmente il proemio:

"Nelle istituzioni di cui finora dotammo i nostri sudditi fu nostra intenzione di riprodurre alcune istituzioni antiche, le quali furono lungamente lo specchio della sapienza degli augusti nostri predecessori e poi con il volger dei tempi si volevano adattare alle mutate condizioni per rappresentare quel maestoso edificio che erano state dapprincipio.

Procedendo per questa via, eravamo giunti a stabilire una rappresentanza consultiva di tutte le province, per aiutare i nostro governo nei lavori legislativi e nell'amministrazione dello Stato; e aspettavamo che la bontà dei risultati avessero lodato quell'esperimento che Noi per primi facevamo in Italia. Ma poiché i nostri vicini hanno giudicato maturi i loro popoli a ricevere il beneficio di una Rappresentanza non meramente consultiva, ma deliberativa, Noi non vogliamo fare minore stima dei popoli nostri né fidarci di meno della loro gratitudine, non già verso la nostra umile persona, per la quale nulla vogliamo, ma verso la Chiesa e quest'Apostolica Sede, di cui Iddio ci ha concessi gli inviolabili e supremi diritti, e la cui presenza fu e sarà sempre a loro cagione di tanti beni. Ebbero in antico i nostri Comuni il privilegio di governarsi ciascuno con leggi scelte da loro medesimi sotto la sanzione sovrana. Ora non consentono certamente le condizioni della nuova civiltà che .si rinnovi sotto le medesime forme un ordinamento per il quale la differenza delle leggi e delle consuetudini separava sovente un Comune dal consorzio dell'altro. Ma Noi intendiamo affidare queste prerogative a due Consigli di probi e prudenti cittadini, nell'uno da noi nominati, nell'altro deputati da ogni parte dello Stato mediante una forma di elezioni opportunamente stabilita; i quali rappresentino gli interessi particolari di ciascun luogo dei nostri domini e saggiamente nello stesso tempo con quell'altro interesse grandissimo di ogni Comune e di ogni Provincia, che è l'interesse generale dello Stato.

Siccome poi nel nostro sacro principato non può essere disgiunto dall'interesse temporale della interna prosperità l'altro più grave della politica indipendenza del Capo della Chiesa, per il quale stette altresì l'indipendenza di questa parte d'Italia, così non solamente riserbiamo a Noi e ai successori Nostri la suprema sanzione e la promulgazione di tutte le leggi che saranno dai predetti Consigli deliberate, e il pieno esercizio dell'Autorità sovrana nelle parti di cui con il presente atto non è disposto; ma intendiamo altresì mantenere intera l'autorità nostra nelle cose che sono naturalmente congiunte con la religione e la morale cattolica. E ciò dobbiamo per la sicurezza a tutta la Cristianità che nello Stato della Chiesa in questa nuova forma costituito, nessuna diminuzione patiscano la libertà e i diritti della Chiesa medesima e della Santa Sede, né alcun esempio non venga mai per violare la santità di questa Religione, che Noi abbiamo obbligo e missione di predicare a tutto l'universo come unico simbolo d'alleanza di Dio con gli uomini, come unico pegno di quella benedizione celeste per cui vivono gli Stati e fioriscono le nazioni".


I disegni rivoluzionari stanno sviluppandosi contemporaneamente
in altri Stati, per far rifiorire una nazione.
Dobbiamo ritornare al 1 Gennaio del 1848
questa volta ai primi fatti di Milano, e dopo la Rivoluzione di Vienna
a Venezia, e quasi nella stessa ora, dello stesso giorno, 17 marzo
nuovamente a Milano, alle epiche Cinque Giornate

ANNO 1848 Atto Terzo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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