ANNO 1848

ATTO III - LE RIVOLUZIONI - MILANO "I Lutti" "Le 5 Giornate" -

VENEZIA INSORGE

LA SITUAZIONE IN LOMBARDIA: I FATTI DI MILANO DEL GENNAIO 1848 -
I "LUTTI DI LOMBARDIA"" DI MASSIMO D'AZEGLIO - I CONFLITTI DI PAVIA E DI PADOVA
- LA RIVOLUZIONE DI VIENNA - SCARCERAZIONE DI DANIELE MANIN E MICCOLÒ TOMMASEO -
I VENEZIANI S'IMPADRONISCONO DELL'ARSENALE - GLI AUSTRIACI LASCIANO VENEZIA -
LA REPUBBLICA VENETA
LE GLORIOSE VICENDE DELLE CINQUE GIORNATE DI MILANO
IL RADETZKY VA A CHIUDERSI NEL QUADRILATERO
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Le barricate a Milano


I PROCLAMI, 18 IMMAGINI A
PIENO SCHERMO DELLE GIORNATE
QUI > > > > > >

(vedi se interessato anche il
IL "MEMORIALE" DI CARLO CATTANEO > > QUI > > > >

( 272 pagine digitalizzate e molte immagini dell'epoca)

 

I FATTI DI MILANO DEL GENNAIO '48

LA RIVOLUZIONE DI VIENNA - VENEZIA INSORGE

 

Prima di questo inizio anno 1848 non c'erano le tensioni solo al Sud, al Centro, in Toscana e in Piemonte.
Anche nel Lombardo-Veneto e nei ducati di Parma e di Modena, contaminati dagli stranieri, si soffriva tanto e si sperava molto. Il '47 aveva fatto maturare tanti disegni rivoluzionari che prima o poi dovevano esplodere.
E se nei luoghi citati sopra, le prime micce si accesero il 6 gennaio del nuovo anno 1848,
invece a Milano con una manifestazione singolare i cittadini spensero i sigari il 1° di gennaio, come abbiamo già anticipato all'inizio delle pagine del capitolo Atto I.
Infatti, sulla fine del 1847, a Milano, i cittadini decisero di astenersi dal fumo e dal giuoco del lotto per recar danno al Governo che ne ricavava quindici milioni l'anno, per fare una solenne protesta contro Vienna che si mostrava sorda alle domande delle Congregazioni centrali e provinciali.

L'astensione, contro la più ottimistica aspettativa, fu quasi totale e i pochi che inconsapevoli o di proposito si mostrarono nelle vie con il sigaro in bocca furono apostrofati e bastonati. Questi incidenti però non erano tali da dover preoccupare il governo; l'astensione stessa non era cosa che poteva durare a lungo; quindi la miglior politica che in quei primi giorni fu praticata fu quella della prudenza.
Ma i milanesi facevano sul serio, e allora si ricorse alla provocazione: il primo gennaio del 1848 furono sguinzagliati per la città, malviventi prezzolati per provocare con il fumo i cittadini e suscitare disordini e quindi poi l'intervento della polizia; il 2 gennaio si fecero provocatori gli stessi poliziotti e gli ufficiali che andavano per le vie con il sigaro in bocca, accolti dagli scherni dei cittadini: il capitano NEIPPERG, figlio bastardo di MARIA LUIGIA di Parma, che insultava la gente soffiando in faccia ai passanti il fumo, alla fine a forza di provocare qualcuno reagì e gli diede un sonoro ceffone in pieno volto; fra reazioni e controreazioni iniziarono così i tafferugli; in uno di questi lo stesso podestà conte GABRIO CASATI fu malmenato in via dei Mercanti dagli agenti di polizia che pur lo conoscevano (o forse proprio per questo, visto che era un supervigilato dalle autorità austriache)

Ma molto più gravi furono i fatti del giorno dopo, ill 3 gennaio. Il direttore di Polizia TORRESAN fece affiggere un manifesto contro i perturbatori dell'ordine pubblico considerando tali quelli che cercavano d'impedire agli altri cittadini che si fumasse, e contro chi levava grida con il solito "Viva Pio IX". Quindi furono raddoppiate le guardie delle caserme, mandati in giro agenti provocatori e furono sguinzagliate per la città numerose pattuglie di fanti e di dragoni in assetto di guerra pronti ad intervenire.

Gli incidenti cominciarono nel pomeriggio dello stesso giorno 3 gennaio: sbirri e soldati si gettarono sulla popolazione inerme con le sciabole sguainate colpendo alla cieca, penetrarono nei negozi, fecero man bassa di merci, e sfogarono il loro furore su pacifici cittadini specie a Porta Comasina, a Porta Ticinese, a Porta Nuova e a Porta Orientale; nella Corsia dei Servi un drappello di dragoni caricò e travolse con estrema violenza la gente che vi si trovava; scene di malvagità e di gratuita brutalità si ebbero sul Corso, dove le botteghe furono anche qui invase dalla soldataglia e i cittadini che vi si erano rifugiati o i più coraggiosi per difendere i malcapitati negozianti caddero colpiti dal ferro austriaco.
Cinque inermi cittadini rimasero uccisi, tra cui il settantaquattrenne MANGANINI, consigliere d'Appello in pensione; cinquantanove, anziani, donne, bambini, furono i feriti, tra i quali alcuni così gravemente che cessarono di vivere nei giorni seguenti. Nessuno dei soldati e dei poliziotti fu ucciso o riportò ferite.

L'indignazione per quella vera e propria strage di barbari, fu enorme. Il podestà GABRIO CASATI si recò a protestare energicamente prima presso il conte di FICQUELMONT e il governatore SPAUR, poi presso il maresciallo RADETZKY e ottenne la promessa che alle soldatesche e alle guardie di polizia si sarebbe vietato l'uso delle armi purché il Municipio invitasse la cittadinanza a far cessare le provocazioni. Anche dal Viceré si recò a protestare il CASATI e vi andarono pure l'arcivescovo ROMILLI e il venerando monsignor OPIZZONI, il quale disse francamente all'arciduca:
"Altezza, io ho molti anni e ne ho viste molte di cose; ho visto i Giacobini, i Russi; ho visto uccidere uomini, profanare chiese ed altari, ma iniquità simili a quelle che si sono commesse ieri sera io non le ho viste né udite mai!".

L'arciduca RANIERI il 5 e il 9 gennaio indirizzò due proclami ai Milanesi, nel primo dicendosi dolente per i fatti avvenuti e deplorando gli equivoci e i malintesi che avevano dato origine ai luttuosi incidenti, e nel secondo, fra l'altro, diceva: "Vi rinnovo in quest'occasione l'espressione delle mie fondate speranze di veder ponderati dalla sovrana saviezza ed accolti dalla grazia di Sua Maestà i voti espressimi in via legale, che già sono o stanno per esser innalzati al Trono".

Ma proprio quel giorno stesso in cui il Viceré faceva sperare l'accoglimento da parte dell'imperatore delle richieste delle Congregazioni, il sovrano (anche se era la mano di Metternich a scrivere) mandava ai Milanesi un editto e all'arciduca una lettera, l'uno e l'altra destinati a togliere ogni speranza di concessioni (questo, mentre nel resto d'Italia, e negli stessi giorni, come abbiamo visto, stava succedendo di tutto - e con davanti un anno lunghissimo, pieno di gravi incognite, non solo in Italia, in Francia, a Berlino ma nella stessa Vienna con un Metternich sordo, cieco e con ormai tanta aridità cerebrale; tale da non capire che lui stesso - il
principe Klemens Wenzel Lothar von Metternich - sarebbe stato travolto).

Diceva l'editto:

"Venuti in cognizione degli spiacevoli avvenimenti verificatisi di recente in varie parti del nostro regno lombardo-veneto e per non lasciare quella popolazione in dubbio sui nostri sentimenti a tale proposito, vogliamo che sia senza indugio notificato alla medesima quanto ci rincresca tale stato di agitazione, prodotto dagli intrighi di una fazione che tende incessantemente alla distruzione del vigente ordine di cose. Sappiano gli abitanti del nostro regno lombardo-veneto essere stato ognora scopo primario della nostra vita il bene delle nostre province lombardo-venete come di tutte le parti del nostro impero, e che a tale nostro assunto noi non verremo mai meno. Noi riguardiamo qual nostro sacro dovere tutelare con tutti i modi dalla Divina Provvidenza riposti nelle nostre mani ed energicamente difendere le province lombardo-venete contro tutti gli assalti, da qualunque parte essi provengano. A tale necessità noi facciamo assegnamento sul retto sentire e sulla fedeltà della gran maggioranza degli amati nostri sudditi del regno lombardo-veneto, il benessere dei quali e la sicurezza nel godimento dei loro diritti non sono stati mai conosciuti tanto nello Stato quanto all'estero. Facciamo pure assegnamento sul valore e sul fedele attaccamento delle nostre milizie, di cui è sempre stata e sempre sarà la maggior gloria mostrarsi valido appoggio del nostro trono, quale baluardo contro la calamità che la ribellione e l'anarchia rovescerebbero sulle persone e sulle proprietà dei tranquilli cittadini".

Il tenore ostile poi aumentava, aggiungeva altro, e infine al termine minacciava:

"Ho preso cognizione degli avvenimenti verificatisi in Milano nei giorni 1° e 3 gennaio. Mi consta che esiste nel regno Lombardo-Veneto una fazione che tende a sconvolgere l'ordine e la tranquillità pubblica. Ho già fatto per il regno medesimo tutto ciò che credevo necessario per rispondere ai bisogni e ai desideri delle rispettive province; né sono incline a fare ulteriori concessioni. L'A. V. farà conoscere al pubblico questi miei sentimenti. Confido nella maggioranza degli abitanti del regno Lombardo-Veneto, che non ci saranno per l'avvenire altre disgustose scene, ad ogni modo mi affido alla fedeltà e nel "valore delle mie soldatesche".

Ma gli animi dei Milanesi non è che si calmarono, né si erano intimoriti; anzi, quelli minacciavano guerra? e "guerra sia". Per parecchi giorni furono lasciati vuoti i teatri in segno di lutto, deserto fu lasciato il corso di Porta Orientale e i cittadini scelsero come pubblico passeggio il corso di Porta Romana cui fu dato il provocatorio nome di Corso Pio; prima il conte MARTINI, poi il conte D'ADDA, presi accordi con i più autorevoli cittadini di Milano, si recarono a Torino e furono ricevuti da CARLO ALBERTO, il quale li assicurò che presto avrebbe mosso guerra contro lo straniero per cacciarlo dall'Italia.
(vedi la petizione autografa dei Milanesi a Carlo Alberto e i suoi autografi proclami ) (in "MEMORIALE" di Carlo Cattaneo)


Se il contegno dei Milanesi prima aveva solo innervosito il governo austriaco, l'imperatore terminando quella lettera con quelle quattro parole, precedute da quel disgustoso, vuol dire che proprio tranquillo non era; inoltre volendo seguire la via della forza, si affidava al valore dei suoi soldati, che suonava come una provocatoria sfida, una sfida al valore? - "…e allora -si dissero i milanesi- noi chi siamo? Solo dei felloni?" (Più avanti sentiremo il D'Azeglio, sull'onore e il valore e sul concetto Nazione).

Intanto il Radetzky, che da qualche tempo sentiva odore di polveri, lanciava un proclama alle truppe annunciando il proposito del sovrano di difendere il regno Lombardo-Veneto contro qualsiasi attacco nemico:
"Salda freme ancora la spada - diceva - che ho impugnato con onore per sessantacinque anni in tante battaglie: saprò adoperarla per difendere la tranquillità di un paese poco fa felicissimo e che ora una fazione frenetica minaccia di far precipitare nella miseria. Non ci sforzino a spiegare la bandiera dell'aquila a due teste. La forza dei suoi artigli non è ancora fiaccata".

Ma neppure queste minacce potevano atterrire i Milanesi e rispondevano al vecchio e burbanzoso maresciallo con un salace epigramma che tutti i monelli cantavano per le vie, ostentavano nastri e mazzi tricolori, disertavano i caffè e tutti i pubblici luoghi frequentati dagli ufficiali austriaci, sfoggiavano cappelli calabresi, confortati nella lotta ingaggiata contro l'oppressore dalla solidarietà di tutte le città d'Italia che facevano a gara nell'inviare soccorsi alle famiglie delle vittime dell'Austria, nel celebrare esequie, nel preparare dimostrazioni di simpatia e di protesta, nel mandare al podestà Casati petizioni con numerose firme.

I " LUTTI DI LOMBARDIA" DI M. D'AZEGLIO

Altro conforto, e incitamenti erano i generosi articoli dei giornali italiani, le poesie suonanti del PRATI e del DALL'ONGARO, che esortavano alla riscossa, le pagine d'autorevoli scrittori che accusavano di fronte all'Europa civile le barbarie dell'Austria. Fra queste pagine degne qui da ricordare sono quelle scritte da MASSIMO D'AZEGLIO con il titolo "I lutti di Lombardia".

"I trattati - scriveva dirigendosi all'Austria - vi hanno dato una porzione del suolo italiano. Sia pure. Ma mostratemi il trattato che vi accorda il diritto di mancare alle promesse fatte ai vostri sudditi e di insidiare i sudditi altrui, di essere in cospirazione permanente contro tutti gli stati italiani ! Voi negate il fatto? Mi domandate le prove, i documenti? Già l'ho prodotto il mio documento.
L'opinione pubblica tiene innegabile il fatto senza documenti. - Non volete dunque persuadervene che oggidì per parere bisogna essere? Che bisogno ho io di costringervi a confessare, di porvi nell'impossibilità di negare, quando il mio e vostro giudice, il gran giurì dell'opinione pubblica, si dichiara pienamente istruito, si dichiara convinto? I trattati vi danno il diritto dì costringere i vostri sudditi Lombardo-Veneti ad ubbidire al vostro volere? il diritto di trasformare un certo numero d'Italiani in Austriaci? di assorbire l'oro sudato sulla gleba italiana a favore del tesoro imperiale? di spargere a vostra piacere quell'antico sangue latino che ribollì a Pontida e Legnano, e spargerlo in difesa di quello scettro che fu ed è di ferro all'Italia? Vi danno il diritto di togliere alla lingua italiana, di cancellare nei suoi scritti e (se lo poteste) dai cuori, i vocaboli "patria, Italia, amore, onore nazionale, ecc. ecc.? che ogni popolo tiene i più santi e venerandi, che ogni gente ha diritto di pronunciare?; i trattati (bei trattati per Dio ! degni di una perfetta e cristiana civiltà) vi danno il diritto di accusare, giudicare, condannare come felloni coloro che li pronunciano?: sia pure.

Ma mostratemi, lo ripeto, il trattato che vi dà il diritto di uccidere senza accusa, senza forma di giudizio, senza saper chi uccidete; di uccidere per strada, a caso, gente inerme, sorpresa ! il diritto di provocarla per poterla con un pretesto assassinare ! E chi sono costoro che assassinate? chi erano quelle povere vittime? Erano terribili e pericolosi nemici, che non aveste altra scelta se non o perire voi o ucciderli? E Vienna tremava finché costoro respiravano? Quei vecchi di settant'anni, quelle donne, quei fanciulli di dieci, avevano forse in mano le sorti dell'Impero, i destini dell'Austria? I vostri proclami l'hanno detto chi erano. Voi avete pronunciata la prediletta, la sacramentale, la ripetuta frase della lingua ufficiale, l'avete chiamata vittima e noi: "una setta perturbatrice, amica del disordine, nemica dell'ordine, delle leggi" ecc. ecc.
"Dopo i fatti di Milano già due volte nei vostri proclami ci avete così definiti: ma se due volte ci dite "setta" noi vi rispondiamo tre volte: - Siamo Nazione ! Nazione ! Nazione ! Siamo Nazione che ha compiuto la sua pena, che ha compiuto quel duro ciclo di mali al quale l'aveva per le sue colpe dannata l'Onnipotente. Siamo Nazione che ha ottenuto il suo perdono; Nazione riconciliata con Dio; Nazione riabilitata dagli uomini e dalla civiltà; Nazione redenta e trovata degna dal gran Pontefice della sua benedizione; siamo Nazione che dopo aver fatto improvvidi sforzi, tentato fallaci vie per riacquistare i suoi diritti, da due anni ha conosciuto qual fosse la via certa, la via degna, sapiente, virtuosa per giungere alla gran meta; Nazione che si è levata intera, franca ed unanime, e si muove lenta ma sicura verso i suoi nuovi destini; Nazione Nazione che ha la prima trovato il modo d'abbatter la forza senza forza, la violenza senza la violenza, la frode senza frode; d'infrangere le armi vostre senz'armi, di farvi guerra mortale, la più tremenda che potesse offendervi, senza spargere goccia di sangue; di sottrarsi al vostro giogo, di mutarsi, trasformarsi tutta, senza aver, in due anni, offeso un solo individuo, fatto versar una lacrima, eccitato un lamento !
Siamo Nazione che vi affronta ordinata, duci i suoi principi, che sta coi suoi sovrani e li ubbidisce e li segue, e forma ed è una cosa stessa con loro; Nazione che ha potuto e saputo persuaderli e non sforzarli, conciliarsi i suoi oppositori senza manometterli; siamo Nazione in una parola, che ha saputo fare una grande, una completa rivoluzione senza un delitto ! Ecco che siamo noi; ecco la setta che voi dite noi siamo".


Il 18 gennaio, giorno in cui il Radetzky pubblicava il suo superbo proclama alle truppe, a Venezia erano arrestati NICCOLÒ TOMMASEO e DANIELE MANIN; il 21, a Milano, erano arrestati e mandati a Lubiana il marchese GASPARE ROSALES, CESARE STAMPA SONCINO ed ACHILLE BATTAGLIA. Il dottor BELCREDI, ricercato, faceva in tempo a mettersi in salvo oltre il Ticino.
Il podestà CASATI non mancò di protestare per quelle persecuzioni, ma il Governo non mutò sistema: il 7 febbraio furono arrestati e tradotti a Linz MANFREDI CAMPERIO e IGNAZIO PRINETTI; il giorno dopo e il 9 a Pavia e a Padova ci furono scontri sanguinosi tra gli studenti e le soldatesche austriache con morti e feriti da ambo le parti; il 22 fu pubblicata la legge stataria, che comminava la pena di morte ai perturbatori dell'ordine. Pareva d'essere, e si era veramente, alla vigilia di una rivoluzione e di una guerra.

L'Austria, che sentiva avvicinarsi la tempesta, faceva preparativi. Portò a cinquantasette battaglioni l'esercito nel Lombardo-Veneto; cominciò con il 1° febbraio a dare alle sue truppe il soprassoldo di guerra e il 29 cominciò a fortificare il Castello di Milano. Il giorno che nel Lombardo-Veneto veniva pubblicata la legge statuaria, il 22, iniziava a Parigi la rivoluzione che doveva abbattere il trono di Luigi Filippo. All'annuncio del rivolgimento di Francia una grande agitazione si manifestò in tutta la Germania, poi si propagò in Boemia, in Ungheria e….in Austria. A forza di voler vedere le sette negli altri stati, non si era accorto Metternich in 35 anni di supremo potere d'avere le "sette" fuori casa, dentro in casa, e perfino dentro la corte, facendosi mettere pochi giorni dopo, fuori dalla porta da un 18enne, e da tanti diciottenni. Che umiliante "fine carriera" per l'uomo che disprezzava tutti, e da tutti era disprezzato!

Il 13 marzo, gli studenti dell'Università di Vienna insorgevano, trascinando nella sollevazione tutta la città (altro che piccole fazioni!) e l'imperatore fu costretto a "esonerare" il principe Metternich, ad abolire la censura, a concedere la Guardia civica ed a promettere una costituzione.
La rivoluzione di Vienna segnò l'inizio della riscossa nel Lombardo-Veneto. La prima, vaga notizia degli avvenimenti viennesi si sparse a Venezia il 16 marzo; la mattina del 17 il vapore di Trieste portò notizie sicure e più precise e subito un'immensa e quasi incredula folla si raccolse in Piazza S. Marco, acclamando Pio IX e chiedendo la scarcerazione del TOMMASEO e del MANIN.
Il governatore conte LUIGI PALLFY, dopo breve esitare, temendo di provocare l'ira della moltitudine con un rifiuto, o meglio per salvare la pelle, ordinò la liberazione dei due patrioti, i quali furono tratti dal carcere e portati in trionfo dalla folla esultante in piazza S. Marco, dove Daniele Manin - che nella confusione e nel gran vociare era arrivato fino in piazza, senza nemmeno aver capito perché l'avevano liberato. Mica poteva immaginare che la rivoluzione era scoppiata nella stessa Vienna; ma innalzato su un palco e sollecitato a parlare, così arringò:

"Cittadini ! Ignoro per effetto di quali venti io sia stato tratto dal silenzio del mio carcere e portato in piazza San Marco. Ma vedo nei vostri volti, nella vivacità dei vostri atteggiamenti, che i sensi d'amor patrio e di spirito nazionale hanno fatto qui, durante la mia prigionia, grandi progressi, ne godo altamente e in nome della patria ve ne ringrazio. Ma deh ! non vogliate dimenticare che non vi può essere libertà vera e durevole, dove non c' è ordine, e che dell'ordine voi dovete farvi gelosi custodi, se volete mostrarvi degni di libertà. Ci sono momenti e casi solenni nei quali l'insurrezione non è solo un diritto, ma è anche un dovere".

Poiché la dimostrazione non accennava a cessare, il governatore mandò in piazza S. Marco una schiera di truppe, fra cui era un corpo di granatieri italiani. Questi furono accolti con applausi dalla folla, mentre gli austriaci con fischi e, pare, con qualche sasso. Ne nacque un conflitto: i soldati fecero fuoco uccidendo sei cittadini e ferendone otto; a quel punto la folla sgombrò la piazza ma corse in cerca d'armi, e infilatisi nell'intricato dedalo di calli e campi, cominciò ad accoppare quanti austriaci incontrava nel suo cammino.
Continuando i tumulti, il podestà GIOVANNI CORRER e il MANIN chiesero ed ottennero l'istituzione della Guardia civica di cui fu dato il comando ad ANGELO MENGALDO, coraggioso soldato dell'esercito napoleonico. La sera stessa del 18 marzo giunsero i dispacci ufficiali da Vienna e il PALLFY, che volle leggerli al popolo, si chiamò fortunato di essere il primo governatore costituzionale di Venezia.

Durante la notte e nei giorni successivi l'entusiasmo dei Veneziani era incontenibile e furono tante le dimostrazioni di giubilo; ma, mentre i cittadini si ornavano della coccarda trìcolore, acclamavano a Pio IX e all'Italia e mostravano in tutti i modi, la loro gioia, DANIELE MANIN ed altri patrioti, che non potevano accontentarsi di una costituzione e volevano per la loro patria l'indipendenza dallo straniero, facevano in questo senso un'intensa propaganda fra le guardie civiche, gli arsenalotti e gli ufficiali italiani della marina da guerra imperiale.

Il 22 marzo, sparsasi la voce che il governo aveva intenzione di bombardare la città, gli arsenalotti, che erano già pronti alla rivolta, si levarono a tumulto e uccisero il colonnello MARINOVICH, accorso per soffocare la rivolta. Una compagnia di guardie civiche, con il pretesto di rimetter l'ordine, penetrò nell'Arsenale e poco dopo, accompagnato dal figlio GIORGIO, diciassettenne, e da altre guardie, vi giunse DANIELE MANIN, che costrinse alla resa il contrammiraglio MARTINI.
Occupato l'Arsenale, gl'insorti vennero in possesso di cinquantamila fucili e di parecchi pezzi d'artiglieria. Sei cannoni furono puntati contro la caserma dei Croati, pronti al fuoco se questi tentavano di uscire; i soldati italiani della marina fecero causa comune con il popolo, il tricolore fu innalzato sull'Arsenale, da cui era stata tolta la bandiera austriaca e il Manin, seguito dalla folla delirante si recò in piazza San Marco, dove arringò il popolo.

"Venezíani, noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarcene perché a questo siamo giunti senza aver versato una goccia del sangue nostro né del sangue dei nostri fratelli, perché tutti gli uomini per me sono fratelli. Avere rovesciato l'antico governo non basta; bisogna costituirne uno nuovo; il migliore per noi a me sembra quello della repubblica, che rammenterà le glorie passate e vi aggiungerà la libertà dei tempi nuovi. Noi non ci separeremo per questo dai nostri fratelli italiani, ma formeremo uno dei centri che dovranno servire alla successiva unione di tutta l'Italia in un solo Stato. Viva dunque la repubblica! viva la libertà! viva S. Marco !".

Nel pomeriggio cominciarono le trattative con il governatore PALLFY, il quale, non volendo subire l'onta di una capitolazione, cedette i poteri al comandante militare conte FERDINANDO ZICHY. Questi, visto impossibile qualsiasi tentativo di resistenza, firmò una convenzione con la quale consegnava la piazza al Consiglio municipale e si impegnava ad uscire immediatamente dalla città con i soldati stranieri, lasciandovi le artiglierie, i soldati italiani e le casse dello Stato.

La Commissione municipale, che si era costituita in governo provvisorio, la sera stessa del 22 marzo rimise il potere nelle mani del MENGALDO. Il giorno dopo si resero solenni grazie a Dio per la vittoria e il cardinale MONICO benedisse la bandiera nazionale; quindi fu proclamata la Repubblica di San Marco sotto la presidenza del MANIN, al quale furono dati come collaboratori NICCOLÒ TOMMASEO, ANTONIO PAOLUCCI, JACOPO CASTELLI, FRANCESCO SOLERA, PIETRO PALEOCAPA, FRANCESCO CAMERATA, LEONE PINCHERLE E ANGELO TOFFOLI.

In meno di una settimana anche le province venete della terraferma si scrollarono di dosso il giogo austriaco: la notte dal 22 al 23 la Guardia civica di Mestre prese possesso della cittadella di Marghera sgombrata dagli Austriaci; il 23 gli abitanti di Chioggia costrinsero il presidio della fortezza a capitolare; Rovigo e Treviso istituirono governi provvisori; il 24 il maresciallo D'ASPRE, per ordine del Radetzky, lasciò Padova con gli ottomila uomini della guarnigione e si rifugiò a Verona; Vicenza e Belluno furono libere il 25. Anche il Friuli si sollevò; la fortezza di Palmanova cadde in potere dei cittadini i quali ne diedero subito il comando al generale ZUCCHI, che vi era prigioniero fin dal 1837.

Si cercò di riunire in un solo organismo tutte queste città e fu pubblicato a questo scopo il seguente proclama:

"La prima nostra parola è parola di gratitudine al popolo veneziano, il quale ad un tratto insorgendo si è dimostrato degno del suo nome. Non desterà meraviglia se questo popolo grida con giubilo il nome di Repubblica, nel quale si conciliano le gloriose memorie del passato con le mature condizioni presenti e con maggior perfezionamento in avvenire. Il nome di Repubblica Veneta non porterà con sé alcuna idea ambiziosa o municipale. Le province le quali si sono dimostrate tanto maggiormente unanimi alla comune dignità, le province che a questa forma consentono, creeranno con noi una sola famiglia, senza veruna disparità di vantaggi e diritti, perché uguali per tutti saranno i doveri".

Purtroppo non si riuscì a raccogliere tutte le forze in un potere centrale, che provvedesse all'offesa e alla difesa e così si lasciò che gli Austriaci si rinforzassero a Verona, a Legnago e a Peschiera, che con Mantova costituivano il famoso quadrilatero, dove qui si concentrarono e si organizzarono per tornare in forza all'offensiva. Gli Austriaci inoltre per l'imprudenza della Commissione municipale di Venezia, riuscirono ad evitare che le loro navi da guerra, fornite d'equipaggi italiani, di undici, nove non uscissero dal porto di Pola per far causa comune con gli insorti, che riuscirono ad impadronirsi soltanto di due legni. Fu un grave danno perché senza la flotta l'Austria non avrebbe poi potuto bloccare Venezia e avrebbe sofferto danni incalcolabili se bloccata nell'Istria e a Trieste.

LE GLORIOSE CINQUE GIORNATE DI MILANO
C.ALBERTO "tentenna" E RADETZKY SI RAFFORZA NEL QUADRILATERO

Se a Venezia la notizia della rivolta di Vienna era giunta il giorno 17 marzo mattina, e la rivoluzione si era compiuta quasi senza sangue, molto diversa fu invece quella di Milano. Qui la notizia dei moti di Vienna giunse invece la sera dello stesso giorno 17 marzo. Quel giorno stesso era partito per Verona l'arciduca RANIERI, viceré del Lombardo-Veneto e, poiché erano assenti il conte di FICQUELMONT e il governatore SPAUR, il governo era, rimasto nelle mani del vicegovernatore O' DONNEL.
Sparsasi anche qui l'incredibile voce degli avvenimenti di Vienna, i patrioti si radunarono per stabilire la linea di condotta che dovevano tenere. I riformisti o albertisti, che riconoscevano per propri capi GABRIO CASATI, VITALIANO CRIVELLI, CESARE GIULINI, VITALIANO BORROMEO e ALESSANDRO PORRO, non volevano impegnarsi a fondo e desideravano solo fare quel tanto che bastasse a dare un pretesto al re di Sardegna di varcare il Ticino; contrari ad un movimento rivoluzionario erano invece i repubblicani capitanati da CARLO CATTANEO sia perché non credevano al buon esito di una lotta contro i quindicimila-ventimila qualcuno diceva centomila uomini del RADETZKY, sia perché temevano che, in caso di riuscita, se n'avvantaggiasse il partito albertista sabaudo; i giovani, invece, che erano i più accesi, fra i quali gli studenti, che formavano due gruppi, uno intorno a CESARE CORRENTI, l'altro intorno al prete don ANGELO FAVA, volevano muovere risolutamente contro gli Austriaci e cacciarli fuori dalla città; cosa non impossibile, ma dopo?

Finalmente i capi dei vari gruppi la stessa notte del 17 marzo, si misero d'accordo e convennero che il giorno dopo il popolo si sarebbe affollato al Broletto, una deputazione si sarebbe presentata al Municipio e avrebbe domandato che - trovandosi assente il viceré e il governatore - si istituissero un governo provvisorio e la Guardia civica, che fossero liberati i detenuti politici, che venisse concessa la libertà di stampa, e infine fossero convocati tutti i Consigli comunali per procedere all'elezione dei deputati.
La mattina del 18 marzo un manifesto dell'O'DONNEL dava ai Milanesi l'annuncio delle concessioni fatte da FERDINANDO (che non poteva averle lui concesse, ma erano del governatore, che voleva prendere tempo).
"Sua Maestà I. e R. l'Imperatore ha determinato di abolire la censura e di far pubblicare sollecitamente una legge sulla stampa, nonché convocare gli Stati dei Regni Tedeschi e Slavi e le congregazioni centrali del Regno Lombardo-Veneto. L'adunanza avverrà al più tardi il giorno 3 del prossimo venturo mese di luglio".

Ma oramai queste piccole riforme non potevano accontentare nessuno; anche i più moderati fra i liberali desideravano - a questo punto molto critico per gli austriaci- l'indipendenza dallo straniero; i giovani poi si preparavano a ottenerla con le armi e già quella mattina, di buon'ora, una trentina di loro, fra cui i fratelli ENRICO ed EMILIO DANDOLO e LUCIANO MANARA, tutti del gruppo di don ANGELO FAVA, si erano recati in chiesa ed avevano ricevuto l'assoluzione dal prete don SACCHI.
Erano circa le undici del giorno 18 marzo quando una folla enorme si radunò al Broletto, sotto una pioggia dirotta, e chiese, per mezzo di una deputazione, al conte GABRIO CASATI che si recasse dal governatore O'DONNEL e gli presentasse le domande concertate la sera prima. II podestà acconsentì e, preceduto da una bandiera tricolore e seguito da circa ventimila persone, si avviò verso il palazzo del governo. Con il CASATI erano CESARE CORRENTI, ENRICO CERNUSCHI, ANSELMO GUERRIERI, MARCO GREPPI, ANTONIO BERETTA, CARLO TAVERNA e GIULIO TERZAGHI.

Quando la testa della colonna giunse in vicinanza del ponte di San Damiano, due sentinelle croate fecero fuoco sulla folla, e questa si precipitò furibonda sopra di loro. Una cadde pugnalata, l'altra fu uccisa da un colpo di pistola sparato dallo studente liceale GIOVANNI BATTISTA ZAFFARONI. Quindi la moltitudine irruppe nel palazzo del governo, travolse, disarmò e fece prigioniera il corpo di guardia, mise in fuga gli impiegati, invase l'intero fabbricato.
L'O'DONNEL, che si era nascosto, trovato dal CERNUSCHI fu costretto a firmare tre brevissimi decreti scritti dal CASATI:
" 1° - Il vicegovernatore, vista la necessità assoluta di mantenere l'ordine, concede al Municipio di armare la Guardia civica;
2° - La direzione di polizia è destituita e la sicurezza della città è affidata al Municipio; 3° - La guardia di polizia consegnerà le armi al Municipio immediatamente".

Firmati i decreti, occorreva farli eseguire. Istituire la Guardia civica era cosa facilissima perché numerosi erano i cittadini al Broletto pronti ad iscriversi; ma altrettanto facile non era disarmare le guardie di polizia. Il podestà, infatti, avendo ordinato al TORRESANI di consegnar le armi, si senti rispondere che lui "non riconosceva nessuna autorità nel vicegovernatore O'Donnel, non essendo questo libero, e che lui ubbidiva soltanto agli ordini già impartiti dal Radetzky".
La risposta del Torresani fu quella che ci si poteva aspettare da un soldato inflessibile come lui. Disse che "…non riconosceva a Milano altra autorità all'infuori di se stesso e dei suoi soldati e che avrebbe trattato come reo d'alto tradimento chiunque avesse osato di resistergli".

Bisognava dunque fare i conti con il Radetzky e con i suoi ufficiali esecutori che comandavano a loro volta i soldati, con le quali, i Milanesi non tardarono a venire a conflitto.
"Dopo aver firmato i decreti - racconterà lo stesso O'Donnel - "dichiarai esser mio primo dovere di informare personalmente il conte Radetzky per evitare conflitti. Invitai il Podestà e il delegato (BELLATI) ad accompagnarmi. Un'onda di popolo, in parte armato, ci venne dietro. Quando noi, a piedi, arrivammo in contrada Monte Napoleone, si era già cominciato a combattere delle finestre e dai tetti. Un plotone di fanteria schierato in fondo alla strada e che aveva sofferto già delle perdite, indirizzò una scarica contro di noi. Si può immaginare che cuore fosse il mio a sentirmi fischiare sul capo quel piombo delle nostre truppe ! D'attorno a me caddero a terra fulminati due individui: gli altri si rifugiarono in una casa vicina ed io fui trascinato con loro. Qui la scena cambiò interamente; io fui trattenuto come ostaggio; la mia attività ufficiale era cessata".

La casa dove l'O'Donnel era stato condotto era quella dei VIDISERTI, che per un po' divenne il quartiere generale della rivoluzione che nelle strade di Milano già divampava furiosa. Suonavano a stormo le campane; i cittadini correvano ad armarsi di fucili da caccia, di carabine svizzere, di pistole, di sciabole, di lance, di forche; furono saccheggiate le botteghe di armaioli, e le case patrizie dove si sapeva ch'esistevano raccolte di armi erano la meta di chiunque desiderava provvedersi d'un'arma; barricate venivano febbrilmente innalzate al Ponte San Damiano, a Porta Orientale, a Porta Nuova e in molti altri punti della città, dietro le quali i Milanesi tiravano contro le truppe appena si avvicinavano. Mentre ormai dappertutto si combatteva, il RADETZKY ordinò che un buon corpo di milizie provviste di artiglierie andasse ad assalire il Broletto, dove credeva che si erano raccolti tutti i capi dell'insurrezione.
Nel palazzo municipale si trovavano allora gli assessori GREPPI, BELLOTTI e BELGIOIOSO che ricevevano le iscrizioni dei cittadini alla Guardia civica. Informati che era stato impartito l'ordine di assalire il palazzo, mandarono al Radetzky un capitano dei pompieri con la seguente lettera:

"Le circostanze veramente eccezionali di questi momenti incutono il massimo terrore nella popolazione milanese e minacciano l'ordine pubblico. Non può essere nell'intenzione dell'Autorità di mettere a soqquadro la nostra città, la quale non ha nessun torto da rimproverarsi. Questa Congregazione pertanto, dopo aver fatto oggi stesso le opportune pratiche presso il Governo civile, invita l'E. V. pregandola di far sospendere ogni misura che tende ad esacerbare gli animi, e a recar danni che sarebbero incalcolabili per tutti. La Congregazione confida nei sentimenti di umanità, che non possono non animare il di lei cuore".

Erano le ore 5 del pomeriggio del 18 marzo 1848!

RADETZKY trattenne al Castello il capitano latore della lettera e spedì con un altro messo questa arrogante e minacciosa risposta:

"Dopo gli avvenimenti della giornata non posso riconoscere i provvedimenti dati per cambiare le forme del governo e per riunire ed armare una Guardia civica a Milano. Intimo a codesta Congregazione municipale di dare immediatamente gli ordini per il disarmo dei cittadini; altrimenti domani mi troverò nella necessità di bombardare la città. Mi riservo poi, di fare uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che sono in mio potere per ridurre all'obbedienza una città ribelle. Ciò mi riuscirà facile, avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di centomila uomini e duecento pezzi di cannone".

Un'ora dopo, già quasi notte, erano le sette del pomeriggio del 18 marzo, circa duemila Austriaci con due cannoni diedero l'assalto al palazzo del Broletto, ma furono respinti con diverse perdite dai difensori, che erano in tutto circa trecento persone con una sessantina di fucili e poche munizioni. Tornati gli Austriaci all'attacco, il combattimento si riaccese furioso e durò quasi due ore, fino a quando cioè i difensori ebbero munizioni. Terminate queste e andato in pezzi il portone sotto i colpi dell'artiglieria, la resistenza non fu più possibile. Le truppe penetrarono nel palazzo e vi fecero prigionieri centoventi cittadini che furono condotti prigionieri al Castello Sforzesco. Fra loro c'erano gli assessori conte GREPPI, conte GIUSEPPE BELGIOIOSO e PIETRO BELLATI, il vecchio generale napoleonico TEODORO LECCHI, GILBERTO e GIULIO PORRO, FILIPPO MANZONI, ERCOLE DURINI, CARLO DE CAPITANI, IGNAZIO LAINATI, AGOSTINO BRAMBILLA ed altri stimati cittadini.

Durante la notte, il conte CASATI, non credendosi sicuro in casa Visiberti, si trasferì nel palazzo Taverna in via dei Bigli, che divenne il nuovo quartiere generale dell'insurrezione e la sede del comitato dirigente, composto dallo stesso CASATI, dell'assessore BERETTA, da VITALIANO BORROMEO, GIUSEPPE DURINI, POMPEO LITTA, GAETANO STRIGELLI, ANSELMO GUERRIERI, PAOLO BASSI, ENRICO GUICCIARDI.
Il giorno 19 marzo il cielo, tornato sereno, vide tutta la città in armi. E con Milano stretta in un cerchio di nemici armati; c'erano soldati sui bastioni, soldati alle porte, artiglierie nei punti strategici della città.
Ma all'interno del cerchio, dappertutto era una gara nel costruire barricate, che sorgevano a centinaia agli sbocchi e alle strozzature delle vie, agli incroci, agli ingressi delle piazze. E dovunque si combatteva con ardore ed accanimento. Gli Austriaci, sempre più irritati della resistenza che incontravano; i Milanesi audaci e ormai decisi a liberare la città dall'odiato nemico.
( per le immagini vedi LE CINQUE GIORNATE > > >

"I nemici - scrive il La Farina - provarono a inoltrarsi da Porta Orientale, e giunsero fino al Seminario, ma furono costretti a ritirarsi. I Tirolesi continuavano a molestare i cittadini da dietro i trafori marmorei del duomo, gli Ungheresi difendevano con vivissimo fuoco la corte, i poliziotti combattevano con quell'audacia che è figlia della disperazione; ma i finanzieri, i pompieri e buona parte dei gendarmi italiani si erano uniti al popolo. I seminaristi uscirono pure loro nella via e la sbarrarono con letti, cassettoni, scaffali, libri e fagotti. In tutta la città si combatteva con grande impeto e valore, ma non in modo ordinato; ciascuno faceva da sé, spronava e il proprio ingegno consigliava secondo l'ira e il furore.... I birichini milanesi, appiattiti dietro agli steccati, alzavano i cappelli e i berretti in cima a delle aste e tenevano così a bada i nemici, che sparavano furiosamente per ore intere contro quei zimbelli, fra le risa ed i fischi di quelli che guardavano.
Per scoprire e sapere quello che accadeva in altri luoghi della città e sui bastioni e fuori, astronomi ed ottici stavano su i campanili, e di là gettavano biglietti legati a un anello di ferro che correva lungo un filo di ferro, per non perder tempo nello scendere e salire le lunghe scale. I chimici fabbricavano polvere e cotone fulminante, gli ingegneri ordinavano difese e ripari, i meccanici tentavano di costruire cannoni di legno cerchiati di ferro; gli allievi dell'Orfanotrofio, con meravigliosa prestezza passavano fra i combattenti, attraversavano gli steccati delle barricate e portavano qui e là, biglietti e dispacci. Dappertutto una continua e sanguinosa battaglia; e le donne incitavano i mariti, i fratelli, i figlioli, li chiamavano e li sospingevano in aiuto dei combattenti".

Quel giorno sulla piazza dei Mercanti gli insorti conquistarono un cannone ed espugnarono Porta Nuova su cui il NIZZARDO ANGUSTO ANFOSSI piantò il tricolore.

Prove di grande valore e di grande perizia nel dirigere le operazioni le diedero LUCIANO MANARA l'ANFOSSI, ENRICO DANDOLO, LUIGI DELLA PORTA, EMILIO MOROSINI e LUIGI DE CRISTOFORIS.
GIUSEPPE BROGGI, trentaquattrenne, famoso tiratore, appostato nel vicolo Rosini, spazzò con i suoi tiri precisi i nemici che avanzando dal bastione tentavano di occupare via Monforte; uccise parecchi ufficiali austriaci fra cui il generale VOLMAN, ma, mentre faceva fuoco all'angolo del Corso con la sua infallibile carabina, colpito da una palla, di cannone, finì gloriosamente la vita.
Il giorno 20 marzo, la battaglia continuò con una furia ancora maggiore. Il podestà CASATI ricostituì la Commissione municipale allo scopo di "mantenere qualche ordine ed assicurare il rispetto alle proprietà e alle famiglie", avvertendo però che intendeva "agire e restare nei limiti della più stretta legalità". Su proposta del CATTANEO, per meglio disciplinare le operazioni di guerra, fu costituito un Comitato di guerra, del quale fecero parte lo stesso CATTANEO, con POMPEO LITTA, GIORGIO CLERICI, GIULIO TERZAGHI, ENRICO CERNUSCHI, CARNEVALI, DISSONI, TORELLI.

Il Comitato di guerra diede un andamento più regolare alla lotta e, per prima cosa portò lo sforzo maggiore contro quei nemici che occupavano il centro della città e che, affamati e quasi privi di munizioni, avevano già ricevuto l'ordine di ritirarsi nel Castello. Fu così riconquistato dai cittadini il Broletto e caddero nelle mani degli insorti piazza dei Mercanti, il palazzo Reale, il palazzo di Giustizia e quello della Polizia. Il TORRESANI, travestito da gendarme, si era rifugiato durante la notte nel Castello, abbandonando la famiglia che però il popolo rispettò; il famigerato BOLZA però fu catturato in un nascondiglio e sottratto all'ira popolare dal conte VITALIANO BORROMEO. "Se lo ammazzate - disse il Cattaneo - fate una cosa giusta; se non lo ammazzate fate una cosa santa"; e il popolo, generosamente lasciò la vita a quel tristo uomo che si era venduto al nemico della patria. Preso il Palazzo di Giustizia, furono scarcerati FILIPPO VILLANI, MANFREDO CAMPERIO, GIUSEPPE BRAMBILLA, ERCOLE SALVIONI ED ALESSANDRO BORGAZZI, detenuti politici, i quali, appena liberi, presero le armi e corsero pure loro alle barricate.
Anche la zona Duomo, e sul duomo stesso, quel giorno, fu portato via agli Austriaci; i cacciatori tirolesi furono uno per uno snidati dalle guglie, conquistato così il tetto del Duomo, LUIGI TORELLI di Sondrio e SCIPIONE BAGAGGIN di Treviso scalarono la guglia più alta e accanto alla Madonnina piantarono il tricolore.

Due tentativi furono fatti per porre termine alla lotta: uno dal Radetzky, che, per mezzo del maggiore ETTINGHAUSEN, propose una tregua di quindici giorni durante i quali i combattenti avrebbero conservato le rispettive posizioni, ma la proposta fu respinta; l'altro dai consoli, i quali, avendo protestato contro la minaccia del Radetzky di bombardare la città, ricevettero dal maresciallo una lettera in cui egli diceva che
"per rispetto ai governi che rappresentavano sospendeva le misure severe che si obbligava di prendere contro Milano sino all'indomani, giorno 21, a patto che ogni ostilità cessasse dalla parte avversa".

Il 21marzo, la lotta diventa ancora più aspra e si prosegue metodicamente negli assalti dei pubblici edifici ancora occupati dal nemico: il palazzo del Genio, il palazzo del Comando Generale a Brera, il collegio di San Luca, le caserme di San Francesco, di S. Apollinare, di S. Simone, di San Simpliciano, di S. Vettore, di S. Eustorgio.
Difficile fu l'occupazione del palazzo del Genio, difeso da centosessanta soldati. L' ANFOSSI, che dirigeva le operazioni, per fiaccare la resistenza dei difensori, si era appostato nel palazzo del Monte di Pietà, puntando contro la porta principale dell'edificio un piccolo cannone; stava per tirare il terzo colpo quando una palla lo colpì in fronte, dandogli solo il tempo di dire Dio e Patria. Aveva trentasei anni; era andato esule in Francia nel 1832, poi si era recato in Egitto e aveva combattuto valorosamente sotto Ibrahim Pascià guadagnandosi il grado di colonnello; andato a Smirne e datosi al commercio si era arricchito, ma ai primi segni di riscossa italiana era tornato in patria, ed era giunto a Milano pochi giorni prima che scoppiasse la rivoluzione.

La morte dell'Anfossi fece raddoppiare gli sforzi dei Milanesi contro il palazzo del Genio. Mentre MANFREDO CAMPERIO tentava di abbattere la porta con una scure, spuntò un popolano sciancato, di nome PASQUALE SOTTOCORNO, e sfidando il grandinare delle palle, accatastò fasci di paglia e di fieno sulla porta e vi appiccava il fuoco costringendo gli Austriaci ad arrendersi. Il valoroso popolano doveva morire nove anni dopo, il l° ottobre del 1857, a Torino, eroe esule dimenticato, e costretto a guadagnarsi da vivere facendo il ciabattino nei cantoni della città.
Mentre la lotta infuriava e la peggio toccava agli Austriaci che furono ricacciati verso la periferia, i consoli facevano un secondo tentativo di far cessare le ostilità. Proponevano queste condizioni:

"1° sospendere le ostilità per tre giorni continui incominciando dalle sei pomeridiane dello stesso giorno 21 marzo;
2° pochi colpi nonostante la tregua, qualora tirati da una parte o dall'altra non avrebbero avuto motivo di rottura della sospensione delle ostilità;
3° poter introdurre liberamente in città i viveri e i corrieri, e lecito a chiunque di uscirne; 4° il maresciallo poteva impedire l'ingresso ai campagnoli specialmente se armati".

Questa tregua avrebbe solamente giovato al Radetzky che già aveva chiesto rinforzi da Verona; non venne quindi accettata e i consoli riferirono al maresciallo questa orgogliosa deliberazione:
"Il magistrato municipale ha naturalmente un'autorità limitata dalla forza delle cose, per cui potrebbe compromettere la propria lealtà se s' impegnasse in una tregua che difficilmente gli potrebbe venir concessa di mantenere, visto l'ardore della popolazione che vuole combattere" .

Oramai sorrideva ai Milanesi la speranza della vittoria e questa, dati i successi ottenuti, si mostrava vicina. Di questi successi le popolazioni della campagna erano informati dai Milanesi per mezzo di proclami recati da palloni. Uno di loro diceva:
"Noi gettiamo dalle mura questo foglio per chiamare tutte le città e tutti i comuni ad armarsi immediatamente in guardia civica, facendo capo alle parrocchie, come si fa a Milano; di ordinarsi in compagnie di cinquanta uomini, di eleggeranno ciascuna un comandante e un provveditore, per accorrere ovunque la necessità della difesa lo imponga. Aiuto e vittoria !".
Un altro diceva: "Fratelli ! La vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta tra due fuochi e abbracciamoci".


E dalle campagne e dai paesi vicini si era subito risposto all'appello dei prodi Milanesi.
"Per dodici miglia all'intorno - scrive il La Farina - si vedevano andare sulle strade carri pieni di gente armata; bande di contadini ovunque s'incontravano; si udivano dappertutto grida di esortazione, di letizia e tanti viva all'Italia, viva Milano.
Cinquecento armati dalla Svizzera italiana, riuniti ai montanari del lago di Como ed alla più animata gioventù di quella città, fanno prigionieri mille e duecento croati, combattono a Monza e giungono sotto le mura di Milano, e qui si ingrossano con altre due schiere: l'una delle quali aveva preso trecento prigionieri a Varese, mentre l'altra veniva dal Lago Maggiore, sfuggita alle guardie piemontesi che avevano ordine di disarmarla. Altra schiera era giunta dalla parte di mezzogiorno: un certo GUI, che la guidava, era morto gloriosamente sotto le mura di Milano, ed un certo TRABUCHI, catturato dai nemici a Lodi fu fucilato. L'ingegnere ALESSANDRO BORGAZZI, dopo avere condotto attraverso la ferrovia parecchie migliaia d'uomini, penetra arditamente in città, concerta con il consiglio di guerra un attacco da dentro e da fuori; torna a raggiungere e a mettersi il testa alle sue schiere, ma il giorno seguente nell'azione resta ucciso.
Durante la notte, prevedendo la vittoria, l'amministrazione municipale si trasformò in Governo provvisorio, partecipando la notizia al popolo:

"L'armistizio offertoci dal nemico fu da noi rifiutato, ad istanza del popolo che vuol combattere. Combattiamo dunque con lo stesso coraggio che ci fece vincere in questi quattro giorni di lotta, e vinceremo ancora. Cittadini, riceviamo con piede fermo quest'ultimo assalto dei nostri oppressori, con quella fiducia che nasce dalla certezza della vittoria. Le campane a festa rispondano al fragore del cannone e delle bombe; e venga pure il nemico, noi sappiamo lietamente combattere e lietamente morire. La patria adotta come suoi figli gli orfani dei morti in battaglia ed assicura ai feriti gratitudine e sussistenza. Cittadini, questo annuncio viene fatto da' sottoscritti costituiti in Governo provvisorio, che, reso necessario da circostanze imperiose e dal voto dei combattenti, viene così proclamato: CASATI, presidente; con VITALIANO BORROMEO, GIUSEPPE DURINI, POMPEO LITTA, GAETANO STRIGELLI, CESARE GIULINI, ANTONIO BERETTA, MARCO GREPPI, ALESSANDRO PORRO, e CESARE CORRENTI, segretario generale".

Contemporaneamente il Comitato di guerra diceva ai cittadini;
"Ottomila uomini raccolti dalla campagna stanno per darvi la mano; le truppe straniere domandano tregua; non lasciate tempo ai discorsi. Coraggio! Finiamola per sempre. L'Europa parlerà di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva l'Italia ! Viva Pio IX".

Come abbiamo più volte visto, il Viva Pio IX non manca mai, lo si scrive e lo si grida ovunque, è ormai una bandiera dei liberali non solo moderati, ma anche quelli più accessi, e persino degli anticlericali.

Un altro proclama del Governo provvisorio alla cittadinanza, per impedire che la concordia fosse turbata dai dissidi sorti tra gli Albertisti e il Cattaneo a causa di una richiesta di aiuto che i primi mandarono al Re di Sardegna, e fu questo:

"Cittadini, finché dura la lotta non è opportuno mettere in campo opinioni sui futuri politici destini di questa nostra carissima patria. Noi siamo chiamati per ora a conquistarne l'indipendenza, ed i buoni cittadini di null'altro devono adesso occuparsi fuorché di combattere. A causa vinta, i nostri destini saranno discussi e fissati dalla nazione".

Il 22 marzo, ormai cadute le caserme austriache di San Simpliciano e di San Vittore, la lotta si spostò verso le mura. I Milanesi volevano rompere il cerchio che li divideva dagli insorti della campagna e assalirono le porte. Un tentativo fatto contro Porta Ticinese fallì; uguale negativo risultato in un altro tentativo contro Porta Romana; ma a Porta Tosa il valore, l'audacia e la costanza degli insorti ebbero ragione del numero e delle armi dei nemici. Mille soldati austriaci con sei pezzi d'artiglieria difendevano la porta e a queste forze i Milanesi non potevano contrapporre che due cannoncini, tre piccole spingarde e come corazze solo i loro petti. Eppure combatterono e vinsero.
Questa fu una lotta veramente epica: si sparava dalle finestre e dai tetti delle case che fiancheggiavano Porta Tosa, le artiglierie dell'una e dell'altra parte tuonavano senza tregua, dalla barricata gli insorti facevano un fuoco d'inferno contro il fortilizio; ma la resistenza nemica era pure quella ostinata. Allora s'avanzò una specie di barricata mobile, formata di fascine bagnate, ideata dal matematico pavese ANTONIO CARNEVALI; numerosi insorti, capitanati da LUCIANO MANARA, da LUIGI TORELLI e da ENRICO CERNUSCHI, procedevano al riparo di essa, sparando ininterrottamente sul nemico; altri invece rotolavano delle fascine asciutte, costruita dal pittore-scultore GAETANO BORGOCORATI, che ne dirigeva la manovra, ed era quest'ultima destinata ad appiccar fuoco alla porta.

L'audacia degli insorti superò l'accanimento austriaco, e l'attacco decisivo fu violento: ENRICO ed EMILIO DANDOLO si batterono da leoni, il CERNUSCHI e il TORELLI diedero prove magnifiche del loro valore; tutti mostrarono in quei momenti in cui si decidevano i destini della patria, sprezzo della vita; ma chi fra tutti si distinse fu lui, LUCIANO MANARA, il quale, avanzandosi a petto scoperto fra il grandinare delle palle, diede fuoco alla porta.
Così Porta Tosa, battezzata poi PORTA VITTORIA, fu espugnata: il primo a superar la barriera fu un ragazzo, un falegname diciassettenne, PAOLO PIROVANO, che, richiesto qual premio desiderasse per aver speso così bene il suo coraggio, rispose: "far parte della Guardia civica". Il Manara piantò sul bastione la bandiera tricolore e dalla porta, finalmente aperta dall'eroismo del popolo, entrarono schiere di armati della Brianza, di Bergamo e d'altri luoghi che da alcuni giorni si battevano oltre le mura.

Rotta quella cerchia dove da cinque giorni i Milanesi erano stati rinchiusi, il RADETZKY non aveva più la possibilità di domare la rivolta. Inoltre scarseggiava di viveri e di munizioni; era con delle truppe stanche e avvilite; era turbato dalle notizie che gli giungevano da tutta la Lombardia, dove l'insurrezione divampava, ed era infine preoccupato dalle voci di un arrivo imminente dell'esercito piemontese.
Non era il caso d' insistere in una lotta che, allo stato delle cose, non poteva mai finire con la vittoria degli Austriaci. Era meglio ritirarsi nel Quadrilatero per poi muovere di là a tempo opportuno alla riscossa, magari con centomila uomini fatti arrivare da ogni parte del territorio austriaco e veneto.
Nella notte dal 22 al 23 marzo, il Radetzky che durante le Cinque giornate aveva avuto quattrocento soldati morti e più di seicento feriti, oltre i prigionieri, lasciati i feriti che poi furono benignamente curati dalla cittadinanza, abbandonò il Castello e si allontanò da Milano con tutte le sue truppe, simulando con intenso fuoco delle artiglierie la ritirata.

Aveva inoltre preso le sue precauzioni per non essere attaccato; infatti, conduceva con sé come ostaggi alcuni dei più insigni cittadini caduti prigionieri nelle sue mani, quali ALBERTO DE-HERRA, ANTONIO BELLATI, FILIPPO MANZONI, GIUSEPPE BELGIOIOSO, GILBERTO e GIULIO PORRO, CARLO PORRO, ANTONIO PELUSO, CARLO DE CAPITANI ed ERCOLI DURINI; conduceva anche le famiglie dei suoi ufficiali. Giunti davanti a Melegnano, gli Austriaci si videro sbarrare il passo dagli abitanti di quel villaggio, i quali però, dopo qualche resistenza, furono cacciati dal paese, e come regalo messo a sacco. Ma essendosi i fuggiaschi portatisi sul Lambro a fare guerriglia, gli Austriaci dovettero fermarsi e passare in quel luogo la notte. E fu durante quella notte che uno degli ostaggi, il conte CARLO PORRO, non si sa perché e da chi, fu ucciso con una fucilata. La sua salma abbandonata dagli austriaci fu poi trasportata a Milano (31 marzo) dove poi ebbe esequie solenni.
Il RADETZKY proseguì per Lodi, quindi si recò a Montichiari. Qui si fermò per riordinare e far riposare l'esercito. Forse sperava di riprendere di là l'offensiva; ma, incalzato anche lì dall'insurrezione, cambiò parere e il 4 aprile andò a chiudersi nel Quadrilatero. La gioia dei Milanesi, quando si accorsero che gli Austriaci se n'erano andati, fu immensa e non valse a diminuirla lo spettacolo delle nefandezze commesse dal nemico. Un centinaio di volontari capitanati da LUCIANO MANARA, con la spensieratezza e l'imprudenza di giovani ubriacati dal trionfo si diedero all'inseguimento del Radetzky per tornarsene dopo alcuni giorni a Milano a descrivervi le tracce orribili trovate a Melegnano e a Lodi dopo il passaggio degli Austriaci.

Intanto nella capitale lombarda si credeva finita la guerra e si pensava ad organizzare la caccia al nemico con reparti di truppe regolarmente costituiti. Un proclama, in data 23 marzo del Comitato di guerra, e intestato "Italia Libera, W. Pio IX, Esercito Italiano", diceva:

"I cinque giorni sono compiuti, e già Milano non ha più un solo nemico nel suo seno. Da ogni parte accorrono con ansia dalle altre terre i combattenti. È necessario raccoglierli unirli e ordinarli in legioni. D'ora in poi non basta il coraggio, bisogna inseguire con arte in aperta compagna un nemico che può trarre tutto il vantaggio dalla sua cavalleria, dai cannoni, dalla mobilità delle sue forze: ordiniamoci dunque almeno in due parti; l'una rimanga, come fin qui, a difendere con le barricate e con ogni varietà d'armi, la città, l'altra, provvista interamente da armi da fuoco e di qualche drappello di cavalli e, appena possibile anche di artiglieria volante, esca audacemente dalle mura e, aggiungendo al valore la mobilità e la precisione, incalzi di terra in terra il nemico in ritirata, lo fermi nelle rapine, lo rallenti nella fuga, gli impedisca ogni scampo. Siccome la sua meta è raggiungere quanto più presto si può la cima delle Alpi e la futura frontiera che il dito di Dio fin dal principio dei secoli segnò per l'Italia, noi la chiameremo Legione Prima, Esercito della frontiera, Esercito delle Alpi. I difensori della città si chiameranno Legione Seconda e per uniformarsi ai fratelli e compiere una grande istituzione italiana: Guardia civica. Valorosi, che accorrete a noi da tutte le vicine e lontane terre, unitevi e all'Esercito e alla Guardia, secondo l'armamento che avete. Ma unitevi, ordinatevi, ubbidite al comando fraterno. I vostri comandanti saranno eletti da voi. Suvvia, dunque, viva l'Esercito delle Alpi, viva la Guardia della città".


IL MANIFESTO è RIPORTATO INTEGRALMENTE INSIEME AI
PROCLAMI E A 18 IMMAGINI
A PIENO SCHERMO DELLE 5 GIORNATE

QUI


Belle parole, entusiasmo santo, nobilissimi desideri, sacri propositi ! Ma il nemico non fuggiva e non era, come si credeva dai Milanesi, una questione di caccia. Il RADETZKY, da quel consumato uomo di guerra qual'era, si ritirava ordinatamente nel Quadrilatero, deciso a riconquistare per l'imperatore il Lombardo-Veneto. Sapeva, esperto com'era, e conoscendo benissimo le carenze del nemico, che occorreva scendere in campo con forze considerevoli, con armi abbondanti e con capi esperti. In una parola, l'indipendenza delle province della Lombardia e del Veneto doveva esser conseguenza di una guerra, che non era ancora cominciata e di cui la rivoluzione di Milano di Venezia e delle altre città (che vedremo sotto) altro non era, che un sanguinoso preludio.

Abbiamo accennato all'inizio al Sud,
siamo andati in Piemonte, poi a Venezia
poi a Milano (e ci ritorneremo presto)
ma la rivoluzione era anche arrivata nelle altre città lombarde
e nei piccoli Stati, e di quelle e di questi ora ci occupiamo
nei fatitici primi tre mesi di questo 1848
ANNO 1848 - Atto Quarto

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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