ANNO 1848

CURTATONE E MONTANARA - CADUTA DI VICENZA - IL RE TENTENNA
Atto Settimo

L'ASSEDIO DI PESCHIERA - LA BATTAGLIA DI CURTATONE E MONTANARA - LA BATTAGLIA DI GOITO -
PADOVA, TREVISO E PALMANOVA
L'INSUCCESSO DI CARLO ALBERTO A RIVOLI - IL RE TENTENNA E RADETZKY SI ARMA

LA CADUTA DI VICENZA,



La battaglia di Curtatone
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L'ASSEDIO DI PESCHIERA
E LA BATTAGLIA DI CURTATONE E MONTANARA


L'insuccesso austriaco a Vicenza rialzò il morale delle popolazioni venete, piuttosto depresso dopo l'arrivo del NUGENT. Altri motivi di gioia erano costituiti dall'accanita resistenza che le bande cadorine di LUIGI COLLETTI e di PIER FORTUNATO CALVI opponevano all'avanzata del WELDEN, da quella delle guarnigioni di Palmanova ed Osoppo e dalla forzata inerzia della flotta austriaca del KUDRIAFSKY, che se ne stava chiusa nel porto di Trieste, ben sorvegliata dalle flotte sarda e napoletana ancorate a Pirano.
Giungevano intanto ai Piemontesi le grosse artiglierie d'assedio e Carlo Alberto, affidava la direzione di tutte le truppe che assediavano Peschiera al DUCA DI GENOVA, assistito dai generali CHIODO, comandante il genio, ROSSI, comandante l'artiglieria, e FEDERICI che aveva il comando della divisione.
Avevano qui aperto il fuoco delle batterie il 18, che furono condotte con tale perizia che il 21 saltò un magazzino delle polveri e furono smontati tutti i cannoni del forte Mandella; cosicché la sera del 22 fu aperta dai piemontesi una trincea a seicento metri dalla piazzaforte. Il 26, il Duca di Savoia fece la proposta di una capitolazione onorevole al vecchio generale RATH, che chiese ventiquattr'ore di tempo per decidersi, ma al termine rispose con il rifiuto di arrendersi e continuò a resistere sperando nei soccorsi del Radetzky, il quale però meditava un'impresa audacissima che, se coronata dal successo, avrebbe in un sol colpo dato a lui la completa vittoria.

Lo schieramento piemontese si estendeva da Mantova oltre Pastrengo, raggruppato la maggior parte attorno a Peschiera, e nelle posizioni di Santa Giustina, Sonà, Sommacampagna, Villafranca, mentre presso Mantova non vi erano che i Toscani, congiunti al resto dell'esercito soltanto da alcune posizione verso Goito.
Il Radetzky stabilì di piombare sui Toscani, sbaragliarli prima che potessero venir soccorsi, quindi risalire il Mincio dalla destra, distruggere i magazzini di viveri del nemico e i ponti e dar modo al generale VON ZOBEL di scendere da nord, dalla valle dell'Adige ed approvvigionare Peschiera.
I risultati della mossa austriaca potevano essere immensi; oltre che prendere e vettovagliare la guarnigione di Peschiera, con tutto l'esercito nemico chiuso fra il Mincio e l'Adige e privo di risorse, sarebbe stato obbligato ad arrendersi o ad accettar battaglia in una posizione sfavorevole. Ma il Radetzky, se non riusciva ad agire con rapidità ed energia correva invece il rischio di farsi battere dai piemontesi e di rimaner lui tagliato fuori da Mantova o da Verona.

Affidata la custodia di Verona al Thurn, il Radetzky divise il resto delle sue forze - trentacinquemila uomini circa - in due corpi (il primo, al comando del generale WRATISLAU, composto di quindici battaglioni, otto squadroni e trentasei cannoni, il secondo, sotto il generale D'ASPRE, formato da un ugual numero di cavalli e d'artiglieria e da diciassette battaglioni) e una riserva, comandata dal WOCHER e composta d'undici battaglioni, vent'otto squadroni, settantanove cannoni e un reparto di pontieri.
Nel pomeriggio del 27, il Radetzky uscì da Verona e per Isola della Scala giunse la sera del 28, presso Mantova e si accampò a S. Giorgio. I Toscani tenevano la linea tra Goito e il lago di Mantova ed occupavano Curtatone e Montanara. Erano comandati dal generale LAUGIER, che il 26 maggio aveva sostituito l'Arco-Ferrari, e avevano combattuto con valore contro gli Austriaci il 4, il 10 e il 13 maggio.

Il LAUGIER, che aveva il quartiere generale alle Grazie, ricevette il 28 dal generale BAVA due avvisi: nel primo gli si diceva di stare in guardia, con il secondo lo s'invitava ad impedire al nemico il passaggio del Mincio, e, se ciò non era possibile, di ritirarsi su Gazzoldo e di là a Volta. Ma un terzo avviso il BAVA al LAUGIER lo inviò il mattino presto del 29, con il quale gli dava istruzione di "portare subito la sua divisione più indietro, per mettersi in grado, nel caso non potesse più tener testa al nemico, di ritirarsi in buon ordine sopra Volta, dove lui sarebbe giunto con il suo esercito.
Quest'ultimo avviso giunse al LAUGIER -abbiamo detto il 29 mattina presto- quando stava iniziando la battaglia, e non poteva più eseguire queste nuove istruzioni del BAVA, perché ormai erano già state impartite durante la notte. Alle ore 8 ogni cosa era pronta.

Il LAUGIER, aveva già dato ai suoi reparti le disposizioni necessarie e si accingeva ad aspettare a piè fermo il nemico con le forze della sua divisione così dislocate: a Goito il 1° battaglione del 10° reggimento napoletano; a Sacca, Rivolta e Castellucchio due compagnie di Lucchesi e un battaglione di volontari fiorentini; a Curtatone, sotto il comando del colonnello CAMPIONE, duemilacinquecento uomini, fra cui un battaglione di volontari napoletani; a Montanara, comandati dal colonnello GIOVANNETTI, altri duemilacinquecento soldati fra cui il secondo battaglione del 1° Reggimento napoletano.

In questa mattina del 29 maggio, alle ore 9, sedicimila fanti austriaci, duemila cavalli ed otto batterie mossero divisi in tre colonne, la prima comandata da FELICE SCHWARTZENBERG, la seconda da CARLO SCHWARTZENBERG, la terza dal LIECHTENSTEIN, puntavano le prime due su Curtatone e Montanara, l'ultima prendendo la via di Buscoldo per aggirare Montanara e impadronirsi del passo dell'Osone.
La battaglia cominciò con l'assalto di Curtatone. Due volte la brigata Benedek assalì e due volte fu respinta, mentre i due cannoni del capitano NICCOLINI tenevano testa alle numerose artiglierie nemiche, distinguendosi il cannoniere GASPERI, che, quasi nudo per essere i suoi vestiti stati bruciati da un razzo incendiario, rimaneva in quello stato impassibile, accanto al suo pezzo fra il fulminare dei cannoni austriaci.
Ma, ritornato la Benedek all'assalto spalleggiata dalla brigata Wolgemuhl, la resistenza riuscì impossibile e i superstiti ripiegarono con discreto ordine su Goito. Si distinse fra gli altri, a Curtatone, il battaglione degli studenti delle Università di Pisa e di Siena; il prof. LEOPOLDO PILLA, famoso geologo, venuto a combattere con i suoi discepoli per l'indipendenza d'Italia, che qui cadde ucciso, e fu ferito e fatto prigioniero GIUSEPPE MONTANELLI. E una ferita se la prese pure il colonnello CAMPIA.

Anche a Montanara i volontari toscani del GIOVANNETTI respinsero due audaci assalti del nemico e con loro gareggiarono in valore i fanti del 2° battaglione del 1° reggimento napoletano, ma alla fine, dopo sei ore d'accanito, sanguinoso combattimento, ormai decimati furono costretti a ripiegare su Gazzoldo.
Nella battaglia di Curtatone e Montanara, in cui i tanto bistrattati volontari toscani si copersero di gloria resistendo contro le forze triple del nemico e mandarono a vuoto il disegno del Radetzky di chiudere fra il Mincio e l'Adige, l'esercito piemontese, la divisione italiana del LAUGIER ebbe centosessantasei morti, cinquecentodieci feriti e millecentottantasei prigionieri. Gli Austriaci, un migliaio d'uomini fuori combattimento.

Lo stesso giorno 29, mentre infuriava la battaglia a Curtatone e Montanara, seimila Austriaci scendevano da Rivoli con i convogli che dovevano rinforzare e rifornire di viveri Peschiera. Ma non riuscirono ad oltrepassare Colmasino perché gli Italiani che difendevano quella posizione resistettero fin quando, giunto in soccorso il generale Bes, gli austriaci furono respinti oltre Cavaglione.
In conseguenza di questa rotta dei soccorsi, la debole guarnigione austriaca di Peschiera, mancante di viveri si arrese il giorno 30. Il presidio contava millesettecento uomini; furono trovate centocinquanta bocche da fuoco e una gran quantità di polvere e di proiettili.

Il Radetzky, avuta ragione dei piemontesi a Curtatone e a Montanara, avrebbe dovuto marciare su Goito, ma l'improvvisa resistenza trovata lo consigliò di rimandare il giorno dopo il proseguimento dell'azione, il che permise a Carlo Alberto di concentrare su Goito ventiduemila uomini.

A mezzogiorno del 30 maggio, lo schieramento dell'esercito sardo era stato effettuato: a destra, fuori della valle del Mincio, lungo la strada di Vasto, dove si congiungono le strada di Brescia e di Volta, stava la brigata Cuneo; in seconda linea l'Aosta; in terza, quella delle Guardie; un reggimento che si era distaccato per fiancheggiare l'estremità della linea, su cui il nemico avrebbe potuto fare impeto; molti bersaglieri rafforzavano questo punto e un altro reggimento di cavalleria sorvegliava le strade di Solarolo e Ceresara; a sinistra, sulle alture di Somenzari, piazzati uno dietro l'altro due reggimenti di fanti e più ancora più indietro tre reggimenti di cavalleria e una forte riserva d'artiglieria; Goito era occupata da due battaglioni e protetta da numerosa artiglieria, formava l'estrema sinistra che perciò veniva ad appoggiarsi al fiume.

BATTAGLIA DI GOITO

Alle tre del pomeriggio del 30 maggio, si presentò il Radetzky con venticinquemila Austriaci.
"Radetzky - scrive uno storico - voleva impadronirsi di Goito e nello stesso tempo aggirare la destra dei Piemontesi e farli indietreggiare al Mincio; aveva quindi collocato la sua destra verso la strada di Sacca, affinché potesse mantenere il fronte a Goito e al centro dei Piemontesi, e la sua sinistra si prolungava in modo da spuntare la loro destra e poterla poi prendere alle spalle; finalmente per impedire al nemico di tornare a riversarsi da questa parte, aveva spedito verso Ceresara un corpo di circa dodicimila uomini, i quali proprio per questa dislocazione poi non poterono prender parte alla battaglia.
L'attacco austriaco cominciò contro Goito, lungo la strada di Sacca, con un nutrito fuoco d'artiglieria, al quale i Piemontesi, che avevano là quattordici pezzi, risposero con la loro solita superiorità; e siccome tutti gli sforzi del nemico erano diretti su quel punto e cominciava a riportarne qualche vantaggio, BAVA per arrestarlo inviò una parte delle truppe del centro e fece passare sulla riva sinistra un battaglione con quattro pezzi e prendere il nemico di fianco.
Queste disposizioni resero vani tutti gli sforzi austriaci e quantunque l'attacco fu per cinque volte ripetuto, fu sempre respinto, e le perdite sofferte dagli Austriaci su questo punto anche se furono consistenti, furono meno dei piemontesi, perché questi preferivano difendersi che non attaccare, nonostante avessero in alcune fasi la superiorità numerica rispetto all'esercito attaccante del Radetzky
(come vedremo più avanti).

Ma le cose non andavano allo stesso modo all'estremità opposta di Goito: un battaglione della prima linea avendo ceduto terreno, il nemico penetrò nella falla, prendendo così di fianco gli altri battaglioni, seminandovi il disordine; nel tempo stesso continuava ad estendersi verso l'estrema destra, che cercava di poter attaccare. La brigata posta in seconda linea fu mandata ad occupare il posto della prima, e si mostrò più ferma, ma il disordine in breve ci fu anche in queste file.
In quel momento giunse al BAVA l'avviso che il nemico stava gettando un ponte sopra Goito per attaccarlo alle spalle. Quest'avviso non poteva che essere falso, essendo impossibile che un corpo d'Austriaci giungesse in tal modo dalla riva sinistra, ed era d'altra parte evidente che l'intenzione di RADETZKY era quella al contrario di respingere i Piemontesi al Mincio; tuttavia la notizia inquietò molto BAVA, ma non abbastanza per decidere subito di ordinare una ritirata, la qual cosa in un simile momento -secondo lui- avrebbe compromesso tutte le precedenti efficaci azioni.

Mentre BAVA prendeva queste nuove decisioni di ripiegare a quell'ipotetico attacco, fu conosciuto l'errore, ma nonostante questo pensò più solo a rinnovare il combattimento sulla destra dove già la terza linea dopo rotta della seconda, era alle prese con il nemico. Da quella parte il terreno si prestava benissimo alle mosse degli assalitori e ai movimenti della sua numerosa artiglieria, mentre all'opposto i piemontesi, i quali avevano davanti a loro solo burroni e terreno paludoso, non potevano muoversi che con estrema difficoltà, cosicché, mitragliati di fronte e di fianco e non potendo sostenersi reciprocamente, i battaglioni ripiegarono tutti in quel combattimento ineguale.

Gli Austriaci si erano anche impadroniti delle case da dove appoggiavano l'estremità della linea, e tutto preannunciava che la vittoria sarebbe andata a loro, quando l'artiglieria piemontese, riuscita a distendersi, sostenne prima con un nutrito fuoco la terza brigata che così fermarono gli austriaci, poi assecondando una parte della brigata Cuneo che il duca di Savoia conduceva al combattimento, questa fece a sua volta indietreggiare il nemico caricandolo alla baionetta e mettendolo nello scompiglio.
Gli austriaci avevano già sofferto più di sette ore di combattimento, quando il maresciallo RADETZKY, vedendo l'inutilità dei suoi sforzi, ordinò la ritirata su tutta la linea. Che non era una vera e propria sconfitta, ma solo una temporanea crisi, per aver commesso lo stesso maresciallo Radetzky un madornale errore di condotta strategica, sopravalutandosi.
Ma questa crisi degli austriaci, e anche dello stesso Radetzky, non fu immediatamente percepita dai Piemontesi, ed, infatti, solo una brigata di cavalleria sostenuta da qualche battaglione si mise ad inseguire qua e là qualche reparto di austriaci in ritirata, che lasciava sul campo fra morti, feriti e prigionieri meno di mille uomini, mentre le stesse perdite piemontesi pur in quel momento vincenti erano costate molto più care, circa 3000 uomini.

Gli Austriaci negli assalti, anche se furono respinti, avendoli continuamente ripetuti, causarono ai Piemontesi che si dovevano difendere parecchie perdite; mentre gli stessi non attaccando, né inseguendoli, di perdite agli austriaci ne causarono poche, e come abbiamo visto dai numeri nemmeno un terzo.

Nonostante che sia il re sia il duca di Savoia, si erano pure loro esposti, e rimasero entrambi leggermente feriti, nel conflitto i due generali che avevano in mano la strategia delle battaglie e della guerra, commisero entrambi lo stesso errore, quello di non avvalersi di tutte le truppe che potevano disporre e di unirle per avere in concerto il massimo risultato. BAVA lasciò aggravare quasi tutto il peso del combattimento sulla sua destra, e si avvalse pochissimo delle truppe della sinistra e lasciò in una completa inoperosità le riserve d'artiglieria e di cavalleria. Inoltre diede quei tardivi ordini al Laugier -che abbiamo già accennato sopra-, e che altro non poteva fare a quel punto che sacrificare uomini in un'azione valorosa ma inutile per la fase successiva della guerra del giorno dopo.

Giorno che non brillò nemmeno il talento di Radetzky; anche lui commise errori madornali, e la vittoria gli sfuggì per essersi privato di un terzo delle sue forze inviate verso Ceresara. Dodicimila uomini che rimasero ad oziare, quando invece sarebbero stati per lui decisivi a Goito, su quella critica destra dove Bava si ostinò a difendere, che fortunosamente difese, che riuscì anche a fare la controffensiva, ma che poi non la continuò fino in fondo, pago solo di una vittoria di Pirro.
Questo significa che anche la gran fama del Radetzky, come talento strategico, si deve dire ( giudizi sorretti dalle migliori informazioni di cui disponiamo oggi) che esso trova un limite nel fatto che venne questo talento esercitato prevalentemente in condizioni di forte superiorità del suo esercito. E sappiamo quanto era superiore rispetto agli altri - come numero e come efficienza- l'esercito austriaco.

Tutte le azioni a Goito da lui sostenute fino a quel punto, e fra gli altri il combattimento di Curtatone del giorno prima, dovevano per altro averlo consigliato che per vincere gli serviva la superiorità numerica; se, infatti, quel giorno davanti a Bava, mentre la destra dei Piemontesi continuava a piegare, egli avesse avuto maggior quantità di truppe da quella parte, la vittoria sarebbe stata sua fuori d'ogni dubbio. Ma il desiderio di trarre maggior profitto da un suo personale trionfo, gli fece dimenticare che prima bisognava cominciare a vincere con l'intero esercito austriaco e non con lui solo. E che per vincere gli occorrevano tanti e poi tanti soldati.

Mentre gli Austriaci si ritiravano, Carlo Alberto ebbe la notizia della resa di Peschiera, che gli fece accennare sulle labbra un lieve sorriso. "I Toscani sono vendicati", disse; ma, siccome dalle file dell'esercito, per tutto il campo, si gridava entusiasticamente: Viva il re d'Italia ! rivolgendosi a LUIGI CARLO FARINI, gli disse: "No, qualunque cosa io faccia, gli Italiani a me non crederanno mai; se ci sarà un re d'Italia, quello sarà mio figlio Vittorio Emanuele"; quindi, percorso il campo di battaglia e confortati i feriti, fece ritorno a Valeggio dov'era il suo quartiere generale. Il giorno dopo, 1° giugno, si recava a Peschiera e con i soldati entrò nella cattedrale per ringraziare con una messa, Dio per la vittoria.
Come a Pastrengo (la messa che ritardò l'attacco), così a Peschiera, la giornata sarebbe stata meglio impiegata se l'esercito piemontese fin dal giorno prima avesse incalzato gli austriaci. Così mentre Carlo Alberto a Peschiera cantava i salmi, Radetzky a Verona contava i soldati, i cannoni, le divisioni, perché era piuttosto preoccupato. I piemontesi erano quasi sull'uscio di casa!

Il Maresciallo austriaco, che si era ritirato con il suo esercito tra Goito e Mantova, infatti, si aspettava di essere improvvisamente attaccato dai Piemontesi e si adoperava nelle successive ore, e in gran fretta a fortificare le fattorie e i villaggi, ad abbattere alberi, ad ingombrar le strade e a demolire i ponti per ostacolare il cammino degli Italiani; ma gli Italiani in quelle ore non si mossero, e fu un male perché, nonostante la pioggia dirotta di quel giorno vittorioso e la stanchezza delle truppe, queste erano in grado d'inseguire il nemico e di tagliarlo fuori dell'Adige. Non era un'impresa impossibile, anzi ora che sappiamo com'era messo il Radetzky, era impresa possibilissima.
Ma altro madornale errore dei piemontesi, non vedendo più nessuna offensiva, né contrattacco, s'illusero che Radetzky era anche lui a messa a ringraziare Dio per lo scampato pericolo.

Questa apparente immobilità di un paio di giorni degli Austriaci fece supporre al re e al Bava che avessero intenzione di attaccarli nei successivi giorni; di conseguenza ordinarono tra Goito e Volta il concentramento di quarantamila soldati e di molte artiglierie, tenendosi con la sinistra fortemente appoggiati a Goito. Tutto questo per realizzare in anticipo il temuto attacco.
Il concentramento la sera del 3 di giugno era terminato. Questa volta tutto l'esercito era stato riunito; ma purtroppo nel giorno e nel posto sbagliato.

Il 4 giugno mattina l'esercito italiano doveva iniziare l'offensiva, assalire il centro nemico, cercare di separare le truppe del D'ASPRE da quelle del RADETZKY e costringer queste a ripiegar sul basso Oglio. Ma nella stessa notte dal 3 al 4 giugno il Radetzky toglieva il campo in gran fretta dagli obiettivi fissati dai Piemontesi, guadagnava Mantova e di là si dirigeva a Legnago (ma come vedremo non per restarci).

Il BAVA pur informato - mentre mancavano poche ore all'inizio dell'offensiva- di quanto stava accadendo non tentò neppure l'inseguimento e, credendo che quella mossa degli Austriaci non avesse altro scopo quella di riguadagnare Verona, fece ritornare le truppe nelle stesse posizioni che occupavano prima della battaglia di Goito.

CADUTA DI VICENZA, PADOVA, TREVISO E PALMANOVA
CARLO ALBERTO TENTENNA A RIVOLI E A VERONA
(QUI nei dettagli la caduta di Vicenza)

Invece il Radetzky, saputo che per la via di Bassano scendeva dal Trentino il generale WELDEN con sedicimila Austriaci, aveva concepito un altro piano, quello di correre prima su Vicenza, unirsi al Welden, battere il Durando e tornar quindi a Verona con l'esercito rinforzato. Inoltre l'occupazione di Vicenza era un'altra utile mossa, perché gli avrebbe aperto la comunicazione con l'Austria per la via di Schio e della Vallarsa per altri eventuali rinforzi.

Per mascherare i suoi movimenti il RADETZKY raggiunta Legnago, vi lasciò alcune truppe e si diresse con una colonna per San Bonifacio, quindi si mise con il grosso dell'esercito sulla via di Montagnana. Il giorno 8 giugno giunse per primo in vista di Vicenza il Corpo del generale D'ASPRE, che prese posizione ad oriente della città; giunse poi quello del generale WRATISLAW che andò a mettersi sulla sinistra del D'Aspre, prolungandosi sui colli Berici e congiungendosi ad una brigata che proveniva da Verona; ultimo, il successivo giorno 9, giunse il WELDEN che finì d'investire la città, che già a maggio aveva combattuto le sue "Cinque Giornate", che abbiamo già in precedenza accennate..

Dopo il fatidico 17 e 18 marzo (contemporaneamente a Milano e Venezia) anche a Vicenza quel giorno ci furono le prime dimostrazioni patriottiche e dopo aver cacciato le guarnigioni austriache, ritiratisi nel Quadrilatero, ottennero come uno dei primi atti della nuova Municipalità la costituzione della Guardia Civica, con una sua propria uniforme e l'elmo crinito, adottato per primo dalla Guardia Civica romana in ricordo del copricapo dei legionari dell'antica Roma.
Si era così costituito, come nelle altre città insorte contro gli austriaci, un Comitato Provvisorio Dipartimentale presieduto dall'avv. GIANPAOLO BONOLLO e che annoverava tra i suoi membri importanti personaggi come: l'avv. SEBASTIANO TECCHIO, DON GIUSEPPE FOGAZZARO, il notaio BARTOLOMEO VERONA, il commerciante GIOVANNI TONIATO, il canonico Don GIOVANNI ROSSI e il nobile LUIGI LOSCHI. Si venivano nel frattempo costituendo formazioni di volontari, elemento caratteristico della guerra del 1848. Si ricordano in modo particolare le formazioni dei "Crociati vicentini" che proprio i primi giorni d'aprile ebbero il loro sfortunato battesimo del fuoco nei pressi di Sorio e Montebello.


La città, difesa da poco più di 5.000 uomini fra volontari e regolari pontifici, ebbe poi le sue "Cinque giornate"; fu infatti investita il 20 maggio dagli austriaci del Nugent, comandati da Thurn, giunti a Lisiera, provenienti da Treviso, con un attacco alle difese di Porta Santa Lucia. Nonostante l'appoggio di sei cannoni, gli assalitori non riuscirono a piegare i difensori che erano mirabilmente coadiuvati da un solo cannone servito con perizia dall'artigliere ANTONIO PICCOLI, che fulminava da Porta San Bartolomeo gli austriaci tanto da costringerli a ritirarsi. Il giorno 21 e 22 seguenti, i vicentini ostinati a difendere la propria città, un reparto uscito dalla Porta Castello, al comando del gen. GIACOMO ANTONINI attaccava a Ponte Alto gli austriaci togliendo la voglia di ritentare l'offensiva, senza peraltro impedire loro -aggirando la città- di raggiungere la piazzaforte di Verona.
Ma il 23 maggio, il Thurn, partendo nuovamente da Verona, Vicenza fu di nuovo assalita. A mezzanotte gli austriaci mossero su tre colonne con i seguenti obiettivi: Borgo S. Felice, la Rocchetta, Monte Berico. Gli scontri più aspri si ebbero a Borgo S. Felice, tenacemente difeso. Gli austriaci desistettero dall'attacco nella tarda mattinata del 24 maggio, ritirandosi a Verona con gravi perdite. Questa seconda battaglia di Vicenza ebbe come protagoniste le opposte artiglierie; gli austriaci spararono oltre 6.000 proiettili mentre grande fu il merito degli artiglieri italiani nel fermare gli assalti del nemico.
L'8 giugno, mentre i Milanesi votavano l'annessione al Regno di Sardegna, anche Vicenza liberata dagli austriaci, a grandissima maggioranza votò per unirsi al regno Sabaudo di Carlo Alberto.

Una scelta di campo che durò pochissimo. Solo 48 ore!
Perché mentre votavano, in quel preciso istante Radetzky -che aveva deciso di rioccupare la città- era già in vista dei campanili della città.

All'alba del 10 giugno cominciarono a tuonare le centodieci bocche da fuoco austriache e Vicenza fu assalita da ogni parte; ma per cinque ore le truppe del Radetzky, che disponeva di circa trenta-quarantamila uomini, non riuscirono ad avanzar di un passo.
La chiave della difesa era costituita da Monte Berico, che domina la città e che era custodito dal colonnello D'AZEGLIO con tremila uomini, ed era la vera chiave di volta nella difesa vicentina, mentre altre difese secondarie in pianura avevano compiti di sostegno a questa. I difensori della città erano in tutto circa 11.000 uomini con 38 cannoni; queste forze erano al comando del generale GIOVANNI DURANDO.
Il colonnello GIACOMO ZANELLATO, comandante la Guardia Nazionale di Vicenza, aveva la vigilanza di Porta Lupia, Campo Marzo e le pendici di Monte Berico sopra la città; al colonnello DOMENICO BELLUZZI, comandante la piazza e la guarnigione coadiuvato dal maggiore marchese STEFANORI e dal luogotenente conte ERMINIO, era affidata la cura di Porta e Borgo Castello, Campo del Gallo (zone ex Montecatini e Valbruna), Porta Santa Croce, Porta San Bortolo, Recinto Capra, Porta Santa Lucia e Borgo Scroffa. Il conte ALESSANDRO AVOGADRO di Casanova, capo di stato maggiore, aveva la direzione di Porta e Borgo Padova, di Porta Monte e delle posizioni e del settore Valmarana e Rotonda.

Il vecchio maresciallo austriaco fece assalire per prima proprio quella posizione da ventiquattro cannoni e da dodicimila uomini.
Il sistema difensivo dei Colli Berici era ordinato su linee successive situate a Castel Rambaldo, al colle Bella Guardia, al colle Ambellicopoli e villa Guiccioli, in prossimità del Santuario.
Gli austriaci occuparono dapprima Castel Rambaldo poi presero, persero e ripresero la Bella Guardia anche se la lotta più accanita si svolse attorno al colle Ambellicopoli, la posizione più importante del sistema difensivo vicentino. Fu attaccato con forza e difeso con grande valore, ma la grande sproporzione numerica a favore dell'attaccante lasciava pochi dubbi sull'esito del combattimento. Mentre il Santuario era difeso da pochi valorosi risoluti al sacrificio, il grosso dei difensori si ritirava ordinatamente, tentando anche un ultimo contrattacco che però non poteva cambiare le sorti della giornata.
Dopo un'accanita resistenza, dovettero sloggiare e scendere al piano (dove oggi sorge la stazione ferroviaria) e riparare in città. Allora la difesa si concentrò dentro le mura di Vicenza e si prolungò per tutta notte del 10 giugno.

Perduto il monte, la città diventava indifendibile, anche perché il nemico dalla dominante collina del Santuario di Monte Berico iniziò a martellare la sottostante città; la guarnigione era poi sfinita dalle fatiche e decimata dalle perdite, e parte dell'artiglieria non aveva quasi più munizioni.
Il DURANDO, persa ogni speranza di ricevere soccorsi da Carlo Alberto (avvisato da un messo inviato a Rivoli - come vedremo più avanti) decise di capitolare. Furono pertanto avviate trattative di resa fra i plenipotenziari delle due parti, e l'intesa fu raggiunta e firmata a Villa Balbi all'alba dell' 11 giugno 1848, e poiché al Radetzky premeva far presto per tornare a Verona -lasciata scoperta- nel fare i patti fu piuttosto sbrigativo e accomodante.

I difensori ottennero di uscire dalla città con l'onore delle armi per ritirarsi ad Este e a Rovigo sulla destra del Po; e s'impegnarono a non combattere contro l'Austria per tre mesi.
Infine agli abitanti fu promesso il perdono e dovettero per altri undici anni, fino al 1859, nuovamente regolare la propria vita in base ad una lunga serie di norme restrittive di carattere locale, provinciale e regionale, che ebbero un costo estremamente elevato sul piano militare, umano ed economico.
La battaglia di questi giorni costò agli austriaci 304 morti, 541 feriti, 140 dispersi; agli italiani 293 morti e 1.665 feriti.

Padrone di Vicenza, il Radetzky volle occupare, ma non di persona, Padova e Treviso. Inviò verso le due città una parte delle sue truppe, mentre lui con il resto rientrava subito a Verona. A Padova si trovava il colonnello BARTOLUCCI, il quale, dopo il richiamo del generale Ferrari, comandava i volontari dello Stato Pontificio. Poiché queste milizie, scarse di numero e male armate, non potevano efficacemente difendere la città, il Bartolucci le condusse a Venezia e lasciò al Municipio la cura di trattar la resa con il generale D'Aspre, il quale entrò a Padova il 13 giugno.

A Treviso si trovavano la colonna ZAMBECCARI, alcuni volontari lombardi e i Siciliani di GIUSEPPE LA MASA. Queste truppe prima decisero di opporre resistenza, poi deliberarono di ritirarsi a Venezia, ma quando presero quest'ultima decisione, era troppo tardi, e dovettero capitolare. Il WELDEN concesse i medesimi patti accordati alla guarnigione e agli abitanti di Vicenza.

Dopo Treviso venne la volta di Mestre e di Palmanova; Mestre fu poi occupata dal LIECTHENSTEIN il 20 giugno; Palmanova capitolò il 24. Quest'ultima piazza, comandata dal generale ZUCCHI, difesa da un centinaio di cannoni e presidiata da millecinquecento uomini, dalle Guardie civiche e da una compagnia d'artiglieri piemontesi, si trovava bloccata fin dagli ultimi d'aprile e avrebbe potuto resistere ancora per molto tempo; ma la popolazione era stanca, scarseggiavano i viveri, mancava il denaro e perciò fu decisa la resa nelle mani del colonnello Giuseppe KERPEN, che concesse le medesime condizioni avute da Vicenza e da Treviso. Lo Zucchi s'impegnò a ritornarsene a Reggio nell'Emilia, sua terra natale. Delle città del Veneto soltanto Osoppo, inaccessibile sui monti, e Venezia, difesa dalle lagune, rimanevano libere.
In quattro mesi di guerra gli uomini Piemontesi e con loro i volontari accorsi da ogni luogo, avevano fornito prove di grandissimo valore, purtroppo erano i generali che avevano mostrato di non possedere che mediocri qualità. Dopo aver -con tanta fortuna a favore- ottenuto delle vittorie, fu per causa loro se queste erano rimasero infeconde.
E se le qualità erano mediocri, i centri informativi erano zero.

In quell'attesa dell'offensiva che doveva avvenire il 4 mattina, non effettuata dopo aver saputo che gli austriaci avevano evacuato il campo per dirigersi a Legnago, soltanto dopo tre giorni, il 7 giugno, il quartier generale sardo venne a sapere che il Radetzky vi si era diretto, ma poi si era allontanato dalla linea dell'Adige. E solo dopo tre giorni lo Stato Maggiore piemontese decise di muovere su Rivoli, impadronirsene e rafforzare così la sinistra dell'esercito, il cui schieramento però iniziava ad allungarsi, sparpagliarsi, a ritornare a non essere più unito.
Rivoli fu tuttavia occupata il 10 giugno e il giorno dopo fu presa anche Corona. E proprio a Rivoli Carlo Alberto fu informato che Verona era quasi interamente sguarnita di forze, e da un messo inviato dal DURANDO, venne a sapere che Radetzky era andato ad assediare Vicenza.

Allora il re stabilì di assalire Verona per costringere il Radetzky ad abbandonare Vicenza (non sapeva che era già stata conquistata fra il 10 e l'11- insomma che Radetzky aveva già finito); il suo esercito concentrato a Villafranca la sera del 12, non si mise in marcia che nel pomeriggio del 13, in più a causa di un forte temporale, dovette fermarsi e rimandare il giorno dopo l'assalto di Verona. Troppo tardi!

Solo la stessa sera del 13 giunse al quartier generale piemontese la notizia della resa di Vicenza, avvenuta la mattina dell'11, e dell'immediato ritorno (pioggia o non pioggia) a Verona del Radetzky.
Così ancora una volta le incertezze, i ritardi e le indecisioni, oltre le inesistenti informazioni di come, quando, e dove si muoveva il nemico, avevano fatto sì che un'altra buona occasione sfuggisse all'esercito piemontese.

La guerra a questo punto entrava in una fase d'inattività che doveva durare circa un mese, a tutto vantaggio degli austriaci, che ben fortificati a Verona, non solo non temevano più i piemontesi, ma con tutte le comunicazioni a nord e ad est in perfetta efficienza potevano far affluire indisturbati su Verona divisioni su divisioni e convogli di materiale bellico.

Alla fine di questo stallo, piuttosto ozioso, senza più alcuna iniziativa, quando giunse il mese di luglio, troverà l'esercito sardo stanco, sfiduciato, indebolito, schiavo della situazione politica, e perfino mal tollerato dalle popolazioni; l'esercito austriaco invece, rinforzato, inorgoglito, per la mala sorte d'Italia e di Carlo Alberto, muoverà con il Radetzky alla riscossa.

Siamo dunque a metà anno 1848, con sei mesi di fatti incredibili;
ma nell'altra metà gli eventi saranno ancora più clamorosi.
Ma in questi primi mesi e subito dopo le cinque giornate di Milano
nel frattempo erano accaduti molti altri fatti, non militari ma di natura politica.

Abbandoniamo gli scenari di guerra e torniamo al mese di aprile,
a Milano, Roma, Torino, Napoli, Firenze, quando fu deciso
di scendere in guerra contro gli austriaci.
La Politica, le Annessioni, i Proclami, le Allocuzioni di Pio IX

ANNO 1848 - Atto Ottavo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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