ANNO 1859

LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA -
( Anno 1859 - Atto Primo )

PROCLAMI DEL GYULAI, DI VITTORIO EMANUELE, DI FRANCESCO GIUSEPPE E DI NAPOLEONE III - I TRE ESERCITI - GLI AUSTRIACI INVADONO IL PIEMONTE - FAZIONE DI FRASSINETO - I CACCIATORI DELLE ALPI - NAPOLEONE III IN ITALIA - BATTAGLIA DI MONTEBELLO - GARIBALDI IN LOMBARDIA - FAZIONE DI SESTO CALENDE - COMBATTIMENTI DI VARESE E DI S. FERMO - GARIBALDI A COMO E A BERGAMO - FAZIONE DI SERIATE
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PROCLAMI DI GYULAI e DI VITTORIO EMANUELE,
DI FRANCESCO GIUSEPPE E DI NAPOLEONE III

Abbiamo -nella precedente puntata- già accennato a GYULAI, il generale che comanda le forze austriache in Italia, che dovrebbero contrastare quelle piemontesi e le francesi, e queste ultime necessariamente anticiparle, se vuole ottenere un successo.
Non ha ordini precisi per quanto riguarda una vera e propria offensiva; anzi, quando dovrebbe iniziare le operazioni che ritiene necessarie, gli ordini che riceve sono contrastanti "non procedere all'attacco, ma aspettare istruzioni telegrafiche da altissimo loco…Perfino nel caso in cui, trascorso il termine dell'ultimatum di tre giorni, giunga una risposta negativa" (abbiamo già riportato i suoi sprezzanti commenti a così tanta ambiguità di Vienna).
A Gyulai non arrivava mai l'ordine di attaccare. A Vienna si esitava sempre, volevano la guerra con degli alleati e nello stesso tempo rischiando, l'anticipavano senza alleati. L'11 aprile l'arciduca Alberto era ancora a Berlino in missione senza aver concluso nulla.

Tuttavia, Gyulai il primo giorno - il 24-25-26- fa il suo dovere di generale e lancia ai suoi uomini il suo proclama:

"Soldati ! S. M. l'Imperatore vi chiama sotto le bandiere al fine di umiliare per la terza volta l'alterigia del Piemonte, e snidare il covo dei fanatici e dei sovvertitori della quiete dell'Europa. Soldati d'ogni grado ! andate contro un nemico sempre da noi messo in fuga. Rammentate soltanto Volta, Sommacampagna, Curtatone, Montanara, Rivoli, Santa Lucia; un anno dopo, Mortara, Vigevano, La Cava, ed infine Novara, dove l'avete disperso ed annientato. Inutile raccomandare a voi disciplina e coraggio, che della prima, siete unici in Europa, e dell'altro a nessun esercito secondi. La vostra parola d'ordine sia: Viva l'Imperatore e il nostro buon diritto !".

Di quest'ordine del giorno alle truppe austriache a firma del feldmaresciallo GYULAI era stato già divulgato l'8 aprile sull'"Opinione". Era stata interpretato da Vittorio Emanuele, come una vera e propria dichiarazione di guerra, ed era scritto con tale militaresca insolenza da dare sui nervi al Re di Sardegna, il quale, comunicandolo a Cavour, gli confessava:
"Io sono tutto sudato dalla rabbia .... vorrei fare a cannonate stasera stessa".

Con più moderazione del GYULAI, Vittorio Emanuele II parlò alle truppe sarde con il proclama del 27 aprile, vale a dire prima di iniziare le operazioni:

"Soldati ! L'Austria ai nostri confini ingrossa gli eserciti e minaccia di invadere le nostre terre, perché la libertà qui regna con l'ordine, perché non la forza, ma la concordia e l'affetto fra popolo e sovrano qui reggono lo Stato, perché qui trovano ascolto le grida di dolore d'Italia oppressa: l'Austria osa intimare a noi, armati soltanto a difesa, che deponiamo le armi e ci mettiamo in sua balia. L'oltraggiosa intimazione doveva avere una degna risposta. Io l'ho sdegnosamente respinta. Soldati ! Ve ne do l'annuncio, sicuro che farete vostro l'oltraggio fatto al vostro Re, alla nazione.
L'annuncio che vi do è annuncio di guerra. All'armi dunque, o soldati ! Vi troverete a fronte di un nemico che non vi è nuovo: ma se egli è valoroso e disciplinato, voi non ne temete il confronto: e potete vantare le giornate di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Sommacampagna, di Custoza stessa, in cui quattro sole brigate lottarono tre giorni contro cinque corpi d'armata. Io sarò vostro duce. Altre volte ci siamo conosciuti con gran parte di voi nel furore delle battaglie; ed io, combattendo a fianco del magnanimo mio genitore, ammirai con orgoglio il vostro valore. Sul campo dell'onore e della gloria, voi, sono certo, saprete conservare, anzi accrescere la vostra fama di prodi. Avrete come compagni gli intrepidi soldati di Francia, di cui foste commilitoni alla Cernaia, e che Napoleone III, sempre accorrente là dove vi è una causa giusta da difendere e la civiltà da far prevalere, c'invia generosamente in aiuto in numerose schiere. Movete dunque fidando nella vittoria, e di novelli allori fregiate la vostra bandiera che con i tre suoi colori e con l'eletta gioventù, qui da ogni parte d'Italia convenuta e sotto a lei raccolta, vi addita che avete come vostro compito l'indipendenza d'Italia, questa giusta e santa impresa, che sarà il nostro grido di guerra".

Vale la pena mettere a confronto il linguaggio dei tre monarchi belligeranti nei proclami lanciati ai loro popoli. Quello di Francesco Giuseppe, che riportiamo nella sua integrità, ha invece la data del 28 aprile, il giorno dopo di quello di Vittorio Emanuele:

(Quello di BUOL del 29 aprile lo riportiamo in una pagina a parte > > > )

"Io ho dato ordine al mio fedele e valoroso esercito di porre un termine agli attacchi incessanti, che da alcuni anni la Sardegna, nostra vicina, dirige contro gli incontrastabili diritti della mia corona e dell'inviolata conservazione dell'impero a me affidato da Dio; attacchi che in questi ultimi tempi hanno sorpassato ogni limite. Con tale determinazione adempio ad un grave, ma inevitabile dovere di sovrano. Con la coscienza tranquilla, posso levare lo sguardo a Dio Onnipotente e sottopormi al suo giudizio. Fiducioso, rimetto la mia risoluzione alla sentenza imparziale dei miei contemporanei e dei posteri: del consenso dei miei fedeli popoli sono sicuro. Dieci anni fa, quando lo stesso nemico, violando il diritto delle genti e gli usi della guerra, senza motivo e solo con lo scopo d'impadronirsi del Lombardo-Veneto, ne invase con il suo esercito il territorio; quando per due volte sconfitto dalle mie gloriose truppe si trovò alla mercé del vincitore, io gli usai generosità e gli porsi la mano per la riconciliazione. Io non mi appropriai nemmeno un palmo del suo territorio, non lesi alcun diritto della Corona di Sardegna, non pattui alcuna garanzia per prevenire il ripetersi di simili avvenimenti, ma credevo di trovarla nella mano conciliatrice che gli stesi e fu accettata. Alla pace feci il sacrificio del sangue versato dal mio esercito per l'onore e il diritto dell'Austria. La risposta a tanta moderazione, di cui non vi ha altro esempio nella storia, fu la continuazione dell'ostilità, un'agitazione sempre crescente di anno in anno e rafforzata con i mezzi più sleali contro la pace ed il benessere del Lombardo-Veneto. Ben sapendo quanto io debbo al prezioso bene della pace per i miei popoli e per l'Europa, tollerai con pazienza queste rinnovate ostilità. E non si esaurì allorché, avendo io dovuto prender misure per la sicurezza del mio Stato italiano costrettovi dalle trame dei rivoltosi ai confini e all'interno del paese, se ne trasse partito per agire ancor più ostilmente. Tenendo conto del benevolo intervento di grandi potenze amiche per la conservazione della pace, acconsentii ad un congresso. I quattro punti proposti dal governo inglese e trasmessi al mio, come base furono da me accettati a condizioni che solo potevano essere opportune a facilitare il conseguimento di una vera, sincera e durevole pace.
Con l'intima persuasione che il mio governo nulla aveva fatto per turbare la pace, espressi il desiderio di disarmare preventivamente quello Stato che ha messo la pace in pericolo. Ma finalmente alle proposte di potenze amiche acconsentii alla proposta di un disarmo generale. Questa mediazione fallì per le inammissibili condizioni cui la Sardegna vincolò il suo consenso. Non restava pertanto che un unico passo per conservare la pace. Io feci intimare direttamente al governo sardo di ridurre il suo esercito al piede di pace e di congedare i corpi franchi. La Sardegna rifiutò tale richiesta; ecco dunque giunto il momento in cui per far valere il diritto occorre ricorrere alle armi.
Ho dato ordine al mio esercito di penetrare nella Sardegna. Conosco la portata di questo passo e se mai le cure del regno mi riuscirono gravi, le sono ancora più in questo momento. La guerra è un flagello dell'umanità: con ansia vedo come questa minacci di colpire migliaia dei miei soldati fedeli nella vita e nei beni; sento profondamente quale duro cimento sia la guerra per il mio impero, che progredisce sulla via di un regolare sviluppo interno e che a tale scopo ha bisogno che si conservi la pace. Ma il cuore del monarca deve tacere allorché comandano l'onore e il dovere. Ai confini si trova il nemico in armi collegato con il partito del generale sovversivismo e con il palese disegno di impadronirsi con la forza dei paesi posseduti dall'Austria in Italia. A suo aiuto il dominatore della Francia, che con vani pretesti si mischia nei rapporti della penisola regolati a tenore del diritto delle genti, pone in moto le sue truppe e già alcune divisioni hanno oltrepassato i confini dalla Sardegna. Tempi difficili passarono già sulla corona ereditata senza macchia dai miei avi: la gloriosa storia della nostra patria fa fede che la Provvidenza, allorché minacciavano di stendersi sopra questa parte del mondo le ombre annunciatrici di peripezie ai maggiori beni dell'umanità, si servì della spada dell'Austria per disperdere con il suo lampo quelle ombre fatali.
Ci troviamo di nuovo alla vigilia di un'epoca simile, in cui si vuole scagliare la devastazione di quarto sussiste non solo dalle sette, ma persino dai troni. Se, costretto, pongo mano alla spada, essa viene da ciò consacrata ad essere la difesa dell'onore e del buon diritto dell'Austria, dei diritti di tutti i popoli e Stati e dei beni più sacri dell'umanità. Ma a voi, o miei popoli, che con la fedeltà all'avita casa regnante siete di modello alle genti, a voi è diretta la mia voce che v'invita ad essermi vicini, nella lotta, con la vostra provata lealtà, con la devozione e la prontezza a qualsiasi sacrificio; ai vostri figli, da me chiamati nelle file dell'esercito, io, loro duce supremo mando il mio saluto guerresco; voi potete con orgoglio volgere a loro gli sguardi, perché fra le loro mani l'onorata aquila austriaca aprirà le ali a voli sublimi. La nostra guerra è giusta. Noi la ingaggiamo con coraggio e con fede. Speriamo di non rimaner soli in questa lotta. Il suolo su cui combatteremo è imbevuto del sangue sparso dai nostri fratelli tedeschi. Esso fu conquistato e conservato finora come uno dai loro baluardi. Qui di solito i nemici dell'Alemagna hanno cominciato l'attacco quando intendevano infrangere la sua potenza interna. Il sentimento di un tale pericolo è vivo ancora oggi nell'intera Alemagna, dalla capanna al trono, dall'uno all'altro confine.
Io parlo come principe della Confederazione germanica destando l'altrui attenzione sul pericolo comune e ricordandovi i giorni gloriosi in cui l'Europa dovette la sua liberazione all'ardire del nostro entusiasmo. Combattiamo con Dio per la patria !".

Nello stesso giorno in cui FRANCESCO GIUSEPPE lanciava questo proclama, Vittorio Emanuele rendeva pubblico il suo (a operazioni iniziate):

"Popoli del regno! L'Austria ci attacca con il possente esercito che, simulando amore per la pace, ha riunito a nostro danno nelle infelici province soggette alla sua dominazione. Non potendo sopportare l'esempio della nostra organizzazione civile, né volendo sottomettersi al giudizio di un congresso europeo sui mali e i pericoli di cui essa è l'unica responsabile in Italia, l'Austria viola le promesse fatte alla Gran Bretagna ed ha fatto un caso di guerra una legge d'onore. L'Austria osa domandare che le nostre truppe debbono essere diminuite, e che si disarmino, che sia abbandonata alla sua mercé questa gioventù che da tutte le parti d'Italia è accorsa per difendere la santa, bandiera dell'indipendenza nazionale.
Depositario geloso del patrimonio ereditario comune d'onore, di gloria, io affido lo Stato a governare al mio caro cugino il Principe Eugenio, ed io sguaino la spada. Con i miei soldati sopraggiungono a sostenere le battaglie della libertà e della giustizia i bravi soldati dell'Imperatore Napoleone, mio generoso alleato. Popoli d' Italia ! L'Austria attacca il Piemonte perché io ho sostenuto la causa della patria comune nei consigli d' Europa, perché io non sono stato insensibile al vostro grido di dolore. Essa lascerà così i trattati che non ha mai rispettato. Così sussiste tutto intero il diritto della nazione, ed io posso in piena coscienza sciogliermi dal giuramento fatto sulla tomba del mio magnanimo Padre.
Prendendo le armi per la difesa del mio trono, per la libertà dei miei popoli e l'onore del nome italiano, io combatto per il diritto della nazione intera. Abbiate confidenza in Dio e nella nostra concordia; abbiate fede nel valore dei soldati italiani, nell'alleanza della nobile nazione francese, nella giustizia dell'opinione pubblica. Io non ho altra ambizione che di essere il primo soldato dell'indipendenza italiana. Viva l'Italia".!

Il proclama di NAPOLEONE III porta invece la data del 3 maggio:

"Francesi ! L' Austria, entrando con il suo esercito sul territorio del Re di Sardegna, nostro alleato, ci dichiara la guerra. Così essa viola i trattati e la giustizia e minaccia i nostri confini. Tutte le grandi potenze hanno protestato contro quest'aggressione.
Il Piemonte, avendo accettato le condizioni che dovevano assicurare la pace, non si comprende quale può essere la ragione di quest'improvvisa invasione: è che l'Austria ha condotto le cose a tal estremità che bisogna che domini fino alle Alpi o che l'Italia sia libera fino all'Adriatico; poiché in Italia ogni angolo di territorio rimasto indipendente è un pericolo al suo potere. Finora la moderazione è stata la regola della mia condotta; ora l'energia diventa il mio primo dovere. La Francia si armi e dica all'Europa io non voglio conquistare, ma voglio mantenere senza debolezza la mia politica nazionale e tradizionale; io rispetto i trattati purché non si violino ai miei danni; io rispetto il territorio e i diritti delle potenze neutrali, ma confesso altamente la mia simpatia per un popolo, la cui storia si confonda con la nostra, e che geme sotto l'oppressione straniera.
La Francia ha mostrato il suo odio contro l'anarchia; essa ha voluto darmi un potere abbastanza forte da rendere impotenti i fautori di disordini e gli uomini incorreggibili di quei vecchi partiti, che scorgiamo senza requie patteggiare con i nostri nemici; ma non ha per questo rinunciato alla sua missione civilizzatrice. I suoi naturali alleati sono stati sempre quelli che vogliono il miglioramento. dell'umanità: e quando snuda la spada non lo fa per dominare, ma per liberare. Lo scopo di questa guerra è pertanto di rendere l'Italia a se stessa, non di farle cambiare padrone; e noi avremo alle nostre frontiere un popolo amico che riconoscerà da noi la sua indipendenza. Noi non andiamo in Italia a fomentare il disordine, né ad abbattere il potere del Santo Padre, che noi abbiamo ricollocato sul suo trono; ma a liberarlo da quell'oppressione forestiera che grava su tutta la penisola e a cooperare affinché l'ordine sia ristabilito nei legittimi interessi. Noi infine andiamo in quella classica terra, illustrata da tante vittorie a ritrovare le tracce dei nostri padri: Dio faccia che siamo degni di loro ! Io mi metto alla testa dell'esercito e lascio in Francia l'imperatrice con mio figlio. Sorretto dall'esperienza e dai corsigli dell'ultimo fratello dell'imperatore, saprà mostrarsi all'altezza della sua missione. Io li affido al valore dell'esercito che rimane in Francia per vegliare sulle nostre frontiere e per difendere i focolari domestici; li affido al patriottismo della guardia nazionale; io li affido infine a tutto il popolo, che li circonderà di quell'affetto e di quella devozione, di cui ricevo ogni giorno tante prove. Coraggio, dunque, ed unione ! Il nostro paese va un'altra volta a mostrare al mondo che non ha degenerato. La Provvidenza benedirà i nostri sforzi, perché agli occhi di Dio è santa la causa, che si fonda sulla giustizia, sull'umanità e sull'amore della patria e dell'indipendenza".

I TRE ESERCITI
GLI AUSTRIACI INVADONO IL PIEMONTE

Queste le forze degli eserciti che si preparavano a scendere in campo.
Quelle francesi comprendevano 130.000 uomini, 2.000 cavalli e 312 cannoni; ed era diviso in cinque corpi, il 1° agli ordini di BARAGUAY D' HILLIERS, il 2° dal MAC MAHON, il 3° dal CANROBERT, il quarto dal NIEL e il 5° dal principe Napoleone, oltre la guardia imperiale comandata dal REGNAUD de Saint Jean d'Augely. Comandante supremo NAPOLEONE III, che aveva come capo di Stato Maggiore il maresciallo VAILLANT.

L'esercito sardo era forte di circa 70.000 uomini, con 4.000 cavalli e 90 cannoni, ed era ripartito in cinque divisioni, comandate dai tenenti generali CASTELBRUGO, FANTI, DURANDO, CIALDINI e CUCCHIARI. Disponeva inoltre di due corpi di volontari, quello dei "Cacciatori degli Appennini", organizzato in Acqui dal generale ULLOA, e quello dei "Cacciatori delle Alpi".
Generalissimo era lo stesso Vittorio Emanuele, che aveva come capo di Stato Maggiore il tenente generale MOROZZO della Rocca e, a fianco, ALFONSO LA MARMORA con l'incarico di "ministro al campo".
Il Conte ha vinto, ma in guerra deve andarci il Re.  Cavour, però non passa in seconda linea, resta a Torino a fare presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri, degli Interni e l'interim della Guerra. Il Re prende il comando supremo dell'esercito, nomina capo di Stato maggiore Morozzo, ma Cavour ha staccato come rappresentante del governo al suo Quartier Generale il ministro della guerra, La Marmora. Vittorio Emanuele non era uno stratega, aveva ancora la concezione della "guerra alla baionetta", anche se era lucido e rapido nelle decisioni. Aveva appena  respirato a pieni polmoni partendo per il campo non avendo più il tirannico Cavour, quando il Conte iniziò a scrivergli dando consigli che sapevano di ordini. Poi con il La Marmora che agiva da controllore, iniziò a non tollerarlo, e lo scrisse al Cavour "Noi due insieme non possiamo stare. Siamo sempre di opinione opposta. Se la cosa continuerà così, tutto andrà male. Vuol far tutto lui, comandare tutto lui" poi aggiunse anche un sarcastico rimprovero "Sappia che è ridicolo fare progetti a Torino, mentre noi, che siamo sul posto, ci caviamo la pelle per fare il nostro dovere...avrà mie nuove, ma io non scriverò più". Cavour non si scompose  e gli rispose per le rime: " In altre circostanze avrei dato le dimissioni, ma nelle attuali un ministro ha l'obbligo di rimanere al suo posto". Poi non si scrissero più fino a quando non arrivò il "padrone" della guerra.
Infatti l'imperatore intende avere il comando supremo e considera il Re come comandante in seconda. Vittorio Emanuele che già credeva di essere un vero Re condottiero, si trovò a disagio tra tutti quelli che  pretendevano ora dirigerlo. La Marmora in un modo, Cavour in un altro, e ora anche Napoleone.
Tornerà a scrivere a Cavour ironizzando "Sono io ora il Cavour del degnissimo Imperatore il quale ci comanda a bacchetta" (
F. COGNARSCO Vittorio Emanuele II - Utet 1942)

Più forte dei due eserciti alleati era decisamente quell'austriaco, formato da 220.000 uomini con 824 cannoni e circa 20.000 cavalli. Era diviso in sei corpi d'armata agli ordini di STADION, ZOBEL, BENEDEK, SCHWARTZENBERG, LIECHTENSTEIN, SCHOOFGOTTOSHE, cui poi s'aggiunse quello del CLAM GALLOS, ed era comandato dal conte FRANCESCO GYULAI, che aveva come capo di Stato Maggiore il colonnello KUHN.

Il piano di guerra austriaco (ma piuttosto vago, per le ragioni già esposte) era quello di invadere il Piemonte, schiacciare l'esercito sardo, inferiore di numero, prima, che sarebbe sceso in Italia quello francese, occupare Torino, impedire alle truppe di Napoleone III di sboccare dalle valli alpine e, se questo non fosse riuscito, mantenere almeno la guerra nel territorio piemontese.
Ma questo piano fallì, sia perché il Gyulai perse tre giorni preziosi prima di penetrare in Piemonte accordando così tempo ai francesi di scendere in gran numero e con gran rapidità sul teatro delle operazioni (lo stesso giorno, infatti, che gli austriaci passavano il Ticino un corpo di francesi giungeva a Genova e un altro attraverso il Moncenisio a Torino), sia perché, una volta entrato, non riuscì a sfruttare la sua superiorità e costringere il nemico ad una battaglia decisiva, ma fu invece fronteggiato e contenuto dai i sardi.

Il 29 aprile gli austriaci da Pavia, da Bereguardo, da Vigevano e da Castelnuovo, passavano il Ticino e penetravano nel territorio piemontese.
"Nel varcare i vostri confini - diceva il GYULAI in un proclama lanciato quel giorno stesso alle popolazioni piemontesi - non è a voi, popoli della Sardegna, che noi dirigiamo le nostre armi, bensì ad un partito sovvertitore, debole di numero, ma potente d'audacia, che opprimendo con la violenza voi stessi, ribelle ad ogni parola di pace, attenta ai diritti degli altri Stati italiani, ed a quelli stessi dell'Austria. Le aquile imperiali quando sono accolte da voi senza resistenza, saranno apportatrici d'ordine, di tranquillità, di moderazione; ed il pacifico cittadino può fare affidamento che libertà, onore, leggi e fortune saranno rispettate e protette come cose inviolabili e sacre. La costante disciplina, che nelle nostre truppe è pari al valore, è garante della mia parola.
Interprete dei sentimenti generosi del mio augusto imperatore e padrone verso di voi nell'atto di porre piede sul vostro suolo, questo solo io proclamo e ripeto, che non è guerra ai popoli né alla nazione, ma ad un partito provocatore che sotto il manto specioso della libertà - se il Dio dell'esercito nostro non fosse anche il Dio della giustizia- avrebbe finito per toglierla ad ognuno di voi.
Domato che sia i1 nostro avversario, e ristabilito l'ordine e la pace, voi che ora potreste chiamarci nemici, fra poco ci chiamerete liberatori e amici".

Ma furono ben altro che apportatrici d'ordine, di tranquillità, di moderazione le truppe austriache. Esse si comportarono come orde barbariche, rapinando, imponendo grosse taglie ai comuni, devastando le campagne, imprigionando i sindaci che mostravano l'impossibilità di accontentarli nelle loro richieste, mettendo le terre a sacco, facendo strage d'intere famiglie.
Il 30 aprile 1859 gli austriaci occuparono Novara e si spinsero verso Vercelli. Anche Mortara fu occupata. Un corpo nemico attraversò il Lago Maggiore e partendo da Laveno si impadronì di Arona, spingendo gli avamposti fino a Gozzano, mentre due piroscafi austriaci, il Benedek e il Radetzky, spadroneggiavano sul lago e tentavano colpi di mano nei porti delle varie cittadine sulla costa.
Il 2 maggio il GYULAI aveva i suoi corpi così distribuiti: uno a S. Angelo e Robbio, uno a Candia e Terrosa, uno a Mede e Sartiano, uno a Torreberretti, uno a Pieve del Cairo e Gambarana. Quello stesso giorno un forte distaccamento austriaco occupò Vercelli; la sera un corpo di quindicimila uomini, occupato S. Nazzaro, tentò di passare di sorpresa il Po presso Cornale; il giorno seguente avvennero qua e là lungo la linea azioni dimostrative e un forte contingente austriaco riuscì a passare il fiume ad Alluvioni di Cambio.

L'esercito sardo era concentrato fra Alessandria, Bassagnana, Valenza e Casale, pronto a piombare sulla sinistra nemica se il GYULAI avesse tentato di marciare su Torino per la testa di ponte di Casale e a piombargli sulla destra se avesse voluto puntare su Tortona e Novi. Il Quartier Generale con il Re era a S. Salvatore, dove si trovava anche la 1a Divisone; la 2a era ad Alessandria, la 3a a Valenza e a Bassignana, la 4a a Casale e Giarole, la 5a a Casale e Frassineto, la divisione della cavalleria di linea sulla sinistra della Dora Baltea, fra Cigliano e la Mandica, con la brigata d'artiglieria a cavallo, e Cuneo i "Cacciatori delle Alpi", alle dipendenze della 4a Divisione.

FAZIONE DI FRASSINETO

Secondo il piano del GYULAI, il giorno 3 maggio il Po doveva essere passato in due punti a Valenza dal 3° corpo e a Bassignano dal 2°. Azioni dimostrative dovevano compiere l'8° corpo, facendo passare truppe sull'isola di Cambio per far credere ad una minaccia su Sale e costruendo un ponte a Cornale, e il 5° corpo attaccando Frassineto. Ma qui il nemico fu respinto dal colonnello BOZOLI col 17° Fanteria, due battaglioni del 19°, una batteria e un drappello di cavalleria Alessandria. Il 3° corpo non tentò neppure il passaggio, avendo il GYULAI dato ordine di distruggere il ponte di Valenza; ma in seguito a un telegramma giunti da Vienna che, gli annunciavano erroneamente il congiungimento di notevoli forze francesi con i sardi, lo consigliavano di rinunciare al piano. E' il telegramma di cui abbiamo già accennato.
E' paradossale che gli strateghi che erano a Vienna vedevano meglio di Gyulai che era direttamente sul teatro delle operazioni.

Nella notte del 4 maggio, tentarono gli austriaci di gettare due ponti presso Frassineto, ma presi di mira dalle batterie sarde, si ritirarono oltre Balzola. All'alba fu ingaggiato un duello tra la 18a batteria sarda e alcuni pezzi nemici presso Valenza, poi per l'intervento dei cacciatori austriaci, della 92a, compagnia e di un battaglione del 12° reggimento di fanteria, ben presto il duello si mutò in accanito combattimento durato alcune ore.

Il 5 gli austriaci puntarono con grandi forze su Vercelli e il 6 e il 7 si notarono forti colonne nemiche in direzione d'Ivrea sulla linea della Dora Baltea. Nel pomeriggio del 7 drappelli di cavalleria austriaca apparvero tra Santhià e Stroppiana e un plotone di Usseri, avanguardia di un forte distaccamento nemico marciando per venti chilometri verso nord occupava Biella. Contemporaneamente si spargeva tra le truppe piemontesi la notizia che una colonna austriaca era apparsa presso Gattinara (ad est di Biella) e si dirigeva o a sud o ad ovest per congiungersi o con gli Usseri di Biella o con la cavalleria a Santhià, per poi marciare alla volta di Torino lontana poco più di cinquanta chilometri.

I CACCIATORI DELLE ALPI

Delineandosi l'attesa puntata austriaca verso la capitale, a quel punto lo stesso CAVOUR rimasto in città, impartì le disposizioni per la difesa, ordinando al generale SAMBUY di spingersi in osservazione oltre Cigliano (a 7/9 chilometri da Santhià) con tre reggimenti di cavalleria; nello stesso tempo il generale CIALDINI, dietro ordine del Re, dispose che i Cacciatori delle Alpi marciassero da Ivrea (posta a 20 chilometri ad ovest) su Biella per prendere alle spalle il nemico, scendendo dalla Serra (quella chilometrica e alta morena posta alle spalle del Lago di Viverone).

Il movimento dei Cacciatori s'iniziò all'alba dell'8 maggio. Mentre le ultime due compagnie del reggimento MEDICI stavano per muoversi, apparvero provenienti da Balzola e Villanova due colonne austriache con le quali fu iniziato un intenso combattimento, che ebbe il suo epilogo con un drammatico attacco corpo a corpo alla baionetta, operato dalla compagnia. DE CRISTOFORIS dei Cacciatori e da alcuni plotoni di bersaglieri e successivamente con l'inseguimento del nemico da parte della cavalleria sarda.
A Pontestura i "Cacciatori delle Alpi" trovarono il generale GARIBALDI, che ritornato da S. Salvatore dove aveva avuto un colloquio con il sovrano, il quale gli aveva dato l'ordine di partire "con il doppio obiettivo di cercare d'impedire al nemico di portarsi sopra Torino, recandosi a Biella da Ivrea e la Serra in modo di agire sulla destra austriaca al Lago Maggiore nel modo che meglio credeva".
Il giorno 9 i Cacciatori erano a Brozolo e Garibaldi faceva una corsa a Torino per conferire con Cavour, il quale - se aveva proprio l'intenzione di collaborare- gli ordinava di mettersi a disposizione del generale ETTORE DE SONNAZ, comandante della difesa sulla Dora, dopo di che Garibaldi partiva per Chivasso e, di là, per S. Gennaro, ad ovest di Vercelli.

Per parare la minaccia su Torino si era stabilito al Quartiere Generale di spostare l'intero esercito su Chivasso, Gassino quasi dietro la Stura, quando si seppe che il nemico, l'11 maggio, aveva cominciato a ritirarsi. E così era. Temendo di essere avviluppato dalla sinistra, il GYULAI aveva abbandonato il piano di marciare su Torino e si era ritirato oltre la Sesia, lasciando a Vercelli la brigata Lebzeltein, per mascherare con marce e contromarce i movimenti del grosso, che andava a concentrarsi verso Piacenza.
(Ma oggi sappiamo che non era solo un timore di Gyulai, ma che l'11 maggio lo stesso aveva ricevuto il telegramma da Vienna che "il migliore teatro di guerra meglio indicato è…il Mincio" (questo telegramma l'abbiamo già accennato)
Intanto Piemontesi e Francesi, militarmente parlando, fra l'11 e il 14, ad Alessandria, si davano la mano.
Il 13 gli austriaci, arretravano e si rinforzavano a Castelsangiovanni e, per maggior sicurezza costruivano due ponti a Vigevano; il 14 occupavano Bobbio, quindi cominciarono a concentrarsi intorno a Mortara.
Perfino il principe Alessandro d'Assia, non sa nulla degli ordini e contrordini ricevuti da Gyulai, e fra il 6 e l'11, scrive nel suo diario "non arrivo a capire perché Gyulai resti così a lungo inattivo, e lascia ai Francesi tutto il tempo di entrare in Piemonte…. Lascia a loro completamente l'iniziativa". L'11 poi non capisce più nulla, e scrive "…qui senza dubbio soggiaceremo"; a Mort..ara, dove il 14 si dispone il nuovo quartier generale austriaco.

Così terminava la prima fase della guerra, durante la quale, con suo grande pericolo, il Piemonte ha dovuto sostenere tutto da solo l'urto delle poderose forze avversarie. Ora, congiuntosi l'esercito sardo con quello alleato, cominciava la seconda fase, quella delle grandi battaglie, che avrebbero deciso la sorte della campagna militare.

NAPOLEONE III GIUNGE IN ITALIA

Partito da Parigi il 10 maggio mattina, il 12 Napoleone III sbarcò a Genova, e quel giorno stesso lanciò alle sue truppe il seguente proclama:

"Soldati ! Io vengo a mettermi alla vostra testa per condurvi al combattimento. Noi asseconderemo la lotta di un popolo che rivendica la sua indipendenza e la sottrarremo all'oppressione straniera. Io non ho bisogno di incitare il vostro ardore: ogni tappa vi ricorderà una vittoria. Nella via sacra dell'antica Roma le iscrizioni si scolpivano nel marmo per ricordare al popolo i suoi fasti; nello stesso modo oggi, passando per Mondovì, Marengo, Lodi, Castiglione, Arcole, Rivoli, voi marcerete sopra delle via sacre in mezzo a gloriosi ricordi. Conservate la severa disciplina che è l'onore dell'esercito. Qui, non lo dimenticate, non vi sono altri nemici all'infuori di quelli che si battono contro di voi.
Nella battaglia rimanete compatti e non abbandonate le righe per correre davanti. Diffidate degli eccessivi slanci: è la sola cosa che io rimprovero. Le nuove armi di precisione non sono dannose che da lontano; ed esse non impediranno alla baionetta d'essere come nel passato, l'arma, terribile della fanteria francese. Soldati ! Facciamo tutti il nostro dovere, e confidiamo in Dio. La patria aspetta molto da voi. Già da un capo all'altro della Francia echeggiano queste parole di felice augurio: "Il nuovo esercito d'Italia sarà degno del suo maggior fratello !".

Il 14 maggio Napoleone III era ad Alessandria e il giorno dopo dava le disposizioni
per una nuova dislocazione delle truppe franco-sarde. Dietro gli ordini imperiali, i sardi si disponevano a Casale, Borgo S. Martino e Giacole, con avamposti di cavalleria a nord di Casale e il Quartiere Generale in Occimiano; dei francesi, il 4° corpo occupò Valenza e Peutto, il 1° occupò Voghera e Casci, con una divisione a Castelnuovo Scrivia e la brigata sarda di cavalleria oltre Voghera, il 2° occupò Sale, il 3° si dispose a Tortona con una divisione verso Pontecurone, la Guardia Imperiale si concentrò ad Alessandria, occupando con una brigata Castelceriolo e Marengo.

LA BATTAGLAI DI MONTEBELLO

La prima battaglia tra i franco-sardi e gli austriaci avvenne il 20 maggio a Montebello. Gli austriaci erano comandati dal generale STADION, cui il GYULAI aveva ordinato il giorno prima, di eseguire una grandi ricognizione con circa trentamila uomini, comprendenti la, divisione Urban (brigate Schaffgottsche e Braum), la divisione Baumgarten (brigate Gaal e Principe ALESSANDRO D'ASSIA e il reggimento Kinsky con il 1° battaglione confinario Ogulin), due battaglioni della brigata Boer, tre squadroni del 12° reggimento Ulani "Re delle Due Sicilie" e tre squadroni del reggimento 12° Usseri Haller.
Dopo questa ricognizione l'ASSIA fu destinato al comando di una divisione.

Lo Stadion avanzò all'alba del 20 maggio avendo la divisione Urban all'estrema sinistra diretta verso Casteggio e la brigata Principe d'Assia all'estrema destra, sulla strada Verrua-Branduzzi; il centro aveva come obbiettivo Robecco e Casatisma. Fu durante questa marcia che avvenne l'eccidio della famiglia CIGNOLI, compiuto dai soldati della divisione Urban, la quale, avanzando, si dirigeva su posizioni tenute da truppe del 1° corpo francese, e precisamente dalla divisione Forey che aveva il Quartier Generale a Voghera, la brigata Beuret sulla via di Casteggio con avamposti (due battaglioni del 91° fanteria) a Genestrello, e la brigata Blanchard sulla Staffora presso Oriolo con avamposti (due battaglioni dell'84° fanteria) tra Oriolo e Calcabebbio.
La divisione francese Forey era appoggiata da dieci squadroni di cavalleria sarda (i reggimenti Aosta e Novara e due squadroni di Monferrato) agli ordini del brigadiere DE SONNAZ, la quale si trovava davanti alla fanteria francese e teneva le sue vedette lungo il torrente Coppa che lambisce Casteggio.

In queste vedette di cavalleria sarda e in pochi nuclei di guardie nazionali trovò nella Urban le prime resistenze, vinte le quali occupò Montebello e puntò quindi su Genestrello. Ma qui la resistenza avversaria si fece seria: i sardi sostenuti dai battaglioni francesi dell'84°, fermarono il nemico costringendolo a mettere in linea la brigata Schaffgottsche, che, dopo un combattimento, fece volgere le spalle ai francesi.
La ritirata di questi sarebbe stata disastrosa se non ci fossero stati i reggimenti sardi di cavalleria che con delle coraggiose cariche resero difficile e lenta l'avanzata austriaca, diedero protezione a due battaglioni francesi permettendo alla divisione Forey di correre in aiuto.
Giunto con le truppe fresche, il Forey prima fermò l'avanzata dell'Urban sul torrente di Fossagazza, poi con l'aiuto prezioso della cavalleria sarda lo respinse su Genestrello e infine su Montebello, dove gli austriaci, ricevuti dalla brigata Gaal, si fermarono. Ma, il Forey non diede loro tregua. Verso le quattro del pomeriggio andò all'attacco delle posizioni nemiche con due colonne, quella di destra, formata dalla brigato Beuret, contro Montebello, quella di sinistra - cavalleria sarda, artigliarla e tre battaglioni - sulla strada ordinaria.

La battaglia del 21 maggio, per l'occupazione di Montebello fu piuttosto accanita per il valore dimostrato dagli austriaci che più volte respinsero con bravura gli impetuosi assalti francesi; ma alla fine furono costretti ad abbandonare l'abitato e a trincerarsi fortemente nei pressi del cimitero; ma anche qui furono scacciati poche ore dopo, e verso le 18,30 definitivamente iniziarono la ritirata alla volta di Carteggio, per poi subito dopo proseguire per S. Giulietta; e dietro a queste truppe, anche le altre colonne del corpo Stadion.

Le perdite dei vincitori non furono poche. I francesi ebbero diciassette ufficiali morti e trentasette feriti; fra i primi il prode generale BEURET; fra la truppa 81 morti
(492 feriti; i prigionieri e i dispersi furono 69. I sardi 52 uomini fuori combattimento e fra i morti il tenente colonnello MORELLI di Popolo, caduto mentre alla testa del suo reggimento di cavalleria caricava il nemico. Spirò dopo di avere scritto alla moglie le seguenti parole: "sono coperto di gloria e di ferite; non ho più che poche ore di vita: lo sento, ma voglio che i miei ultimi pensieri siano per te e poi la patria".

Gli austriaci ebbero invece perdite più gravi: 1423 uomini fuori combattimento fra morti, feriti e prigionieri.

GARIBALDI IN LOMBARDIA - FAZIONE DI SESTO CALENDE

Lo stesso giorno che i franco-sardi sconfiggevano gli austriaci a Montebello, GARIBALDI con la brigata dei "Cacciatori delle Alpi", forte di 3200 uomini circa, per la strada che abbiamo già indicata sopra (da Ivrea) raggiungeva e lasciava Biella e si recava a Gattinara. Il compito che Vittorio Emanuele gli aveva affidato era quello di penetrare nella Lombardia settentrionale, fare insorgere le popolazioni, accrescere il numero dei volontari e precedere e fiancheggiare sulla sinistra l'esercito franco-sardo nell'avanzata. Nella parte che riguardava l'insurrezione egli doveva essere coadiuvato da EMILIO VISCONTI-VENOSTA, il quale lo accompagnava con l'incarico di regio commissario dei territori da occuparsi e aveva il delicatissimo compito di fare aderire la parte più viva della popolazione, specie l'elemento rivoluzionario alla formula "Italia e Vittorio Emanuele" e riordinare i municipi, mettendoli sotto la direzione di uomini sicuri come patrioti con principi monarchici.

II 21 maggio, mantenendo un assoluto segreto sui propri movimentí, fatto costruire un ponte a Romagnano, Garibaldi passò la Sesia ed entrò a Borgomanero; il 22, per ingannare il nemico, si spinse ad Arona, ma la sera si trasferì a Castelletto; nella notte dal 22 al 23 passò il Tìcino con due compagnie del reggimento MEDICI, entrò a Sesto Calende, sorprese e catturò una quarantina di gendarmi e funzionari austriaci e, ristabilito il ponte girevole, fece passare l'intera brigata.

COMBATTIMENTI DI VARESE E DI S. FERMO

Nel pomeriggio del 23 maggio, per la via di Corgegno, Varano e Bodio, marciò su Varese e vi giunse nella notte. Intanto il GYULAI, preoccupato delle mosse di Garibaldi, gli inviò contro la divisione URBAN e il 25, provenienti da Gallarate, 500 fucilieri austriaci, 130 ulani e 2 cannoni attaccavano la compagnia DE CRISTIFORIS, rimasta a Sesto Calende, ma dopo un vivace combattimento, erano respinti e si ritiravano su Somma.

All'alba del 26 maggio, con 4.000 uomini circa ed 8 cannoni, l'URBAN si presentò davanti a Varese. Garibaldi, che lo aspettava, aveva già predisposto la difesa: barricate a nord, al margine orientale della città due linee tenute a destra dal COSENZ con un battaglione, a sinistra dal MEDICI con due, al centro dall'ARDOINO con uno; in riserva di settore a Varese un battaglione, quello del BIXIO, di riserva generale un altro battaglione, a Biumo Superiore; davanti a tutti, sulla strada dì Malnate, la campagna Susini-Millelire.

Dopo una scaramuccia con questa compagnia, l'URBAN fece aprire il fuoco contro le posizioni garibaldine, quindi spinse due colonne contro la sinistra della difesa ed una entro la destra. I "Cacciatori" ricevettero il nemico con un nutrito fuoco di fucileria, respingendo l'attacco, poi il COSENZ assalì con impeto la colonna che lo fronteggiava, ributtandola sulle altre due che contemporaneamente furono investite sul fianco destro dal Cosenz e di fronte dal Medici, uscito al contrattacco.
L'URBAN, credendo dì avere urtato contro forze superiori, alle 7 ordinò la ritirata.
Le truppe dell'Ardoino e del Medici si scagliarono all'inseguimento del nemico, che ripiegava sul Malnate, e verso le 10 attaccarono decisi la retroguardia che si era trincerata sui colli di S. Salvator, e dopo due ore di lotta la costrinsero a sloggiare.
La giornata di Varese, in cui quasi 3.000 volontari sprovvisti d'artiglieria sconfissero quattromila austriaci forniti di otto cannoni, costò al nemico la perdita di un centinaio di uomini e una trentina di prigionieri. I "Cacciatori delle Alpi" ebbero 62 feriti, 22 morti e un prigioniero; tra i morti fu il giovane ERNESTO CAIROLI, il primo dei quattro fratelli caduti per la patria.

GARIBALDI A COMO E A BERGAMO - FAZIONE DI SERIATE

Senza dare tregua al nemico, che si era rinforzato a Como ed aveva messo gli avamposti ad ovest della città con la destra sulle alture di S. Fermo, la sinistra verso Civello e la riserva a Lucino, GARIBALDI lasciò Varese la mattina del 27 maggio e mosse contro le posizioni austriache. Alle undici i Cacciatori erano ad Olgiate e il generale, lasciato il reggimento del COSENZ sulla destra, mandò a sinistra per le colline gli altri due, che per Gironico e Parè giunsero, verso le ore 15, alla Cavallesca.

Il compito di attaccare la difficile posizione di S. Fermo fu assegnato al MEDICI, il quale ordinò alla compagnia DE CRISTOFORIS, rincalzata dalla Susini-Millelire, di assalire il nemico di fronte, alla compagnia Pellegrino e ai Carabinieri genovesi del POGGI di prenderlo dalla sinistra e alla compagnia VACCHIERI di sostenere dalla destra l'attacco e minacciare la ritirata avversaria.
L'attacco cominciò verso le ore 16. Il DE CRISTOFORIS, avanzando contro l'oratorio di S. Fermo, fu accolto da un fuoco intenso che lo costrinse a ripararsi dietro una cascina. Allora il MEDICI fece appoggiare a sinistra l'attacco da un'altra compagnia e rimandò all'attacco la De Cristoforis, rincalzata dalla SUSINI e sostenuta a destra dalla compagnia MAGLIAVACCA. L'assalto fu impetuoso e il prode capitano De Cristoforis, che con tanto valore aveva combattuto, non riuscì ad aver la gioia di veder la bandiera tricolore sulla posizione conquistata; fu fulminato da una palla; ma i suoi non si persero d'animo e, guidati dal tenente GUERZONI, si lanciarono alla baionetta ed ebbero ragione del nemico.
Perduta la posizione di San Fermo, tutta la linea austriaca si ritirò verso Rondineto, inseguita dal MEDICI, che, contrattaccato da rinforzi austriaci provenienti da Brescia, li respinse alla baionetta. Intanto le alture sovrastanti a Como furono occupate dai maggiori Bixio e Quintini e dal Coseni, il quale aveva fermato prima una parte dei rinforzi nemici sui quali si era abbattuto il Medici.

La ritirata nemica ben presto si mutò in una fuga precipitosa, che permise ai "Cacciatori" di entrare alle 21,30 a Como per Porta Sala, mentre gli austriaci ne uscivano da Porta Torre per recarsi a Camerlata, poi sui treni si affrettarono a riparare a Monza. Il Medici inseguì il nemico con parte del suo reggimento fino a Camerlata, dove giunse verso la mezzanotte e dove poi fu raggiunto prima dell'alba da tutta la brigata.
Nella giornata del 27 maggio le perdite degli austriaci furono di 68 morti e 264 feriti; i "Cacciatori" subirono 10 morti e 63 feriti. Alle sue truppe il generale Garibaldi lanciò il seguente ordine del giorno: "L'onore della giornata è toccato oggi al valoroso colonnello Medici e al valente 2° reggimento. Gli austriaci sono stati di nuovo messi in fuga, e i "Cacciatori delle Alpi" hanno mostrato un'altra volta valore e intrepidezza.
Il 1° e il 3° reggimento hanno pure loro demoralizzato il nemico con i loro giusti tiri e il loro contegno sul campo di battaglia. Così essi hanno versato per la prima volta il loro tributo di sangue all'Italia in proporzione del resto della brigata".

Il giorno dopo EMILIO VISCONTI-VENOSTA indirizzava alla popolazione della Lombardia il seguente proclama:
"Cittadini ! Appena il Re Vittorio Emanuele, primo soldato dell'indipendenza nazionale, annunciò all'Italia di aver ripresa la spada, le popolazioni lombarde volgendo lo sguardo al Ticino domandarono il segnale dell'insurrezione.
Le ragioni dell'umanità e della prudenza e le generali necessità della guerra ci mossero a consigliare l'indugio, che voi accettaste, perché tutto è oggi disciplinato in Italia, la quiete al pari dell'azione. Ma ora gli indugi sono rotti, il prode generale Garibaldi venne a darvi quest'annuncio e dappertutto dinnanzi a lui le popolazioni insorgono e si pronunciano per la causa nazionale e per il governo del Re Vittorio Emanuele. Commissario di S. M. Sarda vengo a prendere il governo civile di questo spontaneo movimento. Cittadini ! L'insurrezione lombarda sarà animata da quel nuovo e mirabile spirito italico che con il segreto della concordia ci fa ritrovare il segreto della fortuna. Nessun disordine verrà a turbare il sublime spettacolo della libertà; nessun impeto cieco verrà a disordinare l'organismo civile del paese; nessuno spirito d'improvvida reazione presumerà di considerare come il trionfo di un partito quello che invece è il trionfo di una società tutta intera. Le guerre dell'indipendenza non si vincono che con gravi sforzi: vi sta dinnanzi l'esempio del generoso Piemonte che da undici anni profonde i più gravi sacrifici dietro quell'alta speranza che ora è divenuta una realtà. La nostra impresa è sicura, il prode esercito piemontese, guidato dal Re, viene in nostro soccorso; l'Italia si ordina per combattere la guerra dell'indipendenza. Napoleone III ha gettato sulla bilancia dei destini la spada della Francia, nostra sorella, e naturale alleata delle cause generose. Tutta l'Italia ci domanda la formazione di un forte Stato, baluardo della nazione, avviata ai suoi nuovi destini; i decenni voti del paese stanno per essere compiuti, e voi potete insorgere nella certezza di quest'invocata unione, gridando: Viva Vittorio Emanuele Re Costituzionale".

Il 29 maggio, inviata una compagnia a Lecco per sostenervi l'insurrezione e un'altra lasciata a Como insieme con GABRIELE CAMOZZI cui aveva affidato l'incarico dell'organizzazione militare, con il resto della brigata GARIBALDI fece ritorno a Varese e il mattino del 30 maggio partì alla volta del Lago Maggiore con il proposito d'impadronirsi del forte di Laveno, in mano agli austriaci, per assicurarsi così -una volta preso- la comunicazione con il Piemonte. L'impresa piuttosto audace fu tentata nella notte del 30 maggio dal reggimento COSENZ, ma per l'oscurità e gli errori delle guide, l'azione non riuscì. Garibaldi aveva pensato di ritentarla il giorno dopo, ma ricevuta notizia che l'Urban si avvicinava a Varese, si mise in marcia alla volta di questa città.

Varese però era ricaduta il 31 stesso in mano dell'Urban, il quale, per punirla dell'entusiasmo con cui aveva accolto i "Cacciatori" le aveva inflitto una contribuzione di tre milioni di lire, si era appropriato di tremila buoi, del tabacco, dei sigari e del corame esistente in paese, si era fatto consegnare come ostaggi dieci possidenti del luogo e poiché la città non riusciva a pagare l'intera somma richiesta, con dispetto l'aveva fatta bombardare.
Queste notizie misero le ali ai piedi dei "Cacciatori". La sera del 31 maggio giungevano a Cuvio; il 1° giugno alle 13 erano di fronte a S. Maria del Monte. Il 2 giugno GARIBALDI avanzò fino a Sant'Ambrogio, a quattro chilometri a nord-ovest di Varese, deciso ad attaccare il nemico che occupava le alture dominanti della città; ma, resosi conto dell'inferiorità dei suoi armamenti e invocato dai Comaschi, passando vicinissimo a Varese quasi a sfida degli austriaci, per Induno, Rodero, Uggiate e S. Fermo, si portò a Como.
Qui i "Cacciatori" rimasero fino al 5 giugno. Nella notte lasciato il comando militare della città il maggiore CERONI, Garibaldi si trasferì a Lecco con la brigata imbarcata su quattro piroscafi, e dopo lo sbarco si mise in marcia alla volta di Bergamo intenzionato a tentare un colpo di mano; il 6 si fermò a Caprino e inviò un battaglione a Pontida; il 7 si avviò verso il Brembo, e il battaglione Bixio che precedeva la brigata, dopo alcune fucilate con gli austriaci occupò Ponte S. Pietro.

Dopo questo scontro la sorpresa non era più possibile e il generale, risalito il Brembo, si portò ad Almenno; qui appreso dai suoi informatori che il presidio della città era in partenza, all'alba dell'8 giugno entrò con tutta la brigata a Bergamo; ma gli austriaci erano già partiti, riuscì a catturare solo qualche ritardatario.
Avvisato che stava per giungere da Brescia un treno con 1.500 austriaci, Garibaldi, per catturare queste truppe, fece mettere i suoi in agguato alla stazione; ma il nemico avvertito in tempo che Bergamo era in mano dei Cacciatori delle Alpi, discese presso Seriate. Qui trovarono un'altra compagnia di Cacciatori al comando del capitano BRONZETTI. Questi, senza contare il numero dei nemici, li affrontò alla baionetta e ne costrinse una parte a fuggire verso Brescia e l'altra ad arrendersi. Questo fatto d'ami è consacrato in un ordine del giorno del 10 giugno dal generale Garibaldi:
"Il capitano Bronzetti, alla testa della sua compagnia, terza del 1° reggimento, ha compiuto uno di quei fatti che sono unici nei fasti militari delle prime nazioni del mondo. Con soli circa cento uomini assaliva un corpo nemico di oltre mille uomini a Seriate, lo sbaragliava e ne faceva molti prigionieri. Con uomini di tanta prodezza si può tentare ogni impresa, e l'Italia deve ricordarli eternamente".

L' 11 giugno la brigata dei Cacciatori lasciò Bergamo e per Martinengo e Palazzolo giunse la mattina del 13 a Brescia, dov'era stata preceduta di un giorno da un drappello di volontari agli ordini del tenente PISANI. Il 14 Garibaldi elogiava lo sforzo compiuto dai suoi volontari nel seguente ordine del giorno:
"L'ultima massa ha provato quanto l'amore di patria può nel nostro cuore, giovani Cacciatori. Una marcia, salvo brevissime interruzioni, di due notti e un giorno, per strade non comode, sotto pioggia quasi continua, non ha potuto fermare un solo momento l'impavida risoluzione del dovere, di cui siete animati. L'Italia va superba di voi. Il nemico, intimorito, benché di forza assai superiore, non ardisce a cimentarsi con voi, e la gioventù lombarda elettrizzata dall'esempio, accorre ora numerosa a far parte della vostra schiera".

Nel frattempo, mentre queste imprese, isolate, di volenterosi elettrizzavano gli abitanti delle città sopra citate; ben altri avvenimenti avvenivano sul teatro di guerra dove ora ci dobbiamo portare, ripartendo dopo Montebello
ci attende la battaglia di PALESTRO, quella di MAGENTA
l'arrivo a Milano dei "liberatori", ed infine la conclusione
a VILLAFRANCA

anno 1859 - Atto Secondo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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