ANNO 1860

DA MARSALA A PALERMO - MILAZZO - MESSINA

PROCLAMA DI GARIBALDI AI SICILIANI - I GARIBALDINI A SALEMI - I "PICCIOTTI - GARIBALDI ASSUME LA DITTATURA - BATTAGLIA DI CALATAFIMI - LA MARCIA VERSO PALERMO - L'ENTRATA DEI GARIBALDINI A PALERMO - LE TRUPPE BORBONICHE LASCIANO LA CAPITALE DELL' ISOLA - BATTAGLIA DI MILAZZO - I GARIBALDINI IN CALABRIA
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Lo stesso giorno dello sbarco a Marsala, il Municipio raggiunto da FRANCESCO CRISPI...
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principale mente politica della spedizione, uno dei capi dell’estrema sinistra democratica e autonomista; mazziniano, alla rivoluzione a Palermo del 12 gennaio 1848, fece parte del Comitato di guerra, poi si allontanò gradatamente da Mazzini, fino a sostenere nel 1864 che "la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe" e a dichiarare nel 1865 di aderire al regime sabaudo, pur rimanendo nelle file della sinistra)
.... che sbarcato tra i primi era corso ad assicurare la custodia delle casse pubbliche, della posta e ad aprire le carceri, proclamò all'unanimità VITTORIO EMANUELE re d'Italia e per lui GIUSEPPE GARIBALDI dittatore in Sicilia; inoltre stabilì d'invitare tutti i comuni dell'isola a fare altrettanto.

 

Quel giorno stesso il generale lanciò il primo proclama alle popolazioni dell'isola:

"Siciliani ! Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde. Noi siamo con voi e non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dunque; chi non impugna un'arma è un codardo o un traditore della patria. Non vale il pretesto della mancanza d'armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci basta, se impugnata dalla destra di un valoroso. I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi derelitti. All'armi tutti ! La Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori, con la potente volontà di un popolo unito".

Alle 5.30 del 12 maggio i Mille si misero in marcia alla volta di Salemi, ingrossati da alcuni volontari marsalesi guidati da TOMMASO PIPITONE e da un frate, FRANCESCO. Il primo alt fu fatto verso mezzogiorno a Buttagana, feudo del barone CHITARRA, dove i garibaldini furono generosamente rifocillati; alle 18.30 la colonna si fermò a Rampagallo, feudo del barone MISTRETTA, dove fu vettovagliata da ANTONIO FIORE e dove nella notte giunsero i fratelli SANT'ANNA di Alcamo e il barone MOCARTA con una sessantina di uomini armati.
Preceduto da GIUSEPPE LA MASA, da Termini, da GIUSEPPE BOSCAINO, da Trapani, e da GIACINTO CURATOLO, da Marsala, che si recarono nei paesi vicini per farli insorgere e raccogliere squadre, GARIBALDI alle 11 del giorno 13 partì per Salemi e vi giunse, dopo un faticoso cammino, nel pomeriggio, accolto dalla banda del paese e da una folla plaudente, mentre le campane suonavano a festa e ai balconi sventolavano i tricolori.

Il giorno dopo GIUSEPPE GARIBALDI, comandante in capo le forze nazionali in Sicilia, sull'invito di notabili cittadini e sulle deliberazioni dei Comuni liberi dell'isola, considerando che in tempo di guerra (anche se la guerra non era stata dichiarata) è necessario che i poteri civili e militari siano concentrati in un solo uomo, decretava di "assumere nel nome di Vittorio Emanuele re d'Italia la dittatura in Sicilia".

Con un altro decreto della stessa data, chiamava sotto le armi tutti gli uomini dai diciassette ai cinquant'anni; (Garibaldi qui iniziò a perdere la collaborazione dei contadini; alla coscrizione avevano già fallito i Borbone; Garibaldi e Crispi, seguitarono ad emanare decreti con varie esenzioni, con rinvii, poi dopo i raccolti, ecc, ecc. fu un fallimento; proletariato urbano e contadini non volevano morire né per i Borbone né per lo Stato unitario. Insomma non si riuscì a trasformarli in "patrioti" (cioè non nel senso che oggi si dà a questo termine).
Ma sia Crispi sia Garibaldi non si preoccuparono più di tanto di questo fallimento; ormai i ceti dominanti locali, i proprietari borghesi, i commercianti, il ceto medio, anche se avverso ai Borbone e che certamente non si erano identificati con la rivoluzione o rimasti neutrali, alla sconfitta dei Borbone, succeduti nel possesso delle terre ai baroni feudali decaduti, diventarono loro i nuovi "patrioti". Crispi annullò tanti decreti (democratici) che li colpiva (come il ripristino dell'imposta fondiaria), e, come farà Lenin in Russia molti anni dopo, Crispi richiamò molti vecchi funzionari borbonici in carica. Né si preoccupò più che si osservasse il decreto per l'elezione popolare dei consigli locali. I vecchi notabili diventarono così utili. Purtroppo per Crispi questi rimasero sempre ostili ai democratici e nonostante ancora attaccati alle idee autonomiste, non respinsero poi la prospettiva dell'unione al Piemonte quando Cavour iniziò a incoraggiarla.

Torniamo a Garibaldi, mentre sta ora dando un nuovo assetto al suo corpo, assegnando al 1° battaglione BIXIO le compagnie Dezza, Forni, Stocco, e Anfossi e al 2° battaglione CARINI le compagnie Sprovieri, Ciaccio, Cairoli, Bassini, Griziotti.
La compagnia dei carabinieri genovesi rimase al Mesto; al CASTIGLIA fu data la compagnia dei marinai cannonieri, composta degli equipaggi del "Piemonte" e del "Lombardo" e all' ORSINI e al MINUTILLA rimasero l'artiglieria (5 pezzi) e il genio. Inoltre fu impiantato dall'Orsini, da Giuseppe Mustica, da Giuseppe ed Achille Campo un piccolo arsenale, dove si cominciarono a costruire gli affusti, e per opera del Ragusin un laboratorio per la fabbricazione delle cartucce e la fusione delle palle.

Quello stesso giorno giunsero da Monte S. Giuliano settecento uomini di cui parecchi a cavallo, guidati da GIUSEPPE COPPOLA e dai fratelli LA RUSSA; altri cento uomini condusse frate GIOVANNI PANTALEO da Castelvetrano, che ebbe il titolo di novello Ugo Bassi; altre squadre accorsero da S. Ninfa, da Vita, da Partanna e da tutti quei paesi dove il LA MASA e suoi compagni innescavano la rivolta delle popolazioni e costituivano "comitati rivoluzionari" e "governi provvisori".

LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI

Nel pomeriggio del 14 giugno, giunse notizia a Garibaldi che il nemico si trovava sulle alture di Calatafimi. Era la brigata del vecchio generale LANDI, composta dell'80 battaglione Cacciatori (maggiore Sforza), del 20 battaglione del 10° di linea (tenente-colonnello Pini), del 2° battaglione carabinieri (tenente-colonnello De Cosiron), di uno squadrone cacciatori a cavallo e di mezza batteria da montagna, in tutto circa 3.000 uomini e quattro pezzi d'artiglieria.
Queste truppe avevano la seguente dislocazione: sei compagnie con il maggiore Sforza, due cannoni e un plotone di cavalleria a guardia della strada di Vita, sull'altura di Piante di Romano; più indietro, a cavallo della via consolare, il battaglione del 10°, più indietro ancora, a un chilometro e mezzo da Calatafimi, in riserva, il battaglione dei carabinieri, due pezzi e il resto della cavalleria.
Il mattino del 15 maggio, alle 5, il Garibaldi con circa duemila uomini partì da Salemi, salutato dalla popolazione. Alle 6.30 del 16 maggio giungeva a Vita e ne ripartiva mezz'ora dopo con la colonna nella seguente formazione: guide, 2° battaglione, artiglieria, genio, marinai cannonieri, 1° battaglione, carabinieri genovesi; ai fianchi le squadre siciliane dei "picciotti".
Osservate le posizioni nemiche, il generale lasciò sulla strada con la scorta della compagnia ANFOSSI l'artiglieria e i bagagli, dispose i carabinieri genovesi sul pendio delle alture di Pietralunga, il battaglione CARINI dietro il ciglio, sul versante di Vita il battaglione BIXIO, infine all'estrema sinistra le squadre siciliane. Tutti rimasero in queste posizioni sperando in un attacco del nemico.
Il maggiore SFORZA, vedendo che il nemico non disponeva di numerose forze, verso le ore 13, mosse all'attacco mandando avanti tre compagnie. I carabinieri genovesi ebbero ordine di aspettare i regi a piè fermo e di contrattaccare quando i primi sarebbero giunti a pochi passi. E così fu. Dopo alcune scariche i carabinieri si gettarono alla baionetta sui nemici e li ributtarono giù nel vallone.
GARIBALDI, che voleva che fosse respinto soltanto l'attacco borbonico, fece suonare l'alt; ma i volontari o non udirono o non vollero udire il segnale, continuarono a incalzare i borbonici, imitati dalle compagnie del Carini e appoggiati dal fuoco dei picciotti. Allora il Generale spostò alla sinistra il battaglione del Bixio e lui stesso scese dall'altura di Pietralunga entrando nel vivo della battaglia.

Altre cinque compagnie, due cannoni e un plotone di cavalleria giunsero da Calatafimi in rinforzo ai napoletani e il combattimento diventò violento. Sotto il grandinare della mitraglia borbonica i volontari conquistano faticosamente uno dopo l'altro i vari terrazzi dell'altura di Piante di Romano; cadono numerosi, morti e feriti garibaldini; restano uccisi il SARTORI, il PAGANI, il MONTANARI, sono feriti MENOTTI, NULLO, MANIN, MISSORI, ELIA, lo stesso GARIBALDI è colpito ad una spalla da una sassata. Attorno alla mischia la bandiera dei Mille, ma lo SCHIAFFINO che la porta è ucciso; il vessillo passa di mano in mano, poi un cacciatore dell'8°, GIUSEPPE DE VITA, riesce ad impadronirsene e la guida G. B. DAMIANI fa appena a tempo a strappare un nastro.

A un certo punto NINO BIXIO, parendogli impossibile la vittoria, crede che convenga ritirarsi e comunica il suo pensiero a Garibaldi, ma questi risoluto risponde: "No ! Qui si fa l'Italia o si muore !". La battaglia continua più accanita di prima: tuona l'artiglieria, un cannone borbonico cade nelle mani di ENRICO CAIROLI e di tre studenti pavesi; tutti sono stanchi, ma bisogna impadronirsi dell'ultima delle sette terrazze ancora in possesso del nemico. "Ancora quest'assalto, figliuoli, - va dicendo Garibaldi- e sarà l'ultimo. Pochi minuti di riposo poi, tutti insieme andiamo alla carica".

"Quel pugno di uomini - narra il Guerzoni - trafelato, pesto, insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di lotta, trovata ancora in quelle maliarde parole maliarde la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, riprese, come gli era stato ordinato, la sua salita micidiale; risoluto all'ecatombe…. e come l'eroe aveva previsto, la fortuna fu di loro. Incalzati nuovamente di fronte a quel branco di indemoniati che pareva uscissero da sottoterra, sgomenti dall'improvviso rombo dei cannoni che Orsini era finalmente riuscito a portare in linea, turbati dal clamore crescente delle squadre sui loro fianchi, i borbonici disperano di vincere, e voltate per la settima volta, le spalle, abbandonano il monte e si precipitano a rifugiarsi dentro Calatafimi".

La battaglia costò ai Garibaldini 32 morti e 182 feriti, ai regi 36 morti e 150 feriti. La notte dopo il combattimento, il LANDI lasciò Calatafimi, diretto alla capitale; ad Alcamo fece una breve sosta, a Partinico fu assalito dalla popolazione insorta fedele ai borboni; all'alba del 17 maggio entrò in Palermo con la colonna assottigliata, lacera, stanca, senza bagagli.

GARIBALDI entrò a Calatafimi il mattino del 16 maggio; il 17 fu ad Alcamo, dove altre squadre di contadini siciliani ingrossarono il suo corpo, e nominò segretario di Stato FRANCESCO CRISPI, il quale mise un governatore in ciascuno dei ventiquattro distretti dell'isola e rimise in vigore i decreti, le leggi e i regolamenti vigenti prima della restaurazione borbonica del 1849. Il 18 i garibaldini entrarono a Partinico, dove si rifornirono (?) di denari, armi, polvere e piombo, quindi proseguirono per il passo di Renda dove rimasero due giorni, protetti a sinistra, dalla parte di S. Martino, da cinquecento uomini delle squadre siciliane di ROSOLINO PILO, a destra dai "picciotti" venuti con Garibaldi da Calatafimi, e di fronte da avamposti collocati a Misilcandone.

GARIBALDI A PALERMO

Palermo ora era in vista dei volontari. Ma come assalire una città difesa da una guarnigione di 20.000 uomini, e protetta dal castello e dalla flotta borbonica?
Garibaldi pensò di attirare il grosso del presidio lontano dalla città, dalla parte di ponente, fingendo di voler attaccare Monreale, quindi ritirarsi e piombare improvvisamente su Palermo, mezzo sguarnita, dal lato di mezzogiorno.
Risentiamo il Guerzoni: "Mandato un avviso a Rosolino Pilo di accendere molti fuochi e di simulare grandi movimenti sulla sua montagna alfine di attirare sempre più da quel lato l'attenzione del nemico; predispone a Renda ogni cosa, poi scende egli stesso a capo di un forte gruppo fino al villaggio di Pioppo, con il duplice scopo di scoprire più da vicino i movimenti dei regi e di far credere di voler tentare l'assalto di Palermo da quella parte. E ci riuscì.
I borbonici escono da Monreale per affrontare il nemico; le due avanguardie si scontrano con le prime fucilate, e subito Garibaldi lascia la sua avanguardia, divenuta retroguardia e risale rapidamente il grosso della colonna a Renda; il giorno 20, spianta il campo, smonta i cannoni e li affida alle spalle dei robusti montanari; alleggerisce di materiale la colonna quanto più può, e sul calar del giorno piega a destra per un'aspra via di montagna, cammina l'intera notte, nelle tenebre fittissime, sotto un diluvio, e su un terreno fangoso da piogge quotidiane, e riesce tuttavia ad arrivare con l'intiera colonna nelle opposte alture di Parco e a fronteggiar Palermo dal lato di mezzogiorno. Garibaldi era già esultante, quando gli giunse nella stessa giornata del 21 maggio la notizia che ROSOLINO PILO, mentre dalle alture di S. Martino stava scrivendogli, era stato colpito in fronte da una palla borbonica ed era morto sul colpo". (Guerzoni).

Il 22 maggio i Garibaldini si riposarono e si consolidarono sul monte Calvario che domina Parco. Per il 23 i borbonici avevano stabilito di assalire i volontari con tre forti colonne partenti da Pioppo (VON MEKEL), Da Monreale (BOSCO) e da Palermo (SALZANO), ma il coordinamento e l'unità di comando mancarono e solo le squadre della Grazia furono attaccate.
Il 24 maggio l'avanzata borbonica fu ripresa. GARIBALDI, temendo di essere aggirato, sceso con il grosso del suo corpo dal Calvario e, protetto da una forte retroguardia formata dai carabinieri genovesi, da tre compagnie e da alcune squadre siciliane e comandata dal TURR, ripiegò su Piana dei Greci, abbandonando Parco al nemico che l'occupò.
Sul calar della sera, per ingannare i borbonici, il generale spinse l' ORSINI con i cannoni, gli artiglieri, i feriti leggeri, i bagagli e una scorta di picciotti del CORRAO sulla via di Corleone, quindi con altre schiere si gettò sulla sinistra, e per boschi, valli e sentieri malagevoli giunse il 25 maggio alle 9.30 a Marineo dove ricevette un messaggio dal LA MASACHE lo sconsigliava di ritirarsi nell'interno dell'isola e lo scongiurava di raggiungerlo a Gibilrossa dove aveva concentrato circa tremila siciliani.

Alle 18.30, mentre il Mekel e il Bosco andavano dietro i passi dell'Orsini verso Corleone, credendo d'inseguire Garibaldi, questi partiva da Marineo, diretto a Misilmeri; dove giunse alle 22.30. Il giorno dopo salì a Gibilrossa, passò in rivista le squadre siciliane, poi riuniti in consiglio i principali suoi luogotenenti, espose loro la situazione in cui si trovavano e chiese se desideravano assalir Palermo o ritirarsi nell'interno dell'isola. I più furono del primo partito e il Generale volle comunicare la decisione ai picciotti: "Stasera marceremo e domani all'alba libereremo i nostri fratelli palermitani" disse, e al Bixio rivolse la famosa frase: "Nino, domani, Palermo", cui l'altro rispose: "O a Palermo o all'inferno".

La sera del 26 maggio, per ingannare il nemico, furono accesi fuochi sui monti Mastronardo e Grifone, quindi, divisi in due scaglioni (il primo costituito dai picciotti del LA MASA e da un drappello di carabinieri guidati da TUKORY, il secondo da settecentocinquanta superstiti dei Mille e da altre squadre siciliane), i garibaldini scesero a Gibilrossa, e con marcia faticosa, per S. Zita, case Giardina e Croce Verde di contrada Ciaculli e la villa Favarella, giunsero in piazza Favara, donde, per la via Balate, sboccarono sulla rotabile di Villabate-Palermo.
I primi scontri con i regi avvennero ai Molini della Scafia e al ponte dell'Ammiraglio. Un po' di panico tra le squadre al primo momento, poi i Mille e i Picciotti si lanciarono alla baionetta sul ponte e lo conquistarono mentre un manipolo di garibaldini con FAUSTINO TANARA e un altro siciliano con l'abate ROTOLO respingevano un plotone di cavalleria borbonica sboccato dalle vicinanze della chiesetta dei Decollati.

(Una sintesi narrata dal Guerzoni): "Dopo una scaramuccia al ponte della Testa, la colonna garibaldina giunse a porta di Termini e diede l'assalto. Serrati, concordi, non contando i nemici, disprezzando la morte, gareggianti solamente a chi primo arriva, si slanciano di fronte i Mille alla destra, avanzando tra vigneti e giardini, li fiancheggiano, condotti da FUXA, manipoli siciliani; da sinistra altri picciotti e cacciatori insieme misti, guidati dal SIRTORI e dal TURR, tengono in scacco i difensori della Porta Sant'Antonino, soccombono fulminati terreno, TUKERY, ROCCO, LA RUSSA, PIETRO INSERILLO e GIUSEPPE LO SQUIGLIO; feriti BENEDETTO CAIROLI, ENRICO PICCININI, RAFFAELLO DI BENEDETTO, LEONARDO CACIOPPO; BIXIO stesso, ferito al petto da una palla, se la estrae da sé; i napoletani, quasi sopraffatti da un superstizioso terrore, non reggono più alla diabolica irruzione. NULLO, marziale, ritto sul cavallo, ha già varcato, primo dei primi, la Porta, e dietro a lui i suoi come un torrente dilagano per tutte le vie, scacciando gli ultimi borboni più resistenti, ed inondano Fiera Vecchia, il cuore di Palermo. Erano circa le 6 del mattino del 27 maggio; due ore erano bastate per arrivarci.

Alla Fieravecchia e a piazza Bologna, Garibaldi incontrò i membri del comitato rivoluzionario e stabilì quindi il suo quartier generale nel Palazzo Pretorio. Intanto i palermitani svegliati dal cannone che tuonava dalle navi, dal forte di Castellammare e dal Palazzo Reale, dove stava il generale LANZA, luogotenente dell'isola, dalle campane che suonavano a stormo e dal crepitare della moschetteria, alcuni scendevano armati nelle vie, altri si univano ai liberatori e altri ancora improvvisavano barricate.
La situazione per Garibaldi era piuttosto critica perché i regi borbonici occupavano i punti strategici, erano numerosi, bene armati e potenzialmente potevano chiudere in una trappola quell'esiguo numero; ma il dittatore non si sgomentò, confortato dal sapere che aveva con sé il cuore di buona parte di tutta la città, diede mano alla formazione di un nuovo municipio, costituì i comitati delle barricate, delle munizioni, delle finanze e dell'annona, chiamò alle armi con un proclama tutti i comuni dell'isola e cominciò ad allargare la zona occupata.

Premuto dai Garibaldini e dagli insorti il LANDI si ritirò dai Quattro Canti a Palazzo Reale, il MARULLI sgombrò Porta Macqueda costrettovi dalle squadre siciliane del LA PORTA, alle 16 i borbonici abbandonarono i Quattro Venti e le Carceri da dove uscirono i prigionieri andando ad accrescere le file dei ribelli. Si combatteva dappertutto, a piazza Bologna, all'arcivescovado, a Ballarò, al quartiere di S. Giacomo, ai Benedettini, a S. Francesco di Paola, alla villa Filippina, al Giardino Inglese. Il rione Ballarò, abbandonato dal generale borbonico LETIZIA, cadeva nelle mani degli insorti, perduta dai borbonici anche la caserma di S. Antonino e, prima di sera, tutta la parte bassa della città, eccettuati il forte di Castellammare e le Finanze, erano in potere di Garibaldi, le cui schiere si ingrossavano per l'accorrere dalle campagne di numerosi contadini e "picciotti".
"Con sicuro intuito, Garibaldi si appellò ai contadini, quella Jaquerie che contribuì a terrorizzare un esercito e una polizia di grosse dimensioni inducendoli a resi umilianti" (Mack Smith. Op. cit. pag 738)

Il 28 maggio i regi ricevettero rinforzi da Napoli, ma la lotta continuò ad esser a loro sfavorevole. Il Monte di Pietà, i conventi dei Benedettini e dell'Annunziata e il bastione Montalto furono perduti dai borbonici; CORRAO, calato in città dalla parte occidentale con l'ex banda del Pilo, attaccò i regi, all'Olivuzza, li respinse verso S. Francesco di Paola, li scacciò dalla villa Filippina, entrò da porta Carini e, occupato il Duomo, fatti salire sul campanile i cecchini, questi iniziarono a sparare sulle truppe del Lanza ammassate nella vicina piazza del Palazzo Reale.
Il 29 maggio i regi presero l'offensiva, riuscendo a riprendere qualche località ai Garibaldini e agli insorti; ma, ciononostante, la loro situazione era critica perché la guarnigione del palazzo delle Finanze era tagliata fuori del resto delle truppe borboniche, il presidio del forte di Castellammare era senza viveri e acqua, e nelle circostanti campagne la "jaquerie" erano sempre più numerose, i contadini riuniti in forti bande con ogni tipo di improvvisate armi, minacciavano i borbonici a S. Martino, alla Favorita e a Monreale.

Il 30 il LANZA propose a GARIBALDI un convegno a bordo della nave inglese "Hannibal". Qui si riunirono i generali borbonici LETIZIA e CHRETIEN, GARIBALDI e CRISPI, l'ammiraglio inglese MUNDY, e i comandanti delle navi francesi, americane e sarde che si trovavano nel porto.
Garibaldi accettò quattro delle cinque proposte del Letizia, riguardanti un armistizio di ventiquattro ore, la conservazione delle posizioni, l'imbarco dei feriti ecc., ma rifiutò la quinta, secondo la quale il municipio avrebbe dovuto indirizzare un'umile petizione a Francesco II esponendo le richieste della città.

L'armistizio fu concluso e Garibaldi, tornato in città, ne diede annuncio al popolo da un balcone di piazza Pretorio:
"Il nemico mi ha offerto una tregua. Io accettai quei patti che l'umanità suggeriva di accettare; ma tra le proposte fatte, una era umiliante per la brava popolazione di Palermo, ed io la rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza d'oggi fu dunque che si riprendessero le ostilità domani. Io e i miei compagni siamo lieti di combattere accanto ai figli del Vespro la finale e decisiva battaglia".

L'armistizio era stato provvidenziale per la rivoluzione perché quella stessa mattina, reduce da Corleone dove si era battuto con l'Orsini, era giunto il MEKEL, il quale, con fortunati assalti, aveva forzato Porta di Termini, difesa dal Carini, e si era reso padrone della Fieravecchia ed avrebbe forse potuto capovolgere la situazione se non avesse ricevuto ordine dal Lanza di rispettare l'armistizio
La tregua il giorno dopo fu prolungata fino al 3 giugno. Essendosi nel frattempo
il generale LETIZIA e il colonnello BONOPANE recati a Napoli ed avendo informato il re della critica situazione delle truppe borboniche a Palermo, FRANCESCO II ordinò di iniziare le trattative per lo sgombero della città; trattative, che condussero ad una convenzione firmata il 6 giugno che accordava ai soldati borbonici di lasciare Palermo con armi e bagagli e con gli onori militari.
Questa convenzione sanciva la fine del dominio borbonico in Sicilia.

Il giorno prima -il 5 giugno- erano entrati nella capitale dell'isola la colonna ORSINI reduce da Corleone e la colonna AGNETTA, sbarcata a Marsala con sessanta volontari e un migliaio di fucili ed era giunta in porto la squadra sarda del PERSANO che portava il LA FARINA, emissario di Cavour.
Non dimentichiamo che LA FARINA è un siciliano, è un ex repubblicano, è passato poi al partito cavouriano monarchico, ed é presidente della Società Nazionale.

Se a Torino Cavour, e con lui i conservatori avevano irriso alla spedizione dei democratici, che con un'insurrezione si poteva conquistare la Sicilia, avevano avuto torto. Purtroppo il sogno utopistico del Mazzini, compiuta dall' ex (?) mazziniano Garibaldi) era una realtà. Cioè un bel guaio. Che Garibaldi sia d'accordo con Mazzini, Cavour lo pensa in ogni ora del giorno e della notte. E lo teme anche Persano che da Napoli (poi l'8 settembre) comunicava di "aver saputo dagli ambienti garibaldini precise intenzioni ostili alla monarchia. E che le intenzione di Garibaldi di marciare su Roma avevano un preciso obiettivo, unirsi a Mazzini".

Cavour ha anticipato i timori di Persano e n'approfitta subito, invia miseri rinforzi in Sicilia, ma nello steso tempo manda LA FARINA ad "annettere" l'isola al Regno di Sardegna.
Come atto politico e militare la cosa è molto singolare e quasi unica nel panorama europeo (salvo le conquiste coloniali). E' un'annessione di un Regno sovrano, dovuta ad un'invasione di forze autonome, senza che il Regno Sardo l'abbia organizzata, e tanto meno ha dichiarato guerra al Regno delle Due Sicilie. Ma spregiudicatamente Cavour non tiene in nessun conto queste cose.
Se Garibaldi ha "liberato" la Sicilia dai Borbone, Cavour ha intenzione di "liberale" la Sicilia da Garibaldi.
Non poteva essere diversamente se i cavourriani alla fine prevalsero. Nelle condizioni in cui era la Sicilia (con borghesi e notabili opportunistici e contadini delusi) pensare l'incontrario era pio desiderio. Soprattutto quando Cavour iniziò a inviare decine di migliaia di soldati nel Sud! Garibaldi l'esercito borbonico lo aveva scompaginato, ma non l'aveva mica annientato. Ancora a Gaeta Nè sappiamo come si sarebbero comportate le potenze estere, in caso di una vera e propria vittoria rivoluzionaria di Garibaldi.

LA FARINA, uomo di Cavour è incaricato di: a) Preparare subito l'annessione della Sicilia al Regno piemontese; b) Mettere in vigore la Costituzione Sabauda (lo Statuto Albertino); c) Convocare i rappresentanti al Parlamento ma… solo a settembre.
Sui presenti calò il gelo, negli ambienti liberali ma anche non liberali salì invece l'ira. CRISPI (su posizioni democratiche ma anche autonomiste) era furibondo, Garibaldi seccato. Nessuno voleva farsi scippare l'isola in quel modo; su questo si trovarono tutti d'accordo amici e nemici (diventati all'occasione amici); a costo di fare un'altra rivoluzione, ma questa volta -dicevano- contro l'espansionismo sabaudo. Alla popolazione siciliana (nobili - borghesi e contadini - in questo caso tutti uniti) non interessava questa o quella dinastia, interessava prima di tutto l'indipendenza, o al limite una monarchia costituzionale (di tipo inglese) non una annessione, che era (nè si sbagliavano) una vera e propria "sottomissione". (e le lapidi commemorative del plebiscito parlano chiaro "sotto il governo monarchico" ).
L'Unione che andò poi a creare un Regno, non fu un Nuovo Regno, ma l'estensione di un altro; di quello dei Savoia; infatti on ebbe un Re I, ma un Vittorio Emanuele II, cioè una continuità di un regno diventato solo più grande.

LA FARINA nonostante le ostilità, non demorde, intessendo trame, dandosi da fare negli ambienti della vecchia aristocrazia, promettendo chissà cosa, quali privilegi, oppure paventando chissà quali futuri guai e disgrazie dai democratici ("comunisti" così li chiama Pio IX) sulle loro proprietà, premeva su un'immediata annessione. La divergenza di vedute arrivò fino al punto che Garibaldi il 7 luglio lo voleva arrestare, accusandolo di cospirare contro il legittimo "governo siciliano" che si era "autonomamente" costituito. L''annessione sarebbe avvenuta solo con l'intera Italia unita, e con Roma capitale. Quindi Garibaldi sta pensando anche allo Stato Pontificio, che è poi quello che molti temono, e che potrebbe far scatenare la Francia e nuovamente l'Austria nel correre in aiuto della Chiesa ( Pio IX si è già del resto appellato agli stranieri).
Nascerà in questa circostanza il fortissimo contrasto fra Garibaldi e Cavour, e in parte anche con il Re; mai del tutto sanato fino alla morte di entrambi.

Questo perché (il 1° Giugno) quattro giorni prima dall'arrivo di LA FARINA era stato già formato da Garibaldi un ministero; con agli Interni e segretario di Stato FRANCESCO CRISPI, la Guerra e la Marina al colonnello ORSINI VINCENZO, la Giustizia all'avvocato ANDREA GUARNIERI, l'Istruzione e Culto a monsignor GREGORIO UGDULENA, gli Esteri e il Commercio al barone CASIMIRO PISANI, ai possidenti DOMENICO PERANNI le Finanze e a GIOVANNI RAFFAELE i Lavori Pubblici.
(notare la composizione: un politico, un militare, un avvocato,
un monsignore, un barone, e due notabili possidenti).

L'8 giugno cominciavano ad imbarcarsi le truppe borboniche e ai palermitani festanti GARIBALDI poteva dire:
"Popolo di Palermo, popolo delle barricate, con il quale ho diviso speranze, pericoli e gloria !... Popolo, che lasciasti rovinare le tue case, innanzi di piegare il capo alle ignominiose proposte dei tiranni, eccoti libero!...".
Ma siamo solo a Palermo!

Mentre a Parigi, Londra, Vienna. Mosca, si discute nervosi e preoccupati, per questo mutamento di equilibri che tocca (e non sappiamo ancora oggi quanto) direttamente e indirettamente un po' tutti, a Milazzo gli avvenimenti precipitano.
Dovunque la spedizione aveva provocato proteste da parte dei diplomatici. Il Re si affannava a dichiarare che non ne sapeva nulla. In Francia si delineava un'offensiva pacifista. La stessa Francia con il suo primo ministro esprimeva al Cavour il desiderio che Francia e Inghilterra intervenissero come mediatrici tra il Re di Napoli e gli insorti. Mentre a Londra (cui non dispiaceva la "spedizione", che aveva pure appoggiato, e già si aspettava qualche risultato per l'influsso che aveva avuto la flotta inglese) facevano sapere che preferivano stare a vedere fino a che gli avvenimenti avessero assunto una linea più precisa.
Gli avvenimenti ci furono quasi subito. A MILAZZO, nel respingere un tentativo di controffensiva dell'esercito borbonico che tentava di riconquistare i propri territori, l'avanguardia di Garibaldi sconfigge il nemico, conquista la cittadina, e pochi giorni dopo fa cadere anche l'ultimo lembo borbonico dell'isola: Messina, che in parte (quella marina la più importante) fu occupata.

BATTAGLIA di MILAZZO

Questa la fase dell'ultima battaglia. Palermo era finalmente libera e la prima parte della spedizione garibaldina si chiudeva nella capitale, ma rimaneva ancora molto da fare ed urgeva soprattutto completare la liberazione della Sicilia che FRANCESCO II cercava di salvare alla propria corona.
Il 25 GIUGNO, prevedendo il peggio - una invasione garibaldina anche su Napoli- il re di Napoli cerca ad ogni costo di salvare il salvabile e annuncia con un atto sovrano in cui si dichiarava:

"1° - di concedere una generale amnistia per tutti i reati politici fino a questo giorno;
2° - d'avere incaricato il comm. Antonio Spinelli della formazione d'un nuovo ministero, il quale avrebbe compilato subito lo Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali;
3° - di stabilire con S. M. il Re di Sardegna un accordo per gl'interessi comuni delle due corone in Italia;
4° - di fregiare la nostra bandiera dei colori nazionali in tre fasce verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra dinastia;
5° - di concedere analoghe istituzioni rappresentative alla Sicilia, le quali valgano a soddisfarne i bisogni e di nominare uno dei principi della nostra Casa come viceré."

Dell'opinione della popolazione non sappiamo nulla riguardo a questa proposta, ma sappiamo che gli ambienti democratici (quelli che hanno preso in mano ora il potere in Sicilia e quelli che cospirano da anni a Napoli) mettono in giro la voce che "è ormai troppo tardi". L'annessione al Piemonte -dicono ma girano anche voci di repubblicanesimo- è già stata decisa, in Sicilia è cosa fatta, e a Napoli si attende solo l'arrivo di Garibaldi.

Era pur vero che il Cavour, alla domanda ufficiale d'alleanza tra il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie, presentato dal CANOFARI, ministro napoletano a Torino, aveva risposto di non potere accettare nessuna proposta se prima il governo di Napoli "non riconosceva ai siciliani il diritto di disporre delle proprie sorti"; ma era anche vero che la diplomazia, specie quella francese, si adoprava per salvare il regno di Francesco II. Occorreva quindi agire presto e risolutamente scacciare dal resto dell'isola i borbonici, passare lo stretto e proseguire verso Napoli.
Se l'impresa riusciva, il problema Sicilia veniva a cadere. L'annessione al Regno di Sardegna dell'Isola e del Regno di Napoli sarebbe stata un'unica opera (dei Sabaudi però).

I mezzi per proseguire l'offensiva non mancavano e si facevano di giorno in giorno più numerosi. Il 19 giugno a Castellammare del Golfo e a Trappeto sbarcava la spedizione "Medici", che, scortata dalle navi sarde, portava l'aiuto di tremilacinquecento volontari, ottomila carabine rigate e quattrocentomila cartucce; il 7 luglio sbarcava la spedizione "Cosenz" forte di millecinquecento uomini; il 10 il capitano ANGUISSOLA si dava al Garibaldi con la corvetta napoletana "Veloce" cui era imposto il nuovo nome di "Tukory"; nella seconda metà di luglio giungevano le spedizioni DUNN, CORTE (novecento uomini) e SACCHI (duemilacinquecento). In tutto 20.000 "volontari", che alcuni affermano essere, soldati piemontesi travestiti.

Divise tutte le sue forze in tre colonne, comandate dal BIXIO, dal TURR e dal MEDICI. Giuseppe Garibaldi mandò la prima, per la via di Corleone, a Girgenti, la seconda a Catania per la via di Villafrati, S. Caterina, Caltanissetta e Caltagirone, la terza verso la provincia di Messina che in parte era tenuta dai borbonici. Quest'ultima colonna (reggimenti MALENCHINI e SIMONETTA), per Termini, Cefalù e Patti, si portò a Barcellona, piazzò due vecchi cannoni qui trovati sul ponte del Mela e si distese, rafforzata da trecento siciliani guidati dall' INTERDONATO, tra i villaggi di S. Lucia e Neri, pochi chilometri da Milazzo con gli avamposti tra S. Filippo e Coriolo.

Qui vi erano solo millequattrocento soldati borbonici al comando del colonnello PIRONTI; ma il 14 luglio il generale CLARY che si trovava a Messina, saputo dell'avanzarsi dei duemilacinquecento uomini del Medici, mandò in soccorso delle truppe di Milazzo il colonnello BOSCO con tre battaglioni di cacciatori, uno squadrone e una batteria da montagna, circa tremila uomini in tutto. Il Bosco, giunto a Milazzo il 15, si schierò il giorno dopo alla base della penisoletta, protendendo la sua sinistra (maggiore MARING) fino a Gli Archi.
Il 17 luglio, per riconoscere le forze avversarie, il Bosco attaccò con un battaglione l'estrema sinistra garibaldina e con un altro l'estrema destra, ma poco dopo si ritirò. Il Medici, temendo a ragione un ritorno offensivo dei borbonici, appoggiò la destra a S. Filippo, mandò un distaccamento a Coriolo e barricò il quadrivio presso San Filippo. Nel pomeriggio dello stesso giorno, il Bosco tornò ad assalire con forze raddoppiate il centro e la destra dello schieramento garibaldino; ma questo resistette validamente, anzi, sopraggiunte in rinforzo due compagnie del Malenchini, gli assalitori furono respinti alla baionetta.

Il 18 luglio giunse l'avanguardia della divisione COSENZ, il battaglione DUNN con seicento volontari siciliani e la colonna FABRIZI di circa trecento siciliani
l 19 luglio giunse il GARIBALDI, che in seguito a telegramma del Medici, aveva lasciato pro-dittatore a Palermo il SIRTORI ed era corso sul teatro delle operazioni.
Il 20 luglio, alle 5 del mattino, la divisione Medici assalì alle ali, a destra, di fronte a S. Pietro, la colonna Simonetta, a sinistra, verso S. Marina, la colonna Malenchini, ma l'una e l'altra trovarono accanita resistenza, anzi quella, fu accolta prima da nutritissimo fuoco e si arrestò, poi caricata dai cacciatori a cavallo si scompaginò.

A rinforzare la battaglia sopraggiunse il COSENZ che assunse il comando della sinistra. Entrarono in linea il battaglione Vachieri, il battaglione Dunn con i "figli della libertà", monelli palermitani, e il battaglione CORRAO con altri siciliani. Garibaldi, con un manipolo di volontari e alcuni ufficiali, il Medici, Missori, Stadella, e il Breda, che subito cadde ucciso, si lanciò nella mischia e un manipolo di Garibaldini riuscì ad impadronirsi di un cannone nemico.
Avendo il borbonico Bosco ordinato ai suoi di riprendere ad ogni costo il pezzo, i cacciatori borbonici a cavallo eseguirono una furiosa carica in direzione del punto in cui si trovava Garibaldi. "All'arrivo della cavalleria - racconta il Guerzoni - quanti erano vicino al generale cercarono di coprirlo facendo del loro meglio, ma il capitano borbonico (GIULIANO) galoppò direttamente su di lui, e senza sospettare chi era il nemico che gli stava di fronte, gli menò un terribile fendente, che l'avrebbe certamente tagliato in due se Garibaldi, parando con agilità e freddezza e ribattendo subito colpo su colpo, non avesse spaccato lui la testa a quel capitano". Nel frattempo gli ufficiali del seguito e i volontari di scorta si difendevano alla meglio. Accorsi i carabinieri genovesi, le guide e i siciliani del Fabrizi, lo squadrone borbonico fu sbaragliato e fuggì decimato verso Milazzo.
Nonostante gli sforzi dei garibaldini, i borbonici resistevano tenacemente, causando ai volontari molte perdite, fra le quali quella del maggiore FILIPPO MIGLIAVACCA.
Ma ecco giungere in rada la corvetta Tukory. Allora Garibaldi, che non aveva potuto osservare l'azione da un punto culminante, raggiunse con una barca la nave, si arrampicò sulla gabbia dell'albero maestro, studiò di lassù la situazione, quindi ordinò al comandante della corvetta di accostare e far fuoco a mitraglia sulla destra borbonica e lanciò tutte le riserve del Cosenz, del Guerzoni e del Fabrizi sulla sinistra.

Impegnate le ultime riserve, i Garibaldini, subendo molte altre perdite, premendo sulle ali, costrinsero i regi ad indietreggiare. Il Bosco dapprima si ritirò in Milazzo, poi temendo che le sue truppe potessero esser mitragliate dalla nave, si chiuse nel forte, lasciando i nemici padroni della città. La battaglia era stata sanguinosa e le perdite dei volontari moltissime: 750 uomini tra morti e feriti. Si distinsero le squadre siciliane; fra queste quelle comandate dal Dunn, che combatterono con ardimento e subirono perdite rilevanti.

Il 23 luglio, giunte nelle acque di Milazzo quattro fregate napoletane con il colonnello di Stato Maggiore ANZANI, questi iniziò negoziati per la capitolaziome. Quel medesimo giorno fu stipulata una convenzione con la quale fu stabilito che i borbonici uscissero con armi e bagagli e con gli onori di guerra e il forte fosse consegnato con cannoni, munizioni, attrezzi di guerra e quadrupedi.
Così, con la resa del forte di Milazzo e con quella di Messina stipulata il 28, ai borbonici in Sicilia restava solo la cittadella messinese, la quale, difesa accanitamente dal maresciallo FERGOLA, si arrese al generale Cialdini il 12 marzo del 1861.

Torniamo al "dramma" di Cavour. Cosa bisognava fare ora? Fermare Garibaldi? (Nigra consigliò perfino di arrestarlo). Si rese conto che non era più possibile, né c'era più tempo a disposizione. A questo punto era un grosso errore contrastarlo, la sua impresa agli occhi di tutto il mondo già appariva straordinaria. Quello che si poteva fare era di promuovere subito un'insurrezione antiborbonica a Napoli tale da rendere necessario l'intervento dei piemontesi in modo da anticipare l'arrivo dei garibaldini. Bisognava far cadere il governo di Francesco II, prima che Garibaldi giungesse a Napoli.

Intanto Trecchi lascia il suo ufficio presso il Re e raggiunge il generale, che lo nomina capitano di stato maggiore - sarà lui a regolare le relazioni tra il Re e Garibaldi. E prima che Cavour si muova, il 30 luglio Garibaldi gioca d'anticipo, da Milazzo scrive al Re "penso di passare il 15 del venturo mese, piuttosto prima. Ma avrei bisogno di 10.000 fucili".
Il Re ricevuta la lettera del Trecchi, la passò al Farini aggiungendo "faccia il possibile per esaudire le richieste del Generale". Via libera insomma. Scavalcando il suo primo ministro, ministro della guerra e degli interni.

I nervosismi e le preoccupazioni sono ora tutte di Cavour. Se Garibaldi passa lo stretto, risale la penisola e s'impadronisce di Napoli, diventa padrone assoluto della situazione. Forse consegnerà -come ha già affermato- il Regno a Vittorio Emanuele. Ma il re sabaudo come si giustificherà davanti all'Europa? Come, lui monarchico, fa le conquiste con i rivoluzionari?
"Le Roi ne peur tenir la couronne d'Italie del mains de Garibaldi: elle changellerait trop sur sa tete…Pour un Prince de la Maison de Savie mieux vaut perir ppar la guerre, que par per la revolution.. son sort es scellè a jamais si on la traine dans un ruisseau" ( Il carteggio Cavour-Nigra, vol, IV, 1929, pp. 122-123).
Ma la preoccupazione più grossa è che il partito rivoluzionario si è già guadagnato e si guadagnerà ancora di più una forza irresistibile e incontenibile sulla pubblica opinione. Conseguenze: che la Francia e l'Austria non sarebbero rimaste a guardare. Insomma un "dramma" per Cavour, per l'Italia e per la stessa monarchia; per quest'ultima un disonore. Uno scenario fosco quello di Cavour. Anche se ha dimenticato che l'Inghilterra, la Russia e la Prussia, per altri motivi di calcolo politico (di equilibri) non dispiace proprio questo "dramma".
Il grave pericolo Cavour lo presentò al Re in mille modi. Primo fra tutti: "che sul debole Generale prendesse il sopravvento il Mazzini", che subito si era già precipitato in Sicilia.

A questo punto, convinse il Re a scrivere a Garibaldi facendogli capire che stava progettando un suo intervento da nord ("salirò se sarà necessario sul cavallo") dalle Marche e dall'Umbria. Insomma che la rivoluzione avrebbe avuto un ulteriore sviluppo attraverso lo Stato Pontificio (quello che autonomamente desiderava fare Garibaldi, dopo Napoli).
Al Trecchi che gli aveva portato la lettera da Milazzo il Re diede "istruzioni per Garibaldi", che Trecchi scrisse sul retro della stessa lettera per poi inviarle tramite un telegramma: "Appena occupata Napoli, Garibaldi proclami l'unione al resto d'Italia come in Sicilia; impedisca disordini; tenga compatto l'esercito per unirlo a quello piemontese (!); lasci fuggire il Re da Napoli; Re Vittorio Emanuele poi si regolerà secondo l'opportunità, facendo occupare l'Umbria e le Marche con le sue truppe, "o" lasciando avanzare i garibaldini".
Era dunque un invito ad avanzare; un avviso che avrebbe (forse) trovato sul luogo un esercito piemontese; ma con quella "o" finale, che subordinava l'avanzamento dei garibaldini su Napoli e sugli Stati pontifici. Si davano istruzioni, appoggio, assistenza ma si parlava allo stesso tempo di un unico potere decisionale e anche di sostituzione.
Garibaldi non immaginava quello che si stava tramando alle sue spalle. Che se falliva, passava da irresponsabile rivoluzionario, e se avesse vinto sarebbe stato messo da parte.

Cavour con quel suo progetto -lo abbiamo letto sopra- doveva fare in fretta. Con VILLAMARINA, l'ammiraglio PERSANO e il prefetto di polizia borbonico (!) LIBORIO ROMANO fecero di tutto per scatenare la pretestuosa insurrezione su Napoli contro FRANCESCO II. Ma fu un clamoroso fallimento. Prima perché non erano quelli gli uomini capaci di organizzare una rivoluzione. Inoltre i napoletani non si mossero contro Francesco II, rimasero indifferenti anche quando le navi dell'ammiraglio Persano entrarono minacciose nella rada con i bersaglieri a bordo.
Quando lo seppe da Villamarina che nessuno si muoveva, Cavour era infuriato, e gli telegrafò:
"....il contegno dei Napoletani è disgustante".
E' che Cavour "non conosceva Napoli" (questo glielo scrisse amareggiato poi il Re, quando Cavour riteneva "molto imbarazzante" per la diplomazia europea la sua presenza a Napoli, dopo Teano).

La realtà era che i napoletani, criticavano i Borboni, ma di fargli la guerra non se la sentivano proprio.
Abbiamo ricordato sopra: che a Napoli prima di tutto non c'era la forte tendenza indipendentistica e che "…Non ci sono cento unitari in sette milioni di abitanti"; questo lo riferiva il nuovo governatore di Napoli, FARINI, a Massimo D'Azeglio
(M. D'Azeglio, Scritti e discorsi politici vol. III (1938) pp. 399-400 e Mack Smith "La Liberazione del Mezzogiorno, vol. IV, 1954, p. 56 - già in Storia di Cambridge, Garzanti, Storia del mondo Moderno, vol. X, pag 741).


Ma torniamo a Garibaldi che sta per passare lo stretto
e sta per marciare verso Napoli.

E' la prossima puntata > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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