ANNO 1860

REGNO DELLE DUE SICILIE - ULTIMO ATTO
( anno 1860 )
------------------------------------------------------------(visto dalla Sicilia)

L'INVASIONE PIEMONTESE - IL GARIGLIANO

L'INVASIONE

La delicata situazione internazionale

Nelle Marche ed in Umbria, vinte le resistenze dei pontifici, , il 3 ottobre Vittorio Emanuele II assunse il comando supremo dell'armata piemontese e mosse in direzione del Regno di Napoli senza neppure salvare la forma col presentare la dichiarazione di guerra. L'intervento armato venne giustificato da Cavour con la necessità di ristabilire l'ordine nell'Italia meridionale minacciata dalla rivoluzione.
Il comportamento del governo di Torino per poco non fece scoppiare una guerra europea. Infatti la Spagna e la Russia ruppero le relazioni diplomatiche col Piemonte, mentre l'Austria inviava le sue truppe verso il Mincio. Napoleone III, con un comportamento sempre più ambiguo, invitò i piemontesi a far presto e, contemporaneamente, ritirò l'ambasciatore da Torino. A salvare la situazione intervenne l'Inghilterra. La regina Vittoria, infatti, appoggiata dal suo ministro degli esteri, lord John Russel, convinse il principe reggente di Prussia a non compiere atti ostili contro la causa italiana. Così l'Austria rimase quasi isolata nella sua posizione, e non intervenne temendo di dover affrontare da sola Francia e Inghilterra.

Combattimenti negli Abruzzi
Negli Abruzzi operava la brg di volontari borbonici agli ordini del colonnello prussiano Klitsche de la Grange, costituita ad Itri con 4 battaglioni. Il 1° era formato da profughi della Sicilia: sbirri, compagni d'arme ed elementi comunque compromessi col regime borbonico, che avevano dovuto lasciare l'isola in tutta fretta con le famiglie, per sfuggire alle vendette dei rivoltosi. Questi uomini, come scritto nella sua relazione dal de la Grange, avrebbero seguito il reparto a guisa di sciame di locuste, formando la maggior sua calamità. A differenza del 1° btg, composto da gente estremamente decisa, ma assai indisciplinata, gli altri tre battaglioni erano formati con volontari locali, più docili, ma anche meno tenaci. Non appena costituiti e mancando del tutto di addestramento, e solo parzialmente vestiti ed armati, entrarono in campagna rinforzati da due compagnie di gendarmi e mezza batteria da montagna.
Questi volontari , condotti dal vecchio e coraggioso de la Grange, conquistarono Sora, dove era stato proclamato il governo provvisorio da parte dei liberali, poi ripresero Arpino e, il 6 ottobre, Civitella Roveto, dove si erano riuniti i ribelli liberali che subirono perdite per 40 caduti e un centinaio di prigionieri. Nella guerra civile scoppiata negli Abruzzi si affiancarono alla brg de la Grange squadriglie di contadini, dette "masse volanti", che scacciarono i liberali da Tagliacozzo, Avezzano, Cicolano e Magliano dei Marsi. La valle del Roveto era così tornata in mano borbonica.

Temendo la crescente e violenta reazione dei borbonici, e la notizia dell'avvicinarsi di due colonne di soldati regi (la brg de la Grange dalla valle di Roveto e il corpo del gen. Douglas Scotti dal Molise), i governi provvisori degli Abruzzi inviarono delle deputazioni ad Ancona, da Vittorio Emanuele, per esporre la gravità della situazione e richiedere l'intervento delle truppe piemontesi, e furono ricevute il 5 ottobre. Intanto i governi provvisori cercarono di organizzare la difesa e di reprimere il nascente brigantaggio politico. Numerose compagnie di volontari e di guardie nazionali occuparono una parte della Màrsica, le gole di Pòpoli, sino a Sulmona e a Castel di Sangro. Si trattava dei volontari al comando di Pateras e Fanelli, e delle guardie nazionali al comando di Silvio Ciccarone, Nicola Marcone e Raffaele De Novellis, truppe motivate, ma non atte a resistere ad un eventuale attacco di truppe regolari; per cui, per salvare gli Abruzzi dalla reazione legittimista, non restava che sperare sull'intervento dell'esercito piemontese.

Nuovi combattimenti sul Volturno
Dunque, mentre la diplomazia giocava le sue carte, si continuava a morire in Puglia, Molise e Abruzzi, dove violente reazioni popolari si scontravano con la guardia nazionale agli ordini dei governi provvisori liberali, scatenando quella guerra civile che avrebbe insanguinato per dieci anni il meridione d'Italia.
Si continuava a combattere pure lungo il Volturno, dove i contendenti rafforzavano le loro posizioni. Violenti scambi di colpi di artiglieria avvennero tra le posizioni borboniche di Triflisco e monte Gerusalemme e quelle garibaldine di S. Iorio e Gradillo.
L'8 ottobre un'offensiva garibaldina spinse gli avamposti napoletani fin sotto Capua, ma fu bloccata. Il contrattacco borbonico, effettuato da un buon numero di soldati di diversi corpi guidati dal gen. Girolamo De Liguoro, penetrò fino a S. Angelo, ritirandosi dopo essersi impossessato di molti viveri dai magazzini nemici. Un nuovo attacco garibaldino fu respinto la sera con gravi perdite. Quel giorno i napoletani ebbero 2 caduti e 17 feriti; i garibaldini perdite più gravi, causate soprattutto dall'artiglieria di Capua. I giorni successivi avvennero molte altre scaramucce, ma che non modificarono la situazione strategica.

Situazione politica italiana
Sul piano politico era cessata, finalmente, la penosa commedia del mantenimento dei rapporti diplomatici fra il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie. Cavour, infatti, espulse da Torino l'ambasciatore napoletano Winspeare, giustificando l'atto con un'abdicazione di fatto di Francesco II che aveva abbandonato la capitale.
Intanto, a Napoli, Garibaldi lottava anche contro gli avversari politici. Gli unionisti, aizzati dagli agenti cavouriani, premevano per un immediato plebiscito per l'annessione, in modo da consegnare il potere al governo di Torino.
Fallirono i tentativi di Mazzini e di Cattaneo, giunti a Napoli, volti a ritardare il voto e a puntare ad un contemporaneo pronunciamento delle popolazione a favore di un'assemblea costituente. La sinistra democratica, avendo anteposto l'unità d'Italia (anche sotto lo scettro dei Savoia) agli altri obiettivi politici, si era indebolita, non riuscendo a contrapporre una credibile alternativa politica rispetto a quella cavouriana. Così Garibaldi finì per fissare il plebiscito, che gli avrebbe fatto perdere il potere, per il giorno 21 ottobre.

L'invasione piemontese delle Due Sicilie
Il 12 ottobre, dopo aver lanciato un proclama alle popolazioni meridionali, Vittorio Emanuele passava il fiume Tronto (confine tra lo Stato Pontificio e le Due Sicilie) con la sua armata, penetrando negli Abruzzi, accolto dal comandante territoriale della regione, gen. Luigi De Benedictis, e dal comandante le armi della provincia di Teramo, brig. Agostino Veltri, già passati agli ordini del governo dittatoriale di Napoli. Il piano della spedizione prevedeva che il IV corpo d'armata di Cialdini ed il V di della Rocca dovevano seguire la costa fino a Pescara, per poi dirigersi verso l'interno. Aggirata la Majella per due strade diverse, una a nord per Popoli e Sulmona, l'altra a sud, si sarebbero ricongiunti in direzione di Castel di Sangro. Da Isernia a Venafro avrebbero dovuto sboccare alle spalle dell'Esercito Borbonico, schierato sul Volturno, costringendolo a dare battaglia sul Garigliano e, se possibile, tagliandolo fuori da Gaeta e dal confine pontificio. Un'altra colonna, composta dai granatieri di Sardegna del gen. de Sonnaz, sbarcò a Manfredonia per puntare su Napoli da oriente.
Inizialmente i piemontesi furono ben accolti dalla popolazione abruzzese. Fra l'altro, in quella regione le truppe napoletane erano state ridotte al minimo: la brg del barone Teodoro Klitsche de la Grange, che operava nella zona interna ai confini col Lazio, e la guarnigione della fortezza di Civitella del Tronto, costituita da circa 450 fra gendarmi, artiglieri, veterani e fanti di vari corpi sbandatisi. Quest'ultima posizione nemica, aggirata e lasciata alle spalle, fu assediata da alcuni reparti al comando del gen. Ferdinando Pinelli.
Penetrando sempre più a sud, i piemontesi cominciarono ad imbattersi sui segni della guerra civile tra reazionari e liberali: case bruciate, campi devastati, cadaveri abbandonati. La popolazione cominciò a diventare più ostile, silenziosa al passaggio degli stranieri. I piemontesi reagirono immediatamente con lo stato d'assedio e le fucilazioni, inaugurando una repressione feroce che sarebbe pesata sulle popolazioni meridionali per una decina d'anni.

La flotta francese
Intanto, il viceammiraglio francese le Barbier de Tinan, favorevole alla causa borbonica quanto ostile a quella italiana, si recò in visita da Francesco II, comunicandogli che avrebbe protetto con la sua flotta tutto lo specchio di mare che bagna la costa da Gaeta al Garigliano. Ciò incoraggiò alla resistenza il Re.
Il 14 ottobre, mentre nei pressi di Napoli capitolava per mancanza di viveri il fortino di Baia (145 veterani ed artiglieri al comando del mag. Giacomo Livrea), il Re convocò a Calvi Ritucci, chiedendogli una nuova offensiva verso la capitale, allo scopo di impedire il plebiscito. Ma, al solito, il maresciallo sollevò varie obbiezioni, presentandole per iscritto, controfirmate dai generali von Mechel e Polizzy. Un ultimo pressante appello a Ritucci, recato dal direttore della guerra gen. Antonio Ulloa, a nome del consiglio di Stato, per spingerlo ad una offensiva, gli pervenne il 19 ottobre; ma questa volta poté opporre una ragione più che valida: le truppe piemontesi erano penetrate profondamente in Abruzzo e bisognava garantirsi le spalle, arretrando sul Garigliano.
Così, mentre si preparava l'arretramento del fronte, si attrezzava Capua per affrontare un lungo assedio. Nel frattempo gli scontri erano continuati. Il 15 ottobre i borbonici effettuarono una forte ricognizione verso S. Angelo; il 14° btg cacciatori, due cmp del 6° ed una btr da campagna, al comando del col. Raffaele Vecchione, usciti all'alba da Capua, attaccarono e distrussero alcuni posti avanzati nemici, facendo pure qualche prigioniero. Il contrattacco garibaldino, lanciato con rinforzi giunti da S. Maria e da Caserta, non riuscì ad agganciare i napoletani in ritirata e si interruppe, con forti perdite, di fronte ai cannoni delle mura di Capua. Furono 4 i morti e 40 i feriti per i regi; 2 i morti e 60 i feriti per i garibaldini, fra i quali molti soldati della brigata piemontese Re, sbarcata dalla squadra navale di Persano il 10 ottobre.

La guerra in Molise
Si combatteva anche in Molise, dove il 23 settembre era stato inviato da Francesco II il mag. Achille De Liguoro con tre cmp del 5° btg di gendarmeria (600 uomini) a ristabilire l'autorità borbonica in una provincia da sempre fedele alla dinastia. De Liguoro era un fedele e capace ufficiale barese di 48 anni che aveva avuto come ultimo comando la gendarmeria in Calabria; qui, in agosto, era stato testimone della fuga di Vial e dello sbandamento della sua divisione; nauseato, aveva dato le dimissioni ed era riuscito a raggiungere Capua con tre compagnie del suo battaglione.
Nella sua marcia De Liguoro riaffermò il governo legittimo a Mignano e S. Germano, poi, il 30 settembre, a Venafro. Alla notizia del suo imminente arrivo Isernia si ribellò al governo provvisorio di Garibaldi e vi fu un massacro di liberali e di guardie nazionali. Il 4 ottobre una colonna di guardie nazionali, proveniente da Campobasso, rioccupò la città, reprimendo duramente la rivolta. Il giorno dopo De Liguoro partì da Venafro con 350 gendarmi, il 1° btg del 1° rgt granatieri (mag. Michele Sardi), un plotone di cacciatori a cavallo e due cannoni. Coadiuvato da una potente massa di contadini e dagli abitanti di Isernia, le truppe napoletane sbaragliarono il nemico, provocandogli un centinaio di morti e catturandone una cinquantina; a seguito di questa vittoria fu ristabilito il governo legittimo in tutto il circondario. De Liguoro, incoraggiato dall'episodio favorevole al suo reparto, chiese l'autorizzazione al gen. Ritucci di poter attaccare i ribelli concentrati a Sulmona; il comandante napoletano, a causa della sua ostinata prudenza, non lo permise.

Persa Isernia, il governo provvisorio del Molise inviò da Garibaldi il mag. Gerolamo Pallotta della guardia nazionale di Boiano, col còmpito di richiedere rinforzi per domare la reazione esplosa in tutta la provincia. Deciso a riconquistare la cittadina molisana, il 17 ottobre Garibaldi inviò tre colonne verso Isernia: da Campobasso il col. Francesco Nullo con un migliaio di uomini (legione matese e volontari siciliani), dagli Abruzzi un reparto di volontari al comando di Teodoro Pateras (veterano del Corpo Volontario Napoletano della Repubblica di Venezia -1848-49) e da Maddaloni un altro reparto al comando di Giuseppe De Marco. Ma la manovra per schiacciare Isernia da tre lati fallì. Verso mezzogiorno, a Pettoranello, vicino Isernia, Nullo cadde in un'imboscata preparata dal mag. De Liguoro, appoggiato da molti volontari civili, e la sua colonna si sbandò e fu fatta a pezzi. Non fu una battaglia, ma un massacro con combattimenti frazionati che durarono fino a notte. Nullo, il suo aiutante mag. Caldesi e sette guide, rimasti isolati dal grosso, si aprirono la strada con le sciabole e le rivoltelle, riuscendo a trovare scampo a Boiano. Della legione di garibaldina le perdite furono di un terzo tra morti, feriti e catturati; al nemico, infatti, furono lasciati 140 prigionieri , le salmerie e le bandiere. Molti furono i garibaldini linciati dalla popolazione. Pochi si salvarono, fuggendo verso Campobasso o nascondendosi nelle campagne. Tutto il distretto di Isernia si sollevò contro il governo di Garibaldi, mentre anche De Marco, proveniente da Maddaloni, fu affrontato e respinto dalla popolazione civile, armata con vecchi fucili da caccia, attrezzi agricoli e pietre.
In Molise, oltre ai gendarmi di De Liguoro e alle bande di insorti reazionari, operava anche un reparto di truppe regolari al comando del ten. gen. Luigi Douglas Scotti, conte di Vigolino, di famiglia nobile di origine piacentina. Il Re lo aveva nominato commissario regio della zona di confine che da Ceprano, attraverso S. Germano, si addentrava nel Molise, col còmpito di provvedere ad assicurare l'ordine e la tranquillità del territorio. Egli avrebbe dovuto procedere verso gli Abruzzi, approfittando dei disordini, e riconquistare la fortezza di Pescara; non ebbe, però, l'animo di osare, perdendo una favorevole occasione.

Combattimenti a Capua
Sul fronte del Volturno si continuava a combattere nei pressi di Capua, dove il 18 ottobre i difensori della fortezza cercarono di tagliare gli alberi dello spiazzo di fronte, in modo da consentire ai cannoni un tiro più profondo, scontrandosi con gli avamposti garibaldini. Un grosso scontro avvenne la mattina successiva tra i napoletani ed i piemontesi della brg Re, appoggiati dalla legione inglese del col. Peard. Gli inglesi, avanzando imprudentemente fin sotto la fortezza, furono decimati dal tiro a mitraglia, perdendo anche un capitano. Il preciso tiro dell'artiglieria napoletana raggiunse l'obiettivo di interrompere i lavori d'assedio nemici.

Il Macerone
Il 20 ottobre avvenne il primo scontro tra i napoletani e l'armata di Vittorio Emanuele, la quale era penetrata in Molise, schierandosi sul ponte del torrente Vandra e sul monte Macerone, a nord-ovest di Isernia. Qui, dal 18 settembre, si trovavano i reparti borbonici al comando del gen. Luigi Douglas Scotti, con l'ordine di fronteggiare l'aggressione piemontese proveniente dagli Abruzzi, a protezione delle retrovie dall'armata del Volturno. Scotti aveva ai suoi ordini 240 gendarmi del 5° btg gendarmeria (mag. Achille De Liguoro), 800 fanti del 1° rgt di linea Re (t. col. Gioacchino Auriemma), un plotone di cacciatori a cavallo, un nutrito gruppo di volontari guidati dal molisano Teodoro Sanzillo e due cannoni. Scotti, venuto a conoscenza della presenza di rivoltosi sul Macerone, la mattina del 20 avanzò in quella direzione. Avvisato dai contadini della zona sulla presenza di numerosa truppa piemontese, non volle credergli, avanzando malgrado il parere contrario dei suoi ufficiali. Fermo comodamente su una carrozza ai piedi del monte, fece avanzare su tre colonne le sue truppe. In cima al monte era schierata l'avanguardia piemontese, costituita da due btg di bersaglieri con due cannoni, comandati dal gen. Paolo Griffini, il quale assalì da posizione vantaggiosa la colonna nemica che avanzava alla cieca, senza effettuare ricognizioni. I napoletani furono colti completamente di sorpresa e, dopo una breve resistenza, assaliti anche dalla brg Regina, si diedero alla fuga per la via consolare, dove, caricati dal rgt Lancieri di Novara, si arresero in numero di 650, fra i quali lo stesso gen. Scotti. Il resto si ritirò verso Venafro. Scotti non era stato, per inettitudine, inferiore al Landi di Calatafimi, provocando un duro colpo al morale dei napoletani e scoprendo le spalle dell'armata di Ritucci.

Ritirata sul Garigliano
A quel punto Ritucci, avendo il tergo scoperto, ordinò la ritirata generale dal Volturno, in direzione del Garigliano, lasciando indietro solamente la guarnigione di Capua, costituita da circa 10000 uomini.
Per parare l'avanzata piemontese da Isernia fece fronte ad est, schierando la sua armata, da nord verso sud, dal Garigliano fino a Calvi: la brg D'Orgemont in quest'ultimo paese; la div. von Mechel a Teano; la div. Colonna più a nord; la div. di cavalleria del brig. Giuseppe Palmieri scaglionata su tutto il fronte; la brg Polizzy, rivolta a sud, in retroguardia. Il brig. Polizzy, neopromosso per il valore e la perizia dimostrati nel combattimento di S. Angelo, diresse con grande bravura e competenza militare la difesa della retroguardia.

La legge militare di guerra
Nel frattempo l'avanguardia piemontese, formata da 8000 uomini al comando del gen. Cialdini, giunse fino a Venafro. Per essi lo spettacolo fu desolante: cadaveri ovunque, e numerose case bruciate, saccheggiate, distrutte. Per soffocare la rivolta reazionaria del Molise i piemontesi emisero il bando di Isernia (23 ottobre) che prevedeva l'instaurazione della legge militare di guerra, con corti marziali e pena di morte per chi non consegnasse le armi. Anche per la popolazione del Molise, come avveniva già per quella abruzzese, ebbe inizio una repressione terribile, con fucilazioni, carcere, torture e crudeltà varie. Cialdini si permise, pure, di inviare una minaccia al governo borbonico, in cui gli ingiungeva di non torcere un capello ai prigionieri garibaldini, pena la rappresaglia su quelli napoletani. La risposta del primo ministro Casella fu dignitosa e nobile. Egli comunicò al generale nemico che i prigionieri garibaldini erano sempre stati trattati umanamente, anche quando risultavano disertori dell'esercito napoletano e, quindi, fosse prevista per legge la pena di morte. Così, mentre i napoletani risparmiavano i loro stessi soldati passati al nemico, i piemontesi si arrogavano il diritto di fucilare sudditi di un altro Regno che avevano come unica colpa quella di difendere la propria patria.

Il plebiscito
In questo clima di estrema violenza e confusione si svolse il plebiscito del 21 ottobre. La formula era questa: "Il popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele come Re costituzionale per sé e i suoi legittimi successori.". Il modo in cui si svolse il plebiscito non può essere preso, certamente, come esempio di libertà e democrazia. Al voto fu ammesso l'intero Esercito Meridionale, formato in maggioranza da settentrionali e da stranieri. I sudditi delle zone ancora presidiate dall'esercito napoletano non poterono votare, come non votarono gli stessi soldati regi che, in teoria, essendo sudditi delle Due Sicilie, ne avevano diritto. La segretezza dell'urna fu regolarmente violata e vi furono, anche, pressioni psicologiche e fisiche.
(VEDI QUI I MANIFESTI, E LE SCHEDE - ADOTTATE POI NEL VENETO)

Esistevano due tipi di schede, una con la scritta SI', le altre con la scritta NO, e ci sarebbe voluto molto coraggio entrare nei seggi e scegliere quella col NO. In molti comuni le votazioni non si svolsero, a causa della reazione del popolino fedele al Borbone.
Comunque sia, su circa due milioni e più di aventi diritto (solo i sudditi di sesso maschile maggiorenni e possidenti), si recò alle urne il 90%
(Sicilia 2.232.000 abitanti; votanti 432.720 (75.2%) di cui favorevoli 432.053. Contrari 667)
(Cronologia De Agostini - 1815-1990)
...leggiamo anche un passo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo:
" ....Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; Si 512, No zero. Eppure Ciccio Tumeo assicura: "Io, Eccellenza, avevo votato No. E quei porci in municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco!".
(La Grande truffa. Ettore Beggiato - Editoria Universitaria. 1999)

Così l'unità d'Italia si legò indissolubilmente alla casa Savoia, escludendo dalla scena i repubblicani ed i federalisti, i quali avrebbero potuto dare alla nascita della Nazione un'impronta più giusta e conforme alle diverse necessità e culture di un popolo rimasto diviso politicamente per oltre tredici secoli. Probabilmente da ciò sarebbero nati governi e leggi più sensibili ai bisogni delle classi sociali più svantaggiate e delle zone più povere. Ma non fu così. L'Italia dei Savoia nacque non come unione, ma come conquista di un altro territorio e di un altro popolo a cui imporre le proprie leggi e le proprie tasse. Il peso economico delle guerre fu scaricato sulle classi più povere e sul sud, nel quale fallirono quasi tutte le imprese industriali, poiché, nel contesto della politica liberista del governo di Torino, non riuscirono a competere con le più ricche ed avviate industrie del nord e dell'Europa centrale. Chiusero arsenali, fabbriche téssili e di altro genere, mentre ampie porzioni di campagne venivano abbandonate per lo svolgersi della guerra civile e per l'istituzione della leva, sprofondando nella più nera miseria tutto il sud. Da qui nacque la questione meridionale, trasformando il meridione nella zavorra d'Italia.

IL GARIGLIANO

Il nuovo comandante generale
Abbandonate le posizioni sul Volturno, a parte Capua, Francesco II e il suo governo inviarono una lettera a Ritucci in cui suggerivano un piano per dar battaglia ai piemontesi, sfruttando le forti posizioni fra Sessa e il Garigliano. Anche questa volta il comandante napoletano respinse le pressione per un'offensiva. Una battaglia campale, con la quale infliggere una dura sconfitta ai piemontesi, rimaneva l'ultima speranza per poter capovolgere la disperata situazione della causa borbonica.
Così, il 23 ottobre, Francesco II sostituì il prudente Ritucci con il gen. Giovanni Salzano de Luna, napoletano settantenne, veterano murattiano che aveva combattuto nello sbarco di Capri del 1808, nel tentato sbarco in Sicilia del 1810, nelle campagne d'Italia del 1814-15; si era distinto nelle campagne di Sicilia del 1820 e del 1849; come comandante della piazzaforte di Capua aveva diretto mirabilmente la difesa dagli spalti il 19 settembre e il 1° ottobre 1860, guadagnandosi la promozione a tenente generale e la croce di commendatore di S. Giorgio. Salzano, pur non avendo grandissime doti di stratega, aveva avuto una condotta decisa nei suoi precedenti comandi: la piazza di Palermo prima e quella di Capua poi. Ma anche lui giunse alla conclusione di dover costituire la nuova linea di resistenza sul Garigliano, rinunciando alla battaglia campale.

La politica estera di Francesco II
Intanto Francesco II operava anche sul piano politico, inviando il 24 ottobre un manifesto a tutti i sovrani d'Europa, col quale sottolineava la condotta scorretta e aggressiva del Regno di Sardegna e di suo cugino Vittorio Emanuele II, il quale, dichiarandosi amico, aveva prima sostenuto in segreto Garibaldi, poi aveva invaso le Due Sicilie col suo esercito. Chiedeva, inoltre, aiuto a questi sovrani per recuperare il trono in base ai principi legittimisti cari a tutte le monarchie.
Ma dal convegno di Varsavia giunsero cattive notizie: i propositi interventisti dell'Austria erano stati accolti con freddezza da Prussia e Russia, mentre Napoleone III aveva rifiutato la proposta del primo ministro austriaco Klemens Wengel Lothar, prìncipe di Metternich-Winnenburg, di restaurare i Borbone sul trono di Napoli anche con la forza. Cavour tirò un sospiro di sollievo, e la frontiera sul Mincio non lo preoccupò più, concentrandosi sulla conquista delle Due Sicilie.

L'incontro di Teano
Salzano riunì i suoi luogotenenti in consiglio, dove, quasi all'unanimità, si decise di abbandonare Teano, considerata una posizione debole, per schierarsi più a nord fra Cascano e Sessa.
Il 25 ottobre Garibaldi attraversò il Volturno con 5000 uomini che, passando per Bellona e Vitulazio, dove Bixio si ruppe una gamba cadendo da cavallo, si accamparono la sera a Caianello.
Da Venafro giungevano in quella località i piemontesi, al diretto comando di Vittorio Emanuele che, col suo seguito, incontrò Garibaldi il 26 ottobre al quadrivio di Taverna di Catena, tra Caianello e Vairano, dove quest'ultimo salutò il Sovrano al grido di "Viva il Re d'Italia". Poi si diressero a Teano, dove il Re fece intendere che il ruolo militare dei garibaldini era finito e che l'inseguimento delle truppe borboniche sarebbe stato còmpito del contingente piemontese da affidare al gen. Manfredo Fanti, acerrimo nemico di Garibaldi.
Quest'ultimo, con la sua solita umiltà, non tentennò a mettersi da parte, ma fece una richiesta al Re per favorire le sue camicie rosse che, al prezzo di tanto sangue, avevano consegnato quasi l'intero Regno delle Due Sicilie alla dinastia dei Savoia: l'integrazione dei garibaldini nel nuovo Esercito Italiano che stava per nascere. Vittorio Emanuele rispose evasivamente, dimostrando una grande e inopportuna ingratitudine. Così soldati valorosi e quadri di esperimentata efficacia vennero dispersi per la meschina miopìa dei capi dell'esercito piemontese che non intendevano "contaminare" il loro strumento militare con truppe irregolari formate da molti uomini di idee repubblicane. Solo nel 1862, dopo furiose polemiche, sarebbero stati ammessi nell'Esercito Italiano 1854 ufficiali garibaldini, fra i quali Bixio, Carini, Orsini, Sìrtori, Turr, Médici e Cosenz.

Il combattimento di Sessa
Mentre i napoletani erano in fase di ritirata verso il Garigliano, Cialdini tentò di agganciarli nel pomeriggio del 26 ottobre, investendo l'ala sinistra nemica nel villaggio di S. Giuliano, fra Teano e Sessa. Qui erano schierate la 3^ div. del brig. Antonio Echanitz (nato a Nicosia nel 1809) e la brigata del col. Giovanni D'Orgemont, appoggiate dall'artiglieria del neopromosso gen. Negri schierata a Cascano. Dopo essere entrati in contatto con le truppe di Cialdini, circa 10000 uomini, Echanitz e D'Orgemont furono rinforzati dalla brg Polizzy e da quella estera del col. Mortillet che assaltarono lo schieramento nemico di fronte e di fianco, facendolo retrocedere.
A questo punto, non sfruttando il momento favorevole, Salzano fece ritirare le sue truppe dietro il Garigliano, dove le schierò a difesa del fiume. A coprire la ritirata ci pensò la btr n° 10 del cap. Francesco Tabacchi che da Cascano diresse il tiro contro i piemontesi che tentavano di agganciare la retroguardia napoletana.
Lo scontro passò alla storia come combattimento di Sessa, dove i napoletani ebbero una ventina di morti e lo stesso numero di feriti, i piemontesi perdite più gravi.

L'assedio di Capua
Nello stesso tempo incominciava l'assedio di Capua, dove era stato inviato a dirigere le operazioni il gen. Enrico Morozzo della Rocca con una parte del V corpo d'armata, circa 6000 uomini, da affiancare ai 12000 garibaldini già in posizione di fronte alla piazzaforte. Garibaldi, per non creare problemi diplomatici, se ne andò a Napoli a svolgere il suo ruolo di dittatore, lasciando il comando a Sìrtori, il quale avrebbe preso ordini da della Rocca. Quest'ultimo poteva contare su un'ottima artiglieria rigata di grosso calibro e sui lavori del genio diretti dal gen. Luigi Federico Menabréa.
Dopo la nomina di Salzano a comandante generale dell'esercito, al comando della fortezza di Capua era stato posto il neopromosso mar. Raffaele De Corné, suo vice, che poteva contare su 8000 fanti (2° btg gendarmeria, rgt di linea 9° e 10°, più i resti del 2°, 4° e 8°) , su 500 artiglieri appartenenti ad un btg del rgt Regina (l'altro btg si era ritirato a Gaeta) ed alla btr n° 2, sul 1° btg del rgt carabinieri a cavallo, sul 2° squadrone di gendarmeria a cavallo, sul btg zappatori-minatori, sulla 2° direzione del genio, più i reparti servizi, per un totale di circa 10000 uomini. In batteria, oltre a quattro pezzi da campagna, c'erano 240 vecchi cannoni ad anima liscia, con gittata molto più corta di quelli piemontesi. Malgrado la numerosa guarnigione, la fortezza aveva numerosi punti deboli: modestia delle difese esterne; scarse riserve di polvere; vicinanza delle abitazioni civili; vetustà dell'artiglieria.
Il comandante della guarnigione, mar. De Corné, nato a Napoli nel 1796, era un valoroso ufficiale del genio, veterano dell'esercito borbonico siciliano, col quale aveva partecipato alle campagne d'Italia del 1814-15 contro gli eserciti del viceré Eugenio e del re Gioacchino Murat. Nel settembre del 1860 si era guadagnata la croce di ufficiale di S. Giorgio per lo zelo e l'operosità con cui aveva collaborato col comandante di piazza mar. Salzano.

Il 28 ottobre della Rocca inviò un'intimazione di resa a De Corné, il quale, dopo aver tenuto consiglio con i suoi luogotenenti, decise per la resistenza.
Nei giorni 28, 29 e 30 i napoletani tentarono tre sortite con il 1° btg carabinieri a cavallo e il 2° squadrone di gendarmeria verso S. Angelo, senza raggiungere, però, risultati significativi.
Il 1° novembre 27 grossi calibri piemontesi cominciarono il fuoco verso Capua. Sparavano da circa tremila metri, protetti da terrapieni e spalleggiamenti, divisi in sei batterie poste in ambedue le sponde del Volturno. L'abitato di Capua, avvolto dal fumo e dalle fiamme, divenne un inferno, provocando paura e disperazione tra i 12000 abitanti. Così il sindaco e l'arcivescovo Cosenza implorarono il gen. De Corné di far cessare questo massacro di civili con la resa. Riunito un nuovo consiglio militare, considerato che i loro vecchi cannoni non riuscivano a contrastare efficacemente il tiro nemico, gli ufficiali si pronunciarono quasi tutti per la resa.
La mattina del 2 novembre De Corné fece alzare la bandiera bianca, inviando un parlamentare a della Rocca per chiedergli l'autorizzazione a mandare una richiesta di resa a Francesco II. Della Rocca rifiutò, chiedendo una resa immediata e ricominciando a bombardare. Nel pomeriggio De Corné firmò la capitolazione. I 10000 napoletani, usciti dalla fortezza con l'onore delle armi, furono inviati in prigionia a Genova.

Il combattimento del Garigliano. Intanto sul Garigliano i napoletani preparavano le difese, scavando trincee, allestendo le postazioni di artiglieria e distruggendo tutti i ponti e i traghetti del Garigliano e del Liri fino a Pontecorvo, in modo da prevenire aggiramenti da est. La chiave della posizione era il ponte ferrato di Minturno, a due chilometri dalla foce, a cui fu tolta la pavimentazione. Il fianco destro dello schieramento napoletano era protetto dalla flotta francese dell'ammiraglio Barbier de Tinan, che teneva lontana la squadra navale di Persano.
Il 27 ottobre Francesco II, accompagnato da Salzano, passò in rassegna la truppa, incoraggiandola alla resistenza. Il Re fu accolto con entusiasmo dai soldati, i quali possedevano ancora molto spirito combattivo. Sul fiume furono schierati il 2° (mag. Castellano), il 3° (mag. Paterna) e il 4° btg cacciatori (mag. Barbera), le quattro cmp scelte del 3° rgt di linea (t. col. Cortada), tre squadroni di lancieri ed uno del 1° rgt ùssari, le btr n° 1, 3, 4 e 6 con trentadue cannoni, più i resti del 14° rgt di linea (col. Zattara) in riserva. Tutto lo schieramento era al comando del mar. Filippo Colonna, valoroso veterano murattiano sessantunenne, discendente da una nobile ed antichissima famiglia romana; appena sedicenne aveva partecipato alla campagna d'Italia del 1815 come sottotenente dei cavalleggeri della guardia; nel 1849 aveva partecipato alla spedizione nello Stato Pontificio, combattendo a Velletri alla testa di un reparto di lancieri e meritandosi le decorazioni ricevute dal Papa, dalla Regina di Spagna, da Napoleone III e dal Granduca di Toscana; nella primavera del 1860, al comando di una brigata, aveva partecipato ai combattimenti nella zona di Palermo; in estate era stato messo al comando della 1 colonnello e il comando del 1° rgt dragoni per merito del primo ministro Filangieri che lo stimava molto.
L'attacco piemontese si sviluppò la mattina del 29 ottobre, quando tre forti colonne di fanteria, protette da cinque squadroni di cavalleria, avanzarono dalla pianura a sud del Garigliano. Nella testa di ponte a sud del fiume c'erano ad attenderli i cacciatori del 2° btg, micidiali tiratori con le loro moderne carabine rigate, i quali, per più di un'ora, riuscirono a contenere valorosamente l'attacco nemico; poi, in ordine, si ritirarono a nord del ponte di Minturno, togliendo le ultime tavole della pavimentazione.
L'assalto al ponte fu portato dai bersaglieri che, con incredibile audacia ed abilità ginnica, tentarono l'attraversamento sulle nudi assi di ferro, sottoposti ad un fuoco infernale di fucileria e dell'artiglieria del gen. Negri. Tre volte attaccarono e tre volte furono respinti, anche grazie all'intervento del gen. Barbalonga che fece schierare la batteria n° 13 ed il 14° btg cacciatori sull'ala sinistra napoletana, in un'ansa del fiume che permetteva di colpire d'infilata gli attaccanti, i quali, sotto il fuoco incrociato, furono costretti a ritirarsi con gravi perdite, inseguiti dal 2° btg cacciatori che fece 40 prigionieri. Sul campo erano rimasti 80 bersaglieri e 11 napoletani, più varie decine di feriti. Fra i caduti c'era il migliore ufficiale dell'artiglieria borbonica, quel prode Matteo Negri passato in due mesi dal grado di maggiore a quello di generale per meriti di guerra.
Negri, nato a Palermo nel 1818, era stato un ufficiale di vivo ingegno, di cultura superiore e di preparazione tecnica non comune. Nella sua carriera si era distinto nella spedizione di Sicilia del 1849, durante la quale era stato gravemente ferito nell'attacco a Catania, venendo decorato con la croce di diritto di S. Giorgio e con la medaglia d'oro della campagna. Il 19 settembre 1860, durante la campagna del Volturno, aveva diretto con valore e perizia i cannoni di Capua, respingendo l'attacco dei garibaldini e guadagnandosi la promozione a colonnello. Appartenente allo stato maggiore del gen. Ritucci, durante la battaglia del 1° ottobre era stato presente dove più infuriavano i combattimenti, conducendo batterie sul campo, sostenendo i soldati, esortando i più demoralizzati; per il valore dimostrato, il Re lo aveva decorato con la croce di commendatore di S. Giorgio e promosso brigadiere. Durante la ritirata dal fronte del Volturno si era distinto nuovamente durante il combattimento di retroguardia di Cascano. Sul Garigliano aveva personalmente organizzato la collocazione delle batterie e diretto il tiro dei cannoni, fino a quando, durante un attacco dei piemontesi, si era appostato, in groppa al cavallo, dietro la btr n° 4 per incoraggiare gli artiglieri; qui era stato prima ferito al piede sinistro, poi, pochi minuti dopo, al ventre; era spirato al tramonto in una casina di campagna di Scauri. Fu, probabilmente, la figura di militare napoletano che più emerse nella campagna del 1860-61, per gli alti sentimenti di fedeltà, di onore e di spirito di sacrificio.
Il combattimento del Garigliano fu l'ultimo episodio incoraggiante per Francesco II, il quale emise un proclama e concesse una medaglia commemorativa della campagna di settembre e ottobre 1860.

La ritirata a Mola di Gaeta. Per Cialdini fu uno scacco bruciante, malgrado il grande valore dei bersaglieri. Indubbiamente il Garigliano, difeso da truppe agguerrite e protetto sul fianco dalla flotta francese, rappresentava un ostacolo durissimo. Il problema fu risolto dalla diplomazia. Su pressioni di Torino e di Londra, che si appellavano al non intervento, Napoleone III ordinò all'ammiraglio le Barbier de Tinan di fare arretrare la flotta, limitando la protezione alla sola Gaeta.
La notte fra il 1° e il 2 novembre la squadra navale di Persano avanzò verso la foce del Garigliano e cominciò il bombardamento, cogliendo di sorpresa le truppe napoletane e sconvolgendo i piani di Francesco II che contava sull'appoggio delle navi francesi per sostenere una lunga resistenza sul fiume. Proprio l'argomento delle navi era servito al Re per opporsi alla proposta di Salzano di portare l'esercito sulle montagne per intraprendere una guerra partigiana, come quella opposta all'invasore francese nel 1799 e nel 1806. Ora, sgomento da questa svolta, Francesco ordinò la ritirata la mattina del 2 novembre.
Le truppe borboniche si schierarono in gran parte a Mola di Gaeta (attuale Formia), lasciando in copertura sul ponte di Minturno due cmp del 6° btg cacciatori, al comando del valoroso capitano abruzzese Domenico Bozzelli. La sera la div. Granatieri di Sardegna del gen. de Sonnaz attraversò il fiume su un ponte di barche, agganciando e distruggendo le due cmp di cacciatori, le quali, con estremo valore, si sacrificarono fino all'ultimo uomo per ritardare l'avanzata del nemico e consentire una ritirata indisturbata ai propri commilitoni.
La stessa sera un consiglio di guerra composto dai generali Salzano, Ruggiero, Colonna, Sanchez de Luna, Polizzy, Bertolini e Barbalonga stabilì che, se attaccata da mare, Mola non sarebbe stata difesa, e le truppe si sarebbero ritirate verso Gaeta. Il Re e il ministro della guerra Ulloa, invece, propendevano per inviare l'esercito in Abruzzo, dove avrebbe goduto dell'appoggio attivo della popolazione, per poi operare da lì alle spalle dei piemontesi assedianti Gaeta. Alla fine si decise di inviare alcuni reparti a rinforzare la guarnigione di Gaeta, mentre il grosso si sarebbe ritirato verso Itri, poco all'interno dal golfo di Gaeta.

Il combattimento di Mola di Gaeta. Dopo un piccolo scambio di colpi tra le navi piemontesi e l'artiglieria napoletana, avvenuto il 2 novembre, Persano attaccò Mola la mattina del 4 novembre con 14 navi, distruggendo case e strade e provocando il pànico fra la popolazione, che cominciò a fuggire per rifugiarsi nelle grotte. I napoletani rispondevano con il fuoco di cinque cannoni piazzati sulla spiaggia, i quali, però, furono ridotti al silenzio uno dopo l'altro.
Verso le tre pomeridiane avanzarono i granatieri di Sardegna di de Sonnaz, con una colonna verso la collina di Marànola, alle spalle della cittadina, con l'altra colonna verso l'ingresso dell'abitato. Lì erano schierate la brg esteri, al comando del col. de Mortillet (von Mechel, stanco e malato, si era messo in ritiro), in prima linea e la brg Polizzy in seconda; dopo aver ricevuto l'ordine di ritirata, ripiegarono sotto l'infernale fuoco della flotta. La brg esteri, a contatto con i granatieri nemici, oppose scarsa resistenza e, poi, si sbandò. Nella ritirata la confusione fu enorme. Sotto lo scoppio delle granate fuggivano frammischiati nelle strette vie carri, ambulanze, artiglieria, fanti, nonché la popolazione civile che si portava dietro ogni tipo di oggetti e masserizie. Pigiati e urtandosi, si allontanavano dalla cittadina, fra urla, pianti e bestemmie. De Sonnaz non seppe approfittare dello sbandamento del nemico, avanzando con troppa prudenza, quando aveva di fronte ormai solo alcune compagnie del 10° btg cacciatori, al comando del cap. Ferdinando De Filippis, e gli svizzeri della batteria n° 15, costituenti la retroguardia napoletana, i quali opposero una tenace, anche se breve, resistenza, per poi ritirarsi. Fra i caduti del combattimento ci fu lo stesso comandante della batteria, il cap. Enrico Fevot.

Resa a Terracina
Una buona parte della truppa napoletana, oltre 17000 uomini al comando del mar. Giuseppe De Ruggiero (napoletano di 68 anni), comandante della cavalleria, si ritirarono a Terracina, in territorio pontificio, per la via di Itri e Fondi. Si trattava dei seguenti reparti: le 4 compagnie scelte del 3° rgt di linea (t. col. Cortada), resti del 14° rgt di linea (col. Zattara), 1° btg cacciatori (mag. Armenio), 5° btg cacciatori (mag. Musitani), 11° btg cacciatori (privo di comandante), 1° e 2° btg carabinieri leggieri esteri (col. De Mortillet), guide dello Stato Maggiore (cap. Capece Galeota), un btg del 1° rgt lancieri (mag. Pollio), un btg del 2° rgt lancieri (mag. Cessari), il 1° rgt dragoni (col. Della Guardia), un btg del 2° rgt dragoni (col. Antonio Russo), il 3° rgt dragoni (col. Rodolfo Russo). Francesco II trattò con il Papa e con il comandante del contingente francese di Roma, gen. Charles Marc Goyon, per fare rimanere di guarnigione nello Stato Pontificio i soldati napoletani. Nel frattempo giunse pure la flotta piemontese e il gen. de Sonnaz che tentò di convincere De Ruggiero ad arrendersi. Il 6 novembre, però, giunse la risposta di Goyon, il quale comunicò che i napoletani potevano trattenersi nello Stato Pontificio a condizione di deporre le armi. De Ruggiero accettò ed ordinò anche alla brg di Klitsche de la Grange di ritirarsi a Terracina per la resa, danneggiando enormemente la causa borbonica negli Abruzzi. I soldati furono inviati a Velletri, dove consegnarono le armi ai francesi, e lì congedati il 26 dicembre 1860. Francesco II pensò ad inviare alcuni ufficiali per salutare e ringraziare la truppa del loro servizio, nonché per consegnargli la liquidazione.

L'istmo di Montesecco
Oltre i circa 12000 uomini della guarnigione, davanti a Gaeta, nell'esiguo territorio dell'istmo di Montesecco, ne erano accampati altri 11000, appartenenti ai reparti che, non ubbidendo agli ordini, non si erano diretti su Itri, ma avevano cercato riparo nella piazzaforte, per continuare a combattere per il loro Re. Farli entrare nella fortezza avrebbe ridotto notevolmente le possibilità di resistenza, terminando in breve tempo i viveri. Così Salzano tentò di trattare la resa delle truppe accampate sull'istmo, proponendo di congedarle e farle tornare a casa. Ma il comandante piemontese, gen. Fanti, capendo che quegli uomini sarebbero stati una zavorra per gli assediati, rifiutò, proponendo, invece, delle generose condizioni per la resa di tutte le forze borboniche, Gaeta compresa. Dopo lunghe trattative, si giunse solo ad un accordo per lo scambio di prigionieri, che avrebbe dovuto svolgersi il 12 novembre.
Nel frattempo le truppe napoletane furono schierate a difesa dell'istmo di Montesecco: all'ala destra, nel borgo (bagnato dal mare del golfo di Gaeta), fu destinato il 15° btg cacciatori del t. col. Enrico Pianell (fratello dell'ex ministro della guerra); al centro, sui colli dei Cappuccini e del Lombone, il 14° e il 3° cacciatori; all'estrema sinistra, nei pressi della Torre Viola (bagnata dal mare di Terracina), quattro cmp del 3° btg carabinieri cacciatori esteri, al comando del cap. Johan Rhudolf Hess. In seconda linea furono schierati il 4° cacciatori nel Camposanto e il 6° dal Camposanto al colle Atratino. Nella piana di Montesecco, tra la seconda linea e la fortezza, c'erano accampati il 2°, il 7°, l'8°, il 9° e il 10° cacciatori. I cacciatori a cavallo erano frazionati in tutta la linea. Le batterie n° 11 e 13 entrarono a Gaeta, mentre la n° 10 fu divisa tra il colle dei Cappuccini e il Borgo, con due cannoni per posto.

Combattimenti sull'istmo
L'11 novembre vi furono delle importanti defezioni che addolorarono Francesco II: diede le dimissioni il comandante generale dell'esercito Salzano, oltre ai generali Colonna, Barbalonga e Polizzy (von Mechel si era già ritirato per motivi di salute). Al comando delle forze mobili fu, così, destinato il gen. Vincenzo Sanchez de Luna e capo del suo stato maggiore lo svizzero mag. Aloisio Migy.
La stessa sera i piemontesi attaccarono, tentando di espugnare l'importante posizione di colle Lombone. Dopo tenace resistenza, il 14° btg cacciatori si ritirò. Lo stesso Francesco II incaricò il cap. Sinibaldo Orlando per la riconquista. La mattina del 12 novembre, guidando all'assalto la metà del 14° cacciatori, Orlando riprese il colle, catturando anche 15 prigionieri. Per questa valorosa azione il capitano fu promosso maggiore sul campo dal Re in persona, che decorò anche otto ufficiali e sessanta tra sottufficiali e soldati del 14° cacciatori.
Dopo questo combattimento ebbe inizio la tregua per lo scambio di prigionieri, ma i piemontesi, malgrado ciò, alle 9 del mattino attaccarono il centro e la sinistra napoletani. Mentre in quella zona si combatteva, sulla destra il t. col. Pianell creò una falla sulla prima linea, consegnando il suo 15° btg cacciatori al nemico ed emulando il tradimento del suo fratello ministro; solo 8 ufficiali e 78 soldati riuscirono a fuggire verso Gaeta. Col fianco destro scoperto, il 3° btg cacciatori, attaccato da forze superiori, fu costretto ad abbandonare il colle dei Cappuccini, ritirandosi sul piano di Montesecco. Il gen. Sanchez de Luna, che guidava le riserve, ordinò al 3° di riprendere il colle, e questo lo riprese dopo aspri combattimenti; infine, però, circondato dal nemico, dovette abbandonare definitivamente la posizione, aprendosi un varco e ritirandosi sotto la fortezza. Tre compagnie del 3° rimasero prigioniere per lo scarso coraggio dell'aiutante maggiore del btg, il cap. Guglielmo Santacroce.
All'estrema sinistra, a Torre Viola, le quattro cmp estere furono attaccate da tre btg piemontesi. Non coperti dall'artiglieria dal gen. Rodrigo Afan de Rivera, i carabinieri esteri furono decimati. Su circa 400 uomini, solo 130 riuscirono a rientrare a Gaeta. Fra i prigionieri ci fu anche il loro comandante, cap. Hess.
Sanchez, intanto, riusciva a contenere i pressanti attacchi piemontesi sul Lombone con il 4°, il 10°, il 14° e quattro cmp del 2° btg cacciatori. Stessa situazione al Camposanto, dove reggevano i btg cacciatori 7°, 8° e 9°. Dopo circa nove ore di combattimenti i soldati napoletani, sfiniti e digiuni, furono autorizzati dal Sovrano a ritirarsi dentro le mura.
I combattimenti del 12 novembre erano costati ai borbonici 74 caduti (fra i quali 3 ufficiali) e 43 feriti (7 ufficiali), più oltre 1000 fra prigionieri e disertori. I piemontesi avevano conquistato tutte le posizioni esterne alla fortezza, dando inizio all'assedio. All'interno di Gaeta una troppo numerosa guarnigione, 1770 ufficiali e 19700 sottufficiali e soldati, si apprestavano a difendere l'ultimo baluardo del loro Re.

Liquidazione dell'Esercito Meridionale
Mentre tra il Garigliano e Gaeta si combatteva, a Napoli si verificava uno dei più gravi episodi di ingratitudine che la storia conosca: la liquidazione dell'Esercito Meridionale e del suo eroico e leale comandante, il gen. Giuseppe Garibaldi, anima ed esecutore di un'impresa ritenuta impossibile, come la conquista di un Regno con un pugno di uomini.
Il 6 novembre era in programma la più importante cerimonia per i garibaldini: il Re in persona avrebbe dovuto passare in rivista i reduci, schierati, fin dal mattino, nella spianata davanti al palazzo reale di Caserta. Dopo una lunga attesa giunse la notizia che Vittorio Emanuele II era stato trattenuto da altri impegni. Malgrado questa incredibile mancanza di riguardo, l'indomani Garibaldi accompagnò il Re a Napoli per l'ingresso solenne nella capitale del Regno.
L'8 novembre Garibaldi passò le consegne al nuovo luogotenente per i territori delle Due Sicilie, il suo acerrimo nemico Luigi Carlo Farini. Il 9, dopo aver rifiutato il collare dell'Annunziata (massima onorificenza sabauda), il grado di maresciallo ed una ricca pensione, Garibaldi si imbarcò mesto e deluso, ritirandosi nella sua povera dimora di Caprera.
Il 26 novembre il governo di Farini sciolse i reparti garibaldini, inviando tutti a casa con sei mesi di paga. Così furono messi da parte i protagonisti dell'epica impresa dei Mille, della conquista del Regno delle Due Sicilie, della caduta della dinastia borbonica di Napoli.


PROSEGUI CON "L'ASSEDIO DI GAETA" > >