ANNO 1866-1867

RICASOLI - QUESTIONE ROMANA - SICILIA ANARCHIA "7 GIORNI"
MISURE FINANZIARIE - IL "CORSO FORZOSO"
e le BANCHE dei "fratelli d'Italia" a "coorte"

ANARCHIA DEI SETTE GIORNI " IN SICILIA - RICASOLI E LA QUESTIONE ROMANA - LA MISSIONE TONELLO - IL DISCORSO DEL RE ALL' INAUGURAZIONE DELL'ULTIMA SESSIONE DELLA IX LEGISLATURA - I DISEGNI DI LEGGE SULLA "LIBERTÀ DELLA CHIESA" E SULLA "LIQUIDAZIONE DELL'ASSE ECCLESIASTICO" - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - RIMPASTO MINISTERIALE - DIMISSIONI DEL MINISTERO RICASOLI - MINISTERI RATTAZZI - PROVVEDIMENTI FINANZIARI - G. GARIBALDI E I RIVOLUZIONARI ROMANI - ARRESTO DI G. GARIBALDI A SINALUNGA - MENOTTI GARIBALDI NELLO STATO PONTIFICIO - VILLA GLORI - MOTI ROMANI - FUGA DI GARIBALDI DA CAPRERA
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DIMISSIONI DEL MINISTERO RICASOLI

Ricevuto il Veneto nel modo che abbiamo appena letto nel precedente capitolo, anche Roma, indirettamente, era destinata ad essere, per così dire, un "dono" di Bismarck all'Italia.
La questione romana non era facile risolverla come quella delle Venezie; né per il Re, né per Garibaldi. Anzi quest'ultimo, pur con un non compromettente appoggio morale e di denari del Re, dovette subire -come vedremo- l'umiliazione di farsi respingere da un manipolo di francesi.
In soccorso, inaspettatamente, e contro ogni previsione, nel '70 risolse la questione un'altra volta la Prussia, in pochi giorni, sbaragliando i Francesi a Sedan.

Torniamo agli ultimi giorni del '66. Dopo la sua visita a Venezia, con il Veneto che si era pronunciato nel Plebiscito nel voler essere "unito" all'Italia "sotto il governo monarchico" (come recita la lapide ricordo), il 15 dicembre il Re inaugurando la nuova sessione parlamentare, diede l'annuncio che
"L'Italia, la Patria è libera da ogni dominazione straniera……",
questo perché pochi giorni prima, l'11 dicembre il presidio francese aveva sgombrato Roma. Poi il re disse anche altro…..(il resto del discorso lo riprenderemo più avanti) e i francesi rioccuparono Roma.

RICASOLI E LA QUESTIONE ROMANA

Come quasi tutti gli italiani anche il Re pensava che il progetto di far diventare capitale Roma era una questione risolvibile in poco tempo. Con vivo piacere aveva visto RICASOLI riprendere le trattative con la Santa Sede, rimettendo alle loro sedi i vescovi che erano stati allontanati, acconsentendo ad assumere parte del debito pubblico delle ex province pontificie; e poiché lui era un fervido credente, cercava di separare il fatto politico da quello religioso. Ma era quest'ultimo in contrasto con l'andamento anticlericale dei suoi colleghi parlamentari (non solo di sinistra) che intervennero più volte, ma Ricasoli cercò di impedire ogni discussione creandosi inimicizie che da qualche tempo non erano poche. Ad approfittarne, per farlo cadere, tornò alla ribalta RATTAZZI.
Il carattere di Ricasoli lo abbiamo già accennato; era spigoloso, fiero, un uomo di prestigio, di alta dirittura morale, forse il migliore della Camera; ma non era un uomo politico.
Lo era invece Rattazzi, che non poco criticato pure lui (ricordiamoci il suo intervento contro Garibaldi), agiva però senza disgustare né i moderati, né quelli di sinistra, né i monarchici, e questo perché.…in modo quasi palese, aveva l'appoggio del Re, che in quanto ad ambiguità - pur di salvare il trono- era spesso in gara con lui. Sanguigno com'era il trono lo voleva difendere.

Vittorio Emanuele e con lui i grandi generali, nella campagna di guerra, con quel finale umiliante e le tante critiche subite (umiliazioni ricevute perfino dei suoi stessi generali che nella campagna "non lo volevano fra i piedi") avevano lasciato il segno. Finita l'"avventura" com'era finita, Mazzini aveva attaccato energicamente la monarchia per quella triste figura fatta a Vienna, ed erano brucianti quelle poche parole da lui pronunciate il 24 agosto
"Ma è mai possibile che l'Italia accetti di essere additata in Europa come la sola nazione che non sappia combattere, la sola che non possa ricevere il suo se non per beneficio d'armi straniere e concessioni umilianti dell'usurpatore nemico?".
Il Re ne era uscito stremato. Quindi pensava come potersi riscattare con la "questione romana" in una forma diplomatica, viste le buone relazioni mantenute con Napoleone III nonostante Mentana; un po' meno buone invece erano le relazioni con i suoi ministri.

La doccia fredda alle sue speranze di accomodamenti diplomatici arrivò quando Napoleone III, andò a creare per la difesa del Papa, la "Legione d'Antibo". Che non era più composta di volontari, ma da soldati francesi (a dirlo chiaro e tondo sarà il Generale Dumont, recatosi a Roma in giugno per ispezionare le truppe. L'imperatore intervenne assicurando che lui non aveva nessun incarico ufficiale, e che quelle affermazioni erano un atto impulsivo del generale; a smentirlo fu il generale MALARET che affermò che invece quella di Dumont era una missione ufficiale.

Inoltre, Napoleone, contemporaneamente all'invio dell'Antibo, inviò a Firenze il generale FLEURY per dire al Re che intendeva eseguire correttamente la Convenzione di settembre. Di rimando anche il Re affermava la stessa cosa, ligio alla convenzione, non avrebbe mai attaccato lo Stato Pontificio, e che lo avrebbe impedito a chiunque altro (leggi Garibaldi, che già fremeva, e stava già costituendo il "Comitato d'insurrezione" di Roma, e girando anche lui per il Veneto liberato, infiammava le popolazioni con discorsi sul tema "guerra ai preti, Roma o morte"). Ma le assicurazioni del re non convinsero i Francesi.

Per il Re, scemava quindi la possibilità di poter risolvere la questione romana pacificamente con la Francia, o con il Ricasoli dopo i suoi falliti approcci con la Santa Sede.
Si riaffacciavano i progetti della soluzione insurrezionale, così tanto cara a Garibaldi.
Quindi bisognava sbarazzarsi del "pacifista" Ricasoli e favorire Rattazzi se il Re voleva avere ampi consensi. Ma come fare a sbarazzarsi del primo.

Ad aggravare la situazione del governo Ricasoli furono le conseguenze postume dei fatti in Sicilia, che erano già esplosi in settembre, quando la diplomazia lavorava alla pace con l'Austria.
Veniamo appunto a questi fatti, poi riprenderemo l'inaugurazione del Parlamento del 15 gennaio 1867, e il discorso del Re.

L' " ANARCHIA DEI SETTE GIORNI " IN SICILIA

Il 16 settembre 1866, avveniva in Sicilia quella che fu definita "l'anarchia dei sette giorni" e che costituisce una pagina molto dolorosa, oltre che confusa, della storia del Risorgimento.
Il malcontento contro il governo Ricasoli, per le nuove leggi frettolosamente applicate nell'isola, per le offese alle tradizioni, per le repressioni severe, per le imposte gravose, per la coscrizione, per i prestiti forzosi, per la soppressione degli ordini religiosi, alimentato dal partito borbonico ma anche da tutti coloro i cui interessi erano stati danneggiati dal nuovo ordine di cose, fecero scoppiare in quel giorno l'insurrezione popolare.
Ma non era solo popolare e non aveva una precisa direzione politica; e anche se c'erano da una parte legittimisti borbonici aristocrazia e clero, e dall'altra repubblicani, mazziniani e socialisti, in entrambe c'erano contadini, popolino urbano, clero, borghesia e aristocratici. Virtualmente in questo caso tutti uniti e tutti esasperati dalle nuove leggi; del fisco in primo piano per i ricchi di tutte le fazioni; non in secondo piano quello della coscrizione per i contadini che vedevano portarsi via le migliori braccia dalle famiglie; ed esasperato era pure quello clericale tutto schierato in entrambe le due fazioni contro i piemontesi chiamati i "senza Dio" (a soffiare sul fuoco il clero non badava a una o all'altra fazione, il disprezzo era incitato ad entrambe..

La prima miccia fu che numerose bande armate calarono dai monti e, dopo avere occupato Monreale, entrarono a Palermo diventandone i padroni. Il popolaccio sobillato fece causa comune con una parte e anche con l'altra, la guardia nazionale consegnò le armi, i nobili si misero sotto la protezione delle squadre, che saccheggiarono istituti e palazzi, mentre le truppe regie e le autorità (questa volta sabaude) restavano chiuse nei forti e nelle caserme, non osando correre in aiuto di quei carabinieri e soldati, che, caduti nelle mani degli insorti, furono trucidati senza pietà.
Nelle strade si mescolarono grida di "viva la Repubblica", "viva santa Rosalia", viva Francesco II", "Sicilia libera, indipendente", viva il Papa", viva Garibaldi", viva Mazzini" ecc. ecc.
Il 19 settembre alcune navi regie arrivate da Taranto sbarcarono alcuni battaglioni e pezzi d'artiglieria, il 20 giunse la divisione "Angioletti" e il 22 la divisione "Longoni" con il generale RAFFAELE CADORNA, regio commissario per la Sicilia con pieni poteri, e la rivolta, che costò una ventina di morti e duecentosessanta feriti alle truppe nei disordini, fu completamente domata con la fucilazione di quanti furono presi con le armi in mano.

LA MISSIONE TONELLO

La guerra con l'Austria mal condotta, l'insurrezione palermitana e la pace poco dignitosa aggravarono le condizioni del ministero Ricasoli, ostacolato da gravi difficoltà, fra cui quelle che derivavano dai suoi buoni rapporti con la Chiesa.
Intenso - lo abbiamo già detto sopra oltre che nelle pagine precedenti- era il desiderio del RICASOLI di risolvere il problema romano e pensava di riuscirvi dando la maggior libertà possibile alla Chiesa, conciliando la Chiesa con lo Stato e inducendo il Pontefice a rinunziare al dominio temporale; e poiché, nel novembre '66, PIO IX, parlando con Lord CLARENDON e con GLADSTONE, aveva dichiarato che sarebbe stato lieto di riprendere le trattative rimaste interrotte l'anno avanti sulle sedi vescovili vacanti, Ricasoli mandò a Roma l'ex-deputato MICHELANGELO TONELLO con l'incarico di giungere ad un accordo con la Curia riguardo alle sedi vescovili; di trattare le altre questioni ecclesiastiche e di cogliere l'occasione per convincere il Pontefice dei benefici spirituali che gli avrebbe fatto conseguire la rinunzia al potere temporale. Che era il problema più spinoso da trattare, che anzi il Papato non voleva nemmeno iniziare a discutere.

TONELLO si trovava da cinque giorni a Roma, quando il 15 dicembre del 1866, s'inaugurò l'ultima sessione della IX Legislatura con il discorso di Vittorio Emanuele, in cui si accennava vagamente alle trattative tra il governo e la Santa Sede e ad un programma politico basato sull'indipendenza del Papa.
"Il governo francese - diceva il re -fedele agli obblighi assunti con la convenzione di settembre '64, ha già ritirato le sue milizie da Roma. Dal canto suo il governo italiano mantenendo gli impegni presi, ha rispettato e rispetterà il territorio pontificio. La buona intelligenza con l'imperatore dei Francesi, al quale ci legano vincoli di amicizia e di gratitudine, la temperanza dei Romani, la sapienza del Pontefice, il sentimento religioso e il retto giudizio del popolo italiano aiuteranno a distinguere e conciliare gli interessi cattolici e le aspirazioni nazionali, che si confondono e si agitano a Roma. Ossequioso alla religione dei nostri maggiori, ma lo è pure la massima parte degli Italiani, io rendo omaggio in pari tempo al principio di libertà, che informa le nostre istituzioni e che applicato con sincerità e con larghezza, gioverà a rimuovere le cagioni delle vecchie differenze fra la Chiesa e lo Stato. Questi nuovi provvedimenti, rassicurando le coscienze cattoliche, faranno, io spero, esaudito il mio voto che il Sommo Pontefice continui a rimanere indipendente in Roma".

I DISEGNI DI LEGGE SULLA "LIBERTA DELLA CHIESA"
E SULLA "LIQUIDAZIONE DELL'ASSE ECCLESIASTICO"
IL "CORSO FORZOSO" DELLA LIRA

TONELLO soggiornò a Roma dal 10 dicembre del 1866 al 31 marzo del 1867 e, ben visto dal Pontefice e dalla Curia, riuscì a stipulare accordi intorno ad alcune questioni, come quelle delle sedi vescovili vacanti, delle dogane, dei passaporti e delle poste. Mentre -lo abbiamo già detto- sul potere temporale, nemmeno iniziare l'argomento.

Ma mentre durava la "missione Tonello", il ministero senza aspettarsi novità da Tonello, preparava una legge che regolava le condizioni morali ed economiche della Chiesa nello Stato e il 17 gennaio del 1867 i ministri di Grazia e Giustizia a Firenze presentavano un disegno di legge composto di due titoli, il primo relativo alla "libertà della Chiesa", il secondo alla "liquidazione dell'asse ecclesiastico". Con il primo titolo lo Stato rinunciava ad ogni ingerenza nell'esercizio del culto, al giuramento dei vescovi, all'"exequatur" e in generale a tutte le prerogative che il Regno d' Italia possedeva in materia ecclesiastica; con il secondo la Chiesa liquidava i beni ecclesiastici, compreso quello delle soppresse corporazioni religiose e pagava allo Stato e ai comuni un terzo del ricavato.

Ricorrere al patrimonio degli enti ecclesiastici fu la principale delle forme straordinarie con cui i governi del Regno d'Italia spesso tentarono di fronteggiare le esigenze della finanza. Un primo passo in questa direzione -lo abbiamo già letto- era stata la soppressione degli enti religiosi: il patrimonio dei loro beni stabili e mobili fruttava annualmente circa 15 milioni e ne poteva valere quasi 300. Il governo si risolse a prendere in considerazione, che non poteva privarsi di quei mezzi che poteva invece fornirgli la vendita di quei beni.

Già con la legge del 21/8/1862 il governo ordinava il passaggio al demanio dei beni immobili e la vendita dei medesimi, assieme ai beni urbani e rurali dello Stato che non erano destinati ad uso pubblico o richiesti per il pubblico servizio (norme approvate nello stesso anno).
Poi venne l'urgenza finanziaria, quindi l'alienazione aveva più che un intento sociale un fine economico; e le ragioni che lo giustificavano furono queste:

"Quei beni che nelle mani dello Stato o degli Enti morali sarebbero rimasti incolti o malcoltivati, sarebbero stati migliorati e avrebbero dato maggior frutto se affidati al privato interesse facilitando i modi di acquisto, grazie al frazionamento e all'allungamento dei termini del pagamento, e anche i coltivatori di quelle terre potevano concorrere alle aste, ottenendo così di ripartire più equamente la ricchezza sociale.

Il risultato finanziario e commerciale delle operazioni è riassunto in questa tabella:

 

  Beni esposti all'asta Beni venduti
anno lotti prezzo d'asta lotti prezzo d'asta aggiudicazione
1867 13.327 67,2 7.073 41,8 57,3
1868 34.663 161,1 25.888 122,3 162,5
1869 11.794 40,2 9.717 40,9 51,4
1870 10.327 31,2 8149 34,0 40,5

(*) Prezzi in milioni di lire.

( Per la tabella, un grazie agli ALLIEVI ISTITUTO 
  COMM.LE  "JACOPO RICCATI" - di TREVISO )
e grazie al Prof.Giovanni Tozzi

Il ministro SCIALOIA intendeva ricavare dalla liquidazione del patrimonio ecclesiastico seicento milioni, i quali, secondo una convenzione stipulata con il banchiere belga LAGRAND-DUMONCEAU, dovevano essere riscossi dal suddetto banchiere che, tenendo per sé sessanta milioni, avrebbe poi pagato allo Stato il rimanente in rate semestrali di cinquanta milioni.
Il disegno di legge incontrò la più viva opposizione tanto nel paese quanto nella Camera e, dato che - soprattutto in Veneto- l'agitazione era diffusa e altre erano in programma, RICASOLI telegrafò ai prefetti ordinando di impedire pubblici comizi dove si volevano discutere i problemi sottoposti al giudizio del Parlamento.

L' 11 febbraio 1867 gli onorevoli CAIROLI, DE BONI e LA PORTA presentarono interpellanza su quest'illiberale proibizione e l'on. MANCINI presentò un ordine del giorno, invitando il ministero a "far cessare gli impedimenti che si oppongono all'esercizio del diritto di riunione dei cittadini, affinché, non trascendono in offesa alle leggi o in colpevoli disordini"; ordine del giorno che, messo ai voti, ne raccolse 336 favorevoli e 104 contrari. Il governo è insomma battuto.

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Dobbiamo qui ricordare anche il sistema bancario creato subito
dopo l'avvenuta unione; i piemontesi misero le mani nelle banche degli Stati appena conquistati. Naturalmente la Banca Nazionale degli Stati Sardi divenne, dopo qualche tempo, la Banca d'Italia.
Avvenuta l'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d'oro per trasformarle in carta moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo il Banco delle Due Sicilie (possedendo un notevole deposito d'oro) avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e sarebbero potuti diventare padroni di tutto il mercato finanziario italiano.
Quell'oro piano piano passò nelle casse piemontesi. Tuttavia, nonostante tutto quell'oro rastrellato al Sud, la nuova Banca  risultò non avere parte di quell'oro nella sua riserva. Evidentemente aveva preso altre vie, che erano quelle del finanziamento per la costituzione di imprese al nord operato da banche, subito costituite per l'occasione, che erano socie (!) della "Banca d'Italia"(Sarda): Credito mobiliare di Torino, Banco sconto di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.
Una cinquina che favorì a molti per fare tombola 

Su tutto il territorio nazionale le banconote circolanti erano state emesse dai seguenti istituti: Banca Nazionale del Regno d'Italia, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banca Romana.
Tutte le banconote emesse da questi istituti avevano corso legale. Ma giá dal 1 maggio del 1866 con una decisione del governo le banconote furono fatte circolare in "corso forzoso". Quale il motivo principale di questo provvedimento? Le operazioni belliche del 1859 e del 1866 avevano comportato eccezionali spese per l'intraprendente Re di Sardegna (1859) e per il novello Re d'Italia (1866). Che erano poi la stessa persona, S.M. Vittorio Emanuele II di Savoia. E poiché far debiti é una bella cosa, ma poi bisogna anche pagarli, la quadratura del cerchio si chiamava appunto "corso forzoso" (Sospensione della convertibilità di una moneta cartacea in moneta metallica- normalmente in oro -e appunto per questo motivo viene chiamato anche gold standard - e in quanto tale, fa in genere perdere valore (svalutazione) alla moneta rispetto alle altre rimaste convertibili in oro).

Qui ricordimao che la LIRA italiana (a parte la libra (come nome da questa proviene) di Carlo Magno del 793-794) era stata coniata per la prima volta nel 1806 nel Regno Italico Napoleonico (chiamata appunto per questo anche "napoleone": 5 g. d'oro)
Quella ufficiale dell'Italia Unita nacque il 24 agosto del 1862 (divisa in 100 centesimi).
Aveva un valore pari a 4,5 g. di argento e 0,2903225 g. d'oro.
Prima dell'Unità nei vari Stati di monete ne circolavano di 9 tipi.

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Il Corso Forzoso fu concesso in contropartita ai finanziamenti che lo Stato aveva avuto dalla Banca Nazionale del Regno, ma esteso ovviamente agli altri istituti bancari (provvedimento questo inevitabile: in caso contrario infatti le banconote degli altri istituti avrebbero soppiantato quelle della Banca Nazionale del Regno).  Se riflettiamo però sugli effetti pratici del corso forzoso, ossia sull'attribuzione "ope legis" di valore a un pezzo di carta (la banconota), noteremo come il corso forzoso si traduca, nella pratica, in un prestito obbligatorio, oltretutto senza interessi, imposto ai cittadini. Si traduce cioè nel trasferire sulle tasche dei cittadini il debito contratto dallo Stato con la Banca.  Questa sa che può stampare banconote senza che ne venga chiesta la conversione in oro, e quelli devono accettare le banconote che, per loro natura, conoscono però un fenomeno sconosciuto invece all'oro: la svalutazione, ossia la perdita del "potere di acquisto". E' vero che la legge (cioè quella banca che le emette) mi impone di credere che cento lire siano sempre cento lire, ma é altrettanto vero che l'ortolano, il salumiere, il panettiere (che sono poi da sempre i problemi del vivere quotidiano) mi danno, giorno per giorno, qualcosina in meno a fronte di quelle cento lire, perché a loro volta nutrono poca fiducia in un mero pezzo di carta, anche se la legge autorizza una banca ad emetterlo senza dar nulla in cambio.

L'imposizione del corso forzoso della lira ingenerò quindi a partire da quest'anno 1866, i primi fenomeni di inflazione, per usare un termine oggi fin troppo conosciuto. 
Alla fine del 1866 il "circolante" ammontava a lire 650 milioni. Ma il vero problema ingenerato dal corso forzoso non era tanto quello dell'inflazione indotta, quanto il fatto che, essendo all'epoca le banche di emissione delle semplici società per azioni, ossia organi di diritto privato, si dava il là ad una autonomia bancaria sfrenata, si creavano cioè dei soggetti privati investiti della facoltá di "creare ricchezza". E questi soggetti potevano essere (come del resto erano) portatori di interessi particolari (industriali, commercianti, latifondisti ecc.). Se é vero che il periodo del corso forzoso favorì una forte crescita industriale, perché permise un allargamento del credito, indispensabile in una nazione agricola che muoveva i primi passi verso una struttura più moderna, é altrettanto vero che questa espansione (basata su una presunzione di sviluppo e non su solide garanzie già esistenti) rischiava di diventare una bomba a scoppio ritardato ( questo scoppio avvenne nel 1881, ripristinando la convertibilità. Poi di nuovo abbandonata nel 1893, perchè il male inflazionistico era diventato incurabile, soprattutto per altri motivi.
Già nel 1874 era stato costituito il Consorzio Obbligatorio degli istituti di emissione. Le sei banche autorizzate all'emissione venivano sottoposte ad una regolamentazione , e per ciascuna di esse veniva fissato l'importo massimo di banconote che potevano essere emesse. Le banche mantennero la loro struttura di società di diritto privato, anche se era riconosciuta al Ministro dell'Industria e del Commercio la facoltá di controllo e ispezione. Controllo che non ci fu, o ci fu, ma dopo che "i buoi erano scappati dalla stalla"
Cioè a qualcuno gli venne il pensierino (diciamo solo per un attimo) di non fermare le macchine che stampavano banconote e quelle continuavano a stampare, stampare, stampare.
Ma ne riparleremo a suo tempo.

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DIMISSIONI DEL MINISTERO RICASOLI - RIMPASTO
CADUTA GOVERNO E NUOVE ELEZIONI

Torniamo a RICASOLI che l'11 febbraio con il suo governo battuto, presentò le dimissioni, ma il Re, gli affidò nuovamente la formazione di un nuovo governo, costituito poi il 17 febbraio 1867.
Ritiratisi BORGATTI, SCIALOIA, BERTI, JACINI, furono chiamati all'Istruzione CORRENTI, ai Lavori Pubblici DE VINCENZI, alla marina BIANCHERI, alle Finanze DEPRETIS, agli Esteri EMILIO VISCONTI VENOSTA, alla Guerra il generale EFISIO CUGIA. L' interim del ministero di Grazia e Giustizia fu assunto da RICASOLI, che poi cedette il portafoglio a CORDOVA (già con il dicastero dell'Agricoltura, Industria e Commercio).

Il Re sapeva benissimo che sarebbe stato nuovamente battuto e, infatti, questo accadde, così sciolse la Camera e convocò i comizi elettorali per nuove elezioni il 10 marzo 1867.

Le elezioni, preparate dagli oppositori con molta energia e con carattere prettamente anticlericale, non diedero invece molto concorso alle urne e il ministero conseguì una scarsa maggioranza 279 seggi rispetto ai precedenti 250
Su 498.208 iscritti, votarono 258.243 elettori.
(un 51,8% rispetto al 57,2% e 54,8, e 57,2 delle prime e seconde elezioni)

La nuova Legislatura fu inaugurata il 22 marzo del 1867 dal Re il quale, fra le altre cose, affermò che "l'Italia richiedeva che nelle intemperanze e nelle gare non si disperdesse la vigoria delle menti e degli animi".
ADRIANO MARI, eletto presidente con 195 voti contro il CRISPI che ne ottenne 142, esortò i deputati a deporre ogni competizione per rimettere in sesto le Finanze e allontanare il pericolo della bancarotta.
RICASOLI prima di lasciare, propose al sovrano un nuovo rimpasto ministeriale con DEPRETIS al ministero dell'Interno, SELLA a quello delle Finanze e DUCHOQUÈ a quello di Grazia e Giustizia, ma VITTORIO EMANUELE non accettò la proposta e il 4 aprile il RICASOLI presentò le definitive dimissioni.
Dopo di allora, il Barone Ricasoli, che pure (a suo modo) era stato uno dei protagonisti della formazione dello Stato unitario, non esercitò più una funzione di rilievo nella vita politica italiana nei successivi 13 anni; cioè fino al 1880, quando si spense a 71 anni nel suo castello di Brolio a Siena.

MINISTERO MENABREA
INTERVENTO ITALIANO E FRANCESE NELLO STATO PONTIFICIO

Dopo le elezioni, il Re rifiutata la proposta di Ricasoli, l'incarico di formare il nuovo ministero fu dato al senatore generale FEDERICO MENABREA, che l'8 aprile rinunciò. Il Re allora incaricò il RATTAZZI, che lo costituì il 10 aprile tenendosi la presidenza e gli Interni e affidando gli Esteri al conte POMPEO di CAMPELLO, la Guerra al generale GENOVA DI REVEL, l'Agricoltura, Industria e Commercio a FRANCESCO DE BLASIIS, i Lavori Pubblici al senatore ANTONIO GIOVANOLA, le Finanze a FRANCESCO FERRARA, la Grazia e Giustizia al senatore SEBASTIANO TECCHIO, la Pubblica Istruzione a MICHELE COPPINO e la Marina al generale FEDERICO PESCETTO.

Il 15 aprile 1867 la Camera approvò il trattato del 3 ottobre 1866 e il 9 maggio il ministro FERRARA fece l'esposizione finanziaria, dichiarando che il disavanzo di cassa dell'esercizio precedente, ammontava a 137 milioni, che il disavanzo dell'anno in corso era di 240 milioni, e che alla fine del 1866 si sarebbe avuto un deficit di 400 milioni e propose un'operazione sull'asse ecclesiastico per rimborsare la Banca Nazionale e togliere il corso forzoso.
Propose inoltre, per assicurar l'avvenire, 30 milioni in economie, la cessione dei tabacchi e delle dogane ad una regia cointeressata, del dazio consumo ai comuni e alle province, il miglioramento dell'imposta di ricchezza mobile e infine la tassa sul macinato.
Avendo la giunta di bilancio disapprovato il disegno del Ferrara, questi diede le dimissioni e il RATTAZZI assunse anche l'interim delle Finanze.
(riprenderemo più avanti gli altri fatti)

GARIBALDI SI MUOVE CON I COMITATI ROMANI

Proprio negli stessi giorni, GIUSEPPE GARIBALDI, che durante il periodo elettorale era stato instancabile nella propaganda per sostenere i candidati dell'opposizione, passava dalla Lombardia alla Toscana e prendeva dimora a Castelletto, presso Firenze, nella villa del deputato CATTANI-CAVALCANTI.
Roma era in cima ai suoi pensieri; il Comitato rivoluzionario romano, il Centro d'Insurrezione, in un proclama del 1° di aprile lo avevano invitato a marciare sulla capitale. E lui si era messo all'opera con grande entusiasmo, fondando un "Centro d'emigrazione", che doveva fare il censimento degli idonei alle armi, raccogliere l'"Obolo della Libertà", preparare una spedizione nello Stato pontificio.
Nella prima settimana di giugno due inviati del Comitato Nazionale Romano si presentavano al generale, dicendosi pronti in nome dei loro mandanti ad accordarsi con il "Centro d'insurrezione" e desiderosi d'intendersi con il generale riguardo al programma d'azione.
Garibaldi, impaziente d'agire, considerando un fatto compiuto la fusione dei due comitati romani, mandò - così- narra il Guerzoni - "ai due comitati di Terni, il "Nazionale" e l'"Insurrezionale", certi GALLIANO e PERELLI con il mandato di prendervi alcune centinaia di fucili che sapeva nascosti in quella città fin dai giorni dell'Aspromonte; armare con questi quanti giovani o fuorusciti romani si potessero riunire, e fatta l'irruzione nello Stato pontificio, gettarvi la prima favilla dell'incendio rivoluzionario.
Per quanto precipitosa poteva sembrare questa risoluzione, nessuno pensò ad un'opposizione qualsiasi o a temporeggiare: appena due giorni dopo, il 19 giugno, PERELLI e GALLIANO, raccoltisi con altri 104 giovani nel convento di San Martino con NERA, traghettati sopra la barca di un certo FRATTINI, acceso patriota e vecchio cospiratore e ricevute là le armi, si incamminarono decisi verso la Sabina. Ma quando erano quasi sul punto di sconfinare, nei pressi di Ponte Catino e Castelnuovo, un plotone del 7° Granatieri, imboscato da più giorni nella macchia, circondò in un lampo la colonna e, fatta una scarica di fucileria per intimorirli, intimò a tutti la resa". (Guerzoni)

L'insuccesso della Sabina non scoraggiò però il generale. "A Roma ci si andrà comunque, - diceva ai suoi amici di Monsummano, dove si era recato per curare l'artrite - e se hanno impedito a quei duecento valorosi di entrarvi, i duecento diventeranno domani duemila, e dopo domani ventimila".
Mentre il "Comitato Nazionale Romano" e il "Centro d'insurrezione" si fondevano in un'unica "Giunta nazionale romana", il Generale si trasferiva a Vinci, nella villa del conte MASETTI, e qui pubblicava un manifesto in cui esponeva le sue idee sulla questione romana: convocava gli amici più fidati, mandava a Roma FRANCESCO CUCCHI per prepararvi la rivolta, spediva il figlio MENOTTI nel Mezzogiorno per trovare sostenitori all'impresa, incaricava GIOVANNI ACERBI di raccogliere armi e volontari al confine umbro-toscano e a Siena al garibaldino GIUSEPPE STOCCHI diceva: "Alla rinfrescata muoveremo".

Ai primi di settembre GARIBALDI si recò a Ginevra, dove si era riunito il "Congresso generale per la pace" e vi pronunziò un discorso in cui sosteneva essere inutile parlare di pace se prima non si abbatteva il dominio temporale dei Papi.
Tornato da Ginevra, a Genestrello, dov'era ospite del PALLAVICINO, lanciò il 16 settembre un manifesto che terminava invitando i Romani "a spezzare i ferri sulle cocolle degli oppressori" (le "cocolle" sono i cappucci che portano i frati - Ndr.) quindi partì per Firenze, e qui deciso a rompere gli indugi, dalla città toscana, la mattina del 23 settembre, dopo avere arringato i Fiorentini, fingendo di andare a Perugia, si mise in viaggio alla volta di Arezzo e andò a pernottare a Sinalunga.

L'ARRESTO DI GARIBALDI A SINALUNGA

Garibaldi era appena andato a riposare in casa AGNOLUCCI che una compagnia di soldati e carabinieri regi, inviati da RATTAZZI e giunti da Orvieto, invadeva il paese, circondava la casa dove dormiva il generale, lo mise in arresto, conducendolo poi alla fortezza di Alessandria.

L'arresto di Garibaldi (come la volta precedente all'Aspromonte) commosse tutta l'Italia; in molte città scoppiarono tumulti contro il governo accusato di tenere un contegno ambiguo e il piede in due staffe; la sinistra parlamentare protestò per l'arresto illegale e le violate immunità; ad Alessandria, gli stessi soldati del presidio radunatisi sotto le finestre della cittadella, dove l'eroe era chiuso, gridavano: "A Roma ! A Roma !".

Per calmare il paese, il ministro della Marina, il 27 settembre, fece imbarcare per Caprera GARIBALDI e attentamente sorvegliare l'isola da navi da guerra, per non che il generale la lasciasse. Garibaldi si mise a tempestare di lettere gli amici perché lo liberassero, mentre nella penisola continuavano le proteste; l'impulso da lui dato non era per nulla svanito; i preparativi per ritentare l'impresa di Roma stimolavano gruppi di giovani che si avviavano verso il confine pontificio, radunandosi soprattutto a Terni.

Mentre faceva l'attraversata in mare verso l'esilio a Caprera, Garibaldi aveva scritto a Crispi "io vedo un solo modo per rimediare all'insoddisfazione della nazione e del governo: invadere Roma con l'esercito italiano e subito…".
Quanto all'entusiasmo delle folle che straripava e preoccupava, Nigra pur stando a Parigi scriveva a Rattazzi: "L'arresto di Garibaldi fa maturare la questione romana molto più che tutte le spedizioni dei volontari".
Questo forse il Rattazzi lo sapeva già in anticipo e sorge anche il sospetto che lui abbia più aiutato la causa nell'arrestarlo che non a inviargli l'esercito in aiuto.

Ma pur senza Garibaldi (che era l'uomo più scomodo) l'impresa per Roma non si era fermata.
O perché era già segretamente connivente o perché temeva (?) delle reazioni dalla piazza, il governo diede l'impressione che lasciava fare, che perfino aiutasse sottomano i volontari, che si adoperasse affinché a Roma scoppiassero moti tali da provocare l'intervento italiano.
L'ultimo di settembre e il 1° di ottobre alcune bande di volontari varcarono il confine e, disarmati i carabinieri papali, occuparono Grotte e Acquapendente.
Il 4 ottobre MENOTTI GARIBALDI entrò nello Stato Pontificio da Passo Corese, il giorno dopo si batté con successo a Monte Manocchio; con un migliaio di uomini l'8 ottobre occupò Nerola e il 13 Montelibretti, dove i volontari furono attaccati dagli Zuavi papali che furono però respinti con gravissime perdite.

Sembrandogli la posizione di Montelibretti molto esposta, MENOTTI ritirò con i suoi uomini a Neroli, poi abbandonata il 15 ottobre, ma vi lasciò 300 uomini con il maggiore VALENTINI, i quali, assaliti il 16, dopo un'accanita resistenza furono costretti ad arrendersi. Mentre il Menotti con la sua colonna si fermava tra Licenza e Percile e altri gruppi di volontari percorrevano lo Stato Pontificio il deputato FRANCESCO CUCCHI operava rischiosamente a Roma per farvi scoppiare l'insurrezione.
I volontari contavano molto su questa sollevazione romana, ma a Roma non si erano dati minimamente da fare, inoltre la polizia vegliava con i fucili in mano, mentre ai volontari le armi mancavano. A rifornirli pensarono i fratelli ENRICO e GIOVANNI CAIROLI, i quali con una settantina di compagni, partiti la notte del 20 ottobre da Terni, passarono la mattina del 22 la frontiera a Passo Corese con un carro carico di trecento fucili e per la via del Tevere giunsero a Ponte Molle, ma qui aspettati invano i segnali che dalla città dovevano provenire, all'alba del 23 salirono sui Monti Parioli e si fortificarono a Villa Glori.
Sul far della sera la banda CAIROLI fu assalita da una forte colonna di soldati Pontifici, i quali trovarono prima un'accanita resistenza, poi furono attaccati alla baionetta. I Pontifici si ritirarono e i volontari ritornarono a chiudersi nella villa. Ma oltre un terzo del gruppo giaceva sul campo di battaglia. Tra i morti vi era ENRICO CAIROLI, tra i feriti GIOVANNI.

Priva del capo, la banda si allontanò recando con sé i feriti leggeri; una parte ripassò il confine, un'altra parte, ostinata a non voler lasciare il territorio romano, tentò un nuovo attacco ai Parioli, cercando di occupare il Campidoglio e la Caserma Serristori, ma finì male, 76 furono catturati dai papalini che trasportarono a Roma anche i morti e i feriti di Villa Glori. La salma di Enrico Cairoli fu resa alla famiglia. Giovanni invece riuscì a raggiungere i suoi, ma non si rimise mai più dalle ferite e scese anche lui nella tomba due anni dopo.

La rivolta concertata con i Cairoli doveva scoppiare in Roma la sera del 22 ottobre, in effetti scoppiò quella sera; molti soldati sorpresi nelle vie furono disarmati, ma gli assalti ai corpi di guardia non riuscirono; una bomba buttata ed esplosa in Piazza Colonna, uccise una sentinella e fu danneggiata la caserma Serristori, ma causò solo grande panico nella città, che rimase ben salda in potere dei Papalini e quando giunsero gli sfortunati Cairoli a Ponte Molle tutto era già finito.

Si pensò, è vero, di rinnovare il tentativo della rivolta il 27, ma il 25 la polizia fece irruzione nel lanificio Aiani, a Trastevere, dove erano raccolte bombe, armi e una settantina di insorti, e dopo una mischia terribile in cui furono uccisi GIUDITTA, FRANCESCO ed ANTONIO ARQUATI e altri quattro patrioti, si rese padrona del luogo.
GIUSEPPE MONTI e GAETANO TOGNETTI, accusati di avere avuto parte importante nel tentativo insurrezionale, già arrestati il 16 ottobre furono condannati alla pena capitale e il 24 novembre furono giustiziati.

Quando questi avvenimenti accadevano a Roma, il ministero RATTAZZI aveva già dato le dimissioni (18 ottobre) e la Francia aveva mandato una nota diplomatica al governo italiano nella quale lo minacciava di guerra se le truppe regie italiane varcavano la frontiera pontificia. Insomma anche in Francia non credevano che Torino non era connivente con gli insorti; e che questi come avanguardia li stava usando come un pretesto per poi correre a Roma

L' incarico di costituire il nuovo ministero fu affidato al CIALDINI, ma non gli riuscì a formarlo; così continuò a tener le redini del governo RATTAZZI, il quale se prima aveva chiuso un occhio sul lavoro dei volontari ora li chiudeva entrambi. Il Re poi fece finta di ignorare ogni cosa, anche se la piazza "bolliva". Come in passato, per il monarca schierarsi con una delle due fazioni, c'era sempre in ogni caso lo spettro di cadere giù dal trono: o dalle Potenze per aver aiutato i rivoluzionari o buttato giù dagli stessi rivoluzionari.
Napoleone per evitare l'una e l'altra ipotesi entrambe non gradite, invia un ultimatum all'Italia: "arrestare la manovra dei garibaldini" e, senza aggiungere contemporaneamente inizia i preparativi per una spedizione con destinazione Civitavecchia, per essere pronta a salvaguardare il Papa, anche se lo scopo principale è quello di contrastare qualche brutta e pretestuosa "idea piemontese".


Il governo a Torino ha già deciso di intervenire per fermare
in qualche modo i rivoltosi a Roma
ma Garibaldi fugge da Caprera proprio verso Roma
La battaglia di Mentana, poi l'arresto a Figline

periodo 1867-1868 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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