ANNO 1868-1869

DOPO MENTANA - GOV. SELLA-LANZA - TASSE MACINATO - MONOPOLI


NOZZE DI UMBERTO - NASCE VITTORIO EMANUELE III

SECONDO MINISTERO MENABREA - NOZZE DI UMBERTO O MARGHERITA DI SAVOIA - RIMPASTO MINISTERIALE - LE ACCUSE ALL'ON. CIVININI E IL PROCESSO LOBBIA - MUTAMENTI MINISTERIALI
NASCE VITTORIO EMANUELE III (accenni fino al suo matrimonio con la principessa Elena)
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DOPO MENTANA - IL SECONDO MINISTERO MENABREA

Le micidiali armi francesi usate a Mentana produssero nell'animo degli Italiani una ferita che fu maggiormente approfondita dalle irritanti parole del DE FAILLY sulle "merveille" (meraviglie) degli "Chassepots"; dall'ordine dato alle truppe italiane di abbandonare il territorio pontificio; seguite dalle dichiarazioni del ministro francese ROUHER, che al Parlamento disse: "Le truppe inviate a Roma rimarranno finché la sicurezza del Santo Padre renderà ciò necessario .... L'Italia non s'impadronirà di Roma giammai (questo "jamais" rimase impresso alla mente di tutti - Ndr.). Giammai la Francia sopporterà questa violenza al suo onore e alla cattolicità".
Era un'imposizione, per di più risoluta, indicando il campo di battaglia; chiaro era l'avvertimento che l'Italia doveva rinunciare a Roma!

Queste dichiarazioni sdegnarono vivamente Vittorio Emanuele II: "Aj mostreruma 'l so jamais" ("gli mostreremo i suoi giammai") esclamò facendo un gesto eloquente.
Nella lettera preparata da PEPOLI per ammonire la Francia, contenenti queste parole "Non basta che l'Italia svincoli la sua bandiera da quella dell'anarchia, ma bisogna pure che la Francia svincoli nettamente la sua bandiera da quella della reazione"
il Re lo rimproverò:
"ma come, non dice nulla dei "merveille chassepots, che hanno trafitto il mio cuore di padre e di re?". Fu allora che Pepoli inserì la famosa frase
"L'alleanza con la Francia non è più nelle mani del governo; il fucile "Chassepots a Mentana l'ha ferita mortalmente".
Il re tanto protestò per quelle frasi del De Fally e del Rohuer, finché ottenne parole di rincrescimento dalla Francia.

Tuttavia non bastavano le frasi di scusa di circostanza per calmare la piazza, né bastavano a buona parte del Parlamento in forte agitazione. L'atteggiamento del re in ottobre, a favore della anomala politica rattazziana (di schierarsi contro Garibaldi), anche se al Re non gli si poteva ufficialmente rimproverare nulla, aveva procurato molta irritazione nella sinistra, accusando il Re di aver rifiutato di seguire a fondo Garibaldi nel suo gioco disperato. Rattazzi - a dicembre- difendendo il Re, diceva al Revel "è solo un gioco al massacro della consorteria toscana, che vuole promuovere l'abdicazione del Re". Sembra che queste voci fossero piuttosto diffuse, visto che Revel ne parla -anche se non ci crede- in una lettera inviata al principe ereditario.
ALBANESE salito su a Firenze, impertinente, chiaro e tondo, disse al Re "…guardi che il popolo chiama paura quella che a Vostra Maestà sembra prudenza".

PALLAVICINO invece dalla Toscana fiero e nello stesso inquietante scriveva al Re:
"Non bisogna aspettare un anno come l'89 per la Francia. Occorre allontanare quella peste d'Italia che sono i Menabrea, i La Marmora, i Ricasoli, i Minghetti, i Peruzzi, i Rattazzi; bisogna rompere l'amicizia con la Francia ed accostarsi alla Prussia, iniziare una nuova politica, se no, siete perduti, ed è perduta la Dinastia".
Il Re però respinse i consigli del Pallavicino e riconfermò la fiducia a MENABREA.
Ma forse questa frase gli rimase a pulsare intensamente nel cervello.
Pallavicini era stato come vedremo profetico e piuttosto realista.
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Passata la "bufera" di Mentana, il Paese riprendeva, con un eloquente frase del Re "L'abbiamo scampata bella, ma non fa niente. Andiamo avanti".
Il 5 dicembre 1867, fu concessa un'amnistia e si riaprì il Parlamento.

MENABREA (dal 27 ottobre nuovo presidente) espose il suo programma, ribatté energicamente alle accuse cui era stato fatto segno (simili a quelle di Pallavicino, appena lette), riaffermò il diritto dell'Italia su Roma e concluse facendo appello a coloro che volevano la rinascita di quel rispetto e di quella fiducia, che erano richieste per ispirarle anche all'estero.
Il 7 dicembre 1867, al Senato, un ordine del giorno del marchese di TORREARSA, esortante il ministero a "perseverare nella difesa del diritto italiano", fu approvato all'unanimità; il 6 ci furono alla Camera le elezioni presidenziali, risultando eletto il LANZA con 194 voti contro 154 dati a CRISPI; il 9 cominciò la discussione sui recenti avvenimenti, che durò fino al 22 dicembre.

La sinistra, in nome della quale avevano presentato interpellanze gli onorevoli CRISPI, LA PORTA, MICELI e VILLA, tuonò contro il servilismo del governo verso Napoleone III e la Francia; AGOSTINO BERTANI suscitò vivo sdegno narrando di avere riscontrato sui feriti di Mentana colpi inferti dai franco-pontifici dopo la battaglia; il MENABREA, che pur aveva quel giorno stesso un ordine del giorno di QUINTINO SELLA riaffermante la volontà di avere Roma capitale, condannò il dominio temporale del Papato; infine URBANO RATTAZZI, in tre tornate consecutive, difese il suo operato con un discorso eloquente ed abilissimo se pure poco convincente.
La discussione, alla quale presero parte MASSARI, FERRARI, ALFIERI, BERTI, GUERZONI, CIVININI, GUALTIERIO, MARI e il DEPRETIS, si concluse il 23 con quest'ordine del giorno presentato da BONFADINI:
"La camera, prendendo atto delle dichiarazioni del ministero di voler serbare illeso il programma nazionale, che acclamò Roma capitale d'Italia, deplora che questo programma lo si è voluto attuare con mezzi contrari alle leggi dello stato e ai voti del parlamento; pertanto convinta che nel severo rispetto della legge e nell'assetto delle pubbliche istituzioni stanno le garanzie della libertà e dell'unità, approva la condotta del ministero".

L'ordine del giorno riscosse 199 voti favorevoli e 201 contrari.
La sera stessa del 23 dicembre il ministero presentò le dimissioni. Il re, fallito il tentativo di affidare il Governo a PONZA di S. MARTINO, che avrebbe tolto dall'opposizione i piemontesi della "Permanente", incaricò lo stesso MENABREA di ricomporre il Ministero; e questi lo ricostituì il 5 gennaio 1868, sostituendo all'Interno Gualtierio con CARLO CADORNA, Mari nella Grazia e Giustizia con l'avvocato DE FILIPPO, Provana nella Marina con il contrammiraglio RIBOTY. Le Finanze rimasero a CAMBRAY DIGNY,
a GIROLAMO CANTELLI, i Lavori pubblici, BERTOLE' VIALE la Guerra, EMILIO BROGLIO l'Istruzione. Gli Esteri allo stesso Menabrea.

Uno dei problemi più gravi che il ministero così riformato doveva affrontare era quello finanziario. E lo affrontò con grande energia il CAMBRAY-DIGNY, il quale propose il 20 gennaio del 1869 la tassa sulle concessioni governative e il rimaneggiamento delle tasse di registro e bollo; la tassa sul macinato; la tassa sulla rendita pubblica; la creazione della Regia (monopolio) cointeressata ai tabacchi.
La prima non incontrò quasi nessun contrasto; approvata senza difficoltà fu anche la tassa sulla rendita del debito pubblico;
il disegno sulla regia privativa tabacchi cointeressata, suscitò vivaci discussioni, cui presero parte, fra gli oppositori, La Marmora, Chiaves. Sella e Lanza, che diede le dimissioni da presidente della Camera, ma fu tuttavia approvato con 44 voti di maggioranza (205 a favore 161 contrari) ma con una scia di polemiche e di risentimenti e numerose accuse di corruzione lanciate (perfino sui giornali seguite poi da una serie di querele, e perfino la richiesta di soddisfazione a duelli) nei confronti di alcuni deputati che avrebbero ricevuto denaro da banchieri italiani e stranieri interessati all'approvazione della legge.
Era in sostanza il MONOPOLIO TABACCHI affidato a privati con partecipazione dello Stato agli utili ed era costituito da una società di banchieri e di uomini d'affari italiani e stranieri. Anticiparono 180 milioni per l'appalto di 15 anni, e dovevano riservare allo stato il 40% degli utili.
Ci fu un'inchiesta parlamentare (che leggeremo più avanti) ma dalla relazione non emerse alcuna prova. Tuttavia la commissione espresse la propria riprovazione per la partecipazione di deputati ad affari dipendenti dal Parlamento. Insomma che c'era il "conflitto d'interessi".
Le polemiche continueranno nei successivi mesi; ma erano diventate queste "questioni" (del "conflitto d'interesse") come l'Araba Fenice, bruciava in un rogo e ne rinasceva dalle ceneri una nuova.

Gravissime opposizioni invece incontrò il disegno di LEGGE SUL MACINATO, che infine fu approvato. Contro l'applicazione di quest'imposta iniziarono a verificarsi agitazioni e rivolte popolari urbane e contadine in quasi tutta la penisola, le più irruenti in Emilia.
Si calcola che, complessivamente, queste ribellioni costarono più di 250 morti e migliaia di feriti.
Fu una tassa perversa e impopolare che colpiva i ceti più indigenti, sull'alimento principale, il pane, ecco perché fu chiamata anche la "tassa sulla fame", del resto il maggior sostenitore di questa legge era QUINTINO SELLA, l'uomo delle "economia fino all'osso".

La legge stabilisce il pagamento, a partire dal 1° gennaio 1869, di un'imposta di 2 lire ogni quintale di grano macinato, di 1,20 lire per ogni quintale di avena, 0,80 lire per il granturco e la segale e 0,50 lire per gli altri cereali, la veccia e le castagne. Il pagamento deve avvenire nelle mani del mugnaio prima del ritiro delle farine e appositi contatori sono applicati alle macine. Contro l'imposta, che colpisce in particolare le classi popolari, si schiera la sinistra parlamentare. La legge è approvata definitivamente alla Camera con 219 voti contro 152. Approvata dal Senato il 27 giugno, con 101 voti contro 11, sarà promulgata il 7 luglio e diverrà operativa dal 1° gennaio 1869.

Fu il provvedimento che poi determinò la sconfitta della destra storica, anche se ebbe un indubbio successo dal punto di vista economico, contribuendo a rendere possibile il risanamento finanziario dello Stato. Demagogicamente tentarono molti ministri nei successivi governi (anche di sinistra) ad abolirla, ma continuò imperterrita fino al 1884, con una riduzione graduale, anche perché, come sosteneva un ministro delle finanze (BERNARDINO GRIMALDI) "bisognava rispettare le priorità delle esigenze del bilancio rispetto a quelle della politica", e pronunciò la famosa frase che diventò proverbiale "ritengo che l'aritmetica non sia un'opinione".
La cifra dell'entrata della "tassa sulla miseria" era così notevole, che rinunciare era ormai diventato impossibile o quasi; bisognava prima trovare un'alternativa a quell'introito.
Qualcuno spiegò meglio il concetto aritmetico di Grimaldi: "se mettiamo anche una forte tassa sui gioielli che comprano i ricchi, questi sono pochi e il totale sarebbe misero, ma se imponiamo una piccola tassa chi compra solo pane, cioè i poveri, che però sono milioni e milioni, il totale incassato forma centinaia e centinaia di milioni".

NOZZE DI UMBERTO E MARGHERITA DI SAVOIA

Nella primavera del 1868 (20 aprile) si celebrò a Torino con grande solennità, alla presenza anche del principe Gerolamo Bonaparte e di Federico principe ereditario di Prussia (non a caso!), il matrimonio del principe UMBERTO DI SAVOIA, con la 17 enne MARGHERITA (nata a Torino il 20 novembre 1851) figlia orfana del Duca di Genova, Ferdinando Maria Alberto, fratello di Vittorio Emanuele, cioè figli di Carlo Alberto, quindi Margherita era cugina di Umberto che aveva allora 24 anni (era nato a Torino il 14 marzo 1844).

Sembra che a trovare la sposa a Umberto sia stato Menabrea; in un primo momento il padre era contrariato: "ma l'è na masnà" (è una bambina); forse perché era da qualche tempo che non la vedeva, ma poi quando se la trovò davanti, bella e florida per la sua età, scrisse subito al figlio "vieni ti ho trovato la sposa".
Il figlio a Milano era già molto occupato a coltivare la sua folle passione per EUGENIA LITTA VISCONTI ARESE; e non era il solo adoratore della bella milanese. Tuttavia era un ordine, e quindi Umberto il 28 gennaio scese a Torino, si recò a Palazzo Chiablese, dove abitava la cugina e con la massima indifferenza gli chiese "Vuoi diventare mia moglie". La cugina rispose sì. Tre mesi dopo il matrimonio a Torino in una cornice sfarzosa con quel giorno dichiarato di "pubblica letizia".

Se la bella duchessa milanese per Umberto non era una semplice passione giovanile e occasionale, anche lei, la Litta aveva le sue mire possessive di donna dettate dalla gelosia (le resterà accanto tutta la vita, fino al fatale giorno: l'assassinio), e sembra che abbia preteso da Umberto, una singolare promessa: che non avrebbe avuto alcun rapporto con la sposa, che insomma le loro notti dovessero restare bianche. A farle diventare "bianchissime", fu poi la stessa consorte quando colse sul fatto la Litta nella camera del marito-cugino. Molto probabilmente la donna che aveva sposato "su ordine", avendola avuta come compagna di giochi da quando era nata, forse (!) non provava nessuna attrazione sessuale, era insomma sua cugina.


Margherita, la rivale Litta la fece allontanare dalle sue dame di corte, ma non fu sufficiente per far interrompere quel profondo legame d'amore. Alla sera Umberto la lasciava in bianco anche alla cena, attraversava il parco e raggiungeva la poco distante villa della sua amata per poi rientrare all'alba.
Margherita voleva lasciarlo, tornarsene dalla madre, e si confidò e si lamentò con Vittorio Emanuele II che, abituato a queste cose, saputo il "banale" cruccio della sua nuora-nipote candidamente gli disse "e solo per questo te ne vuoi andare?".
La donna accettò così la realtà, ma piena di risentimento, da allora non sarebbe stata altro che la principessa (poi due anni dopo la prima Regina d'Italia) ma mai più la moglie. Ed infatti, la relazione Litta-Umberto, continuò imperterrita fino alla morte. (Le grandi famiglie d'Europa -I Savoia, Mondatori, 1972).
Margherita, nella gloria e nella sventura, fu "Regina" e magnanima fino all'ultimo, quando concesse alla Litta, dopo l'assassinio del marito, il permesso di salutare la salma del Re; marito suo, ma amante dell'altra.

Tuttavia quando poi scese a Roma e diventò con la morte dello zio-suocero, Regina, diede un impulso alla vita mondana romana, tale da riconquistare tutta la latitante nobiltà nera (papalina) che alle feste del Quirinale non voleva mancare, e iniziò a schiarirsi come colore pur di partecipare alle feste d'alta società che la regina assiduamente offriva nella residenza reale, con lei a fare musica, danzare, e in modo eccellente a intrattenere gli ospiti, dell'aristocrazia, gli ufficiali, i letterati, i musicisti, i principi stranieri, gli alti funzionari di corte, muovendosi e camminando come diceva il Carducci "musicalmente con certe pause wagneriane".
Nacque il "margheritismo", ogni suo gusto diventava una moda, dai vestiti ai cappellini, dalle riviste alle sue torte o alle pizze "margherita".
Poi i viaggi nella grandi corti d'Europa, quando dopo Sedan i due regnanti sabaudi ebbero il grande feeling sia con i Prussiani sia con gli Imperiali di Vienna. E tra quelle feste, pranzi e balli, teatri, fu così che nacque il 20 maggio 1882 la famosa Triplice Alleanza (che fu indigesta al loro figlio, fin da quando a sette anni gli avevano messo accanto notte e giorno come autoritario tutore, maestro di ogni cosa, un filo-prussiano di ferro, addetto militare a Berlino. Ed infatti, fu poi proprio Vittorio Emanuele III a rompere la Triplice nel 1914 alla vigilia della Prima guerra mondiale. Purtroppo questa sua insofferenza -spesso neppure dissimulata- tornò nuovamente a manifestarsi anche alla vigilia della Seconda, con un altro "tedesco" di Berlino, che aveva il grado di "caporale". Lui si alleò, e fu poi la sua sciagura e quella della sua dinastia.

Siamo andati troppo avanti, quindi torniamo al matrimonio del Principe Umberto. Fu destinato a stabilirsi con la moglie Margherita a Napoli, ma per recarvisi doveva passare da Roma. Il passaggio, dopo lunghe trattative con il governo pontificio, timoroso che la presenza del futuro re d'Italia avrebbe provocato delle pericolose dimostrazioni filo-sabaude, fu poi fissato per il 24 novembre; ma proprio il giorno dell'arrivo della regale coppia (con chissà quale intenzioni) la Curia -sorda alle preghiere del Menabrea- fece decapitare GIUSEPPE MONTI e GAETANO TOGNETTI, i due che avevano organizzato e partecipato alle sollevazioni romane del 22 ottobre; il principe, sdegnato, si rifiutò di metter piede nella città di Roma, dichiarando che non vi sarebbe più andato se non dopo che sul Campidoglio fosse stato issato il tricolore.
Per la cronaca, quindici giorni dopo, il 10 dicembre, e sempre per la stessa sollevazione romana, a Roma furono condannati a morte pure PIETRO LUZZI e GIULIO AIANI

Il giorno stesso della decapitazione del Monti e del Tognetti, riapertosi il Parlamento, fu annunziato un mutamento ministeriale: CADORNA, già dimessosi nel settembre da ministro degli Interni, era già stato sostituito con il conte CANTELLI, ai Lavori Pubblici era andato il senatore PASINI e all'Agricoltura Industria e Commercio il prof. CICCONE.
Il 25 novembre, alla presidenza della Camera, lasciata da LANZA, fu eletto MARI con 185 voti contro 93 dati a CRISPI, e alla vicepresidenza MORDINI, con 44 voti in più di CARLO FERRARI, candidato dell'opposizione.

I risultati di queste elezioni costituivano due vittorie per il ministero, e il 21 dicembre ne ottenne una terza nella battaglia impegnatasi per la questione del pagamento del debito pontificio sospeso dopo i fatti di Mentana.
Queste vittorie, se rafforzarono il ministero al Parlamento, non lo rafforzarono nel paese, dove a fare scoppiare il malcontento contribuì all'inizio del 1869 l'applicazione della tassa sul macinato.
Disordini, tumulti e violenze avvennero in varie parti d'Italia, specie in Toscana, in Romagna e nell'Emilia; a Parma il primo focolare dal 1° al 3 gennaio 1869, con invasione del palazzo della prefettura, incendi di mobili e archivi.
Altre sollevazioni nel resto dell'Italia centrale dove furono represse dall'esercito e dal generale RAFFAELE CADORNA, mandatovi tempestivamente il 5 gennaio come commissario straordinario con pieni poteri per reprimere i disordini e le dimostrazioni contro l'imposta. A Bologna si concentrarono cinque reggimenti di fanteria. Mentre alla stessa data i mugnai della Lombardia sospesero l'attività per protesta.

RIMPASTO MINISTERIALE DI MENABREA

Questi disordini e la successiva violenta discussione parlamentare (22-26 gennaio 1869) scossero il Ministero e consigliarono il MENABREA di procedere a un nuovo rimpasto, che fu fatto il 13 maggio del 1869. CANTELLI, PASINI, BROGLIO e CICCONI rimasero fuori e in loro vece furono messi LUIGI FERRARIS agli Interni, ANTONIO MORDINI ai Lavori Pubblici, ANGELO BARGONI all'Istruzione e MARCO MINGHETTI all'Agricoltura.
Il rimpasto ministeriale produsse il disgregamento della "Permanente", ma alla Camera il nuovo ministero non si trovò in migliori condizioni del secondo gabinetto MENABREA e ne fece la prova sul finire del maggio, quando, per le elezioni di un vicepresidente, il suo candidato E. BROGLIO ottenne nove voti soltanto di maggioranza contro DE LUCA, candidato dell'opposizione, e il 15 giugno, quando il ministro delle Finanze fu costretto dall'opposizione della camera a ritirare tre disegni di legge.

Iniziava per l'Italia un periodo tristissimo, che forma una delle pagine più vergognose del Risorgimento. Mentre il malumore economico faceva sentire di più il peso delle tasse e si accusava inoltre il ministero di aver dimenticato la questione romana, di essersi accordato con i clericali e crescevano le manovre insidiose dei fautori delle dinastie cadute, e a Parigi si parlava come di cosa vicina dello smembramento del regno e di una federazione italiana; la lotta della sinistra contro la destra del Parlamento, fu portata sulla stampa e assumeva aspetto di battaglia accanita contro pretese corruzioni parlamentari sui monopoli, sulle banche, sugli appetitosi appalti, sulla cessione di grandi proprietà terriere appartenute al clero o ai nobili decaduti.
Provocata dal CRISPI e dall'onorevole CRISTIANO LOBBIA, il quale aveva mostrato una busta che diceva conteneva documenti compromettenti su un deputato; fu stabilita un'inchiesta contro alcuni onorevoli, fra cui l'on. GIUSEPPE CIVININI, accusato di avere ricevuto un milione dai banchieri della Regia (Monopolio Tabacchi). La commissione, presieduta da PISANELLI, doveva adunarsi il 16 giugno, ma la notte precedente l'accusatore LOBBIA fu aggredito e leggermente ferito da uno sconosciuto che si sospettò mandato dagli affaristi della Regia.

Il fatto finito sulla stampa, mise in grande agitazione il paese e si ritenne opportuno di rinviare la sessione parlamentare. La commissione d'inchiesta concluse la sua opera il 12 luglio, prosciogliendo gli incriminati dalle accuse per mancanza di prove; ma nessuno fu contento delle conclusioni, non l'opinione, pubblica, non la sinistra, non gli stessi deputati accusati, non la stampa che continuò, sebbene con maggior prudenza, la campagna diffamatoria; non la destra che mise fuori il sospetto che l'aggressione subita da Lobbia fosse simulata; sospetto che fu raccolto dal procuratore del re di Firenze che iniziò contro Lobbia un processo per simulazione di reato, provocando tumulti e dimostrazioni in favore dell'imputato, il quale in breve tempo divenne popolarissimo in Italia: l'accusatore che diventava accusato.
Il processo, cominciato il 26 ottobre al tribunale di Firenze, si chiuse il 17 novembre con la condanna del Lobbia, che, ricorso in appello, si vide riconfermata la sentenza; questa poi fu cassata e la causa rinviata alla corte di Lucca che, dopo… cinque anni, dichiarava il non luogo a procedere per insufficienza di prove.
Il primo accusatore di "conflitto d'interesse" finì insomma così.

In questo frattempo dei mutamenti erano avvenuti nel ministero: si era dimesso il FERRARIS e il portafoglio dell'Interno era stato affidato al giovanissimo ANTONIO STARRABBA, marchese di Rudinì, che nell'ultima insurrezione palermitana aveva dato prova di una straordinaria energia; DE FILIPPI nella Grazia e Giustizia era stato sostituito con PIRONTI e a questo gli successe poi ONORATO VIGLIANI.

MALATTIA DI VITTORIO EMANUELE II
NASCITA DEL PRINCIPE DI NAPOLI (VITTORIO EMANUELE III)

(una più ampia e dettagliata biografia la trovate qui

VITTORIO EMANUELE II - L'INIZIO DI UN REGNO > > >

L' 11 novembre 1869 ai principi di Piemonte Umberto e Margherita, con residenza a Capodimonte (NA) nella ex reggia Borbonica, era nato un figlio, VITTORIO EMANUELE FERDINANDO MARIA GENNARO, nominato subito Principe di Napoli (il futuro Re d'Italia, V.E. III.). (si noti il "Ferdinando" e il "Gennaro", questo per renderlo ben accetto ai nostalgici e ai napoletani veraci.
Due generali, Cialdini e de Sauget furono i padrini di battesimo. Subito, fin dalla culla, in stile della famiglia, attorniato da militari. Ed è notoria la severa educazione impartitagli oltre misura. Piccolo e gracile com'era, il principino a 7 anni lo affidarono al colonnello OSIO, un quarantenne ufficiale addetto militare a Berlino, fanatico ammiratore della scuola militare prussiana; e alla prussiana su quelle rachitiche e corte gambette che non crescevano mai, lo fece marciare tutti i giorni, dalle 6 del mattino alla 9 di sera, non concedendogli nemmeno un attimo di respiro, e con il "permesso" di ritrovarsi a tavola con i genitori solo il giovedì e la domenica. Nemmeno il Re padre, poteva contraddire il colonnello di ferro che assicurava il padre "lui farà sempre tutto quello che gli dico io".

Senza compagni di giochi, senza l'affetto vicino dei genitori, con il complesso di essere un nano, brutto, gracile, guardandosi allo specchio tutte le mattine, la divisa di soldato non era di sicuro la sua ambizione. E con il padre così giovane, nemmeno pensava di diventare re; le sue occupazione furono invece culturali, isolite nella sua casa, dove il padre si vantava di non aver mai letto un libro, il nonno diceva che non ne aveva bisogno, e forse tre o quattro li aveva letti suo bisnonno Carlo Alberto, ma in gioventù quando era un bonapartista (cadetto). Era il "diritto divino", la "provvidenza", che guidava i loro passi, quindi non c'era bisogno di letterati e ingegni umani per modificare il corso della loro esistenza. Le armi anche quelle le mandava Iddio, perché ....
"… Ho spesso udito che qualche volta Dio nei suoi alti e imperscrutabili fini, qualche volta si serve di un re per castigare un papa, o un papa per castigare un re; strumento della Provvidenza usato per quei fini che superano l'umana penetrazione"
(è un concetto espresso al Papa da Vittorio Emanuele - e che troveremo più avanti)

La famosa viaggiatrice inglese LADY MORGAN, bizzarra, colta, intelligente osservatrice, che non risparmiava nessuno con i giudizi sferzanti nei suoi viaggi nelle corti di tutta Europa, nel 1820, visitando la casa Sabauda fu spietata. Entrando a Palazzo Carignano non risparmiò niente e nessuno.
"Nel salotto privato un gabinetto di tela, lasciato forse da pochi momenti….Non un tavolino da scrivere, né un libro, né un fiore. Una mobilia che in Inghilterra si sarebbe messa in soffitta. Nella camera di Maria Teresa, un cassettone tarlato, e un divano sul quale la stanchezza in persona avrebbe rifiutato di riposarsi. Vittorio Emanuele I con il suo "regno delle sardine" con lo stesso abito, con la stessa parrucca e gli identici pregiudizi con i quali era partito quindici anni prima…."
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E nella quadreria del Palazzo Reale, la Morgan ride beffarda dinanzi ai ritratti dei Savoia, "…le cui virtù civili e militari sono dimostrate non solo dai folti sopraccigli e dai nasi romani, ma delle cartelle che rivelano in questi eroi qualità che la storia ignora completamente", poi fermandosi all'ultimo ritratto della serie, quello del sovrano regnante, lo definisce un "libello", le sembra "il bello ideale dell'imbecillità", "….vuole perfino disfare il ponte sul Po, iniziato da Napoleone, perché in ogni pilone ci sono scolpite le sue "medaglie", e che invece lui vorrebbe sostituirle con la sua effige".

Il quel suo viaggio in Italia, con il libro scritto nel 1819-21, la Morgan fu profetica tre volte, quando scrisse che "L'unità e la liberazione dell'Italia è imminente" e aggiungeva quasi a divinare il compimento "Il Piemonte attuerà il motto di un conte di Moriana; l'Italia sarà mangiata foglia dopo foglia come un carciofo; e l'Austria proverà come sarà amaro l'ultimo boccone". (ed era solo 1821!)
(Lady Morgan, The Wild Irish Girl, Le Vie d'Italia, anno 1926, pag.367)

Insolita e molto diversa dagli avi "dalle virtù militari", fu invece la vita di Vittorio Emanuele: sposato con la bellissima e altissima Elena di Montenegro, invece di mettersi a fare il soldato tutto caserma e a dare ordini con quell'odioso tedesco che gli aveva insegnato il filo-prussiano Osio, diede sfogo ai suoi gusti personali con una vita raccolta e borghese, placida e appartata, con tanti viaggi, niente vita mondana, niente caserme, niente divise e niente politica. E questo fin dal giorno del matrimonio (il 24 ottobre 1896) che fu modesto. Sul Mattino di Napoli Scarfoglio, risentito, titolò il suo pezzo "le nozze coi fichi secchi").

In effetti, fu un matrimonio anomalo. ELENA PETROVIC-NIEGOS, era nata a Cettigne l'8 gennaio 1873, figlia di Nicola I Petrovic-Niegos, "vladika" (che si proclamerà più tardi Re nel 1910 del Montenegro nato il 25 settembre 1841 morto il 1° marzo 1921) e di Milena Petrovna Vucotic (nata il 22 aprile 1847 morta il 16 marzo 1923) . Costei, era una patrizia russa, e proprio per questo, fece studiare le sue cinque figlie nel collegio della corte imperiale, e riuscì a darle a ciascuna un marito principesco. E così fu per Elena.
Ma la famiglia era di religione ortodossa, ed essendoci ancora forti contrasti tra la Santa Sede e il Regno Sabaudo, il Vaticano si era opposto nel far precedere una cerimonia ortodossa a Cettigne. La coppia giunta in Italia per le nozze, sbarca a Bari, dove il 19 ottobre avviene l'abiura di Elena alla chiesa di San Nicola e abbraccia il cattolicesimo; il celebrante non è un'autorità della Chiesa, ma un semplice abate PISCITELLI TALOGGI. Ed è lo stesso abate che salirà nella Capitale, per celebrare a Roma (dopo quelle civili) il 24 ottobre 1896 le nozze religiose a Santa Maria degli Angeli. Alla basilica di San Pietro, il Vaticano ha detto un bel "No". Né il Papa ha mandato una berretta cardinalizia al matrimonio, celebrato senza fasti, e con l'assenza perfino della madre della sposa, Milena, in dissidio per quella abiura preventiva pretesa dai Savoia o imposta dalla Chiesa.
Ecco perché Scarfoglio, dal suo "Mattino", fece il risentito: In fin dei conti "piccolo o non piccolo" V.E. era pur sempre il Re di Napoli; che si sposava, che diamine!"

Il giovane principe di Napoli, lontano da Roma, e diventò ben presto un grande numismatico -famosa in tutto il mondo la sua collezione di monete- e dedicò a questa passione anche un opera di grande ricercatore, il "Corpus Nummorum Italicorum". Nonostante tanti giudizi affrettati su questa sua anomala "mania", questa passione non è soltanto una disciplina secondaria e sussidiaria alla cultura, ma introduce il numismatico nella storia delle epoche di un Paese, sui suoi traffici, sui suoi costumi, e il livello culturale e di progresso di quel Paese. Alcuni affermano, che un valente numismatico è un uomo dotato di profonda cultura storica ed economica e di notevole discernimento artistico (come il fior di conio e le figure riportate).
La singolarità di Vittorio Emanuele III, è proprio questa, che lui a 30 anni non entrava nella storia del Paese Italia attraverso gli eroismi militareschi, ma attraverso le monete.
Probabilmente con queste singolari conoscenze, così distaccate dalle cose interne, quando salì al trono in quella fatale circostanza, doveva concepire un disprezzo sentimentale per quella caotica classe politica che il padre gli aveva lasciato in eredità, in mezzo a intrighi, scandali elettorali, bancari e tante piccole miserie, che non avevano più nulla a che fare con il patriottismo delle eroiche lotte risorgimentali; le lotte semmai da sostenere, dimenticando in blocco tutta la retorica militaresca, erano le immanenti pressioni sociali; e queste realistiche realtà il giovane re le colse all'istante.
E' ampiamente riconosciuto che il giovane Vittorio Emanuele, ebbe un certo peso nell'accelerare l'evoluzione politica del governo italiano in senso progressista.
Mentre è altrettanto ampiamente e concordemente giudicato il periodo di Umberto, punto culminante di una politica antidemocratica e antipopolare, uno dei principali responsabili della svolta autoritaria di fine secolo; e il più esplicito fu quello dei moti del 1898 (la strage di Bava Beccaris a Milano a colpi di cannone sulla folla); periodo il suo che terminò, pure questo sotto i colpi d'arma da fuoco, ma dell'anarchico Gaetano Bresci in quel famoso 29 luglio 1900.

Il figlio lo rintracciarono nelle acque del mar Egeo in uno dei suoi tanti viaggi, per comunicargli la triste notizia. Quando giunse in Italia, per assumere il gravoso impegno, lesse il suo proclama, e il "piccoletto" s'impose con un'aria così superba che nessuno gli conosceva; rifiutò il discorso redatto dal primo ministro Saracco e dal consiglio dei ministri, li ringraziò della loro fatica, e lesse quello che aveva scritto lui; che rispondeva esattamente all'idea che si era fatta sulla situazione politica, ma guardandola attentamente e con distacco dall'esterno e non dall'interno dove lui non c'era mai entrato. Eppure i suoi (e forse proprio per questo motivo) furono concetti chiari e coraggiosi e così aderenti alla realtà del Paese e dell'ora, che il governo non poté che inchinarsi. E se molti dopo l'attentato si aspettavano una grande svolta a destra, furono tutti delusi, il Re scelse la via di sinistra.
Ricordiamo che nell'anno 1900 erano in gestazione le imponente ondate di scioperi, e la moltiplicazione di camere del lavoro, di federazioni operaie, di braccianti e altri movimenti lavoratori tutti sotto l'influenza del socialismo riformista. Nasceva il cosiddetto "Quarto Stato" che proprio nel 1900 Pelizza da Volpedo con molto realismo di quel problematico presente dipingeva.

Con GIOLITTI e il giovane VITTORIO EMANUELE, nasce così quel periodo che Alberto Consiglio definì "un Re adatto a quel ministro, un ministro adatto a quel Re".
L'incontro di due uomini e di due caratteri molto diversi. Tuttavia, l'uno e l'altro erano soprattutto degli sdrammatizzatori. Furono, in effetti, dodici anni di pace operosa nella vita di una nazione che stava appena affacciandosi alla modernità europea con i grandi problemi sociali deflagranti.
(Ma avremo moltissime occasioni nei prossimi riassunti dei vari periodi, di ritornare sull'operato di entrambi, e poi sul singolo operato di Vittorio Emanuele, quando il Re "non soldato", in mezzo a due tre catastrofi, diventa proprio lui per antonomasia, il "Re soldato").

INTANTO INIZIAMO DALLA SUA NASCITA

La prime polemiche e malignità, nacquero fin dalla sua nascita. A Napoli, dove appunto come abbiamo già detto vivevano i genitori, una commissione di sommi artisti si era formata in città per regalare la culla al regale nascituro, concependola come un oggetto d'arte, intarsiato da preziosi coralli. A contribuire alla spesa furono chiamati i cittadini. La prima polemica fu quando la presentarono: "Tanti artisti per fare una cosa così brutta". La seconda polemica quando si scoprì -la notizia venne fuori sul "Gazzettino Rosa"- che a contribuire alla spesa c'erano anche i bambini degli orfanotrofi. "E mai possibile -scrisse- che questo dono per chi ha già tutto debba essere costato sia pure la rinuncia ad una semplice castagnella a chi ha già poco?". Nascono le difese su altri giornali, affermando che il gesto era stato "spontaneo" dei bambini (sic) e per nulla sollecitato; e che comunque il "napoletano" è generoso, e quindi è questa la sua "ricchezza".
Il Principe Umberto per mettere a tacere ogni polemica elargì 50 mila lire agli istituti, e il municipio assegnò libretti di risparmio a tanti "Gennarini" nati nello stesso giorno.

La terza, più che una polemica era una malignità, e fu quella della paternità di quel bambino. Si disse, infatti, che essendo nata una femmina, con un parto difficile, i medici si resero conto che Margherita non avrebbe più potuto avere figli, e che si fosse provveduto a cambiare sull'istante la ripudiata nascitura con un maschietto di chissà chi; forse di una certa Giuseppina Griggi, il cui figlio (conte Galivaggi) iniziò in seguito un'azione legale per il riconoscimento dei diritti patrimoniali.
Questa voce maligna ebbe poi anche uno strascico internazionale, con servizi su giornali stranieri, e che Mussolini, all'inizio della seconda guerra mondiale, se ne fosse fatto un'arma di ricatto per buttare giù dal trono Vittorio Emanuele III, per mandarci su il ramo cadetto, gli Aosta (ricatto o no sembra proprio che -nel turbolento 1939-1940- non dispiacesse per nulla fare il re ad Amedeo d'Aosta; - morto poi prigioniero degli inglesi in Kenia l'8 maggio 1942, dopo la resa all'Amba Alagi).

Ricordiamo che il padre l'omonimo Amedeo (1845-1890), era il secondogenito di Vittorio Emanuele II, cioè il fratello più giovane di Umberto (1844-1900), che aveva sposato prima Maria dal Pozzo della Cisterna nel 1867, poi nel 1888 la figlia di sua sorella Clotilde (1843-1911- fatta sposare (da Cavour) a Gerolamo Bonaparte), cioè Amedeo sposò la giovanissima nipote, Maria Letizia Bonaparte.
Ad Amedeo senior, la prima moglie gli aveva dato tre figli maschi, EMANUELE FILIBERTO (1869-1931)- suo figlio primogenito Amedeo d'Aosta, di cui abbiamo parlato già sopra e parleremo più avanti), VITTORIO EMANUELE (1870-1946), LUIGI AMEDEO "Duca degli Abruzzi" (1873-1933).
La giovane nipote gli diede invece come figlio Umberto Maria (1889-1918).

Quindi il ramo Aosta - se effettivamente Umberto avesse in realtà avuto solo l'unica femmina accennata sopra- loro erano i legittimi eredi maschi della casata, indi del regno.
(Le grandi famiglie d'Europa -I Savoia, Mondatori, 1972).

In effetti questo pericolo ci fu già nel 1900. Elena e V.E., tardando ad avere figli (erano passati 5 anni), già si temeva che il cugino Filiberto d'Aosta, andato in sposo ad Elena Luisa Enrichetta di Orleans (matrimonio avvenuto il 25 giugno 1895 - che non volle posticipare con quello del Principe di Napoli) diventasse lui l'erede (o la sua prole maschile nel frattempo già nata - Amedeo (nato 21 ottobre 1898) e Aimone (nato 9 marzo 1900), quando la coppia reale, con Vittorio nel frattempo diventato improvvisamente Re, dopo l'assassinio del padre Umberto, inizia la figliolanza; prima con una femmina (1901) poi con un'altra, poi nel 1904 il tanto desiderato erede maschio Umberto, poi ancora altre due femmine.

(vedi QUI maggiori dettagli su VITTORIO EMANUELE III
LA FINE DI UN REGNO > > >

Una storia di malignità molto simile era già accaduta nel 1823, alla nascita dello stesso VITTORIO EMANUELE II. Su questo figlio di Carlo Alberto corsero voci che fosse morto nel drammatico incendio assieme alla sua balia nella casa fiorentina del nonno. Allora il piccolo era ancora l'unico figlio di Carlo Alberto. Fu taciuto il dramma familiare, sostituendo subito l'infante regale con il figlio di un macellaio della stessa età e molto somigliante.
Voci che poi si fecero più consistenti quando il ragazzino, e poi il giovane, iniziò a non essere come carattere e anche somaticamente proprio per nulla somigliante ai suoi avi nè a suo padre.
Niente carattere da caserma, da guascone, ma popolano, per nulla amante della mondanità, ma semmai di gusti rozzi e per nulla regali. La zarina di Russia quando gli fece visita a Torino, scrisse al fratello dicendo "è un popolano, sempre con la stessa divisa di fustagno addosso, e ha sempre l'odore di sudore e di selvatico".

Vere o false le malignità, o re con lo spirito sabaudo di razza o solo di educazione, con la sua forte individualità, senza essere uno spirito profondo e meditativo, ma con tante capacità di essere riflessivo e osservativo degli umori popolari, nonostante tante pretese dei suoi ministri di volerlo dominare, riuscì proprio con il suo carattere non solo a salvare il primato della vecchia monarchia, ma a crearne una popolareggiante, quasi democratica.
Non dimentichiamo i tanti mazziniani e garibaldini che optarono per la "sua" monarchia. Il più famoso Crispi, che accompagnò la sua defezione a Mazzini pure con uno slogan "La monarchia ci unisce, la Repubblica ci dividerebbe" e rimproverò perfino il suo "maestro"

Se fosse stato un Carlo Felice o un Carlo Alberto, invece che un rubicondo popolano, V.E. II non sarebbe mai riuscito a gettare nuove radici in quell'Italia unificata, né in quella antiquata assolutista monarchia sabauda, e che in qualche modo poi riuscì a sopravvivere fino al 1946.

Ma andiamo avanti. La notizia della nascita del futuro Vittorio Emanuele III Re d'Italia, aveva trovato il Re a San Rossore, malato di una grave polmonite. I medici lo dettero per spacciato. Il 18 novembre, in pericolo di morte Vittorio Emanuele, in un atto d'amore (spazzando via tante malignità - in prima fila c'era stato Cavour, che disprezzava la "popolana" quattordicenne, che aveva fatto perdere la testa al suo sovrano) volle sposare morganaticamente ROSA VERCELLANA (la quattordicenne amante "Rosina", che gli aveva già dato una figlia e un figli: a quindici anni Vittoria nel 1850 e a sedici Emanuele Alberto nel 1851 - mentre era ancora in vita Maria Adelaide d'Absburgo, morta nel 1855, che a sua volta gli aveva già dato sei figli , Maria Clotilde nel 1843, Umberto (futuro re) nel 1844, Amedeo nel 1845 (poi D'Aosta, che apre la generazione post-ubertina, ricordata sopra), Oddone nel 1846 e Maria Pia nel 1847, più uno morto in fasce).

Proprio il 18 novembre, in quel giorno stesso del matrimonio, ad un passo dalla morte, e con una nuova vita in fiore sbocciata pochi giorni prima, si aprì la seconda sessione della X Legislatura e fu per questo motivo che il re non partecipò alla seduta inaugurale.
Il discorso del trono fu letto dal guardasigilli. Il sovrano ringraziava il paese per le "vivissime testimonianze d'affetto ricevute da ogni parte del regno nel corso della sua malattia", comunicava l'annuncio della nascita del Principe di Napoli, "nuovo pegno dell'unità e della libertà della patria", insisteva sugli urgenti provvedimenti finanziari, accennava a disegni di leggi intesi a promuovere l'industria, a unificare la legislazione e l'amministrazione, a riordinare l'esercito e la marina e, alludendo al Concilio Ecumenico (annunciato da Pio IX il 28 giugno 1868 Ndr.), si augurava, che da quell'assemblea uscisse "una parola conciliatrice della fede e della scienza, della religione e della civiltà", ma dichiarava che, in ogni modo, la nazione poteva esser sicura che lui avrebbe riservato "intatti i diritti dello Stato e la propria dignità".

Il 19 novembre, nelle elezioni degli organi direttivi della Camera sulla presidenza, il ministero fu battuto perché il suo candidato ALARI ebbe 147 voti contro 169 voti dati a LANZA, candidato delle opposizioni riunite. Il ministero MENABREA si dimise e il Re, prima affidò l'incarico di costituire il nuovo gabinetto a Lanza, poi a Cialdini, poi a Sella ed infine ancora a Lanza.

MINISTERO SELLA-LANZA- TASSA SUL MACINATO- MONOPOLI

Il 14 dicembre il nuovo ministero risultò così composto: GIOVANNI LANZA alla presidenza del Consiglio e agli Interni, SELLA alle Finanze e al Tesoro, MATTEO RAELI alla Grazia e Giustizia, GIUSEPPE GOVONE alla Guerra, GIUSEPPE GADDA ai Lavori Pubblici, CESARE CORRENTI all'Istruzione, VISCONTI-VENOSTA agli Esteri STEFANO CASTAGNOLA all'Agricoltura, Industria e Commercio e a interim alla Marina, che poco dopo fu affidata all' ACTON.

Il nuovo ministero si presentò al Parlamento il 15 dicembre e LANZA nel suo discorso inaugurale presentò il suo programma annunciando una serie di severe misure economiche.
basate sulle più grandi economie, chiese l'esercizio provvisorio del bilancio e la facoltà di riscuotere, come meglio riteneva, l'imposta sul macinato; ottenne l'approvazione con 208 favorevoli e 57 contrari.
Quindi la Camera iniziò le vacanze natalizie, che con regio decreto furono prorogate fino al 7 marzo del 1870 (sulle vacanze non fecero economie!).

Il 10 e l'11 marzo, QUINTINO SELLA espose la situazione finanziaria, presentò un rendiconto, e alcune proposte per provvedere al pareggio del bilancio: riduzione spese nell'esercito e nella marina, sospensione dei lavori pubblici meno urgenti, riduzione delle spese in tutti i ministeri, aumenti sulla tassa del macinato, sul dazio consumo, sulle tasse di ricchezza mobile, dei fabbricati e del registro e bollo, sulle tariffe ferroviarie, imposizione di una nuova tassa sugli alcool, il passaggio alle province le spese per l'istruzione secondaria.
Provvedimenti che passarono alla storia col nome "omnibus finanziario". C'era di tutto! Lanza e Sella non esitarono a fare inviti espliciti pure al Re perché imponesse economie sul bilancio della Real Casa. Il Re quasi offeso inviò un telegramma al Lanza: "Visto che ha velleità di fare il Re quando l'incontrerò, vedrò di farle un'offerta". Lanza rispose a tono "Non ho questi gusti, ma se vuole farmi delle offerte, mi lasci ritornare a Roncaglia a fare del buon vino".

La discussione parlamentare fu lunga; il Parlamento approverà il complesso dei provvedimenti con due disegni di legge l'11 agosto. Ma un grave malcontento si diffuse nel paese, provato dal disagio economico, specie tra i repubblicani e negli ambienti militari che non avrebbero voluto che fossero diminuite le spese per l'esercito e la flotta.
Di questo malcontento cercava di trarre profitto MAZZINI, il quale, da Lugano (e si era già recato in febbraio clandestinamente a Genova) lavorava alacremente per rovesciar la monarchia e far trionfare la repubblica, tenendosi in continuo rapporto con i comitati sparsi in tutto il regno e facendo per mezzo dei suoi emissari opera attivissima di penetrazione nell'esercito e nella marina per attirare i sottufficiali.

L'insurrezione mazziniana doveva scoppiare simultaneamente nei maggiori centri della penisola e della Sicilia nella primavera del 1870 e bande armate si trovavano già pronte al confine svizzero per passare nel regno ed aiutare gl'insorti. Nella notte dal 23 al 24 marzo, a Pavia, circa quaranta mazziniani, fidandosi degli accordi presi con sottufficiali e soldati, assalirono la caserma San Francesco, ma i militari dato l'allarme, aprirono il fuoco e creando una schermaglia, nella quale ci furono morti e feriti nell'una e nell'altra parte, eseguirono l'arresto di molti ribelli e domarono la rivolta.
Quasi immediatamente fu fatto un processo presso il tribunale militare, che condannò a venti anni di reclusione il sergente PERNICE, condanna a morte per sette soldati, che però si erano già messi in salvo con la fuga, mentre il caporale PIETRO BARSANTI che era stato catturato, fu fucilato il 27 agosto.

Altri tentativi insurrezionali ci furono contemporaneamente a quello di Pavia o poco dopo, a Piacenza, a Bologna, a Ravenna e a Forlì, dove piccole colonne di insorti presto furono disperse; altre scoppiarono nel circondario di Volterra, nelle province di Massa, Pisa, Genova, di Lucca, di Reggio Calabria e di Catanzaro, dove RICCIOTTI GARIBALDI si unì agli insorti. L'energico comportamento delle autorità e l'intervento della truppa -che salvo le trascurabili eccezioni rimasero dovunque fedeli- fece fallire i piani rivoluzionari e la situazione interna del regno fu completamente dominata dal governo.

Ma la vera guerra, non era nelle piazze, quella decisiva si stava svolgendo dentro i palazzi della diplomazia, facendo patti e alleanze, che per alcuni furono provvidenziali àncore di salvataggio,
e per Napoleone III la rovina

La guerra Franco Prussiana > > >
periodo 1869-1870

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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