ANNI 1887-1888

CRISPI: PRIMO MINISTERO - RAPPORTI BISMARCK - DONNE: VOTO NEGATO

II PRIMO MINISTERO CRISPI - LA QUESTIONE BULGAR. - LA VISITA DI CRISPI A BISMARCK - IL BANCHETTO DI TORINO - INAUGURAZIONE DELLA SECONDA SESSIONE DELLA XVI LEGISLATURA - RIFORME - CRISPI E LE DONNE - I RAPPORTI FRA LA CHIESA E LO STATO - I RAPPORTI FRA L' ITALIA E LA FRANCIA - INCIDENTI E TENSIONI PER I RAPPORTI ITALO-FRANCESI - IL CRISPI DENUNCIA ALLE POTENZE IL CONTEGNO PROVOCATORE DELLA FRANCIA
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IL PRIMO MINISTRO CRISPI
LE RIFORME

Nell'entrare dentro gli avvenimenti di questi anni e quelli che subito dopo seguono, prima è necessario fare un breve accenno alla figura del "Protagonista" di questo periodo che nella storia italiana prende proprio il suo nome, il cosiddetto "periodo crispino".

FRANCESCO CRISPI, nasce in Sicilia, a Ribera, Agrigento nel 1818. Fatti i primi studi nel seminario italo-albanese di Palermo, iscritto all'Università, già 21 enne fonda un giornale letterario "l'Oreteo". Nel 1845, laureatosi in legge, si trasferisce a Napoli, ad esercitare l'avvocatura e qui entra in contatto con l'ambiente liberale.
Scoppiata la rivoluzione a Palermo (12 gennaio 1848) rientra in Sicilia facendo parte del comitato di guerra nell'estemporanea camera dei comuni, diventando uno dei capi dell'estrema sinistra democratica e "autonomista". Fonda un suo giornale, "l'Apostolato".
L'esperienza è breve, e dopo il ritorno dei Borboni sull'Isola, Crispi fu costretto ad emigrare in Piemonte, iniziando a collaborare a giornali dell'opposizione democratica (Concordia e Progresso).
Fervente seguace, partecipa all'insurrezione mazziniana di Milano del 6 febbraio 1853, finita poi in un fallimento, ed è costretto a rifugiarsi a Malta; fonda anche qui un giornale (La Valigia, tendenza unitario-democratica) tenendo contatti con i vari esuli mazziniani. Proprio per questo, fu espulso pure da Malta e nel 1855 lo troviamo nel Paese dei "rifugiati" a Londra, dove incontra e conosce personalmente Mazzini "da vicino" e si abbevera dell'unitarismo del suo "maestro". Lo troviamo poi a Parigi e a Lisbona, a continuare la sua lotta contro la guerra regia Sabauda.
Clandestinamente rientra due volte in Italia, e scende in Sicilia per prepararvi l'insurrezione. Lui la principale mente politica dell'impresa Garibaldina dei "Mille", diventando ad impresa conclusa il segretario di stato di Garibaldi, e fondando a Palermo un suo giornale "Il precursore"; dove sostiene il rinvio dell'annessione al Piemonte fin quando Garibaldi abbia unito all'Italia, Roma e le Venezie.
Furono proprio questi i motivi che portarono i forti contrasti con Cavour e con la destra, accentuati quando entrò a Torino nel nuovo Parlamento nel 1861, distinguendosi come uno dei maggiori esponenti della sinistra.

Gradatamente si allontana dal mazzinianesimo, tradì Cattaneo dopo aver pensato a lungo a un'Italia federale, prese le distanze dal "pittoresco" Garibaldi, e si avvicina alla monarchia, quando sostenne nel 1864, che "la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe", dichiarando così nel 1865 di aderire al regime sabaudo, pur rimanendo su posizioni di sinistra.
Il suo momento giunse quando nel 1876, caduta la destra, formato la sinistra il suo primo governo, lui è presidente della Camera. Per il suo temperamento focoso con i suoi avversari e polemico con i suoi stessi amici, non lo credevano adatto a quel posto - ma lui fece atto di costrizione e promise di " mantenere la più stretta imparzialità nel presiedere e regolare le vostre discussioni; a destra, a sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini devoti al bene della patria comune".

Gli furono affidate alcune delicate missioni all'estero; soprattutto per saggiare la possibilità di un'alleanza italo-tedesca (di cui abbiamo già parlato nei relativi periodi).
L'anno dopo, 1877 riuscì ad entrare nel secondo ministero DEPRETIS come ministro degli Interni. L'uomo focoso tornò a farsi sentire, rivelandosi come un "uomo forte", uomo di governo di primissimo piano; ma non piacque ai suoi antichi e nuovi nemici che aspettarono l'occasione buona per abbatterlo. E la trovarono l'occasione, scatenando una violenta campagna di diffamazione per un suo matrimonio nel periodo esule a Malta nel lontano 1854 con una donna, contratto con un occasionale sacerdote; Crispi si era poi risposato civilmente a Napoli. Fu accusato di bigamia, si scatenò ad arte l'indignazione contro l'uomo di stato, fu aperto un procedimento penale, ed alcuni ministri minacciarono di dimettersi in massa se non sarebbe stato allontanato dal Governo. Crispi si dimise dal governo e da deputato.
Il tribunale ritenne poi non valido quel matrimonio di Malta, chiuse il processo con un "non luogo", e Crispi ritornò al suo posto di deputato, diventando l'infaticato assertore di una politica più energica, un deluso della politica estera del governo, seguitando ad accusarlo di mediocrità. Poi nell'82-83, attaccò il "trasformismo" di Depretis, staccandosi dalla sinistra governativa con un suo programma definito di "pura sinistra", costituendo la "Pentarchia". Ma Crispi, "trasformandosi" anche lui, più tardi, il 4 aprile dell'87 (è il periodo delle precedente queste pagine) pochi mesi prima della morte di Depretis accettò di far parte del suo ministero come ministro degli interni.

Il 20 maggio alla Camera pronuncia lui il discorso programmatico, elencando i disegni di legge (riforma comunale e provinciale, pubblica sicurezza, codice penale, codice igiene pubblica, opere pie, statuto degli impiegati, sistema penitenziario, emigrazione) da varare con urgenza per un organico progetto di ammodernamento dello Stato e l'esigenza di unificare su tale progetto le forze parlamentari.
Iniziative che una volta salito al potere, Crispi -in verità- riuscì a varare segnando una fase di capitale importanza nella storia istituzionale del paese.
E come leggeremo in queste stesse pagine, Crispi si preoccupava anche di cose minime, quando erano in gioco la dignità del Paese e la sua autorità.

L'opposizione alla politica Crispina fu soprattutto quella dell'espansione coloniale (lo accusarono di "megalomania"); quella di voler combattere il movimento irredentista; questo perché era un sostenitore della Triplice; di avere (lui della sinistra, lui siciliano) combattuto i Fasci dei lavoratori; di avere emanato una legge che permise lo scioglimento delle associazioni dette "sovversive" e dello stesso partito Socialista; di aver promosso la revisione delle viste elettorali per indebolire le opposizioni.

Tutti questi ultimi fatti, a partire dalla sua ascesa al potere, li narreremo in queste e nelle prossime pagine del cosiddetto "periodo crispino".

Torniamo al 30 luglio 1887; il giorno dopo la morte di DEPRETIS. Privo del suo capo, il ministero si dimise; ma il Re respinse le dimissioni e chiamò alla presidenza del Consiglio FRANCESCO CRISPI, il quale tenne per sé il portafoglio dell'Interno e, avendolo NIGRA rifiutato, prese anche l'interim degli Esteri, dando subito alla politica italiana, che con il Depretis era stata fiacca, indecisa e incolore, un indirizzo più preciso, più risoluto e più energico; che alcuni iniziarono a chiamare "dittatoriale"; e, in effetti, Crispi, in crescendo, rimase sempre di più al di qua del limite fra stato liberale e stato democratico, finendo da ultimo su posizioni nettamente autoritarie.
Non per nulla, dopo i fallimenti degli ultimi suoi anni, entrato nell'ombra, più tardi Crispi, l'ex uomo della sinistra estrema, acquisterà per le correnti nazionalistiche e per il fascismo (proprio lui che cadde in disgrazia nel '91 per una caustica e infelice frase verso la Destra "di aver condotto una politica servile verso lo straniero") un valore di simbolo e di precursore; compreso il suo filogermanesimo, il filocolonialismo, l'antifrancesismo, la megalomania e l'autoritarismo dell'"uomo forte" (su quest'ultimo, lui stesso (qui più avanti) ci dirà per quale motivo e per quale necessità bisogna essere "autoritari").

Infine, come Crispi, anche Mussolini adotta all'inizio il motto di ORIANI "nemico immutato, l'Austria. Mare nostro, l'Adriatico" per poi attingere, nel discorso di Pola del 20 settembre 1920 (e sempre più in crescendo) al mito imperiale di Roma e nel discorso di Napoli dell'ottobre 1922 ad un compiuto "orizzonte mediterraneo".
E assieme a Oriani, Carducci (lo abbiamo già citato nelle pagine precedenti a proposito della sua conversione - vedi capitolo "Trasformismo") che, nel rampognare le colpe e le vergogne dell'Italia unita, persegue un "mito della forza", rivestendolo di panni democratici; "Cesarismo" -ossia la grande incarnazione in campo politico- è il suo obiettivo più frequente negli "anni crespini". Suo questo articolo sulla "Gazzetta dell'Emilia" del 29 giugno 1893, difendendo Crispi dalle disgrazie e dall'accusa di megalomania:
"Di Francesco Crispi io sento e penso che è il solo grande uomo di Stato cresciuto dalla democrazia italiana del 1860, il quale confermandone gli ideali abbia mostrato di saperli attuare: che venuto al potere nel 1876 o durato di poi avrebbe evitato molti errori alla parte del progresso e data forza alla patria dentro e fuori: che tardi venuto pure si dimostrò il solo, dopo Cavour, vero ministro italiano. Megalomania! E' in formula retorica e pedantesca uno sfogo tra invido e pauroso di animi brevi. Crispi è megalomane come Mazzini, come Vittorio Emanuele, come Garibaldi, che volevano l'Italia forte e rispettata. Altrimenti, a che averla fatta? La micromania e procomania vedemmo a che approdino. Per tutto ciò io, che non fui ministeriale mai e fin anzi di parecchi ministeri repressore talvolta forse oltre il giusto, sono devoto a Francesco Crispi, e auguro e fo voti che al governo della mia nazione non manchi all'uopo l'animoso e pensoso vegliardo che al genio di Garibaldi e ai fati d'Italia segnò e aprì termine di unità la Sicilia".

Carducci scriveva questo nel '93; ma molte cose dovevano ancora accadere. Crispi, ammiratore dei nibelungi, si mise a fare il "Bismarck d'Italia", abbastanza abile e determinato da farsi prendere sul serio in Patria. Un po' meno a Berlino, dove giravano vignette con lui che lustrava gli stivali al cancelliere tedesco o gli suonava il mandolino, mentre l'altro puntava i cannoni su mezza Europa.
Emulando il colonialismo, s'imbarcò nell'avventura etiopica, poi la disfatta di Adua fu la rovina del colosso da piedi d'argilla. Autoritario lo fu (al debole Umberto gli disse che: "per governare l'italia siamo sufficienti noi due"); campione della doppiezza pure, spegiudicato tanto; padre di tutti i voltagabbana, che da allora diventò un'autentica patologica moda dei politici italiani.
Alla domanda se fu un vero grande statista, la risposta è: che l'Italia ha dato i natali a Machiavelli, e ogni tanto nasce un "nipotino".

Avremo modo di conoscerlo meglio, in queste e nelle prossime pagine.

LA QUESTIONE BULGARA

Una delle questioni di politica estera che il DEPRETIS aveva lasciato insolute era quella bulgara. Il 7 luglio l'Assemblea bulgara aveva eletto proprio re il principe FERDINANDO di Sassonia Coburgo-Gotha, il quale era sostenuto dall'Austria e dall'Inghilterra ed osteggiato dalla Russia e dalla Francia. Crispi, la cui politica tendeva ad isolare la Francia in Occidente, a sottrarre i Balcani all'influenza Russa, a rafforzare la Triplice e ad accostare l'Italia all'Inghilterra, si schierò apertamente a favore del Coburgo e propose alla Gran Bretagna una convenzione militare per il caso di un intervento armato.
Anche il tedesco BISMARCK voleva rafforzata la Triplice e nella stessa estate del 1887 tempestivamente fece sapere a CRISPI per mezzo dell'ambasciatore italiano a Berlino che desiderava molto rivederlo, ma che non osava invitarlo, per non mancar di riguardo al Re. CRISPI -che aveva una grande e ostentata ammirazione per il cancelliere germanico- aderì subito al desiderio e, dopo avere conferito con il re il 28 settembre a Monza e il 29 a Milano, partì per la Germania.

LA VISITA DEL CRISPI A BISMARCK

Il 1° ottobre CRISPI era a Friedrichsruh, ospite gradito della famiglia del BISMARCK e vi si trattenne tre giorni. Il 2 ottobre, il cancelliere, parlando della politica tedesca, disse che il suo paese desiderava la pace, ma che due sole potenze europee, la Francia e la Russia, dimostravano di non volerla. Quanto a quest'ultima potenza Bismarck dichiarò che a lui poco importava che andasse a Costantinopoli, che anzi ne era contento perché si sarebbe indebolita. Ma il Crispi non la pensava così. "Non possiamo permettere - rispose - che la Russia vada a Costantinopoli. La Russia a Costantinopoli sarebbe padrona del Mediterraneo .... Codesto grande impero, allargando il suo dominio in Europa, potrebbe farne una sua base, imperando facilmente sull'Oriente e sull'Europa. Ad impedire che questo avvenga l'Italia segue la sua politica tradizionale. Nel 1854 Cavour concorse alla guerra in Crimea unendosi alla Francia ed all'Inghilterra, proprio per questo scopo, e oggi l'Italia non potrebbe fare altrimenti".

E aggiungeva: "In aprile noi potremo mettere mezzo milione di soldati (di "baionette") in prima linea, oltre la riserva e la territoriale. Il nostro paese è tranquillo; noi non temiamo partiti sovversivi. I nostri internazionalisti sono rari e non verrebbero mai all'azione. In caso di spedizione all'estero potremo fare i maggiori sforzi, perché all'interno non avremo da temere delle insurrezioni".

Dopo aver parlato della questione bulgara, e del proposito del Governo italiano di vendicare Dogali, CRISPI accennò alle sue preoccupazioni prodotte dal probabile contegno della Francia:
"Io voglio sperare - disse - che la Francia starà tranquilla, ma dovrò osservare che i trattati del 1882 e del febbraio 1887 sono incompleti. Si previdero le ipotesi del concorso reciproco di una delle due potenze in caso di una guerra; ma non si pensò a fare una convenzione militare, e che io ritengo sia necessaria. Nessuno può sapere né quando né come scoppierà la guerra. Può essere un fatto improvviso; e non si deve attenderlo per metterci d'accordo nella parte che ciascuno di noi dovrà prendere alla difesa comune. Giova stabilire al più presto un piano di difesa e di offesa, prevedendo tutte le ipotesi, affinché scoppiata la guerra, ciascun di noi sappia quello che deve fare. Insomma una convenzione militare è completamento ai trattati di alleanza".

Infine CRISPI parlò della situazione in cui si trovavano gl'Italiani ancora soggetti all'impero austro-ungarico. "Io non domando - disse - privilegi per la popolazione italiana. Domando solo che sia trattata come tutte le altre nazioni dell'Impero. Il governo austriaco ci guadagnerebbe, perché toglierebbe ogni motivo a lagnanze e se la renderebbe amica. V. A. non può comprendere quale danno derivi dai cattivi trattamenti ed in quale imbarazzo l'Austria metta il governo italiano. Tutte le volte che giungono in Italia notizie di violenze fatte agli Italiani dall'Austria, il sentimento nazionale si ridesta ed i partiti politici se ne valgono di pretesto per turbare la pace pubblica".

La visita di Crispi a Bismarck sollevò le critiche di quanti sostenevano un riavvicinamento alla Francia e suscitò il più vivo malumore nella vicina repubblica, ma aumentò paradossalmente il prestigio al Primo Ministro italiano, il quale, non poteva e non doveva fare una politica amichevole verso la potenza che aveva inflitto all'Italia le recenti umiliazioni, e aveva cercato di chiudere alla stessa ogni via di espansione nel Mediterraneo.

IL BANCHETTO DI TORINO

Francesco Crispi si mise sulla via del ritorno il 3 ottobre; il 5 a Monza era a colloquio con il re, il 6 a Milano si incontrò con NIGRA, ambasciatore a Vienna. Il 25 era a Torino, dove, per iniziativa del BOTERO, direttore della "Gazzetta del Popolo", degli onorevoli GIOLITTI, BERTI, ROUX e altri, gli fu offerto un banchetto politico, al quale parteciparono circa seicento persone tra le quali moltissimi deputati e senatori.

Al banchetto il presidente dei ministri pronunziò un discorso importantissimo. Disse dei meriti del Piemonte nel Risorgimento nazionale, ricordò il suo esilio in Torino, poi tracciò il suo programma e per prima cosa dichiarò che aveva fede e nella Monarchia e nella libertà:
"Nè libertà è per noi parola vaga o celata, così da lasciar campo tanto agli eccessi della demagogia quanto alle restrizioni della paura. La libertà per noi è il rispetto nei diritti individuali messi in armonia con il diritto nazionale; è la devozione alla legge. Questo il criterio che guida la nostra condotta di fronte al popolo. Non potrebbe essere diverso il nostro contegno di fronte alla Chiesa, la cui libertà è più larga e più sicura in Italia che in qualunque altro Stato. Noi non intendiamo menomarla; intendiamo esserne, rispettandola, rispettati. Da alcuni siamo chiamati "autoritari", lo sappiamo; e lo saremo, se per autoritarismo si intende la ferma persuasione che un'autorità debba presiedere all'essenza fondamentale e al quotidiano svolgimento dello Stato; ma pretendiamo che quella autorità debba essere sotto ogni rispetto legittima; prima per il suffragio sincero dei più: poi per la leale esplicazione della loro volontà; per la capacità, infine di trarne per tutti il maggior bene possibile. Per noi è un governo quello che congiunge il dovere, il volere e il sapere. All'infuori di ciò è l'arbitrio. E l'arbitrio può bensì esser consentito dall'universale, in eccezionali momenti, a un solo uomo, e tutto un paese, tutta una nazione, tutto un parlamento può stringersi intorno a lui; ma ad un solo intento lui deve usarlo: a quello di adoperarsi affinché nel più breve tempo e nel modo migliore si ritorni alle condizioni normali. È dunque nell'amor della patria, nella fede nella monarchia e nella libertà che noi cercheremo di fare".

Disse poi che le sue mire erano pacifiche, perché con la pace soltanto si potevano attuare le riforme invocate, compiere le opere pubbliche, riordinare il paese amministrativamente ed economicamente, far fiorire le industrie, i commerci, l'agricoltura; dichiarò che l'Italia voleva essere amica con tutte le potenze e mantenere con tutte i migliori rapporti e che nessuno doveva sentirsi minacciato se il nostro paese era nel continente alleato degli imperi centrali e sul mare procedeva d'accordo con l'Inghilterra; nessuno, e specialmente la Francia. "Il più felice dei miei giorni sarebbe quello in cui potessi contribuire a portar la pace nei cuori francesi. Una guerra fra i due paesi nessuno potrà desiderarla e volerla, per il fatto che la vittoria o la sconfitta sarebbero entrambe funeste alla libertà dei due popoli, perniciose all'equilibrio europeo".

Accennando al suo viaggio in Germania, si lanciò nei più alti elogi per BISMARCK anche lui animato dal desiderio di pace.
"Si è detto che a Friedrichsruh abbiamo cospirato. E sia pure: a me, vecchio cospiratore, la parola non fa paura. Sì, se si vuole; abbiamo cospirato, ma abbiamo cospirato per la pace .... Pace vogliamo, dunque, ma con onore, poiché poniamo l'onore più in alto che non i benefici della pace".

Il discorso fece grande impressione. Il re e i giornali lo elogiarono; la Francia si rasserenò e il 28 ottobre l'incaricato di affari francese andò a congratularsi con Crispi, il quale, il 31 apprendeva dal conte SOLMS, ambasciatore tedesco, che l'imperatore aveva accolto la proposta della convenzione militare (ne parleremo più avanti)..

INAUGURAZIONE DELLA SECONDA SESSIONE DELLA XVI LEGISLATURA

Il 16 novembre del 1887, s'inaugurò la seconda sessione della XVI Legislatura con un discorso del re, che era un po' l'eco del discorso di Crispi a Torino. UMBERTO I accennava alle mire pacifiche della politica italiana, alle alleanze che rafforzavano la nazione al cospetto degli altri Stati e al suo continuo progredire e parlava di alcune riforme che riguardavano il codice penale, la legge comunale e provinciale, la pubblica sicurezza, la pubblica beneficenza, il credito, l'emigrazione, la sanità pubblica ecc.
Discutendosi l'indirizzo di risposta al discorso della Corona, l'on. FERRARI si lagnò perché nessuna parola era stata detta intorno alla questione sociale e accennò al pericolo di una dittatura. CRISPI rispose che in un'altra sessione, avrebbe presentato i disegni di leggi tendenti a risolvere la questione sociale. Quanto al pericolo di una dittatura disse: "l'Italia è un paese troppo fatto per la libertà per tollerare dittature. Una delle glorie maggiori della patria nostra è questa: che l'Italia si è fatta per mezzo della libertà, senza stati d'assedio, senza violenze, con il consenso del popolo e quindi, una volta costituita a nazione, non può temere della libertà; essa la tiene anzi come la base della sua vita, e chiunque osi attentarvi, di qualunque parte sia, troverà nell'immensa maggioranza del popolo italiano una resistenza e una forza che faranno cadere tutti i tentativi, che mai potessero osarsi".
(Fu abbastanza profeta; che un popolo, ad un certo punto, "fa quello che vuole!"; "Il consenso? Il popolo? in ventiquattrore ti puoi ritrovare dall'altare alla polvere" disse più tardi un suo emulo dittatore, dal nome Benito).

La serie delle riforme s'iniziò con la presentazione, avvenuta il 19 novembre, di un disegno di legge che istituiva la Segreteria della presidenza del Consiglio, il Ministero delle Poste e Telegrafi e i Sottosegretari di Stato in luogo dei direttori generali. Il disegno di legge fu approvato dalla Camera il 9 dicembre del 1887 e dal Senato 11 febbraio del 1888.

CRISPI E LE DONNE IN POLITICA

Altra riforma fu quella della legge comunale e provinciale. CRISPI presentò il disegno il 19 novembre del 1887; ne riferì l'on. LACAVA, favorevolmente, il 18 maggio dell'anno successivo, e ai primi di luglio iniziò la discussione alla Camera. Due proposte furono respinte, quella di SALANDRA che voleva il suffragio universale amministrativo, e quella degli onorevoli PERUZZI e PANTANO che volevano fosse concesso il "voto amministrativo alle donne". Opponendosi a quest'ultima proposta, CRISPI disse:
"Per me la donna, regina dei cuori finché resterà estranea alle lotte della pubblica cosa, non sarà più il tesoro delle famiglie, non sarà la provvidenza e la previdenza del marito e dei figli se la caccerete nella politica. Sensibile ed impressionabile, com'è, non potrebbe avere sempre la mente serena e tranquilla, qualora si occupasse della cosa pubblica. Amante ed amica, essa è un conforto; è per noi, quando dalla lotta politica, dai contrasti dell'aula parlamentare, ritorniamo nelle nostre, famiglie, per avere pace e tranquillità, per assicurarci quella calma, che ci fu turbata in tutto il giorno, per trovare quel riposo al quale abbiamo diritto, sarebbe una grande sventura, o signori, che ricominciassero, entrando in casa, i contrasti e le lotte D'altra parte, quando voi distaccate la donna dalla famiglia e la gettate nella pubblica piazza voi fate, o signori, della donna non più l'angelo consolatore della famiglia ma il demone tentatore. Né voglio io ricordare l'influenza possibile dei confessionali; è un tema che abbiamo trattato abbastanza per doverci ritornare sopra".

Prima che terminasse l'anno, il disegno, approvato dai due rami del Parlamento, divenne legge.
Sullo scorcio del febbraio del 1888, Crispi presentò il disegno di legge di pubblica, sicurezza, che fu discusso ed approvato nel novembre e nel dicembre dello stesso anno. Fra le altre disposizioni, la legge obbligava i promotori di una pubblica riunione ad avvisare 24 ore prima la polizia. Tale avviso, per le processioni e le dimostrazioni doveva esser fatto tre giorni prima e l'autorità per ragioni igieniche o di ordine pubblico poteva proibirle.
Ogni riunione pubblica, turbata da delitti o da grida contro i poteri dello Stato o contro i capi di governi esteri ed i loro rappresentanti, poteva essere sciolta con la forza. Gli spettacoli teatrali, gli esercizi pubblici, le tipografie, i mestieri ambulanti dovevano essere autorizzati dall'autorità di pubblica sicurezza, che per punire o reprimere, disponeva della facoltà di applicare l'ammenda, l'ammonizione e il domicilio coatto.

Nel dicembre del 1888, furono approvate inoltre, la legge che regolava l'emigrazione e quella destinata a tutelare la sanità pubblica e l'igiene. A proposito di quest'ultima legge, è importante il regolamento per la prostituzione, con il quale si tentò di giovare alla salute pubblica e di difendere il buon costume. Altre riforme, dovute queste allo ZANARDELLI, furono l'abolizione dei tribunali di commercio e l'unificazione a Roma della Cassazione penale. Anche la legislazione penale fu unificata e il 22 novembre del 1888 il ministro Zanardelli fu autorizzato dal Parlamento a pubblicare il nuovo codice penale che il re sanzionò il 30 giugno del 1889 ed entrò in vigore il 1° gennaio del 1890.

I RAPPORTI FRA LA CHIESA E LO STATO
VIAGGIO DI GUGLIELMO II IN ITALIA
VIAGGIO DI UMBERTO I IN ROMAGNA

Tra la Chiesa e lo Stato, fallito il vago tentativo di riconciliazione narrato nel precedente capitolo, i rapporti s'inasprirono ancora di più. L'Italia ufficialmente non partecipò alle feste del Giubileo, ma il Governo non fece nessuno atto poco riguardoso verso la Santa Sede, ma fece sì che l'ordine pubblico non fosse turbato e il Re, anzi, mandando al sindaco di Roma il "solito" telegramma per il 20 settembre (Breccia di Porta Pia), aveva alluso alla "fausta ricorrenza" giubilare.
Ingannato da quest'espressione, il duca di Torlonia, sindaco di Roma, ritenne suo dovere, quale rappresentante di una città che era la capitale del Cattolicesimo, di rendere omaggio al Capo della Chiesa e si recò dal cardinale vicario pregandolo di porgere le proprie congratulazioni al Pontefice. Il cardinale restituì la visita. Appresa la notizia, Crispi propose al Consiglio dei Ministri, che accettò, di rimuovere dall'ufficio il Torlonia; e per questo suo provvedimento ebbe lodi da più parti.

Questo fatto, naturalmente, contribuì a tendere di più i rapporti fra la Chiesa e lo Stato, che divennero ancor più aspri quando si discussero in Parlamento gli articoli del nuovo codice penale che contenevano disposizioni contro gli abusi del Clero. Proteste vivaci mossero i vescovi del Mezzogiorno, dell'Umbria, della Toscana e del Veneto che si lanciarono in vivaci proteste; il Pontefice protestò pure lui nel Concistoro del 1° giugno del 1888, dichiarando che
quelle disposizioni offendevano la libertà e la dignità del clero e della stessa Chiesa; ma tutto fu inutile.

I RAPPORTI FRA L'ITALIA E LA FRANCIA - INCIDENTI ITALO-FRANCESI -
CRISPI DENUNCIA ALLE POTENZE...

IL CONTEGNO PROVOCATORE DELLA FRANCIA

Peggiori erano i rapporti tra la Francia e l'Italia. Nonostante le buone accoglienze al discorso di Torino, la Francia non poteva perdonare all'Italia la politica a lei ostile in Oriente e soprattutto la sua antifrancese alleanza con gl'imperi centrali e non tralasciava occasione per manifestare il suo malanimo, provocando incidenti che potevano portare ad un conflitto armato.
Il primo di questi incidenti avvenne nel dicembre del 1887. Essendo morto a Firenze un suddito tunisino, il console francese aveva chiuso nel proprio archivio, tutti i titoli che riguardavano la successione. Il pretore del 1° mandamento di quella città, con mandato del tribunale, forzò la porta del Consolato e s'impossessò dei documenti che contenevano l'eredità del suddito tunisino. L'atto del magistrato provocò vivaci proteste della Francia, ma CRISPI si rifiutò di dare le soddisfazioni che chiedeva, mostrando che l'operato del console era stato illegale perché tra l'Italia e la Reggenza Tunisi vigeva sempre il trattato del 1868, che riconosceva la competenza dei tribunali italiani.

Il secondo incidente, si verificò nella primavera del 1888. Il 30 maggio aveva il comandante delle truppe italiane a Massaua imposto a tutti i proprietari d'immobili e a tutti i commercianti italiani e stranieri una piccola tassa mensile, che due francesi, spalleggiati e forse aizzati dal MERCINIER, console francese, non vollero pagare.
CRISPI intervenne e ordinò alle autorità militari d'Africa, di non considerare il Mercinier quale rappresentante della Francia, perché sfornito di regolare exequatur; poi portò la questione davanti alle cancellerie delle grandi potenze europee, dimostrando che la tesi del governo francese - il quale sosteneva che l'Italia non aveva diritto d'imporre tasse agli stranieri perché vigevano a Massaua le capitolazioni - era sbagliata, essendo effettiva la sovranità italiana su quella città e non essendo possibili le capitolazioni in un paese musulmano amministrato da una potenza cristiana.
Tre note inviò il Crispi alle cancellerie delle potenze; due in data del 25 luglio e una in data del 31. In quest'ultima, fra le altre cose, diceva:

"Rimane a far conoscere quale sia stato costantemente il contegno degli agenti francesi a Massaua fin dai primi giorni della nostra occupazione, poiché è da quel contegno che originarono le presenti difficoltà.
"Gioverà premettere che la Francia è la sola potenza che mantenga una rappresentanza a Massaua, sebbene non ha interessi commerciali e solo due sudditi francesi vi si trovino da pochi mesi esercitandovi il piccolo commercio. La sua rappresentanza, e questa presenza, non ha dunque, evidentemente, che uno scopo politico. Si vuole che essa si colleghi ad una missione di lazzaristi residenti in Abissinia; ma il contegno dei suoi agenti lascia purtroppo supporre che ben diverso e più vasto sia l'obiettivo. Al momento della nostra occupazione noi non abbiamo trovato a Massaua alcun agente consolare francese, e solo otto mesi dopo (e propriamente il 20 ottobre 1885), quando gli Egiziani abbandonando quella località, ce ne lasciavano il pieno dominio, giunse un tale signor SOUMAGNE, il quale si disse vice-console di Francia. Scambiate le visite con le nostre autorità, più che mantenere con esse quei rapporti di cordiale amicizia che avrebbero dovuto essere scopo precipuo della sua presenza a Massaua, pare egli si preoccupasse di stringere legami con l'Abissinia. Lo vediamo, infatti, recarsi nella primavera seguente a Adigrat, dove si incontra con Ras Alula, e pochi mesi dopo, nell'agosto del 1886, a Adua per ossequiarvi re Giovanni. E dei suoi intimi rapporti con il Negus lui stesso rivelava un colloquio con il superiore delle nostre truppe, e confessava di avere proposto al re di stringere con la Francia formale trattato; del quale la clausola più importante, come si venne poi a sapere da altra fonte, sarebbe stata la protezione della Francia, accordata all'Abissinia contro qualsiasi potenza.
"Questi segreti rapporti e maneggi del rappresentante di Francia con il Negus e con Ras Alula autorizzano il sospetto che lui complottasse contro di noi. Né diverso era stato il contegno del Mercinier, successo di lì a poco al Soumagne. "Questo contegno, continuamente ed apertamente ostile degli agenti francesi, e la necessità di mantenere l'ordine in una piazzaforte e in un territorio dove vige tuttora lo stato di guerra, davanti ad indigeni che dobbiamo amministrare ed a stranieri che lo frequentano, ci hanno costretto a non tollerare più oltre il signor Mercinier nella sua assunta qualità di reggente il vice-consolato di Francia".

L'occupazione italiana di Zula, avvenuta il 4 agosto del 1888, suscitò proteste da parte della Francia, la quale diceva di vantare diritti su quelle terre; ma su questo punto il governo francese non ritenne d'insistere troppo e la cosa finì lì.
Più grave fu invece l'incidente avvenuto nel settembre del 1888 a Tunisi. Il Bey, con la firma del rappresentante francese, aveva promulgato due leggi: con la prima sottoponeva le scuole italiane all'ispezione del rappresentante della Francia, rendeva obbligatorio l'insegnamento della lingua francese e imponeva condizioni arbitrarie a quegli insegnanti italiani che avessero voluto aprire scuole private; con la seconda, proibiva le associazioni non autorizzate.

FRANCESCO CRISPI telegrafò allora a Parigi: "Se il Bey di Tunisi fosse indipendente, io saprei come provvedere; ma essendo sotto la protezione francese, quasi pupillo sotto tutela, sono costretto a rivolgermi alla potenza protettrice, affinché voglia spiegarsi in così grave questione. Abbiamo in Tunisia 28 mila Italiani .... Non possiamo rinunciare alle nostre prerogative".
Contemporaneamente il Crispi informò i gabinetti di Londra, Berlino e Vienna, sostenendo che le leggi del Bey non potevano essere applicate agli Italiani essendo Tunisi un paese a capitolazione.
Il 21 ottobre, avendo il ministro degli Esteri francese GALLET dichiarato che i reclami italiani costituivano delle provocazioni, CRISPI rispose: "In verità, il signor Gollet vuole ripetere la favola del lupo e dell'agnello, ed io non intendo prestarmi a fare la parte dell'agnello .... Il provocatore è colui che ci ha offesi e noi siamo i provocati".
Fu così che il buon diritto dell'Italia fu riconosciuto.

Ma non furono soltanto questi piccoli incidenti che contribuirono
ad inasprire i rapporti tra l'Italia e la Francia.

La rottura era solo rimandata; infatti le relazioni politiche furono compromesse da un accordo commerciali; ma con una frase eloquente ed infelice, che però rispecchiava la realtà della politica francese:
"Finché sarete nella triplice non sarà possibile un accordo commerciale tra l'Italia e la Francia".

Seguiremo questo e altro nel prossimo capitolo ...

... periodo dal 1888 al 1889 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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