ANNI 1889-1895

GUERRA D'AFRICA - PATTI E ACCORDI - POI, L'AMBA ALAGI

I RAPPORTI ITALO-FRANCESI - L' ITALIA E L'AUSTRIA - INCIDENTE ITALO-PORTOGHESE - L'AZIONE ITALIANA PER L' ARMENIA - IL PROTETTORATO ITALIANO SUI SULTANATI DI OBBIA E DEI MIGIURTINI E SULLA COSTA DEL BENADIR - IL PROTOCOLLO ITALO-INGLESE DEL 21 MARZO 1891 - ESPLORAZIONI DEL ROBECCHI-BRICCHETTI, DEL FERRANDI, DEL BÒTTEGO E DEL RUSPALI IN SOMALIA - CONVENZIONE TRA L' ITALIA, L'INGHILTERRA E IL SULTANO DI ZANZIBAR - LA COMPAGNIA FILONARDI - PROTOCOLLO ITALO-INGLESE PER LA DELIMITAZIONE DELLA SFERA D'INFLUENZA NELL'AFRICA ORIENTALE - UCCISIONE DEL SOTTOTENENTE DI VASCELLO ZAVAGLI - PRIMO COMBATTIMENTO DI AGORDAT - COMBATTIMENTO DI SEROBETÌ - SECONDO COMBATTIMENTO DI AGORDAT - PRESA DI CASSALA - INSURREZIONE DELL'ACCHELÈ-GUZAI - COMBATTIMENTO DI HALAI - LE GIORNATE DI COATIT E SENAFÈ - OCCUPAZIONE DELL'AGAMÈ E DEL TIGRÈ - IL GENERALE BARATIERI A ROMA - OPERAZIONI CONTRO MANGASCIÀ - COMBATTIMENTO DI DEBRA-AILÀ - COMBATTIMENTO DI AMBA ALAGI E DI ADERÀ - DOPO L'AMBA ALAGI, LE DISCUSSIONI PARLAMENTARI.


I RAPPORTI ITALO-FRANCESI - L' ITALIA E L'AUSTRIA
INCIDENTE ITALO-PORTOGHESE


Quando, il 15 dicembre 1893, CRISPI salì nuovamente al potere, atteggiandosi a "salvatore della Patria", aveva nella politica estera trovato la situazione dell'Italia molto debole.
Dopo le stragi in Francia di Aigues-Mortes e le indignate dimostrazioni italiane di protesta, le relazioni con la Francia si erano fatte tese ma non critiche; mentre, a causa delle spiccate simpatie francesi dei ministeri DI RUDINÌ e GIOLITTI (i due che l'avevano sostituito al governo nei diciotto mesi precedenti) i rapporti con le altre due potenze della Triplice si erano intiepiditi, anche se appena dopo la sua nomina, Rudinì l'Alleanza l'aveva rinnovata.

Tuttavia la Germania (senza più Bismarck) tentava un riavvicinamento con la Russia e con la Francia. Con quest'ultima, il 4 febbraio del 1894, stipulava una convenzione per stabilire i confini tra il Camerum e il Congo e fissare le zone d'influenza nelle regioni del lago Ciad; e al Governo italiano intanto, per mezzo dell'ambasciatore BULOW, faceva dare il consiglio di accordarsi con la Francia.
FRANCESCO CRISPI pur malvolentieri, tentò di accordarsi con il Governo francese e iniziò trattative a Roma con ROUVIER, ma queste dovettero esser troncate perché il ministro degli Esteri HANOTAUX voleva che l'Italia rompesse l'intesa con l'Inghilterra.
Per far sì che la politica della Triplice non apparisse indebolita, CRISPI nell'aprile del 1894 combinò (o provocò) l'incontro a Venezia di UMBERTO I con GUGLIELMO II.

In seguito al fallimento delle trattative per un accordo, i rapporti italo-francesi s'inasprirono così tanto, che a gennaio il presidente CRISPI richiamò da Parigi l'ambasciatore RESSMAN e lo sostituì con il conte TORNIELLI. Ma il mutamento d'ambasciatore non migliorò i rapporti dell'Italia con la Francia; il 10 giugno i ministri HANOTAUG e RIBOT annunziavano l'alleanza franco-russa e nell'agosto il Governo della Repubblica denunciava il trattato d'amicizia, di commercio e navigazione, stipulato nel settembre del 1868 tra l'Italia e la Tunisia, che concedeva all'Italia la condizione della Nazione più favorita e scadeva nel settembre del 1896.
La denuncia era fatta in nome del Bey e in virtù del trattato di Kasr el-Said del 1881; CRISPI però, allo scopo di ottenere compensi, rispose che il Governo italiano non aveva preso atto di quel trattato.

Rapporti con l'Austria. Nell'autunno del 1894, avendo il Governo austriaco imposto agli Italiani dell'Istria l'uso della lingua croata nelle iscrizioni, provocando così fiere dimostrazioni irredentiste in Italia, CRISPI scrisse lettere a NIGRA, ambasciatore a Vienna e a LANZA, ambasciatore a Berlino.

Al primo scriveva: "L'Austria avrebbe potuto essere più prudente. Impero poliglotta, la sua potenza verrebbe dal rispetto di tutte le nazionalità, delle quali si compone lo Stato. E poi mi pare che codesto Governo si fidi troppo degli Slavi, i quali tengono fissi gli sguardi a Pietroburgo. Si aggiunga che l'opera di annullare la lingua italiana nelle opposte sponde adriatiche è difficile, e con la violenza diviene impossibile. E' più facile italianizzare gli Slavi che slavizzare gli italiani .... Se ella potesse dire una buona parola a KALNOKY, farebbe opera saggia. Accordino agli italiani gli stessi diritti accordati alle altre nazionalità e conserveranno la pace dell'impero".

Al Lanza a Berlino invece scriveva: "La condotta del Governo Austriaco nell'Istria manca di buon senso .... Quell'agitazione rende nel popolo sempre più antipatica la nostra alleanza con l'Austria, che non è amata nel paese .... non mi si ponga in condizioni da essere obbligato a dimettermi. Veda subito l'imperatore Guglielmo e lo scongiuri ad interporsi perché cessi codesta questione delle lingue e si rispetti l'italiana come la slava".

Avendo Lanza risposto che non sapeva quando gli sarebbe stato possibile vedere l'imperatore, di rimando Crispi gli scrisse parole piuttosto amare sul suo operato. Il conte Lanza, ingiustamente risentito, telegrafò le proprie dimissioni, ma si ebbe una dura lezione dal Crispi, il quale rispose: "Faccia il suo dovere innanzi tutto e poi vedrò come convenga provvedere".
Il Lanza ubbidì ed ottenne un'udienza da Guglielmo II, che gli promise di avvertire il governo austriaco di non compromettere l'alleanza con la sua condotta verso gl'Italiani.

A parte la lucida analisi sulla situazione (la prudenza austriaca sugli slavi, futura causa dei suoi guai), il vegliardo non mancava di autorevolezza con i suoi sottoposti, né come abbiamo visto la fierezza di essere italiano era diminuita.

L'INCIDENTE CON IL PORTOGALLO

Un anno dopo ci fu un incidente tra l'Italia e il Portogallo che noi riferiamo solamente per mettere anche qui in evidenza la fierezza del Crispi e del Re. DON CARLOS in giro per le capitali europee, nei primi di ottobre del 1895 fece annunciare dal suo ambasciatore a Roma che avrebbe fra alcuni giorni visitato i Reali d'Italia di cui era nipote, essendo figlio di Maria Pia, sorella di Umberto I. Ma poco dopo, avendolo la Santa Sede minacciato di richiamare il Nunzio Apostolico e di rompere le relazioni con Lisbona, Don Carlos, da Parigi, pregò lo zio di riceverlo a Monza in incognito.
Il re si rifiutò, e Crispi, appena apprese questo fatto, scrisse all'aiutante di campo PONZIO VAGLIA: "Il contegno del nostro Augusto Sovrano non poteva essere che quello che dalla M. S. mi attendevo. Noi non abbiamo bisogno di questo minuscolo re di Portogallo, il quale non ha alcuna importanza in Europa. Se egli non può venire a Roma, che resti a casa sua e siccome il pentimento suo e del suo Governo indica una manifestazione di principi a noi contrari, ritireremo il nostro ministro da Lisbona, come risposta alla sua condotta".
Il 21 ottobre Crispi ruppe le relazioni diplomatiche augurando al Portogallo di recuperare la propria indipendenza.

Nello stesso mese l'Italia s' intendeva con l'Inghilterra per un'azione comune contro la Turchia per costringerla ad attuare in Armenia le riforme allora promulgate e a farla desistere dalle sanguinose stragi che commetteva frequentemente sugli Armeni (stragi che sono scomparse dalla memoria europea).
Fra il Crispi e il Salisbury veniva stabilito che in caso di occupazione dei Dardanelli sarebbe toccata agli Italiani l'espugnazione delle fortezze turche. Il 16 novembre una squadra italiana fu mandata nelle acque turche e quel giorno CRISPI, ricevendo il viceammiraglio ACCINNI e il capitano di vascello BETTOLO, disse loro: "Facciamo il nostro dovere e teniamo alta la bandiera d'Italia. Ho piena fede in voi. La bandiera nazionale è affidata in buone mani. Iddio vi benedica" (di questa missione parleremo in altre pagine)

Più che all'Oriente, Crispi guardava, a quel tempo, al sud, alle terre italiane d'Africa, cui pareva che fossero legati i destini d'Italia e dove la Francia, alla quale gli era fastidiosa una certa democrazia, cercava in tutti i modi di scavare la tomba alla politica d'espansione italiana.

IL PROTETTORATO ITALIANO SUI SULTANATI
ESPLORAZIONI ITALIANE NELLA SOMALIA
PROTOCOLLI ITALO-INGLESI
CONVENZIONE CON L'INGHILTERRA E IL SULTANO DI ZANZIBAR

In Africa l'Italia, oltre che nella colonia Eritrea aveva estesa sua azione sulla costa somala. L'8 febbraio del 1889, con atto portante le firme del console italiano V. FILONARDI e di IUSUF ALÌ sultano di Obbia, quest'ultimo metteva sotto il protettorato d'Italia tutto il suo territorio da El Mareck a Ras Ouad e riceveva un compenso annuo di mille e duecento talleri; il 7 aprile del medesimo anno il Filonardi, in nome del re d'Italia, stipulava un altro trattato con il quale il sultano dei Migiurtini OSMAR MAHMUD anche lui metteva sotto la protezione italiana il suo territorio che dalla vallata del Nogal giungeva a Ras Anad, e riceveva un compenso annuo di milleottocento talleri.

In conformità dell'articolo 34 dell'atto generale di Berlino questi due trattati furono, il 16 maggio del 1889, regolarmente notificati alle Potenze. Alle quali, il 18 novembre di quell'anno medesimo, era notificato che in data del 15 dello stesso mese il governo italiano aveva assunto il protettorato della costa del Benadir, "dal limite nord del territorio di Kisimajo al 2°30' latitudine nord", eccettuate le stazioni di Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsceich, soggette al sultano di Zanzibar.
A definire i confini dell'hinterland il 24 marzo del 1891 dal marchese di RUDINI per l'Italia e dal marchese DUFFERIN per l'Inghilterra fu firmato un protocollo che stabiliva quanto segue:

1° La linea di confine tra le sfere d'influenza rispettivamente riservate all'Italia e alla Gran Bretagna, seguirà, a partire dal mare il "thalveg" del fiume Giuba, sino al 6° di latitudine nord: Kisimajo, col suo territorio alla destra del fiume, restano all'Inghilterra. La linea seguirà quindi il parallelo 6° nord: fino al meridiano 35° est Greenwich che rimonterà fino al Nilo Azzurro;
2° Se per esplorazioni ulteriori ne venisse l'opportunità, il tracciato seguente il 6° latitudine nord, ed il 35° longitudine est Greenwich potrebbe, nei suoi particolari essere, di comune accordo, modificato, secondo le condizioni idrografiche ed orografiche del paese.

La Somalia divenne allora campo di azione di audaci esploratori italiani. L'ingegnere BRICCHETTI-ROBECCHI, che nel 1890 aveva per primo compiuto un viaggio terrestre da Obbia ad Alula, nel 1891, partito da Mogadiscio giunse a Berbera, attraversando per primo la penisola dei Somali dall'Oceano Indiano al Golfo di Aden.
Nel 1891-92 UGO FERRANDI esplorò le basse valli dell'Uebi-Scebeli e del Giuba e nel gennaio del 1893 sì spinse fino a Bardera.
Nel 1892 il capitano VITTORIO BÒTTEGO, partito da Berbera, attraversò l'Ogaden ed esplorò gli affluenti del Genana, spingendosi fino ai Sidama. Parte della spedizione, esplorato il medio e basso Dana, entrò nel maggio del 1893 a Lugh, dove poco dopo giunse il principe EUGENIO RUSPOLI, proveniente da Berbera. A Lugh Ruspoli lasciò ammalati i compagni BORCHARDT e DAL SENO, quindi si spinse nel territorio degli Amara Burgi, dove in un incidente caccia perse la vita.
Nel luglio BÒTTEGO si fermò a Lugh, poi presi con sé Borchardt e Dal Seno guariti, raggiunse la costa dell'Oceano Indiano a Brava.
Per ovviare agli inconvenienti che il possesso di Mogadiscio, Merca, Brava e Uarsceich da parte del sultano di Zanzibar produceva questa attività nel Benadir il 12 agosto del 1893 tra il sultano di Zanzibar, il Governo italiano e il Governo inglese fu convenuto che l'Italia avrebbe assunto l'amministrazione delle suddette città, rimanendone al sultano la sovranità.

Nel novembre del medesimo anno, con subconcessione, riconosciuta dal sultano e dall'Inghilterra, la ditta FILONARDI e C. sostituiva il Governo Italiano per un periodo di tre anni nell'amministrazione del Benadir.
Il 5 maggio del 1894 a Roma, da FRANCESCO CRISPI e da Sir FRANCIS CLARE FORD fu firmato un altro protocollo per la delimitazione delle sfere d'influenza fra la Gran Bretagna e l'Italia nell'Africa Orientale, convenendosi quanto segue:

1° Il limite delle sfere d'influenza della Gran Bretagna e dell'Italia nelle regioni del Golfo d'Aden è costituito da una linea che, partendo da Gildessa e dirigendosi verso l'8° latitudine nord, contorna la frontiera nord-est dei territori delle Tribù Gizzi, Bertiri e Ber-Alì, lasciando a destra i villaggi di Gildessa, Darmi, Gig-giga e Milmil. Arrivata all'8° latitudine nord la linea s'identifica con quel parallelo fino alla sua intersezione col 48° est Greenwich. Si dirige in seguito all'intersezione nord del 9° latitudine nord col 49° est Greenwich, e segue quel meridiano fino al mare.
2° I due Governi s'impegnano di conformarsi nelle regioni del Protettorato Britannico ed in quelle dell'Ogaden, a favore così dei sudditi e protetti Britannici ed Italiani come delle tribù che abitano quei territori, alle stipulazioni dell'atto generale di Berlino e della dichiarazione di Bruxelles relative alla libertà del commercio.
3° Nel porto di Zeila vi sarà eguaglianza di trattamento fra i sudditi e protetti Britannici ed Italiani in tutto ciò che concerne le loro persone e i loro beni e l'esercizio del commercio e dell'industria.

Regnava nella Somalia la massima calma; solo un luttuoso fatto era avvenuto il 30 aprile del 1890 ad Uarsceich, dove dagli indigeni era stato ucciso il sottotenente di vascello ZAVAGLI della R. nave "Volta" ed erano stati feriti il sotto nocchiero BERTOLUCCI e il marinaio BERTORELLI; ma altri gravi fatti stavano per avvenire in Eritrea, dove due nemici pericolosi entrambi l'Italia doveva combattere: i Dervisci e gli Abissini.

COMBATTIMENTI DI SEROBETÌ E DI AGORDAT
PRESA DI CASSALA - INSURREZIONE DELL'ACCHELE' GUZAI
COMBATTIMENTI DI HALAI, COATIT E SENAFÈ

Nel giugno 1890 un migliaio di Dervisci, calati fra le tribù dei Beni Amer, protette dall'Italia, razziava e devastava la regione di Degà (Agordat). Alcuni giorni dopo, il maggiore CORTESE, che comandava il presidio di Cheren, si mosse in aiuto dei Beni Amer con due colonne, una diretta su Degà, l'altra su Biscia. Quest'ultima, comandata del capitano FARA, raggiunti i razziatori la mattina del 27 giugno, li attaccò e li sbaragliò, uccidendone 250, ricuperando il bottino, conquistando 116 fucili e facendo numerosi prigionieri.

Dopo questa vittoria, ad Agordat fu posto un presidio. La lezione ricevuta, tenne per circa due anni in rispetto i Dervisci: ma nel giugno del 1892 un migliaio di loro, uscito da Cassala, fece un'incursione nella valle del Mogareb. Contro di loro mosse, il 16 giugno, da Agordat, il capitano HIDALGO, il quale affrontati a Serabetì, li attaccò e li disperse, uccidendone 150.
Questo secondo successo assicurò la tranquillità per diciotto mesi alla colonia italiana sulle frontiere del Sudan; ma verso la metà del dicembre del 1893 circa diecimila Dervisci mossero da Cassala verso Agordat e giunsero in vista di quel forte il 21 di quel mese, fermandosi tra i villaggi di Algheden e Sabderat. A fronteggiarli corse il colonnello ARIMONDI, governatore interinale della colonia in assenza del generale BARATIERI allora in Italia; aveva a sua disposizione il battaglione Fadda, il battaglione Galliano, lo quadrone Asmara (cap. FLAMORIN), lo squadrone Cheren (cap. CARCHIDIO), la batteria Ciccodicola, la batteria Bianchini e la banda del Barca del tenente MIANI; in complesso 42 ufficiali, 32 uomini di truppa italiana, 2106 ascari, 213 cavalli e 8 cannoni, oltre la compagnia Persico con le bande dell'Acchelè-Guzai, in marcia verso Agordat. Comandante in seconda era il ten. col. CORTESE.

Verso il mezzogiorno del 21 dicembre 1892 l' ARIMONDI fece muovere all'attacco l'ala destra, ma questa, sopraffatta dal numero dei nemici, dopo un furioso combattimento, dovette ripiegare ordinatamente, lasciando una batteria e costringendo al ripiegamento anche l'ala sinistra. Verso le ore 13 però, entrate in azione le riserve, gli italiani passarono al contrattacco, respinsero i Dervisci, riconquistarono i pezzi e, dopo sanguinose mischie, misero in rotta completa il nemico, che fu inseguito per alcune ore.
Brillanti furono i risultati della vittoria: i Dervisci lasciarono sul terreno 1000 morti, 72 bandiere e oltre 700 fucili; gli Italiani tre ufficiali morti, due feriti e 230 uomini di truppa morti e feriti. Fra i nemici morti si annoverò l'emiro Ahmet M, comandante supremo.

Per togliere ai Dervisci un'importantissima base d'operazione contro la Colonia Eritrea, il generale BARATIERI decise di assalire Cassala, sebbene questa città non fosse compresa nella nostra zona d'influenza, e il 12 luglio del 1894 radunò ad Agordat il corpo che doveva operare, composto del I Battaglione Indigeni del maggiore TURITTO (3 compagnie coi capitani SEVERI, SPREAFICO e SANDRINI), del II Battaglione Indigeni del maggiore HIDALGO (5 compagnie coi capitani MARTINELLI, BARBANTI, MAGNAGHI, ODDONE e il tenente BERUTO), del III Battaglione Indigeni del capitano FOLCHI (3 compagnie coi capitani CASTELLAZZI e PERSICO e il tenente ANGHERÀ), della 2a compagnia Perini del IV Indigeni, dello squadrone Cheren (cap. CARCHIDIO), e della sezione d'artiglieria del tenente MANFREDINI, in tutto 1600 uomini, dei quali 56 ufficiali e 41 uomini di truppa bianca; in più 145 cavalli, 250 muli e 183 cammelli.

Partito il 13 luglio, il corpo d'operazione giunse il 16 nella gola di Sabderat, dove pose il campo e il 17 mattina mosse su Cassala e dopo una breve azione di cavalleria, assalì il campo mahdista e la città, che poi espugnarono a viva forza. Gli italiani perdettero il capitano CARCHIDIO, caduto durante una carica di cavalleria, e 27 soldati; 2 capi e 39 ascari furono feriti; presi 600 facili, 700 lame, 100 sciabole, 52 bandiere, 2 cannoni, quadrupedi.
Il nemico, forte di 2000 fanti e 600 cavalli, fu inseguito verso l'Otbara.
Per la presa di Cassala, dove fu lasciato il maggiore TURITTO con un migliaio di uomini, il BARATTIERI ricevette un'alta onorificenza militare e un telegramma di felicitazioni del sovrano: "Il successo delle nostre armi è un nuovo trionfo della civiltà. Il possesso di Cassala ridà la pace alle tribù da noi protette, assicura la via del Sudan ai commerci della nostra colonia ed è un nuovo titolo di onore per l'Italia in codeste contrade".

Le vittorie sui Dervisci rendevano sicura la frontiera del Sudan, ma non migliorano le relazioni italiane con l'Abissinia i cui sospetti al riguardo crescevano sempre di più. Si era tentato un ravvicinamento a MENELICK inviandogli in missione speciale il colonnello GIUSEPPE PIANO, però la missione, non solo era fallita, ma aveva messo in sospetto ras MANGASCIÀ, il quale, temendo per sé dalla politica italiana a due facce, aveva ceduto agli inviti del Negus e nell'aprile del 1894 si era recato a Addis Abeba a fare atto di sottomissione all'Imperatore. Questi gli aveva promesso di dargli Tigrè, ma a patto che cacciasse di là, gli Italiani.

Ritornato da Addis Abeba, ras Mangascià cominciò a sobillare contro l'Italia i capi indigeni dei paesi non occupati militarmente. Il primo che il ras guadagnò alla sua causa fu il capo abissino BATHA AGOS, che governava, in nome dell'Italia l'Acchelè-Guzai, e dove l'Italia aveva una sola compagnia di truppe indigene agli ordini del capitano CASTELLAZZI, dislocata nel forte di Balai e il tenente SANGUINETTI, residente in Saganeiti come rappresentante del Governo italiano. BATHA AGOS il 14 dicembre 1894, si ribellò, fece imprigionare il Sanguinetti e si proclamò signore dell'Acchelè-Guzai.

La notizia della rivolta giunse al generale BARATIERI a Cheren il giorno dopo. Subito ordinò al maggiore TOSELLI di muovere dall'Asmara con il suo battaglione contro i ribelli. Il Toselli, giunto il 16 dicembre a Maharaba, iniziò trattative con Batha Agos per la restituzione del tenente Sanguinetti, ma, ricevuti rinforzi, si apprestò ad assalire i ribelli Saganeiti, donde però questi ultimi, nella notte dal 17 al 18, in numero di 1600, erano partiti per Balai, nella speranza di impadronirsi del forte e catturare la compagnia di Castellazzi.

Il maggiore TOSELLI, senza indugiare, mosse verso Ralai e vi giunse poco prima del tramonto del 18, in tempo per liberare Castellazzi, che con i suoi 250 uomini aveva resistito valorosamente agli assalti del nemico sei volte più numeroso. Presi tra due fuochi gli assalitori furono pienamente sconfitti e si diedero alla fuga, lasciando sul campo moltissimi morti tra cui lo stesso BATHA AGOS.
Morto il capo, l'Acchelè-Guzai fu prontamente sottomesso. Circa 1200 fucili furono consegnati e il tenente Sanguinetti fu liberato; ma la situazione rimase grave per il contegno ostile di ras Mangascià, che si trovava, nell'Eutiscio, e per i movimenti di altri capi.

Deciso ad agire energicamente, BARATIERI concentrò a Adi Ugri 3.500 soldati e, poiché ras Mangascià non rispondeva ad un suo ordine di licenziare gli armati dell'Eutiscio, ma negoziava con i Dervisci per attaccare con loro gli Italiani e aveva guadagnato alla sua causa ras AGOS TAFANI, il 27 mattina, lasciati a guardia del ciglione di Gundet 100 uomini della banda del Seraè, partì per Adua, dove giunse nel pomeriggio del 28 dicembre 1894.
Qui rimase tre giorni. Poi il 10 gennaio del 1895 il generale BARATIERI ritornò sui suoi passi e la sera del 2 febbraio giunse ad Adiqualà, distaccò il maggiore Ridalgo con il suo battaglione verso Addise Addi e Coatit; quindi proseguì con il grosso in direzione di Adi Ugri.

Giungendo notizia che ras MANGASCIÀ concentrava le sue truppe verso Mai Maman, il generale BARATIERI, per osservar meglio le mosse del nemico, il 9 febbraio occupò Chenafenà e il 12 passò il Mareb dirigendosi ad Addise Addì, donde, la mattina stessa di quel giorno, per prevenirvi il nemico che vi si era diretto, si mise in marcia alla volta di Coatit con una colonna composta del II, del III e del IV Battaglioni Indigeni comandati rispettivamente dai maggiori HIDALGO, GALLIANO e TOSELLI, della batteria Ciecodicola, di un plotone di cavalleria al comando del tenente FERRARI e delle bande dell'Acchelè-Guzai e del Seraè, capitanate dai tenenti SANGUINETTI e MULAZZANI, in complesso 3900 uomini circa, di cui 65 ufficiali e 42 uomini di truppa bianca.

Prima di sera le truppe italiane erano in posizione a Coatit e sorvegliavano il nemico, forte di circa 15 mila uomini, accampato nella valle. Il 13 febbraio mattina gli italiani attaccarono.
La battaglia ora infuriando, ora languendo, durò tutto il giorno. Pericoloso fu un tentativo nemico di aggiramento che fu sventato e valorosamente fronteggiato dalle truppe italiane. La notte passò tranquilla e la giornata del 14 trascorse senza azioni di rilievo. Il generale BARATIERI aveva deciso di attaccare nuovamente il 15, ma durante la notte ras Mangascià abbandonò le sue posizioni dirigendosi verso lo Scimenzana.
Le truppe italiane inseguirono il nemico per tutto il giorno e, verso il tramonto, aprì il fuoco delle artiglierie dall'Amba Terica sulla conca di Senafè, dove si era fermato ras MANGASCIÀ. Questi, durante la notte, molestato dal bombardamento che aveva colpito la sua stessa tenda, levò il campo nel massimo disordine fuggendo verso l'Agamè.

La mattina del 16 febbraio, BARATIERI occupò la conca di Senafè; qui apprese che il nemico aveva perso più di mille uomini e diede incarico d'inseguire Mangascià, al degiac AGOS TAFARÌ, che si era presentato quello stesso giorno al governatore con molti capi dello Scimenzana, gli fece giuramento di fedeltà e s'impegnò a marciare su Adigrat e occuparlo.

Il 18 febbraio, lasciato a Senafè con due compagnie il maggiore GALLIANO, BARATIERI con il grosso del suo corpo passò nell'Acchelè-Guzai; ordinò, il 20, la costruzione di un forte a Saganeiti, stabilì presidii ad Addise Addi ed Adi Caiè e il 23, all'Asmara, sciolse il corpo d'operazione.

OCCUPAZIONE DI AGAMÈ E DEL TIGRÈ
BARATIERI A ROMA
OPERAZIONI CONTRO MANGASCIA - COMBATTIMENTO DI DEBRA AILÀ

Dopo queste vittorie sui capi zigrini, BARATIERI fu promosso tenente generale. Il Governo voleva trarre profitto dai successi, tant'è vero che CRISPI, fin dal 18 gennaio del 1895, telegrafava al governatore dell'Eritrea: "Ormai il Tigrè è aperto all'Italia: sarà indulgenza nostra se non vorremo occuparlo". E il ministro della guerra; quel giorno stesso, gli annunciava che si era deliberato di mandare in Africa quattro battaglioni e di ordinargli l'arruolamento di almeno 2000 indigeni. BARATIERI rispose chiedendo la costituzione di una seconda batteria da montagna e il BLANC telegrafò subito: "Aspettiamo suo proposte sul modo di trarre profitto dal successo. Due battaglioni partiranno il 30 corrente, gli altri due il 14 febbraio, salvo suoi desideri in contrario. Per la batteria da, montagna attendiamo la proposta già preannunziata da Lei".

Intanto ras MANGASCIÀ, che si era ritirato nel Tembien, riunito un certo numero d'armati, si trasferiva nel Gheraltà tenendosi pronto ad invadere l'Agamè e, per guadagnare tempo, il 13 febbraio scriveva al re e al governatore avanzando proposte di pace. BARATIERI gli rispondeva che non avrebbe preso in considerazione tali proposte se lui non avesse prima disciolto le truppe o non si fosse presentato ad Adua; ma ras Mangascià sicuro dell'intervento del Negus, non volle aderire e nei primi di marzo si avvicinò con 4000 uomini ad Adigrat.
Allora il generale BARATIERI stabilì di agire con prontezza ed energia e, lasciato a Cheren il generale ARIMONDI per fronteggiare la minaccia dei Dervisci contro Cassala, concentrò a Senafè il III, il IV e il V Battaglione Indigeni, una compagnia di cacciatori italiani, una batteria da montagna, un plotone di cavalleria ed alcune bande, in complesso 4200 uomini agli ordini del colonnello PIANAVIA, che il 25 marzo entrarono ad Adigrat.
Il 26, il tenente colonnello PIANAVIA, con parte delle truppe e gli armati di AGOS TAFARÌ si mise sulle tracce di ras MANGASCIÀ, che si era ritirato verso Makalle, ma non lo raggiunse, avendo continuato il ripiegamento verso Scechet, e il 27 occupò Makallè, lanciando all'inseguimento del nemico Agos Tafari, che, dopo uno scontro con la retroguardia del ras, rientrò il 30 a Makallè, donde, lasciato il maggiore SALVA con le bande del Seraè e dell'Acchelè-Guzai, PIANAVIA mosse su Adua, dove doveva congiungersi con il generale BARATIERI.

A Baratieri, il 6 aprile, CRISPI scriveva: "Ogni ulteriore espansione in Africa trova opposizione nell'Alta Italia, anche tra gli amici del Ministero. Il mio collega del Tesoro, se ne preoccupa per la incertezza delle spese cui andremo incontro. L'impresa potrebbe essere tollerata solamente se la Colonia concorresse anch' essa con i tributi locali. Ad ogni modo S. E. SONNINO non permette che il bilancio dell'Eritrea ecceda 9 milioni. Non vorremmo che la questione suscitasse imbarazzi nella nuova Camera, la cui opera instauratrice non dovrebbe essere turbata. Rimane dunque inteso che Adigrat debba essere il limite delle nostre occupazioni".

Il 12 aprile il BARATIERI rispose: "Siamo in ostilità aperta con Mangascià. Le lettere ed il contegno di Menelick fanno credere ad una prossima guerra contro l'Aussa, non lontana contro di noi. I Dervisci possono attaccarci in giugno. Indispensabile tenga Adigrat e Cassala, e guardi Adua. La riduzione al bilancio di 9 milioni esigerebbe il rimpatrio di tre battaglioni italiani e lo scioglimento di due battaglioni indigeni. Il rimpatrio degli Italiani incoraggerebbe il nemico ad affrettare le ostilità. Essendo così la situazione, io non posso proporre una diminuzione di forze mantenendo la responsabilità per la difesa della Colonia".

Il 10 aprile CRISPI telegrafò ancora a BARATIERI:

"Ripetiamo che bisogna limitarsi per ora nell'impresa tigrina, e poiché gli ultimi battaglioni furono di qui spediti senza una vera necessità della difesa, il Ministero è di avviso che due di essi potrebbero rimpatriare. Vi è opposizione nel paese ad ulteriore espansione. Ad ogni modo è nostra assoluta volontà che nulla in Africa sia fatto che valga ad eccedere la spesa di nove milioni nel bilancio della madre-patria. A salvare l'Eritrea in Parlamento bisogna tenersi in questi limiti, e noi non vogliamo mettere a rischio le sorti dell'Italia per un errore commesso in Africa".

Lo scambio dei telegrammi continuò. Insistendo il Governo a non voler concedere più di 9 milioni mentre ne richiedeva minimo 13 il Barattieri; questi, con lettera del 23 aprile, chiese di essere richiamato in Italia.
"Comprendo come l'opinione pubblica sia allarmata e come il Governo debba provvedere a calmarla nel momento supremo delle elezioni (del 26 maggio Ndr.).... La maniera che mi si affaccia più semplice per quietare gli animi è quella del mio richiamo. Un altro, non così impegnato come me, potrebbe tentare in Africa un accomodamento con Mangascià e con Meneliek, che permetta di ridurre notevolmente le spese; e potrebbe per avventura abbandonare qualche lembo di territorio. Io aiuterei il Governo con le mie dichiarazioni e con il preparare il passaggio".

Ma a Roma non si volle sentir parlare di richiamo. Il 7 maggio, il ministro degli Esteri BLANC telegrafò a BARATIERI:
"Il Governo è ben lontano dell'idea di volersi privare dell'opera di V. S. in Africa ove è riuscita così giovevole e così notevole per le armi italiane. Non crediamo accomodamenti né con Mangascià né con Menelik".

BARATIERI rinnovò il 1° giugno, la domanda di essere richiamato, ma ebbe come risposta l'assicurazione che godeva la fiducia del Governo. Il generale non mancò di ribattere, esponendo in una relazione del 27 giugno le condizioni militari della colonia, e il 7 luglio rinnovò ancora una volta le dimissioni col seguente dispaccio:
"I miei precedenti telegrammi dicono chiaro che le offerte dimissioni sono occasionate dalla proibizione categorica dell'aumento di forze e dall'ordine di diminuire le spese. Io ritengo che l'attuale preparazione - contro un possibile attacco di Menelik in autunno- sia insufficiente a mantenere, i punti dai quali il Governo del Re intende assolutamente non retrocedere. Quindi devo insistere per avere l'autorizzazione di conservare le attuali forze italiane, di aumentare subito le forze indigene, e di accrescere subito i mezzi di trasporto; è impossibile improvvisare. Senza tale autorizzazione la mia coscienza e il mio patriottismo m'impongono di insistere nelle dimissioni offerte, nella speranza che altri possa tenere la Colonia con minori mezzi e concludere una pace onorevole e durevole".

Il giorno dopo CRISPI, BLANC e MOCENNI invitarono BARATIERI a recarsi a Roma così telegrafandogli: " Il Governo non può deliberare sopra un così grave argomento senza avere prima conferito verbalmente con V. E. La preghiamo quindi a volere subito prendere le disposizioni opportune per la sua breve assenza dalla Colonia., avendo così il tempo di convenire insieme il da farsi e provvedere, occorrendo, prima dell'autunno".

Il 17 luglio il generale BARATIERI partì da Massaua e il 26 giunse a Roma e, giunto alla Camera per prestare il giuramento come deputato, fu abbracciato dal presidente VILLA e applaudito a lungo dall'Assemblea.
Quello stesso giorno era cominciata alla Camera l'accesa discussione del bilancio degli Esteri per l'esercizio 1895-96 ed avevano parlato gli onorevoli BONIN, BRANCA, IMBRIANI e GIUSSO sulla politica italiana in Africa.

La discussione continuò il 27, il 29 e il 30 e vi parteciparono FIANCHETTI, CAMPI, DAL VERME, A VALLE, APRILE, POMPILÌ, IMBRIANI, DI RUDINÌ, BRIN, CAVALLOTTI. Si parlò della colonizzazione in Eritrea, della missione scioana a Pietroburgo, della sfera d'influenza italiana sulla costa somala, di Cassala, dei successi militari in Africa.
Avuti colloqui con il presidente del Consiglio e con i ministri degli Esteri e della Guerra, BARATIERI - com'egli stesso conferma nelle sue Memorie - ottenne "quello che invano chiedeva da mesi e mesi, quello che era urgente e possibile di ottenere nelle discrepanze del Ministero circa la questione africana, cioè la permanenza in Africa di due battaglioni bianchi - che invece sarebbero dovuti rimpatriare; la conservazione dei battaglioni indigeni - che, ridotto il bilancio a nove milioni, si sarebbero invece dovuti ridurre di un terzo; la sanatoria per gli ascari arruolati fuori quadro; l'aumento di altri mille ascari; l'acquisto di 700 bestie da soma. In denaro e, salvo a riduzione che si sarebbero fatte quando fosse svanito ogni pericolo per la colonia, la spesa veniva, a corrispondere a circa quattordici milioni".

Il generale ARIMONDI, governatore interinale della colonia, mandava intanto buone notizie. Il 10 agosto 1895, telegrafava: "MAKONNEN ha congedato le truppe; CAPACCI è stato liberato, ma, essendo sotto sorveglianza è nell'impossibilità di corrispondere; SCHEK THALA, che riunisce intorno a sé elementi musulmani avversi allo Scioà, si è recato a Ghiscè. PERSICO, recatosi a Terù per conferire, telegrafava che ritardò il convegno in vista del suo movimento. RAS OLIÈ ripiega nello Jeggiù: Ras MANGASCIÀ, impressionato dell'abbandono di RAS OLIÈ, è sempre al sud di Antalo. Cassala è tranquilla; MENELIK è rientrato a Addis-Abeba".

Nota d. r.: MENELICK è rientrato a Addis-Abeba, ma può ora contare su rifornimenti di armi e munizioni provenienti dalla Francia (che così spera di indebolire l'Italia e la Triplice) e contemporaneamente la Russia (alleata della Francia) fin da gennaio, ha inviato una missione diplomatica nella capitale.

Altre buone notizie inviava a Roma il giorno dopo ARIMONDI, ma in seguito, i suoi dispacci iniziarono a essere preoccupanti. Un suo telegramma del 4 settembre diceva: "RAS OLIÈ pare sia avanzato verso Ascianghi. Ras MANGASCIÀ è sempre a Debra Ailà da dove ha spinto vari gruppi al confine creando una viva agitazione, e provocando qualche avvisaglia".
Con telegramma del 10 settembre l'ARIMONDI sollecitava il ritorno di BARATIERI.

Questi salpò da Brindisi il 15 settembre. Giunto a Aden, il 24 settembre telegrafò: "Si annunciano intenzione ostili da parte di Ras MANGASCIÀ. Il generale Arimondi è partito per Adigrat per parare un eventuale colpo".
Il 26 settembre, da Massana, inviò quest'altro telegramma: "Il contegno di Menelik e di Mangascià m'induce a chiamare la Milizia mobile e a recarmi a Adigrat domani stesso".
Il 30 settembre tornò a telegrafare: "Necessita prevenire defezioni, decidere incerti, imporsi nemico prima di un'eventuale arrivo degli Scioani già annunciato da varie parti".

Poiché il nemico più vicino era ras MANGASCIÀ che si trovava a Debra Ailà, BARATIERI costituì nella zona di Adigrat un campo di osservazione, in cui il 6 ottobre si trovavano concentrati 116 ufficiali, 672 soldati bianchi, 8.065 soldati indigeni, 1.200 quadrupedi, 10 cannoni di montagna e alcune bande indigene. Quel giorno stesso il corpo eritreo cominciò i suoi movimenti che avevano lo scopo di raggiungere Debra Ailà, attaccarvi Mangascià e precludergli la ritirata verso Ascianghi.
Quest'ultimo compito era stato affidato ai maggiore TOSELLI, che comandava il IV Indigeni, una sezione di Artiglieria e le bande dell'Agamò. Il corpo principale, comandato dal generale BARATIERI, doveva marciare da Adigrat per Agulà su Dolo ed era formato dal battaglione cacciatori italiani, da quattro battaglioni indigeni (I, II, III e IV), dalla 2a batteria e da una sezione della 1a; l'avanguardia di questo corpo era comandata dal maggiore AMEGLIO costituito dal V battaglione Indigeni, da una sezione d'artiglieria e dalle bande del Seraè e del Tigre.

Il 9 ottobre 1895, quasi l'intero corpo d'operazione era sulle alture di Antalò, presso Debra Ailà; ma ras MANGASCIÀ già non c'era più; appresa l'avanzata degli Italiani aveva ripiegato verso il lago di Ascianghi con il grosso lasciando sull'amba di Debra Ailà, a protezione della ritirata, circa 1300 tigrini.
"Per riconoscere il nemico a Dobra Ailà - scrive il Baratieri nelle sue "Memorie"- avanza il battaglione di AMEGLIO con le bande del Seraè e del Tigrè e con una mezza batteria. L'amba è ancora guarnita e dal ciglio iniziano delle fucilate molto vive. La forma del terreno non permette a noi di spiegare un maggior numero di truppe; tuttavia l'iniziativa è presa, micidiale riuscirebbe l'indugio. E quindi il maggiore AMEGLIO si lancia all'attacco, mentre il maggiore TOSELLI ha l'ordine di appostarsi in basso, in vista, in modo da portare soccorso da Antalò per tagliare possibilmente la via di ritirata verso Amba Alagi. Ma la resistenza nemica, all'inizio vigorosa per i vantaggi tattici del luogo dominante, dura assai poco. Mentre la batteria italiana continua il suo fuoco calmo ed aggiustato, la prima schiera in due balzi raggiunse l'angolo morto, sotto l'irto muraglione dell'amba: e, preso un po' di fiato al coperto dai tiri, si arrampica poi per gli scarsi punti accessibili; frattanto il nemico si disperde e scappa con l'incredibile agilità dei nativi per le boscaglie, per burroni, per gli anfratti. E' tutto un suolo solcato e rotto, attraversato da balze, ingombro di rocce sgretolate e sfasciate, donde sbucano cespugli e piante tropicale, tutto un rigoglio di vegetazione. In tali condizioni, l'inseguimento avrebbe disciolto i legami tattici: onde il maggiore AMEGLIO fece suonare l'adunata e mise il campo nello stesso luogo dove era accampato prima il Ras .... Noi abbiamo avuto 11 morti e 30 feriti; i nemici forse una trentina di morti ed un centinaio di feriti".

Il 13 ottobre il governatore inviò il generale ARIMONDI con tre battaglioni indigeni e una batteria contro Amba Alagi per snidarvi MANGASCIÀ. Questi riuscì a sfuggire ancora; l'Amba fu occupata dagli italiani, vi liberarono ras SEBATH, capo dell'Agamè, prigioniero di Mangascià, che fu nominato capo dell'Endertà; e al degiacc ALI, che offrì la sua sottomissione, gli fu riconosciuta la signoria dell'Enda Meconnì.

Il 16 ottobre 1895, al generale ARIMONDI fu dato il governo del territorio a sud del Mareb-Belesa-Muna e il comando di tutte le truppe là dislocate, in complesso 6350 fucili e sei pezzi da montagna. Arimondi doveva fare di Adigrat il perno della difesa del Tigrè e dell'Agamè, tenendo più a sud, per mantenere in rispetto ras Mangascià, un forte distaccamento. Portatosi prima ad Antalò e poi a Makallè, dove era in via di costruzione il forte di Enda Jesus, Arimondi fece ritorno a Adigrat. Il generale Baratieri ritornó a Massaua.

COMBATTIMENTO DI AMBA ALAGI E DI ADERA'

I primi di novembre facendosi sempre più insistenti le notizie che truppe etiopiche andavano concentrandosi a sud del lago Ascianghi, BARATIERI telegrafò al generale ARIMONDI:
"Ora che alcuni capi d'oltre frontiera sono e si dichiarano uniti a noi contro il comune nemico, bisogna trarne partito per dar un indirizzo ed unirli nell'intento comune. Potranno giovare le relazioni assidue, e magari un distaccamento volante ad Amba Alagi con un ufficiale sveglio e intelligente; questi nell'agire potrà determinare altri ad unirsi a noi, oltre a prevenire discordie fra i nostri, a tenerli a freno, a sorvegliare gli incerti".

In seguito a tale telegramma, il 16 novembre l'Arimondi inviò all'Amba Alagi la compagnia Persico del III Indigeni.
Il 24 novembre il maggiore TOSELLI, per fare una ricognizione nel Seloà e nell'Enda Meconnì, partì da Makallè con il IV battaglione Indigeni, la 1a batteria da montagna e la banda di Ras Sebath verso Ambra Alagi e di là appreso che il grosso dell'esercito etiopico con MENELIK si trovava a Uorrò Ailù, mentre l'avanguardia comandata da Ras MAKONNEN, che aveva con sé le truppe dei ras ALULA, OLIÒ, MANGASCIÀ e MIKAEL, marciava verso l'Ascianghi - si spinse verso Belejo per osservare il nemico ed ostacolarne l'avanzata.
ARIMONDI ricevute informazioni da TOSELLI sui movimenti nemici, chiese istruzioni a BARATIERI, che il 30 rispose annunciandogli di avergli mandato in rinforzo tre compagnie del VI Indigeni e consigliandogli di "tenere al possibile riunite, sottomano, in grossi gruppi intorno a Makallè" le forze costituite da 4.500 regolari e dalle bande dell'Agamè, del Tigrè, del Seraè, dell'Acchelè-Guzai, dell'Endertà e dell'Enda Meconnì. Nello stesso tempo il Governatore ordinò la mobilitazione delle truppe della Colonia e il concentramento da Cheren e Asmara a Adigrat dei battaglioni I, VI, VII e VIII, della Milizia Mobile e della 2a batteria da montagna.

Il 30 novembre 1895, il generale ARIMONDI, ricevute le istruzioni del Governatore, ordinò per il 5 dicembre il concentramento a Makallè di 14 compagnie e le bande indigene, e comunicò a TOSELLI le direttive di BARATIERI dandogli facoltà di "mantenersi in posizione a Belejò oppure di ripiegare ai piedi di Amba Alagi, secondo circostanze".

TOSELLI, il 1° dicembre, avanzando MAKONNEN alla testa di 30.000 uomini, ripiegò su Atzalà, dove i suoi avamposti scambiarono qualche fucilate con il nemico. Contemporaneamente chiese rinforzi al generale ARIMONDI, il quale gli rispose che "sarebbe accorso il giorno 6 dicembre con sei compagnie e una sezione d'artiglieria".
Ma il giorno 5 il generale BARATIERI, informato delle intenzioni dell'Arimondi, gli telegrafò:
"Non conviene allontanarsi da Makallè perché non essendo ancora avvenuto il concentramento, si avrebbe una divisione di forze e gravi difficoltà per l'approvvigionamento. Il Maggiore TOSELLI tenga contatto fin che può, poi ripieghi con la maggiore lentezza possibile".
Il 6 dicembre mattina ARIMONDI trasmise l'ordine del governatore a TOSELLI; ma era ormai tardi, già sotto pressione del nemico, Toselli non lo ricevette nemmeno e rimase convinto che doveva resistere più a lungo possibile sull'Amba Alagi, in attesa del giorno 6 dicembre delle 6 compagnie promesse e guidate da ARIMONDI.

Infatti, ventiquattrore prima, il 5 sera, il maggiore TOSELLI aveva scritto al generale ARIMONDI che prevedeva di dover combattere il 7. Il 6 Arimondi (anche se aveva già inviato l'altro ordine) propose a BARATIERI di avanzare con una parte delle proprie truppe fino ad Afgol per sostenere il ripiegamento di TOSELLI e, insieme con lui, fare "un'attiva difesa avanzata del forte di Makallè". Avuta l'autorizzazione, ARIMONDI la notte del 6 partì da Makallè con sei compagnie, una sezione di artiglieria e la banda di degiacc FAUTÀ, in tutto circa 1500 uomini, avvisando Toselli della sua mossa (che come il precedente ordine non ricevette).

Il maggior Toselli disponeva di 4 cannoni e di 2350 fucili. Prevedendo pel giorno 7 un attacco nemico, la sera del 6 dispose le sue truppe a difesa dell'Amba, collocando le bande di ras Sebath e di degiacc Alì all'estrema sinistra, sulle alture sovrastanti la via di Felagà, con sulla destra, a sostegno, la compagnia Issel, facendo spingere la compagnia Canovetti verso Atzalà, mettendo al centro, sotto l'Amba, la batteria, scortata dalla compagnia Persico, e a destra, sul colle di Tagorà, la banda di Scech Thala, mandando il tenente VOLPICELLI con le bande dell'Acchelè-Guzai avanti a quelle di Scech Thala e ponendo le compagnie Ricci e Bruzzi e la centuria Pagella, di riserva, sotto l'Amba, presso la chiesa.
Le colonne nemiche - come aveva previsto Toselli- presero contatto il mattino del giorno 7. Primi ad entrare in azione furono forti gruppi di fanteria e cavalleria abissina che, urtati contro la centuria Mazzei della compagnia Canovetti, furono respinti.

Una forte colonna agli ordini di ras Oliè, avanzando celermente verso il colle Felagà, attaccò frontalmente e avvolse dalla sinistra le bande di ras Sebath e degiacc Ali, che, non potendo resistere al gran numero dei nemici, ripiegarono sulla compagnia Issel, alla cui destra, poco dopo, si portò la compagnia Canovetti, che aveva inflitto gravi perdite agli Scioani.
Contro queste due compagnie, che resistevano valorosamente da due ore agli attacchi delle numerose forze abissine, si gettò una forte colonna nemica, di circa quindicimila uomini, comandata da ras MIKAEL e ras MAKONNEN. Allora il maggiore TOSELLI lanciò contro di loro la compagnia Ricci della riserva, che, impegnandosi a fondo, costrinse gli assalitori a ripiegare.
Erano circa le 10 del mattino, al centro il nemico, quantunque i tiri della batteria italiana producessero squarci enormi nella sue file, avanzava lentamente ma inesorabilmente, poi si aggiunse ed entrò in azione un'altra colonna, costituita dalle forze di ras ALULA e di ras MANGASCIÀ, la quale, puntando sul colle di Tagorà, tendeva ad aggirare la destra.

TOSELLI allora, nell'impossibilità di tenere un fronte molto esteso, ordinò alle compagnie Issel, Canovetti e Ricci di ritirarsi a ridosso dell'Amba, incolonnò le salmerie sulla strada di Tagorà e a protezione del ripiegamento, mandò la centuria Pagella (che fu poi l'unica in parte a salvarsi).
TOSELLI, in tutta la mattinata aveva sempre atteso l'arrivo del generale ARIMONDI, ma alle 12.40, perduta ogni speranza di soccorso e assalito di fronte e dai fianchi dalle interminabili orde nemiche, ordinò la ritirata sotto la protezione della compagnia Bruzzi. Ma, data la strettezza della via in cui le truppe erano costrette a muoversi, il disordine con cui ripiegavano le alleate bande e i tiri degli Scioani che avevano già guadagnato la spianata dell'Amba, la ritirata non poteva effettuarsi ordinatamente.
Nonostante i disperati sforzi della compagnia Bruzzi, della centuria Pagella e della sezione Manfredini, il ripiegamento si mutò in rotta.

Ultimo a ritirarsi, con un manipolo di uomini e di ufficiali fu il Maggiore TOSELLI, che cadde da eroe presso la chiesa di Bet Mariam. Con lui, in quello sfortunato ma glorioso combattimento, caddero diciotto ufficiali; i soldati uccisi o dispersi furono circa 2000.

Alcune centinaia di superstiti dell'Amba Alagi, guidate dai tenenti PAGELLA e BODRERO, attraverso Mai Mesghì, giunsero verso le 16.30 all'Aderà, dove il generale Arimondi, era giunto poco prima con due compagnie del III battaglione, tre del V, una del VII, una sezione da montagna. Ma proprio in quel momento anche lui era attaccato da una forte colonna nemica. L'Arimondi, riuniti i superstiti e difendendosi energicamente con il nemico, riuscì a disimpegnarsi e ripiegò verso Makallè dove vi arrivò all'alba del giorno dopo; 8 dicembre 1895

DOPO L'AMBA ALAGI, LE DISCUSSIONI PARLAMENTARI

La Camera italiana ebbe notizia della battaglia dell'Amba Alagi il 9 dicembre dal ministro della Guerra, che dichiarò avere il Governo riconfermata la sua completa fiducia al generale BARATIERI e alle sue valorose truppe e assicurò che "…il fatto non è grave perché nessuna parte del territorio da noi occupato era stata perduta e perché Makallé, Adigrat e Adua sono fortemente murati e difese".
L'on. TORRACA sostenne che l'espressione del rammarico per le non liete notizie doveva essere severa e virile. Nessuna recriminazione o discussione doveva in quel momento doveva essere fatta. "Mandiamo una parola di caldo rimpianto ai caduti e di fiducia e di augurio ai prodi che in Africa vinceranno e sapranno vendicare i caduti. Si richieda al Governo che l'opera sua sia pari alle sue gravi responsabilità, pari alle legittime ansietà del paese".

L'on. RUBINO esortò il Governo "a provvedere con misura, fermezza e virilità"; il ministro MOCENNI assicurò che sarebbero stati presi "i provvedimenti necessari per la tutela della dignità e del prestigio delle armi e del nome italiano"; il ministro BLANC dichiarò che il fatto "non aveva nessuna importanza politica per l'avvenire della Colonia". Voci dure furono quelle dell'on. BRANCA che non poteva ammettere che "si persistesse in una politica inopportuna" e dell'on. IMBRIANI che accusò il Governo di "…arbitri che compromettevano gl'interessi della nazione".

Il 15 dicembre incominciò alla Camera lo svolgimento d'interrogazioni ed interpellanze relative all'Africa. L'on. IMBRIANI ricordò che "la responsabilità di quanto avveniva in Africa era del presidente del Consiglio, il quale aveva violato lo Statuto e le promesse fatte in Parlamento; qualificò empia la guerra che si combatteva in Africa; lamentò che si fosse ingannato e si continuasse ad ingannare il paese, esortò a ritornare dall'Africa, non trattandosi d'impresa che giovasse all'Italia e dichiarò che non avrebbe concesso credito né soldati ad un Governo inetto e colpevole".

CAVALLOTTI disse: " Oh ! Lo so che è bello bagnare del proprio sangue i campi materni della patria, sulle vie sacre del suo destino, nei giorni dei fervidi, deliranti entusiasmi, quando tutto l'anima della patria, tutta la poesia dei suoi sogni, delle sue aspirazioni, accompagna, segue, circonda affettuosa le bandiere nazionali combattenti per il diritto, per il suolo per i patri focolari. Ma in un'impresa che la Nazione non chiede e non volle, su cui i suoi cuori sono più che discordi, su cui le menti sono più che divise, si è trascinata da dieci anni senza essere riuscita mai a destare intorno a sé una sola scintilla di popolarità, una sola vampata di entusiasmi compensatori, senza aver dato mai un solo frutto che alla Nazione compensi i sacrifici, che l'abbia convinta della bontà della causa; in un'impresa come questa, quanto è più solitario e arido di compensi morali, il culto della bandiera esige tanto di più dal cuore del soldato; e cadere per l'onore militare soltanto, per il solo scopo di conservare alto alla patria il buon nome di madre di eroi, per questo solo scopo solitario il sacrificio diventa maggiore".
Dopo di aver ricordate le ultime fasi della politica africana, CAVALLOTTI aggiunse che "il Ministero non poteva rappresentare e non rappresentava che un pericolo di nuovi disastri. L'Italia poteva chiedere ed ottenere dal Parlamento nuovi sacrifici, ma dal Governo nulla attendeva e nulla sperava; dal Governo, che, nemmeno nell'ora presente, aveva mostrato di essere all'altezza del suo compito. Perciò, pronto a consentire i sacrifici necessari per il prestigio delle armi italiane, non poteva egli acconsentire che continuasse l'attuale Gabinetto a dirigere la politica d'Italia".

Parlarono poi gli onorevoli BONISI, DE MARTINO e SANGUINETTI, che censurarono la politica di conquiste e di espansione dell'on. CRISPI, e il BOVIO, il quale disse, che, "essendo terminato il periodo del dilettantismo africano, il Governo doveva o abbandonare l'Africa o seguire una propria e grande politica coloniale. Ma la forza d'Italia non era forza di estensione, sebbene d'intensità. L'espansione dell'Eritrea sarebbe stata poca cosa; l'espansione doveva essere nel mondo come nuovo pensiero, nuova civiltà e nuova missione".

Nella seduta del 15 dicembre svolsero interpellanze gli onorevoli A. LUZZATTI, DE GAOTANI, SAN GIULIANO e infine ANDREA COSTA, che, interprete delle grida dei contadini e degli operai, protestava contro una politica nefasta e criminosa e dichiarava che, da parte sua e dei suoi amici, non si sarebbe concesso "né un uomo né un soldo".

L'on. CRISPI ricordò che la Camera aveva per ben due volte approvato la politica del Governo, disse che "…il fatto dell'Amba Alagi è uno degli episodi inevitabili in tutte le guerre coloniali…. Il Governo non può essere accusato d'imprevidenza perché ha dato più di quanto il Baratieri ha chiesto…. Io mi prostro, e tutti ci prostriamo dinanzi ai caduti dell'Amba Alagi…. Tutti ammiriamo il valore italiano e la splendida figura di quel Toselli che, disperando di poter vincere, volle morire... Non c' è nessuno né a Destra né a Sinistra, che non abbia questo sentimento: ed avendolo, è per vendicare i morti, e ristabilire quel prestigio, che l'Italia deve sempre tenere alto, che noi prenderemo quei provvedimenti che crediamo necessari allo scopo; e la Camera farà giustizia".

Il 17 dicembre, il ministro del Tesoro, di concerto con i ministri della Guerra e della Marina, presentò alla Camera un disegno di legge con la quale si assegnavano 20 milioni per le spese d'Africa.
In seguito alla relazione della Giunta generale del bilancio a firma dell'on. GRANDI, nella seconda seduta del 18 dicembre, iniziò la discussione, alla quale parteciparono IMBRIANI, DI RUDINI, CAVALLOTTI, BOVIO, MARTINI, BUTTINI, e quasi tutti contrari a Crispi che si difese energicamente dagli attacchi.
Ordini del giorno, quasi tutti favorevoli alla concessione dei 20 milioni, svolsero gli onorevoli TORRIGIANI, DI NICOLÒ, AFAN DE RIVERA, RUBINI, CANZI, PRINETTI, BERLO, BARZILAI, FRANCHETTI, F. SPIRITO, PERONI, VENDEMMI, FORTIS, VALLE e CHIMIRRI.
CRISPI dichiarò di accettare l'ordine del giorno TORRIGIANI, che fu messo ai voti per appello nominale. La prima parte era: "La Camera, confidando che il Governo saprà tenere alto il prestigio delle nostre armi, ristabilire la pace nei possedimenti africani e provvedere alla sicurezza per l'avvenire .... " fu approvata con 255 voti contro 148; la seconda parte "…riaffermandosi contraria ad una politica di espansione, prende atto delle dichiarazioni del Governo e passa alla discussione dell'articolo della legge" fu approvata con 301 voti contro 36 e 3 astenuti.

Aperta la discussione sull'articolo, dopo una dichiarazione di IMBRIANI, si passò alla votazione per scrutinio segreto del disegno di legge che fu approvato con 237 voti contro 36.
Il 20 dicembre il disegno fu approvato dal Senato con 87 voti favorevoli 5 contrari.

Quindi nonostante l'opposizione, la Camera riconferma pienamente la fiducia al Governo sulla politica coloniale e stanzia nuovi fondi per l' "Avventura".
Purtroppo non si aveva davanti la vera situazione che si era venuta a creare in Africa, una situazione che era diventata piuttosto critica, subito dopo l'Amba Alagi, a dicembre, e sarà ancora di più critica nei primi giorni di gennaio.
Questo sconsiderato grande appoggio al governo, stimola Crispi su una via molto pericolosa: quella della tattica non più difensiva, ma offensiva. Che l'Italia nelle condizioni in cui era, non era in grado né di preparare, né di sostenere economicamente.


Inoltre non c'era un "piano di guerra" prestabilito
(necessario se si voleva fare una guerra d'offensiva),
e nemmeno un minimo "piano logistico".
Eppure, si inviarono grandi contingenti di truppe;
ma oltre che inutili, era ormai troppo tardi!!

Le conseguenze le leggeremo nel prossimo capitolo...

.... il periodo dall' anno 1895 al 1896 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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