ANNI 1897-1898

LA POLITICA ESTERA ED INTERNA DEL
IL BIENNIO RUDINÍ TERMINA
A MILANO CON LE CANNONATE DI BECCARIS


LA POLITICA ESTERA DEL DI RUDINÌ - TACITO RINNOVAMENTO DELLA TRIPLICE ALLEANZA - IL MATRIMONIO DEL PRINCIPE EREDITARIO CON ELENA DI MONTENEGRO - L' ITALIA E LA FRANCIA - CONVENZIONI ITALO-FRANCESI RELATIVE ALLA TUNISIA - LA POLITICA ANTITALIANA DEI FRANCESI A TUNISI - LA RIVOLTA DI CANDIA E L' INTERVENTO ARMATO DELL'ITALIA - LA GUERRA GRECO-TURCA - LA LEGIONE GARIBALDINA A DOMOKAS - INTESA ITALO-AUSTRIACA RELATIVA ALL'ALBANIA - LA POLITICA INTERNA DEL DI RUDINÌ - II SENATORE CODRONCHI COMMISSARIO CIVILE DELLA SICILIA - DI RUDINÌ E LA LOTTA DI CLASSE - CRISI MINISTERIALE - NUOVO GABINETTO DI RUDINÌ - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - INAUGURAZIONE DELLA XX LEGISLATURA - L'ATTENTATO DI PIETRO ACCIARITO ALLA VITA DI RE UMBERTO - LIBERALI E CLERICALI - L'ON. MOLMENTI PROPONE L' INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE PRIMARIE - LE CALUNNIE DEL PRINCIPE D'ORLÉANS CONTRO L'ESERCITO ITALIANO - UN ARTICOLO DI EDOARDO SCARFOGLIO - II DUELLO TRA IL PRINCIPE D'ORLÉANS E IL CONTE DI TORINO - AGITAZIONI IN ITALIA - L'ESPOSIZIONE FINANZIARIA DEL MINISTRO LUZZATTI - PROMULGAZIONE LEGGI FINANZIARIE E SOCIALI - NUOVI ATTACCHI A CRISPI - NUOVA CRISI -MINISTERIALE - I MOTI DEL 1898 - IL DUELLO MACOLA-CAVALLETTI E LA MORTE DEL "BARDO DELLA DEMOCRAZIA" - STATI D'ASSEDIO E PROCESSI - DISSIDI NEL MINISTERO - NUOVA CRISI DI GABINETTO E NUOVO MINISTERO DI RUDINI - PRESENTAZIONE DI SEI DISEGNI DI LEGGE - CADUTA GOVERNO DI RUDINI
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LA POLITICA ESTERA DEL DI RUDINI
TACITO RINNOVAMENTO DELLA TRIPLICE ALLEANZA

Inasprendosi il dissidio anglo-tedesco, che CRISPI chiamava "sventura internazionale", Di RUDINI fece il tentativo di far rimettere in vigore dai governi alleati la dichiarazione del 22 maggio 1882; in quella vi era detto che le stipulazioni del trattato segreto della Triplice non potevano in alcun caso essere considerate contro l'Inghilterra.
Avuto un rifiuto, il 27 aprile del 1896, Di Rudinì inviò ai Gabinetti di Berlino e di Vienna una "nota" in cui si ricordava che l'Italia, data la sua posizione nel Mediterraneo e l'insufficienza delle sue forze navali, non poteva essere trascinata in una guerra contro l'Inghilterra e la Francia. Uno scritto inutile, guardato dall'alto in basso.

Infatti, la Germania non volle prendere atto della nota che impegnava l'Italia a non rivolgere l'alleanza contro l'Inghilterra; di modo che nessuna delle tre potenze alleate denunciò l'alleanza, e il Trattato della Triplice fu tacitamente rinnovato in base all'art. 14 che prevedeva il rinnovo automatico, qualora nessun contraente lo avesse denunciato almeno un anno prima della scadenza.
Con il rifiuto fatto da Berlino, restava solo la dichiarazione unilaterale dell'Italia che escludeva il suo intervento contro la Francia e l'Inghilterra unite; un nota che non contò nulla perché il Trattato restò immutato.

Il mantenimento della Triplice era in ogni caso nel programma governativo del Di Rudinì, che considerava quell'alleanza come necessaria all'Italia; però se il presidente del Consiglio voleva tenere fede alla Triplice, voleva anche che rimanesse intatta l'amicizia con l'Inghilterra e che fossero migliorati i rapporti con la Russia e con la Francia. Era un ingenuo tentativo di avere contemporaneamente il piede in cinque scarpe, due con i due Imperi, e tre con l'Inghilterra, la Francia e la Russia.

"Io - dichiarò Di RUDINÍ nella seconda tornata del 25 maggio del 1896 - intendo mantenere fermamente la Triplica Alleanza. Ma intendo "interpretarla", vale a dire intendo condurre la politica del Governo in un modo tale, che non siano alterati i buoni rapporti con la Russia e con la Francia, rapporti che intendo rendere sempre più amichevoli, sempre più cordiali, sinceramente, e, direi quasi, affettuosamente amichevoli".
Questa "interpretazione" non era disonorevole, ma era un atteggiamento ambiguo, che non era per nulla gradito, anzi insospettiva sia gli uni sia gli altri.

IL MATRIMONIO DEL PRINCIPE EREDITARIO (futuro Vitt. Em. III)
CON ELENA DI MONTENEGRO

A rendere migliori i rapporti dell'Italia con la Russia (alleata con la Francia) nel maggio del 1896, in occasione dell'incoronazione dello Zar NICOLA II, fu mandato a Mosca il principe ereditario VITTORIO EMANUELE, che rivide la principessa ELENA del Montenegro e se ne innamorò.
Il matrimonio tra i due principi, preceduto dalla conversione al Cattolicesimo della principessa avvenuta nella basilica di San Nicola a Bari, si celebrò a Roma il 24 ottobre del 1896 con austera solennità, ma senza grandi feste perché (si disse) l'eco di smodata allegria non giungesse fino a Adua.
Con il suo matrimonio, il principe ereditario contribuì alla politica d'avvicinamento alla Russia, che era considerata la protettrice degli Stati slavi del sud, e assicurò all'Italia un punto d'appoggio nei Balcani in caso di guerra in Oriente (di questo matrimonio abbiamo già parlato nel Riassunto 1867 > >



L' ITALIA E LA FRANCIA -
CONVENZIONI ITALO-FRANCESI RELATIVE ALLA TUNISIA
L'AZIONE ANTITALIANA DEI FRANCESI A TUNISI

I primi passi invece per riavvicinare l'Italia alla Francia furono fatti nel giugno del 1896, dal ministro degli Esteri CAETANI, e continuati dal suo successore EMILIO VISCONTI-VENOSTA. Proprio quell'anno scadeva il trattato d'amicizia, di commercio e di navigazione stipulato tra l'Italia e il Bey di Tunisi l'8 settembre del 1868. La Francia lo aveva denunciato il 17 agosto del 1895 e all'Italia "di Adua e del Di Rudinì" non rimaneva che di accordarsi con la sua rivale.
Così il 28 settembre del 1896 (il 26 dello stesse mese era stato stipulato il trattato di pace di Addis Abeba) da TORNIELLI, ambasciatore italiano a Parigi, e dal ministro degli Esteri francese GABRIELE HANOTAUX furono firmate tre convenzioni.
* la PRIMA stabiliva piena libertà di commercio e di navigazione tra la Tunisia e l'Italia che vicendevolmente si accordavano il trattamento della nazione più favorita;
* la SECONDA stabiliva che gli Italiani in Tunisia e i Tunisini in Italia sarebbero stati trattati, riguardo ai beni e alle persone, come i nazionali e i francesi, avrebbero goduto gli stessi diritti civili, avuto libertà di acquistare e possedere beni mobili e immobili e avrebbero potuto esercitare qualunque arte, professione e industria, e costituire società commerciali, industriali e finanziarie, obbligandosi la Francia a riconoscere l'indipendenza delle associazioni e degli istituti italiani e a rispettare la nazionalità degli emigrati italiani;
* la TERZA era una convenzione di estradizione; tutte e tre dovevano avere la durata di nove anni. Il 1° ottobre fu stipulato un accordo mercantile con il quale si stabiliva che, ciascuno dei due Stati doveva applicare alle navi dell'altro, gli stessi diritti marittimi fissati per i navigli nazionali.

La commissione parlamentare propose in maggioranza l'approvazione delle convenzioni; ma l'on. SAPORITO, che n'era presidente, nella seduta del 15 dicembre, fece rilevare come sarebbero state dannose per l'Italia, e si chiese perché mai si fosse stabilita quella "resa a discrezione" e dichiarò esser quello "un giorno di lutto per l'Italia".
L'on. SALANDRA chiamò le convenzioni "effimera stipulazione internazionale" augurandosi che il Parlamento non le considerasse "come la definitiva sistemazione politica ed economica dell'Africa settentrionale".
Il 16 dicembre la Camera approvò con 232 voti favorevoli contro 64 le convenzioni che da VISCONTI-VENOSTA furono chiamate "conciliazione onorevole".

NOTA: Il tempo diede poi ragione ad ANTONIO SALANDRA. Il 9 settembre del 1918 il Governo francese denunciò le prime due convenzioni del 1896, dichiarando che, ove non fossero intervenuti nuovi accordi dopo un anno dalla denuncia, si sarebbero tacitamente rinnovate di tre mesi in tre mesi.
Come se ciò non bastasse nel febbraio del 1919 furono emanati due decreti, con il primo dei quali si mirava a limitare l'apertura delle scuole private italiane nella colonia e con il secondo si stabiliva una tassa dal 50 all'80 per cento sulla vendita di beni immobili agli stranieri da parte degli indigeni e dei francesi, decreti che furono ritirati in seguito ad un accordo italo-francese del 12 settembre di quell'anno.

Ma due anni dopo, l'8 novembre del 1921 il Bey di Tunisi decretava che tutti i nati nella Reggenza dovevano esser considerati suoi sudditi e il presidente della Repubblica, a sua volta, decretava che tutti i sudditi del Bey dovevano considerarsi cittadini francesi. Era l'inizio della lotta accanita alla nazionalità italiana in Tunisia, lotta che fu condotta con mezzi leciti ed illeciti e che aveva lo scopo di snazionalizzare i 130 mila italiani in Tunisia. Che però resistettero benissimo, fino alla guerra d'Africa mussoliniana.

LA RIVOLTA DI CANDIA E L'INTERVENTO ARMATO DELL'ITALIA
LA GUERRA GRECO-TURCA
LA LEGIONE GARIBALDINA A DOMOKOS -
INTESA ITALO-AUSTRIACA RELATIVA ALL'ALBANIA

Nel febbraio del 1897, i Cretesi, insofferenti della tirannide turca, insorsero, proclamando la loro unione alla Grecia. In aiuto degli insorti, accorse con una flottiglia di torpediniere il principe GIORGIO, secondogenito del re di Grecia e poco dopo il colonnello VASSOS con un corpo di spedizione greco sbarcò sull'isola.
Le grandi potenze europee inviarono, per ristabilirvi lo "status quo", squadre navali nelle acque di Creta. Solo la Germania si rifiutò di partecipare a quell'azione. In Italia, invece, una riunione di ammiragli, presieduta da NAPOLEONE CANEVARO, che era il più anziano, fu stabilito di far sbarcare, sotto il comando del capitano di vascello AMORETTO, comandante della Morosinì, quattro compagnie di marinai italiani, inglesi, austriaci e francesi.
Ma gl'insorti non si lasciarono intimorire dalla presenza delle navi e delle truppe delle potenze e si rifiutarono di deporre le armi. Allora le navi si diedero a bombardare Akotiri (21 febbraio) e il 20 marzo, essendosi il principe Giorgio rifiutato di lasciare con la sua flottiglia le acque dell'isola, questa fu bloccata.

L'opinione pubblica italiana simpatizzò subito con gl'insorti cretesi, e disapprovò altamente l'intervento delle potenze europee in favore della Turchia (che era piuttosto anomalo). In nome del principio di nazionalità, nel quale era stata fatta l'Italia, levarono la voce giornalisti e poeti ed uomini politici d'ogni partito; furono inviati telegrammi al Parlamento Greco e qua e là, nella penisola, sorsero comitati in favore di Candia.

Alla Camera, nell'aprile di quell'anno (1897), l'Estrema Sinistra attaccò la politica del Governo sulla questione d'Oriente. LEONIDA BISSOLATI sostenne che la soluzione della questione era l'annessione di Creta alla Grecia; l'on. IMBRIANI tuonò contro chi aveva fatto aprire il fuoco dalle navi italiane verso i patrioti greci che difendevano la loro libertà.
"L'Italia sarà punita
- disse - punita dalla legge eterna, la quale non ammette delle siffatte iniquità! Una volta che negate il plebiscito dei Candioti, stracciate allora le tavole dei plebisciti; stracciatele se volete soffocare nel sangue le loro aspirazioni ed il loro diritto".

FELICE CAVALLOTTI gridò che il Governo aveva...
"ricongiunto il nome d'Italia ad un'azione indegna che avrebbe reso la fine secolo disonorata nei secoli venturi".
GIOVANNI BOVIO disse infine che...
"l'Italia non avrebbe dovuto andare contro il principio di nazionalità perché viveva con esso e di esso".

Rispose il ministro degli Esteri VISCONTI VENOSTA difendendo, nella tornata del 9 aprile, la condotta del Governo; dichiarando che l'Italia non poteva disinteressarsi della questione d'Oriente, che la soluzione di essa non era vicina e che perciò era interesse dell'Europa mantenere lo "status quo" e che, infine, il Ministero non aveva dimenticato i principi in nome dei quali l'Italia si era costituita.
"NOI
- aggiunse - non siamo immemori né di questi principi, né del come la nostra causa nazionale ha trionfato. L'Italia ha vinto l'avversa fortuna quando acquistò cognizioni che ogni impresa ha il suo momento, che bisognava tener conto delle condizioni generali dell'Europa, saper osare a tempo e a tempo aspettare.
Non ci siamo noi, per le condizioni della pace, arrestati a Villafranca? Non ha l'Italia, perché l'ora non era giunta, compiuto contro se stessa il più crudele dei sacrifici, quando fu contrastata la via a quell'uomo consacrato nei nostri cuori dalla gloria, dal patriottismo, dall'affetto di tutto un popolo ?".

La Camera, con 278 voti contro 132, approvò le dichiarazioni ministeriali inerenti la partecipazione alla politica militare europee sulla questione di Creta. Circa una settimana dopo, e cioè il 18 aprile, la Turchia dichiarava guerra alla Grecia, dove, a combattere per l'indipendenza degli oppressi Cretesi, erano accorsi e si erano uniti a loro, AMILCARE CIPRIANI, NICOLA BARBATO, ANTONIO FRATTI, GIUSEPPE DE FELICE e RICCIOTTI GARIBALDI sotto il cui comando fu costituita una Legione garibaldina.

La campagna fu breve e infelice per le armi greche, che nello spazio di un mese subirono molte sconfitte, ultima quella toccata a Domokos il 17 maggio, che poteva risolversi in un vero disastro se la ritirata disordinata dell'esercito greco non fosse stata protetta dalla Legione garibaldina.
Questa si batté con grande valore e subì non poche perdite. Fra i caduti vanno ricordati l'on. ANTONIO FRATTI, di Forlì, i tenenti CAMPANOZZI e BARNABA, siciliani, ANTONIO PINI, di Arezzo, ALFREDO ANTINORI, di Ancona, lo studente ALARICO SILVESTRI, di Amelia, ROMOLO GARRONI e MASSIMILIANO TROMBETTI, di Roma, GUIDO CAPELLI, di Milano, ETTORE PANZERI, di Bergamo, ed ENRICO MANCINI di Adria. AMILCARE CIPRIANI fu ferito ad una gamba.

La questione d'Oriente non trovò la sua soluzione con la guerra greco-turca. Essa diede luogo però ad alcuni accordi tra potenze. Tra la Russia e l'Austria fu, l'8 maggio, stipulato un accordo segreto con il quale i due Stati si obbligavano a rinunciare ad ogni desiderio di conquista nei Balcani e a schierarsi contro quelle potenze che volessero mutare a loro beneficio lo "status quo" territoriale balcanico (nel 1914 l'Austria per invaderla trovò poi il pretesto a Sarajevo).

A Monza, tra i ministri degli Esteri italiano VISCONTI VENOSTA e l'austroungarico AGENOR GOLUCHOWSEKI, nel novembre 1997, trattano un accordo verbale nei riguardi dell'Albania, per farne uno stato indipendente nel caso del crollo del dominio turco nei Balcani (il trattato fu poi stipulato più tardi il 20 dicembre 1900 e il 9 febbraio 1901).
Le condizioni di tale intesa furono:
1° - Mantenere lo "status quo" fin tanto che le circostanze lo permettano;
2° - Impiegare i nostri sforzi, nel caso che lo stato attuale delle cose non possa essere conservato, e ove dei cambiamenti si imponessero, affinché le modifiche relative si compiano nel senso dell'autonomia;
3° - In generale, e come mutua disposizione da una parte e dall'altra, ricercare insieme, e tutte le volte che il caso, le vie e i mezzi più atti a conciliare e salvaguardare i nostri reciproci interessi".

LA POLITICA INTERNA DI RUDINÍ
IL SENATORE CODRONCHI COMMISSARIO CIVILE DELLA SICILIA
CRISI MINISTERIALE - NUOVO GABINETTO DI RUDINl
SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA


Se in politica estera ebbe qualche veduta comune con il Gabinetto Crispi, in politica interna il Ministero dell'on. Di Rudinì si sforzò di essere l'antitesi di quello. In più il presidente del Consiglio non si lasciava sfuggire le occasioni per parlare male del passato Gabinetto. Così, nella tornata del 28 maggio del 1896, in seguito all'inchiesta ASTENGO, causata da alcuni disordini amministrativi verificatisi nel Ministero dell'Interno, non esitò a deplorare vivamente le irregolarità commesse e a chiamarle "la più perfetta negazione di un'amministrazione corretta".
Quella volta però fu prontamente rimbeccato dagli onorevoli SONNINO e TORRACA. Il primo disse:
"Io disapprovo il vostro indirizzo politico ed amministrativo. Io disapprovo la vostra politica di recriminazioni; disapprovo tutte le concessioni e le debolezze che andate usando per assicurarvi l'appoggio di parti diverse della Camera".
Il secondo:
"E' chiaro, ormai, che qui non si tratta di votare per il presente, ma contro il passato .... Vilissimi uomini saremmo noi dell'antica maggioranza se segnassimo la nostra condanna .... Onorevole presidente del Consiglio, noi speravamo di trovarci d'accordo; solo che lei avesse guardato innanzi a sé, i dissenzienti di ieri potevano essere i consenzienti di oggi. Ma poiché volete costringerci ad avvilirci, no, noi non ci avviliremo"
.
Quel giorno 30 maggio del 1896, votandosi il bilancio dell'Interno, a stento il Ministero ottenne la maggioranza con 118 voti contro 115 e 16 astenuti.

LA SICILIA SOTTO PRESSIONE
CON IL SETACCIO DELLA BUROCRAZIA

Per pacificare la Sicilia, con regio decreto del 5 aprile 1896 il senatore GIOVANNI CODRONCHI era stato nominato Commissario civile dell'isola con funzioni di ministro e con facoltà d'ispezionare tutti gli uffici politici ed amministrativi della regione, provvedere ad una revisione straordinaria dei bilanci provinciali e comunali e rivedere i regolamenti provinciali sui tributi locali, le tariffe dei dazi e i ruoli delle imposte comunali.

La discussione parlamentare intorno alla conversione in legge del decreto iniziata il 3 luglio terminò il 10. Fra coloro che parlarono un favore del disegno fu CAVALLOTTI; fra gli oppositori gli onorevoli FORTUNATO, IMBRIANI, FORTIS, FERRARIS E SONNINO; molti sostennero che il disegno era tale da far ridestare nell'isola tutte le tendenze autonomistiche.

Nel difendere il disegno il Di Rudinì, rispondendo al Colajanni che aveva espresso il desiderio che fossero costituite "Società di resistenza" fra i lavoratori, si dichiarò nettamente contrario alla costituzione di associazioni tendenti alla lotta di classe, dicendo di avere il dovere di non permettere che si costituissero "nel Regno d'Italia e segnatamente in Sicilia associazioni le quali in qualunque modo", tendessero "a provocare la lotta di classe".
"La lotta di classe è vietata dal codice penale. Io ho, per guida, una linea che dal codice penale mi è indicata e che a nessuno potrà esser lecito di sorpassare. Io sarò là, innanzi a questa linea, come una sentinella vigile, la quale griderà tutti i giorni: "di qui non si passa" !".

Durante quel dibattito parlò per la prima volta alla Camera FILIPPO TURATI, che, in nome di altri socialisti, svolse, il 10 luglio, un ordine del giorno con il quale s'invitava il Governo a garantire la piena libertà di associazione, di organizzazione e di propaganda sotto qualunque nome e forma poiché per quella sola via le classi potevano in modo civile raggiungere la loro emancipazione e la parità effettiva dei diritti. Il Turati concluse il suo discorso dicendo: "Ostacolando l'organizzazione e la propaganda dei lavoratori, voi vi mettete di traverso alla civiltà. Avete un bel tuonare: "io sono la sentinella"… "di qui non si passa". Non vi confondete marchese, la storia passerà lo stesso".

La Camera approvò con 232 voti contro 139 il disegno che, approvato anche dal Senato il 28 luglio, divenne legge il 30.

L'11 luglio del 1896 si verificò la prima crisi nel Gabinetto Di Rudinì. Ne fu causa il ministro della Guerra RICOTTI, il quale, dovendo introdurre nel bilancio del suo ministero nuove e maggiori economie, sosteneva esser necessario portare a 10 o ad 8 corpi d'armata l'esercito anziché conservare i dodici corpi come volevano il Re, il presidente del Consiglio e la maggior parte dei generali. Il Ricotti contestato si dimise, e fu imitato da CAETANI, COLOMBO, PERAZZI e da CARMINE.

Il 21 luglio 1896, fu presentato al Parlamento il nuovo Gabinetto, nel quale il generale PELLOUX aveva assunto la Guerra, VISCONTI-VENOSTA gli Esteri, LUZZATTI il Tesoro, PRINETTI i Lavori Pubblici e SINEO le Poste e i Telegrafi.
Durante questo ministero, fu sciolta la Camera. Sembra che Rudinì in accordo con i circoli di corte abbia fatto sciogliere anticipatamente la Camera al fine di rafforzare e rendere più omogenea la maggioranza governativa.

Il regio decreto di scioglimento fu emanato dal Re il 3 marzo 1897 e le elezioni furono indette per il 21 dello stesso mese. Il Di Rudinì aprì la campagna elettorale con una lettera ai suoi elettori in cui propose una riforma dell'elettorato amministrativo, e per conciliarsi i partiti estremi, il 14 marzo, una settimana prima cioè delle elezioni, fece approvare dal re un decreto di amnistia per fatti della Sicilia e della Lunigiana.

Le elezioni del 21 e 28 marzo, dei circa 2.500.000 elettori aventi diritto, si recarono alle urne 1.241.486 cittadini, pari al 50,5 per cento. Con dei risultati che non corrispondevano alle aspettative del Di RUDINÌ. Infatti, la sua destra non otterrà lo sperato vantaggio sul centro di SONNINO e sulla sinistra Crispina sempre rimasta ostile al presidente del consiglio.

Nelle elezioni il Ministero riuscì ad ottenere una forte maggioranza poco stabile e a far cadere non pochi crispini, quali DAMIANI, MICELI, DANEO; invece i radicali, i repubblicani e i socialisti videro accrescere il numero dei loro rappresentanti politici: i deputati socialisti pure.
Il governo dovrà reggersi ancora sull'appoggio poco stabile della sinistra zanardelliana e giolittiana e dei radicali cavallottiani.
L'estrema sinistra manderà in Parlamento circa 80 deputati; i socialisti con 135.663 voti riescono a far entrare 16 deputati (nelle precedenti elezioni di voti ne avevano presi 77.000, e di deputati eletti 12).

INAUGURAZIONE DELLA XX LEGISLATURA
L'ATTENTATO ALLA VITA DI RE UMBERTO

I1 5 aprile si inaugurò la XX Legislatura con un discorso della Corona. Accennando all'Eritrea, Umberto I disse:
"Le condizioni dell'Eritrea, ritornate allo stato normale, ci permetteranno di prendere con virile e dignitosa prudenza quelle libere risoluzioni sulle sorti della Colonia che meglio si accordino con i nostri interessi. Intanto io so d'interpretare l'animo di tutti gl'Italiani inviando un saluto di ammirazione e di riconoscenza all'esercito, che, in mezzo a difficoltà straordinarie, ha combattuto con sì grande valore ed abnegazione, e rivolgendo il pensiero a quei valorosi che sacrificarono la vita in difesa della nostra bandiera. Il memore affetto della patria conforti le famiglie dei caduti".

Quindi il sovrano dichiarò che l'Italia nella questione d'Oriente collaborava con le altre potenze europee, che il bilancio doveva esser consolidato con l'incremento dell'economia nazionale e annunciò disegni di legge a favore degli operai "affinché negli infortuni e nella vecchiaia potranno avere quei conforti da troppo tempo giustamente desiderati".

II 6 aprile fu eletto presidente della Camera il candidato ministeriale GIUSEPPE ZANARDELLI; ma né questa nomina né l'amnistia conciliarono al Gabinetto il favore dei partiti estremi. L'amnistia anzi fece sì che coloro i quali ne usufruirono ricominciassero con maggior vigore la propaganda sovversiva, della quale si videro i primi frutti il 22 aprile.
Quel giorno, un fabbro ferraio disoccupato di Artena, tale PIETRO ACCIARITO, tentò, fuori Porta S. Giovanni, a Roma, di colpire con un pugnale il Re, mentre in carrozza si recava alle corse alle Capannelle.

UMBERTO I, alzandosi, fece deviare il colpo, quindi ordinò che la carrozza si rimettesse in cammino e, rivolgendosi al generale PONZIO VAGLIA, suo aiutante di campo, disse: "Sono gli incerti del mestiere".
L'Acciarito, che si era dato alla fuga, fu inseguito ed arrestato e più tardi condannato all'ergastolo ai lavori forzati a vita; morirà 50 anni dopo, a Montelupo nel 1943. Grandi manifestazioni di solidarietà per lo scampato pericolo avvennero in tutta Italia.

Ma l'attentato dell'Acciarito ebbe un lungo strascico. Fra i presunti complici del reicida arrestati vi era un certo FREZZI, che morì in carcere, si disse in seguito per i maltrattamenti e le sevizie degli uomini del questore. Aperta l'istruttoria giudiziaria, il questore di Roma fu citato con mandato di comparizione.
Allora Di RUDINÌ, si dichiaró responsabile degli arresti eseguiti dal questore. Tuttavia la Camera, il 21 giugno, approvò l'operato di Di Rudinì con 275 voti a favore e 136 contrari. Votazione che suscitarono le proteste degli estremisti, i quali tennero a Roma, nel luglio, un imponente comizio, e altre dimostrazioni si verificarono in diverse altre città.

IL MOLMENTI PROPONE
L'INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE PRIMARIE

Da un anno circa era ripresa più accanita che mai la lotta tra clericali e liberali, inasprita dal contegno decisamente battagliero della Massoneria, di cui era Gran Maestro ERNESTO NATHAN.
Il 24 giugno del 1896, inaugurandosi a Milano il monumento a Vittorio Emanuele II, il cardinale FERRARI si era allontanato dalla città e il 28 giugno lo stesso aveva fatto il cardinale SVAMPA, arcivescovo di Bologna, dove s'inaugurava il monumento a Marco Minghetti. Nel luglio dello stesso anno un congresso antimassonico si riuniva a Trento, e il Nathan dichiarava che la massoneria non combatteva i cattolici, ma i clericali, nemici dell'unità della patria.

La lotta tra liberali e clericali non poteva non ripercuotersi nel Parlamento. Il 3 luglio del 1897, discutendosi alla Camera il bilancio dell'Istruzione Pubblica, il deputato storico on. POMPEO MOLMENTI sostenne la necessità dell'insegnamento religioso nelle scuole primarie, impartito dai preti. FERDINANDO MARTINI ribatté, dicendo che l'insegnamento religioso doveva essere restituito alle cure della famiglia. EMANUELE GIANTURCO, ministro dell'Istruzione, diede solo in parte ragione al Martini facendo notare che in 6394 comuni sugli 8255 del Regno era impartito l'insegnamento religioso, ma esso era in massima parte in mano di maestri laici.

"La ragione di ciò - disse - è chiara .... il paese intravede il pericolo che non interessi religiosi, non il puro spirito di una fede ardente, ma bensì un interesse politico e clericale presieda a quell'insegnamento".

IL DUELLO TRA IL PRINCIPE D'ORLEANS E IL CONTE DI TORINO

Il giorno stesso che il Molmenti parlava alla Camera a favore dell'insegnamento religioso il "Figaro" di Parigi pubblicava una corrispondenza dall'Abissinia del principe ENRICO D'ORLÉANS, in cui questo ambizioso avventuriero lanciava accuse contro il contegno dei prigionieri italiani, narrando bugiardamente che alcuni ufficiali avevano partecipato alla feste celebrate per la battaglia di Adua, che altri portavano ai polsini bottoni con l'immagine di Menelick e che il generale Albertone aveva brindato alla salute del Negus.
Altre corrispondenze tenevano dietro alla prima a brevi intervalli, in cui il principe d'Orléans accusava di viltà l'esercito italiano ad Adua ed affermava che l'Albertone in quella battaglia era rimasto inoperoso.
Le corrispondenze del principe suscitarono grandissimo sdegno in Italia. Gli ufficiali che erano stati prigionieri nello Scioia decisero di sfidare il calunniatore: la sorte fece cadere la scelta sul tenente PINI.
Anche il generale ALBERTONE sfidò il francese e si recò a Ginevra, luogo destinato per lo scontro. Ma sia il tenente che il generale, dovevano cedere il posto, nel difendere con le armi l'onore dell'esercito italiano, al conte di Torino che il 6 luglio, da Alessandria d'Egitto, inviò al principe d'Orléans la lettera seguente: "Monsignore, leggo nel Figaro la lettera che voi avete diretto dall'Abissinia a questo giornale. "En baillant des bavettes" con i vostri compatrioti di Addis Abeba, la vostra buona fede e stata sorpresa e voi si siete fatto l'eco di racconti calunniosi per gli sfortunati figli di quelli, fra i quali vostro padre ha ricevuta la sua educazione militare all'Accademia di Torino, e con i quali ha appreso a marciare in faccia al nemico. Giovane soldato anch'io, discendente di una stirpe di soldati, lungamente gloriosa, io non saprei ammettere simili calunnie, sapendole proclamate e sostenute da voi in faccia all'Europa. Poiché la verità deve vincere l'amor proprio di un uomo onesto, e che "noblesse obliege", voi, monsignore, non esiterete a ristabilire l'esattezza dei fatti. Voi mi obbligherete facendomi il più presto conoscere le vostre intenzioni al riguardo".

Avendo, un mese dopo, il principe d'Orléans risposto che gli erano stati riferiti in Abissinia i fatti esposti nelle corrispondenze e che lui, come viaggiatore, aveva il diritto di renderli pubblici, il conte di Torino lo sfidò telegraficamente e partì subito per Parigi.
Il 14 agosto il Di RUDINÌ, poco dignitosamente, dichiarava in un comunicato ufficiale che la vertenza del conte di Torino era "di carattere del tutto personale". Il giorno dopo, rendendosi interprete del risentimento della nazione, EDOARDO SCARFOGLIO scriveva sul "Mattino":

"Checchè ne pensino e ne dicano gl'ignobili imbecilli che ci governano, l'Italia sente profondamente le offese ricevute per dieci anni dalla Francia, e non è per nulla disposta a dimenticarle per l'illusione di un trattato di commercio, al quale non crede, del quale non ha bisogno, dal quale nessun vantaggio si ripromette. Nel fondo dell'anima italiana cova, sempre vivo, il sentimento dell'amor proprio ferito, e nessun sforzo della politica potrebbe estinguere una rivalità, che ha le sue radici nella natura delle cose e nella fatalità dei fatti compiuti. Questa rivalità ha trovato ora una forma acuta, un'espressione classica nel duello fra i due principi; e checché se ne dica, per quanto si balbetti, si sottilizzi e si annaspi, per il popolo italiano, per il popolo francese, per tutto il mondo civile, domani s'incontreranno, con la spada alla mano, non il principe d'Orléans e il conte di Torino, ma l'Italia e la Francia. E non è già solo per le insulsaggini pubblicate dal Figaro che i ferri s'incroceranno, ma per quante calunnie, e per quante ingiurie, i francesi hanno scritto contro di noi in dieci anni, ma per tutto il veleno che hanno sparso contro di noi nella loro politica internazionale, ma per tutte le ladronerie e le slealtà che commisero ai nostri danni, dall'occupazione della Tunisia all'armamento dell'Abissinia. Dopo venti secoli, il dualismo etnico si rinnova nelle precise forme antiche: da una parte il celta insultatore, spaccone, minaccioso; dall'altra l'italico silenzioso, composto, vigile. Chi ha presenti gli storici latini, non può negare che il duello di domani non è un fatto sporadico, ma si riallaccia strettamente alle tradizioni di due razze".

Lo scontro avvenne alle ore 5 antimeridiane del 13 agosto del 1897 a Vaucresson, nel "Bosco dei Marescialli", presso Parigi. I padrini del conte di Torino erano i colonnelli VICINO PALLAVICINO e FELICE AVOGADRO di Quinto, quelli del principe d'Orléans RAUL MOURICHON e il famigerato capitano russo NICOLA LEONTIEFF, che aveva brigato contro l'Italia in Abissinia e aveva comandato l'artiglieria etiopica nella guerra dell'anno prima.
Il duello durò meno di mezz'ora. Nei primi tre assalti gli avversari riportarono due ferite leggere, il principe al petto, il conte alla mano destra; al quinto assalto il principe d'Orléans ricevette una grave ferita nella regione inferiore addominale destra, e lo scontro fu fatto cessare.
L'onta arrecata all'onore dell'esercito italiano era stata lavata nel sangue dell'ignobile calunniatore e il re, il Carducci, uomini politici, giornalisti e popolo si congratularono con il prode conte sabaudo.

Il giorno stesso in cui avveniva lo scontro, moriva il ministro di Grazia e Giustizia GIUSEPPE COSTA. Di RUDINÌ prese per sé l'interim del dicastero, al quale, il 18 settembre, chiamò EMANUELE GIANTURCO, che cedette l'Istruzione al CODRONCHI, tornato -come commissario civile- con pochi allori dalla Sicilia.

POLITICA FINANZIARIA
E PROMULGAZIONE DI LEGGI FINANZIARIE E SOCIALI

Nello stesso mese d'agosto i commercianti romani promossero un'agitazione di protesta contro gli eccessivi accertamenti di ricchezza mobile, agitazione che si estese a tutta l'Italia favorita dai partiti estremi. L'11 ottobre a Roma ci fu una violentissima dimostrazione, che infranse a sassate i vetri di palazzo Braschi e dovette essere sciolta dalla truppa, la quale, sparando, ferì molte persone e ne uccise una.
Il 1° dicembre 1997, il ministro LUZZATTI, facendo l'esposizione finanziaria, accertò un avanzo di 16 milioni nell'esercizio del 1897-98 e di circa 12 nel successivo e promise che si sarebbe raggiunto il pareggio se si fossero ridotte le spese per la colonia Eritrea (le quali furono ristrette infatti a 3 milioni), se si fossero colmate le deficienze del Tesoro (fu concesso un prestito nominativo triennale per 100 milioni) e si mettesse un freno al debito vitalizio per le pensioni. Il pareggio assicurato permise al Governo di promulgare importanti leggi finanziarie e sociali: di tutelar meglio gli emigranti, di unificare i debiti delle province, dei comuni e delle isole, di sistemare il credito fondiario della Sardegna e di aiutare gli istituti d'emissione.

Fra le leggi sociali meritano di essere ricordate quella sull'assicurazione obbligatoria sugli infortuni sul lavoro (17 marzo 1898) (per i lavoratori dell'industria; nel 1902 sarà estesa agli operai delle piccole imprese) proposta dall'on. GUICCIARDINI, e quella sulla Cassa nazionale di previdenza a favore degli operai vecchi e invalidi (17 luglio 1898) proposta dall'on. COCCO-ORTU (per il momento facoltativa, ma è il primo nucleo del futuro INPS che diventerà assicurazione obbligatoria con la legge del 21 aprile 1919).

NUOVI ATTACCHI A CRISPI - NUOVA CRISI MINISTERIALE

Nella seduta del 2 dicembre la Camera fu commossa da un discorso di FRANCESCO CRISPI. Benché caduto, il grande vecchio faceva ancora paura e non cessava di essere il bersaglio dei suoi ingenerosi nemici, specie del CAVALLOTTI; anzi si era tentato di coinvolgerlo nel processo per peculato contro il commendator Favilla, direttore del Banco di Napoli nella sede di Bologna.
Il 27 maggio il Crispi, volendo esser giudicato dalla Camera, aveva sollevato l'eccezione d'incompetenza, che, respinta in primo e secondo grado, era stata accolta dalla Cassazione l'8 novembre. Resistendo alle ingiurie e alle invettive dei suoi nemici, CRISPI riuscì andare fino in fondo nella sua difesa, commovendo con le sue dichiarazioni:
" Io non temo la discussione - disse fra l'altro - discutetemi pure. Sono qui. Ma è doloroso che a 78 anni, dopo averne dedicato 53 anni a servizio del paese, io debba difendermi da questa guerra .... Io chiedo che negli ultimi anni della mia vita mi si lasci tranquillo, perché io tranquillamente pensi a me ed alla mia famiglia. Se l'Italia avrà bisogno dell'opera mia, non la negherò".
Disse anche, rivolto ai deputati dell'Estrema Sinistra: "Sì, voi siete i vincitori del giorno ! Voglia Iddio che mali maggiori non soffra la patria nostra".

Il presidente della Camera nominò una Commissione di cinque membri (Della Rocca, Garavetti, Grippo, Palberti, Tiepolo), la quale, dopo avere investigato, concluse non esservi luogo a procedere contro l'on. Crispi, ma essere tuttavia il suo operato meritevole di censura politica per aver fatto compiere al Banco operazioni rischiose. Francesco Crispi si dimise, ma un mese dopo il secondo collegio di Palermo lo rielesse con 1173 voti contro i 235 dati al suo avversario NICOLA BARBATO.

Il 3 dicembre del 1897, la Camera respingeva la legge sull'avanzamento dell'esercito, provocando le dimissioni del ministro Pelloux e una nuova crisi nel Gabinetto. Il Di RUDINÌ, incaricato di costituire il nuovo ministero, lo formò il 14 dicembre, assumendo la presidenza del Consiglio e l'Interno, e affidando gli Esteri a VISCONTI-VENOSTA, il Tesoro a LUZZATTI, le Finanze a BRANCA, la Marina a BRIN, la Grazia e Giustizia a ZANARDELLI, la Guerra al generale SAN MARZANO, i Lavori Pubblici a PAVONCELLI, le Poste e T. a EMILIO SINEO, la Pubblica Istruzione a NICCOLO' GALLO e l'Agricoltura a COCCO-ORTU (Questi ultimi due della sinistra zanardelliana).
Nei primi di marzo '98, morto il ministro Sineo, il Luzzatti ebbe l'interim delle Poste e dei Telegrafi. Il 24 maggio cessò di vivere Benedetto Brin e l'interim della Marina fu assunto dal Di SAN MARZANO.

Alla Camera il nuovo gabinetto non riscosse molte simpatie anzi vide passare all'opposizione, oltre i crispini, l'Estrema Destra e i Giolittiani. Nella seduta del 20 dicembre, l'on. SONNINO dichiarò che nel nuovo Ministero egli "vedeva un connubio passeggero di alcune personalità dell'antica Destra e dell'antica Sinistra".
CAVALLOTTI chiamò "accoppiamento ripugnante il connubio Di Rudinì-Zanardelli". Il nuovo gabinetto, insomma, riscosse simpatie così scarse che l'ordine del giorno GIUSEPPE COLOMBO (destra lombarda) di sfiducia al Governo fu respinto dalla Camera con una maggioranza di soli 16 voti. Con l'avvento al governo di un ministero così debole si chiudeva un anno nefasto e se ne apriva un altro peggiore.

I MOTI DEL 1898
IL DUELLO MACOLA-CAVALLOTTI
E LA MORTE DEL "BARDO DELLA DEMOCRAZIA"


All'inizio del 1898 la disoccupazione in Italia era molto grave, specie, nell'Emilia, nelle Romagne, nelle Marche, nella Toscana e nella Campania. Disoccupazione che era causa di fermenti minacciosi tra le popolazioni.
Altre cause dell'irrequietudine che serpeggiava nella penisola un po' ovunque erano i bassi salari, la crisi degli zolfi e la comparsa della fillossera in Sicilia ed infine su tutta la penisola le più grosse proteste erano per il rincaro del pane, dovuto agli scarsi raccolti degli anni precedenti, ma innanzitutto alle diminuite importazioni per la guerra tra la Spagna e gli Stati Uniti.
Il Governo, il 23 gennaio, ridusse da L. 7.50 a L. 5 il diritto doganale d'entrata sui grani e contemporaneamente richiamò sotto le armi la classe del 1874, 40.000 uomini; ma il primo provvedimento era tardivo e insufficiente, il secondo toglieva valore all'altro e irritava le popolazioni, le quali vedevano il proposito del Governo di iniziare le repressioni avvalendosi dell'esercito. Le agitazioni continuarono, e in febbraio assunsero aspetto di gravità in Sicilia, dove si ebbero sanguinosi conflitti con la truppa. E intanto soffiavano nel fuoco i socialisti, i repubblicani, i libertari, i radicali e perfino i cattolici, tutti convinti che era giunto il momento per far crollare il presente stato politico-sociale della nazione.

Il pane nella primavera del '98, era salito quasi del doppio, da 35 a 60 centesimi al chilo; le altre imposte colpivano i prodotti più popolari, il vino, il sale, il macinato, il petrolio per l'illuminazione, gravando così soprattutto sui miseri e sui contadini. Poi c'erano gli scontenti meridionali, molti dei quali erano stati privati del voto.
Perfino la Chiesa ebbe la sua parte attiva nella spinta alla lotta di massa, con il partito cattolico che organizza i tumulti delle campagne (dov'è molto presente), dando man forte ai contadini indeboliti dalla fame ad insorgere e ad organizzare i primi scioperi.

A render più grave la situazione, per il vergognoso sfruttamento che se ne fece, contribuì il duello famoso tra gli onorevoli FELICE CAVALLOTTI e FERRUCCIO MACOLA.
VINCENZO MORELLO aveva querelato il Cavallotti per diffamazione ed ingiurie e la Camera, aveva nominato una Commissione parlamentare per chiedere se si dovesse accordare l'autorizzazione a procedere contro il bardo.
La "Gazzetta di Venezia", di cui era direttore MACOLA, diffondendo la notizia, aveva pubblicato che Cavallotti, sebbene non invitato, era intervenuto alla seduta della Commissione per fornire spiegazioni. A questa pubblicazione aveva risposto Cavallotti sul "Secolo" chiamando Macola "mentitore di mestiere". Questi aveva sfidato l'altro, ma, essendo risultato che Macola non era stato autore della notizia, i padrini avevano amichevolmente composta la vertenza, la quale, riapertasi alla fine del febbraio in seguito ad uno scambio vivace di lettere, aveva riportato i due avversari sul terreno dello scontro.

Padrini del Macola furono Carlo Donati e Guido Fusinato, del Cavallotti Camillo Tassi e Achille Bizzoni, i quali stabilirono che il duello doveva farsi con sciabola affilata e appuntata, senza esclusione di colpi e durare fino a che uno dei due fosse giudicato dai medici in condizioni di non poter più proseguire. Lo scontro avvenne a Roma, nella villa della contessa Cellere, fuori Porta Maggiore, alle ore 15 del 6 marzo 1898.
Al terzo assalto, il Cavallotti, trascinato dalla propria irruenza, lanciandosi sull'avversario, la sciabola di questi gli recise la carotide; dissanguato cessò di vivere dopo nemmeno cinque minuti.

La notizia della morte del famoso parlamentare, sparsasi rapidamente, produsse enorme impressione in Italia; che rinfocolò i contrasti tra l'estrema sinistra, i socialisti e i repubblicani, da un lato e il governo conservatore di Rudinì dall'altro.
Ma non piaceva agli onesti la speculazione che di quella tragica fine tentarono di fare i più accesi democratici, affermando che la morte di Cavallotti era stata decisa da un complotto di reazionari capeggiati da Crispi, i quali avevano voluto chiudere per sempre la bocca che era solita dire molte verità.
OLINDO GUERRINI, camuffato da Lorenzo Stecchetti, scrisse in quell'occasione un'ode infelice in cui chiamò "Verre" il Crispi e strumento dello Statista siciliano il Macola:

Ed or che in bocca la civil rampogna
il ferro ti recide,
Verre, beato nella sua menzogna,
Verre, il ribaldo ride ....
Verre, t' inganni ! Nel mortai duello
non fu tua la vittoria.
Con un colpo di spada o di coltello
Non si uccide la storia.

Anche GIOSUE' CARDUCCI commemorò Cavallotti all'Università di Bologna, presentandolo come un eroe rivoluzionario, vittima della reazione governativa.
I funerali che si svolsero a Milano il 9 marzo 1898, si trasformarono in una manifestazione popolare contro le forze conservatrici e moderate.

La spada di MACOLA uccideva il solo uomo capace forse di impedire che il fermento rivoluzionario assumesse carattere di anarchia. I primi gravissimi tumulti scoppiarono il 26 e il 27 aprile del 1898 a Faenza, Bari, Foggia. Di qui l'incendio si propagò rapidamente ad altri centri d'Italia, a Siracusa, Palermo, Reggio Calabria, Benevento, Avellino, Minervino Murge, Ascoli Piceno, Salerno, Caserta, Parma, Piacenza, Bologna, Ravenna, Livorno, Pisa, Siena, Carrara, Pistoia, Genova, Pavia, Brescia, Padova e in molte altri piccoli e grandi centri d'Italia.
Minacciose dimostrazioni ebbero luogo il 1° maggio in parecchie città delle penisola, che rimasero in balia di gruppi e gruppuscoli politicizzati, cui si unirono nell'occasione una folla di scontenti di ogni cosa, del rincaro del pane, della disoccupazione, dei dazi sulle farine e sul grano; poi la repressione che iniziò a colpire nel mucchio fece il resto.

I tumulti contro il caropane, assumono un chiaro carattere di protesta politica, soprattutto quando in quelli scoppiati a Pavia, dopo le cariche della polizia, rimase ucciso lo studente MUZIO MUSSI, figlio di uno dei più noti deputati radicali, GIUSEPPE MUSSI vicepresidente della Camera.

Altri tumulti il giorno successivo. A Firenze, scioperarono i muratori, i quali, nonostante il divieto del prefetto Sani, organizzarono un corteo che attraversò con alla testa il deputato socialista PESCETTI le vie della città.
Qui furono tante le violenze dei dimostranti che il vecchio senatore CAMBRAY-DIGNY si vide costretto a, protestare per l'inerzia del Governo inviando al Di Rudinì il seguente telegramma: "Firenze senza Governo. Prefetto esautorato. Generale HEUSCH assente. Città in mano di trecento malfattori. Governo centrale responsabile".

STATI D'ASSEDIO
LE CANNONATE DI BECCARIS SULLA FOLLA A MILANO
REPRESSIONI E PROCESSI

Solo allora il presidente del Consiglio Rudinì, impartì ordini severissimi al generale Heusch, che proclamò lo stato d'assedio. Per l'on. Pescetti, fu spiccato mandato di cattura, ma il deputato socialista riuscì a fuggire in Francia.

Dopo i fatti di Firenze, e i tumulti di Pavia, il 3 maggio gli studenti napoletani vollero commemorare il Mussi, ma, essendosi infiltrati nelle loro file elementi di disordine, la cerimonia degenerò in tumulti che diedero luogo a violenze e a conflitti con la forza pubblica. Vi furono morti e feriti e il giorno dopo il generale MALACRIA proclamò anche a Napoli lo stato d'assedio.

A questo punto con l'Italia tutta in fermento, i tumulti di Milano che in alcuni casi erano sorti e avevano un carattere di spontaneità, chiamata da Colajanni "protesta dello stomaco", cioè disorganizzata, assunsero l'aspetto di vera e propria insurrezione nazionale con un chiaro significato politico e antigovernativo.

Il 5 maggio l'on. TURATI pubblicò dei manifestini ai lavoratori, dove, fra l'altro, era detto:
"Stringetevi compatti attorno alla bandiera socialista, sulla quale è scritto: "rivendicazione dei diritti popolari, restaurazione della libertà e della giustizia, abolizione di tutti i privilegi, guerra al militarismo, suffragio universale".
Nel pomeriggio del giorno dopo, essendo stati arrestati tre operai che distribuivano i manifestini, una colonna di dimostranti, al canto dell'inno dei lavoratori, si avviò verso la Questura, rompendone i vetri a sassate.
La reazione degli agenti di pubblica sicurezza e della truppa fu pronta ed energica: si sparò sui tumultuanti e si ebbero le prime vittime, due dimostranti e un poliziotto muoiono prima di sera; questo esasperò maggiormente i dimostranti che iniziarono a bloccare le strade e a fare i primi picchettaggi.

L'indomani fu proclamato lo sciopero generale; e iniziarono dei gravissimi disordini. Furono devastate le vetture tranviarie, saccheggiati negozi e palazzi, qua e là innalzate barricate. Scioperano anche le donne, le sigaraie di via Moscova, unendosi agli operai della Pirelli.
Il cardinale arcivescovo, forse per la paura, fugge da Milano.

La sera del 7 maggio, il generale BAVA BECCARIS (ex ministro della guerra), comandante il Corpo d'Armata, proclamò lo stato d'assedio; ma i tumulti continuarono, le barricate aumentarono di numero e la forza pubblica dovette prenderle d'assalto una dopo l'altra facendo uso persino del cannone, ad alzo zero, cioè sulla folla.
In Piazza Duomo, in sella al suo cavallo, Beccaris detta febbrili ordini, sparare a vista, anche alla cieca su assembramenti di più di tre persone. Si sparge la voce che al convento dei frati di Monforte si sta svolgendo una riunione di 40 sovversivi; viene espugnato a cannonate, e i soldati entrati poi nelle macerie fumanti, arrestano una fila di mendicanti con i piatti della minestra dei frati in mano.

Un vero e proprio eccidio tra la popolazione.
Non si è mai saputo quanti morti ci furono: 80 i morti e 502 i feriti; secondo le cifre ufficiali, 300 i morti e più di 1000 feriti, secondo fonti delle opposizioni. Migliaia di persone furono arrestate, molti subito condannati dai "tribunali militari" a dure pene detentive, molti leader coinvolti o no, fuggirono all'estero.

Con queste dure repressioni, con una vera e propria guerra al popolo, a Milano fu ristabilito l'ordine e al generale BAVA BECCARIS, con gesto inopportuno (e che pagò caro) il sovrano il 6 giugno, lo premiava, gli conferiva la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia....
, "in riconoscimento del servizio reso alle istituzioni e alla civiltà" durante la repressione dei tumulti di maggio a Milano "..e perchè le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria".
Una frase che arrivò fino nel lontano New Jersey, indignando un certo Bresci.

Fra gli arrestati ci furono FILIPPO TURATI, ANDREA COSTA, LEONIDA BISSOLATI, CARLO ROMUSSI, PAOLO VALERA, DE ANDREIS, NOFRI, MORGARI, CHIESI, LA KULISCIOFF. Furono soppressi circoli socialisti e repubblicani, fu sospeso un centinaio di giornali, tra cui il "Secolo", l'Italia del Popolo, Lotta di classe, Il Mattino e l'Osservatore Cattolico di DON DAVIDE ALBERTARIO, il quale fu arrestato sotto l'accusa di avere con i suoi articoli "oltraggiato le istituzioni, combattuta la Monarchia e suscitato l'odio di classe". Anche il partito clericale fu bersaglio della reazione: furono infatti soppressi 70 comitati diocesani, 2500 comitati parrocchiali e 3000 associazioni cattoliche legate all'Opera dei congressi.

Numerosi socialisti, tra cui ETTORE CICCOTTI ed ARTURO LABRIOLA, ripararono in Svizzera. Dai tribunali militari furono inflitte gravi condanne. L'on. DE ANDREIS fu condannato a 12 anni di reclusione, l'on. PESCETTI a 10 anni, CARLO ROMUSSI a 5 anni e 3 mesi, DON ALBERTARIO a 3 anni, PAOLO VALERA a 5 anni e 6 mesi, COSTANTINO LAZZERI a 1 anno, la KULISCIOFF a 2 anni di detenzione.
TURATI, in difesa del quale testimoniò EDMONDO DE AMICIS, fu condannato come DE ANDREIS a 12 anni di reclusione.

Benché molti dirigenti del Partito socialista fossero estranei all'organizzazione dei tumulti (che in molti casi questi erano come le disorganizzate tipiche rivolte contadine), il governo e gran parte della stampa filo-governativa (dopo i tumulti non ne esisteva altra) sostennero la tesi opposta, accreditando presso l'opinione pubblica che i tumulti erano stati organizzati da associazioni sovversive di sinistra.
Bissolati ad esempio, che era stato arrestato e scontò pure due mesi in carcere, al processo riuscì a dimostrare che in quei giorni dei tumulti non era né a Milano e nemmeno in Italia.
Questa durissima repressione impresse una svolta autoritaria del governo alle istituzioni liberali. A Roma l'11 maggio, furono arrestati tutti i redattori dell'"Avanti" il giornale socialista; e il 12 maggio fu chiusa anche l'Università per impedire commemorazioni dello studente morto a Pavia o manifestazioni di solidarietà per i fatti di Milano, Pavia, Firenze, Napoli.
Di Rudinì volle giustificare come un'indispensabile risposta al complotto eversivo dei "neri" e dei "rossi".

DISSIDI NEL MINISTERO
NUOVA CRISI DI GABINETTO E NUOVO MINISTERO DI RUDINI
PRESENTAZIONE DI SEI DISEGNI DI LEGGE
CADUTA DEL GOVERNO DI RUDINI


Durava intanto il dissidio tra lo ZANARDELLI (min. Grazia e Giustizia) e il VISCONTI-VENOSTA (min. degli esteri). Questi capitanava la parte conservatrice del Gabinetto, quello la parte progressista, e che a malincuore aveva cooperato alle repressioni.
Lo Zanardelli, volendo colpire il cardinale FERRARI, che, durante i torbidi, si era allontanato da Milano, propose al Consiglio dei Ministri un disegno di legge, che dava facoltà al Governo di togliere l'exequatur ai vescovi.
Il contrasto di Visconti-Venosta (ostile all'aggravamento delle tensioni con la S.Sede) e lo Zanardelli (favorevole ai provvedimenti contro le associazioni cattoliche), portò il primo a dare le dimissioni, seguite poi da quello dell'intero ministero Rudinì il 28 maggio 1898.

Avuto dal Re l'incarico di ricostituirlo, DI RUDINÌ compose il 10 giugno il nuovo ministero conservando per sé la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno e assumendo l'interim dell'Agricoltura, riaffidando il Tesoro, le Finanze e la Guerra al LUZZATTI, al BRANCA e al DI SAN MARZANO e dando gli Esteri all'on. RAFFAELE CAPPELLI, la Grazia e Giustizia all'on. TEODORICO BONACCI, la Marina al viceammiraglio NAPOLEONE CANEVARO, la Pubblica Istruzione al senatore LUIGI CREMONA, i Lavori Pubblici al generale ACHILLE AFAN DE RIVERA e le Poste e i Telegrafi all'on. SECONDO FROLA.

Il 16 giugno il Di Rudinì presentò al Parlamento il nuovo Ministero e sei disegni di legge.

Il PRIMO dava al potere esecutivo facoltà di decretare l'applicazione delle leggi relative allo stato di guerra nei luoghi in cui l'ordine pubblico minacciato lo avesse richiesto, di richiamare in vigore la legge del 13 luglio 1894 sul domicilio coatto, di vietare la ricostituzione delle associazioni disciolte, e di richiamare in servizio i militari dell'esercito e della flotta, addetti al servizio ferroviario, postale e telegrafico, lasciandoli nelle rispettive funzioni.
Il SECONDO modificava in senso restrittivo l'editto sulla stampa del 26 marzo 1848 (cioè più severo di quello di Carlo Alberto)
Il TERZO faceva obbligo alle associazioni di dare all'autorità di pubblica sicurezza i loro statuti e l'elenco dei soci e vietava la costituzione di società pericolose all'ordine pubblico.
Il QUARTO modificava la legge del 19 novembre sulla Pubblica Istruzione.
Il QUINTO conteneva disposizioni sugli obblighi dei militari appartenenti al personale ferroviario, postale e telegrafico;
il SESTO alcuni palliativi provvedimenti a favore dell'economia nazionale.


Di Rudinì invitò la Camera a discutere sollecitamente i sei disegni di legge e la "politica generale" del Ministero.
Il più rilevante di questi provvedimenti, era il voler dare un carattere permanente ai provvedimenti repressivi varati durante lo stato d'assedio Quindi divieto di sciopero, di associazione, di insegnamento, limitazioni alla libertà di stampa, militarizzazione delle ferrovie e un aggravamento della legge sul domicilio coatto.

Contro questa "politica generale", altro che fiducia, non furono pochi gli attacchi. Notevoli fra gli altri quelli degli onorevoli SONNINO, BACCELLI, BOVIO e NASI.
"Il Governo non ha - disse Sonnino - il diritto di esigere una piena fiducia e tanto meno di chiedere poteri eccezionali, invocando gl'interessi dell'ordine, chi per anni di seguito ha mostrato di non capire il grave pericolo che veniva alla cosa pubblica dai suoi amoreggiamenti, prima come capo dell'opposizione e poi come capo del Ministero, con i partiti sovversivi .... Non può in verità presentarsi come porta bandiera della concordia chi da due anni, in tempi gravi come i presenti, non ha saputo mai informare la sua azione di governo ad altro e più fecondo intento che quello di combattere il Ministero precedente ....".

SONNINO terminò proponendo questo ordine del giorno:
"La Camera, mentre fa plauso all'esercito per l'ammirevole suo contegno durante i recenti disordini, dichiara di non aver fiducia nel Ministero".
L'on. BACCELLI chiamò la politica del Di Rudinì la "falsa strada metodizzata" e rimproverò al suo governo la condotta di fronte ai moti del maggio.
L'on. BOVIO dichiarò che finalmente aveva termine il periodo delle coalizioni e dei trasformismi e che "cominciava ad agire un'Estrema Sinistra pura e decisa contro i vecchi partiti reazionari".
Più aspro fu l'on. NUNZIO NASI, che disse fra l'altro:
"Voi, onorevole DI RUDINÌ, siete stanco, giustamente stanco dopo avere traversato un così lungo periodo di evoluzioni ministeriali. E' tempo che venga un Governo nuovo a rianimare le speranze e le fortune della Patria .... Quella striscia di sangue sparsa per il paese ci avverte che chi ha dovuto reprimere non è più in grado di pacificare gli animi".

Vedendo che da ogni parte della Camera la sua politica trovava un'opposizione piuttosto aspra, e molto ostile alla sua linea autoritaria, l'on. Di Rudinì, nella seduta del 18 giugno del 1898, annunciò che il Ministero "nell'intento di evitare che si potesse pregiudicare un'altra questione di ordine pubblico" rassegnò nelle mani del Re le proprie dimissioni.

Nella situazione così critica in cui si trovava l'Italia al suo interno, con i politici in contrasto anche dentro i propri partiti, il Re falliti tutti i tentativi, affidò l'incarico a costituire un nuovo governo (da trent'anni non accadeva) a un generale, al savoiardo LUIGI PELLOUX.

L'Italia in questi ultimi due anni, in mezzo alle grandi potenze europee, inizia a giocare un ruolo di secondo piano, essendo alle prese con i gravi problemi interni; la grave arretratezza meridionale, la miseria, l'analfabetismo e domina anche la preoccupazione dell'unità nazionale, che se era stata quasi raggiunta sul piano politico, nulla invece è stato fatto sul piano sociale e culturale; e sono questi fattori negativi che contribuiscono a far nascere il forte contrasto tra capitale e lavoro, a far nascere il socialismo e le lotte operaie; ed era un'illusione quella di poterli eliminare questi contrasti con le cannonate di Beccaris.
Ci voleva -come disse NASI- il "nuovo per rianimare le speranze"… "…e il paese ci avverte che chi ha dovuto reprimere non è più in grado di pacificare gli animi".

Il "nuovo" non era di certo un generale messo a capo di un governo, che attenuerà solo alcuni degli aspetti più illiberali. Infatti, occorreranno ancora i prossimi due anni, prima che appaia l'uomo che sappia in modo abile gestire i contrasti sociali e le tante questioni con delle soluzioni concrete.

Purtroppo i prossimi due anni, sono ancora pieni di forti contrasti politici, di battaglie parlamentari (nasce l'"ostruzionismo"), di ricostituzioni e costituzioni di associazioni di ogni tipo (con la discesa in campo di una grande e nuova forza: gli agguerriti cattolici),

sono insomma altri due anni di tempi gravi,
e termina questo periodo nel modo più scellerato:

con l'assassinio del Re.

…periodo dal 1898 al 1900 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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