ANNI 1903-1905

RITORNO DI GIOLITTI - MORTE DI LEONE XIII - I SOCIALISTI

LA CAMPAGNA MORALE CONTRO IL MINISTRO BETTOLO - DIMISSIONI DEL GABINETTO - IL NUOVO MINISTERO ZANARDELLI - PROCESSO BETTOLO-FERRI - MORTE DI LEONE XIII - GIUDIZIO SUL SUO PONTIFICATO - LEONE XIII E LA QUESTIONE SOCIALE - IL CONCLAVE E IL "VETO" DELL'AUSTRIA CONTRO IL CARDINALE RAMPOLLA - ELEZIONE DI PIO X - MORTE DI GIUSEPPE ZANARDELLI - IL SECONDO MINISTERO GIOLITTI - SUICIDIO DEL MINISTRO ROSANO - PROGRAMMA DEL MINISTERO - ATTIVITÀ LEGISLATIVA - LE VIOLENZE CONTRO GLI ITALIANI AD INNSBRUCK - DISCUSSIONE ALLA CAMERA SULLA POLITICA ESTERA - LA POLITICA DELL'ON. TITTONI - L'AMICIZIA ITALO-FRANCESE - LA VISITA DI EMILIO LOUBET, PRESIDENTE DALLA REPUBBLICA FRANCESE, A ROMA - LA FRANCIA E LA SANTA SEDE INTERPELLANZE ALLA CAMERA, ITALIANA SULLA VISITA DEL LOUBET O SULLA NOTA PONTIFICIA DI PROTESTA - ROTTURA TRA LA SANTA SEDE E LA FRANCIA - SOPRAVVENTO DEI RIVOLUZIONARI NEL PARTITO SOCIALISTA - CONFLITTI IN PUGLIA, IN SICILIA, IN SARDEGNA E IN LIGURIA - NASCITE DEL PRINCIPE EREDITARIO - LO SCIOPERO GENERALE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - REVOCA TEMPORANEA DEL "NON EXPEDIT" - LE ELEZIONI POLITICHE - INAUGURAZIONE DELLA XXII LEGISLATURA - IL DISCORSO DELLA CORONA - NUOVE VIOLENZE CONTRO GLI ITALIANI AD INNSBRUCK; INTERPELLANZE PARLAMENTARI. DISCUSSIONE AL SENATO SULLA POLITICA INTERNA - LA QUESTIONE FERROVIARIA - L'OSTRUZIONISMO DEI FERROVIERI - LE DIMISSIONI DELL'ON. GIOLITTI
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IL NUOVO MINISTERO ZANARDELLI
LA CAMPAGNA MORALE CONTRO IL MINISTRO BETTOLO
DIMISSIONI DEL GABINETTO


Al VII congresso socialista - lo abbiamo visto nelle precedenti pagine- c'era stato il trionfo della tendenza riformista e fu riconfermato BISSOLATI come direttore dell'Avanti! organo del Partito Socialista Italiano. Fra i principali collaboratori ARCANGELO CABRINI, TOMMASO MONICELLI, PAOLO ORANO, GUIDO PODRECCA.
Quando a Roma, nell'aprile del 1903, ci fu il fallimento di uno sciopero generale, si scatenò il dibattito all'interno del PSI fra la corrente riformista e quella rivoluzionaria. Bissolati apparteneva alla prima, e a contrastarlo fin dal congresso di Imola del 1902, c'era ENRICO FERRI del gruppo intransigente che diventò ancora più forte dopo le sconfitte del movimento sindacale e con l'inasprimento della conflittualità sociale. In più a Ferri gli si affianca il principale organo della corrente rivoluzionaria socialista, "Avanguardia Socialista", rivista appena fondata (Dicembre 1902) da ARTURO LABRIOLA. Gruppo che conquisterà non solo la federazione del partito e la Camera del Lavoro di Milano, ma anche le forti organizzazioni delle industrie meccaniche e metallurgiche in Piemonte e in Liguria (la Fiom), e le organizzazioni braccianti (la Federterra) che però con le gravi sconfitte registrate sono in un momento critico; gli iscritti che nel 1902 erano 227.791, scendono nel 1903 a meno di 45.000.

PROCESSO BETTOLO-FERRI

Il l° maggio del 1903, Bissolati messo alle corde, lasciò dunque la direzione dell'Avanti a FERRI, che iniziava dalle colonne del giornale una feroce campagna morale contro il viceammiraglio GIOVANNI BETTOLO, il quale aveva il 22 aprile di quello stesso anno assunto il portafoglio della Marina in sostituzione di MORIN che era passato agli Esteri.
Ferri chiamava Bettolo "corruttore e affarista" e lo accusava di avere aumentato lo stipendio del presidente del Consiglio Superiore della Marina per indurlo ad approvare un contratto di fornitura di corazze per l'ammontare di 20 milioni con le Acciaierie di Terni.
La Terni (all'inizio concepita statale, poi fu affidata proprio in questo periodo a un gruppo di grossi capitalisti privati) si era specializzata esclusivamente nelle forniture di materiale bellico per le forze armate italiane divenendo, in pratica, unico fornitore dello Stato, e possedeva pure il monopolio delle corazzature delle navi; ma nonostante questi grandi affari, lo stesso Stato contribuì a salvarla da una gestione (privata e senza controllo) molto "allegra".

Le gravi accuse (che erano di collusione con la Terni) destarono grande impressione nel paese. Due deputati, FERRI stesso e SANTINI, presentarono interpellanze alla Camera, dove il 20 maggio il ministro Bettolo si difese strenuamente da quelle che egli chiamò e dimostrò essere insinuazioni contro la propria invulnerabile onorabilità.
"La Camera - egli concluse - comprenderà quanto sia stato penoso per me il dovere discendere a discutere della mia onorabilità, conquistata con una vita tutta consacrata al sentimento dell'onore e al culto della patria. Mi piace solamente di affermare che, se per avventura i miei detrattori mirassero ad intimidire l'opera mia di governo, si sbaglierebbero, poiché attingendo sempre la forza di assumere tutte le responsabilità, e le più gravi responsabilità, alla purezza della mia coscienza, saprò affrontare, ed anche disprezzare, le insinuazioni, le calunnie, il libellismo !".

FERRI insisteva con le sue accuse, chiamando Bettolo "divoratore di milioni" e lui rivolto al deputato socialista rivoluzionario, lo apostrofò: "Voi, nella mente, nel cuore e nell'azione, siete una ben misera cosa !".
Continuando sull'"Avanti!" la campagna morale, gli onorevoli FRANCHETTI e MORGARI proposero un'inchiesta parlamentare; ma il 10 giugno GIUSEPPE ZANARDELLI, pur impegnandosi che avrebbe fatto eseguire indagini accurate, respinse la proposta, che fu pure respinta dalla Camera con 188 voti contro 149.
Un responso singolare, perché se vi erano dei dubbi, il minimo da fare era quello di istituire una commissione d'inchiesta.

In seguito a questa votazione l'11 giugno, Giolitti si dimise da ministro degli Interni, protestando che il Ministero non aveva più ragione di esistere poiché non operava le riforme promesse e si alienava l'appoggio delle Estreme. Anche Bettolo si dimise e, qualche giorno dopo il tutto il Gabinetto entrò in crisi, ma Zanardelli non volle rassegnare le dimissioni, si limitò ad assumere lui il ministero degli Interni lasciato da Giolitti, e affidare l'interim della Marina al ministro degli Esteri MORIN.

Fatto questo rimpasto del suo Ministero e fallito il tentativo di includervi qualche elemento dell'Estrema Sinistra, l'on. ZANARDELLI decise di ripresentarsi al Parlamento con il Gabinetto dimissionario.
Ma le critiche al suo governo non mancarono sia da destra sia da sinistra e il 21 ottobre Zanardelli rassegna al Re le dimissioni del ministero, o forse pregò il sovrano di esonerarlo (perché stanco e malato; morirà due mesi dopo, il 26 dicembre).
(Del nuovo ministero dove sarà chiamato Giolitti a costituirlo parleremo più avanti).

Sulla vicenda Bettolo, continuando Ferri ed attaccarlo, il ministro lo querelò per diffamazione affidando la propria difesa a LEONE FORTIS, TEODORO BONACCI, ARTURO VECCHINI. Difensore del Ferri furono, fra gli altri, gli onorevoli ALTOBELLI, CICCOTTI e COMANDINI. Il processo, che destò l'interesse dell'intera nazione, terminò il 10 febbraio del 1904 ed Enrico Ferri, dichiarato colpevole del delitto di diffamazione continuata a mezzo stampa, fu condannato a quattordici mesi di reclusione, alla multa di 1516 lire, alle spese di giudizio e al risarcimento dei danni; pena che però non fu mai scontata.

MORTE DI LEONE XIII - GIUDIZIO SUL SUO PONTIFICATO
LEONE XIII E LA QUESTIONE SOCIALE
CONCLAVE E VETO DELL'AUSTRIA CONTRO IL CARD. RAMPOLLA

ELEZIONE DI PIO X

Circa un mese dopo la ricostituzione del "barcollante" Ministero Zanardelli, e precisamente il 19 luglio del 1903, cessava di vivere in età di novantatre anni, LEONE XIII.
Scrive così il Gori: "Papa umanisticamente moderno, Leone aprì gli archivi vaticani alle indagini degli studiosi con saggia larghezza, dalla quale il governo di Vittorio Emanuele ebbe molto da apprendere; richiamò allo studio dei Santi Padri, conciliato con gli ultimi acquisti della filosofia civile e delle scienze naturali; quasi a compenso della condanna delle proposizioni rosminiane, dovuta concedere ai Gesuiti, volle conseguire il tomistico "rationabile obsequium", commettendo a dotti maestri di vagliare con sana critica le Sacre Scritture; raccomandò una migliore istruzione della gioventù destinata al sacerdozio. Tentò con soavità di modi e sodezza di dottrina riunire alla Chiesa cattolica scismatici e dissidenti. Toccarono a lui, come già a Benedetto XIV, e per breve tempo, a Pio IX, quelle personali attestazioni di ossequio, anche di eterodossi e massoni, che pur si riflettono a decoro del Pontificato" (Gori).

Il sociale non lasciò insensibile LEONE XIII; e su questa questione si occupò nella famosa enciclica "Rerum Novarum" del 15 maggio del 1891.
(su questa importante enciclica vedi UN PAPA CORAGGIOSO

"E' di estrema necessità - affermò il Pontefice - venir senza indugio, con opportuni provvedimenti, in aiuto dei proletari, che per la maggior parte trovansi indegnamente ridotti ad assai misere condizioni. Imperocché, soppresse nel passato secolo le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in vece loro, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un'usura divoratrice, che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso sotto un altro colore, per il fatto degli ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi ha imposto all'infinita moltitudine di proletari un giogo men che servile".

Leone XIII condannò esplicitamente la dottrina e l'azione dei socialisti che pretendevano abolire la proprietà e volevano fare di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune da amministrarsi per mano del Municipio e dello Stato, il che non avrebbe risolto la contesa, avrebbe danneggiato gli stessi operai e sarebbe stato una "patente ingiustizia, giacché diritto di natura è la proprietà privata".

Indubbiamente Leone XIII, conosceva molto bene Proudhon in "Che cosa è la proprietà?" che è il punto centrale del politico francese, cioè l'analisi della proprietà, che considera da un lato come "struttura portante" del privilegio sociale, dall'altro come cardine della resistenza degli individui e dei gruppi al dominio dello Stato (in quel periodo ancora feudo-monarchico e autoritario). Nelle sue pagine Proudhon si rispondeva: "La proprietà é un furto!" ma aggiungeva pure "La proprietà è la libertà!" (e questa seconda frase molti poi la ometteranno, e la omettano faziosamente ancora oggi). Erano due massime che sintetizzavano i due aspetti solo apparentemente contradditori.
La prima frase benché suggestiva (molto impropriamente usata dopo) non riflette fedelmente il pensiero dell'autore. Proudhon infatti -sia chiaro- non rifiutava affatto la proprietà in sé. Fu pronunciata da un uomo che non fu per nulla pregiudizievolmente ostile alla proprietà, e che condannò sin dall'inizio il comunismo, portatore di germi liberticidi, in nome di ciò che era definito "l'anarchia positiva". Proudhon distinse infatti "l'aspetto originario e ineliminabile" della proprietà (Leone XIII invece di originario usa il "diritto di natura") ossia il possesso dei mezzi di produzione (e Proudhon fa un distinguo preciso) dal sistema in cui la proprietà dei mezzi di produzione si accentra in poche mani, il lavoro separato dal godimento dei suoi frutti, e la proprietà che si trasforma in rendita parassitaria di alcuni soggetti. Proudhon infatti paragona il profitto, gli interessi e la rendita, ai vecchi diritti feudali- (senza fatica) un vero e proprio furto di parte del prodotto dei sudditi plebei (corvè) e che ora si chiamano operai (proletariato).

"Nella presente questione -proseguiva l'enciclica del papa- lo sconcio maggiore è questo supporre l'una classe sociale nemica naturalmente dell'altra: quasi che i ricchi e i proletari li abbia fatti la natura per battagliare in un duello implacabile fra di loro. Cosa tanto contraria alla ragione e alla verità, che invece è verissimo che, siccome nel corpo umano le varie membra s'accordano insieme e formano quell'armonico temperamento che chiamasi simmetria; cosi volle natura che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse un equilibrio. L'una ha bisogno assoluto dell'altra: né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l'ordine delle cose; mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie".

Nel leggere queste comparazioni, all'autore che qui scrive queste note, non possono non venire in mente queste frasi che sono state scritte nel 1921:
"Se la sperata rivoluzione europea non avviene, la rivoluzione bolscevica russa è condannata a perire. Se rimarremo soli, fatalmente cadremo. Come si potranno conciliare nelle relazioni commerciali l'economia comunista e quella borghese? I rapporti economici fra i diversi centri di vita e di produzione non ammettono la contemporanea esistenza di organizzazioni sociali così antagoniste. Nella vita economica internazionale valgono le leggi dei vasi comunicanti; perciò, o noi saremo costretti ad accettare le vostre leggi, o voi le nostre. Noi per salvare le nostre conquiste dobbiamo guadagnare tempo, utilizzare anche il più breve respiro, o altrimenti è la morte".
Questo lo ammise Losowky, presidente dei sindacati operai della Russia sovietica a un gruppo di giornalisti recatisi studiare l'organizzazione del regime comunista leninista. (Caracciolo, Bagliori di Comunismo, Ed. Il Solco, pag.169, anno 1921 !)

Prendendo coscienza della condizione di crisi e di disagio morale, oltre che materiale ed economico, in cui le masse di lavoratori erano venute a trovarsi a seguito del vertiginoso sviluppo industriale, LEONE XIII, poneva dei punti ben fermi:
"da una parte richiamava gli imprenditori e i capitalisti alle loro responsabilità, rimproverando loro egoismo e il tenace attaccamento al mito denaro (*), dall'altra esortava le classi operaie a non lasciarsi suggestionare da facili ideologie rivoluzionarie e a non irrigidirsi in una sterile lotta di classe. Faceva appello ad uno spirito di collaborazione tra le varie classi che dovevano insieme puntare a raggiungere uno stato di benessere, che fosse il benessere di tutti e non di pochi a svantaggio di molti: l'obiettivo indicato era quello di realizzare la solidarietà di capitale e lavoro, proprio perché Leone XIII riteneva assurdo l'antagonismo tra le due forze, che soltanto unite e concordi possono progredire". (P. Giudici)

(*) A costoro, ai capitalisti, ancora nell'89, parlando a diecimila operai francesi giunti a Roma in pellegrinaggio disse a questi ultimi, ma è implicito che i destinatari del messaggio erano i primi "A chi tiene il potere spetta soprattutto persuadersi di questa verità: che per rimuovere il pericolo da quella minaccia che potrebbe venire dal basso, né le repressioni, né le armi dei soldati saranno sufficienti"
(aveva già anteveduto la Rivoluzione Russa con 17 anni di anticipo).

La soluzione della questione sociale, secondo Leone XIII, è ora affidata principalmente al "Cristianesimo" e all'"Intervento dello Stato". Il primo è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri, incominciando da quelli che impone la giustizia; il secondo deve esercitarsi nel determinare i salari minimi, le ore di lavoro, il riposo festivo e le norme igieniche per le fabbriche e per il lavoro delle donne e dei fanciulli".

Questa enciclica produsse grande impressione in tutto il mondo e valse a far chiamare Leone XIII il "Papa degli operai". Inoltre essa diede impulso a quel vasto movimento che fu chiamato socialismo cattolico, il quale, come tutti i partiti, ebbe i temperati e gli accesi.
In politica, Leone XIII mirò a guadagnare alla Santa Sede l'amicizia delle nazioni, ma fu irriducibilmente contrario all'Italia, come era stato il suo predecessore e, guidato dal suo segretario, il Cardinale RAMPOLLA del Tindaro, si servì del gioco della politica internazionale allo scopo di riacquistare il potere temporale.
Cercò, infatti (vedeva lontano?), di allontanare dall'Italia la Germania e l'Austria, tentò d'impedire il rinnovamento della Triplice, si strinse alla Francia e, se dobbiamo credere a von Bulow, perseguì lo scopo di abbattere l'unità italiana e di creare, sotto la sua direzione e il protettorato francese, una repubblica federale (Rimase poi profondamente deluso della non visita fattagli a Roma da Loubet - e che accenneremo più avanti).

Il conclave, cui parteciparono sessanta dei sessantadue cardinali, si riunì il 31 luglio del 1903. Fra i cardinali che aveva maggior probabilità di essere eletto ora il sessantenne MARIANO RAMPOLLA del Tindaro, siciliano di Polizzi, di famiglia borbonica, nemico accanito di Francesco Crispi e ispiratore della politica francofila della Santa Sede. Egli, infatti, al primo scrutinio ebbe la metà dei voti; ma la mattina del 2 agosto il cardinale GIOVANNI PUZYNA, vescovo di Cracovia, in nome dell'imperatore FRANCESCO GIUSEPPE, pronunciò il veto contro Rampolla, che si alzò a protestare vivamente contro la violenza che si voleva esercitare sul Conclave.
Ma la protesta fu inutile: il 4 agosto, con cinquanta voti, fu eletto Papa il patriarca di Venezia GIUSEPPE SARTO che prese il nome di PIO X e mostrò subito di essere il contrapposto del suo predecessore, umile cioè, schietto, buono, alieno dalla politica e tutto inteso "a ristorare ogni cosa in Cristo", come disse nella sua prima enciclica dell'ottobre 1903, la "motu propri" resa poi nota il 18 dicembre. Diciannove punti che riguardano l'"Ordinamento fondamentale dell'azione popolare cristiana". Sono le stesse enunciazioni di Leone XIII; e si propone di riportare ordine e concordia nel movimento dei cattolici lacerato da contrasti interni. Soprattutto dopo il XIX congresso cattolico del 10-13 novembre, che si era svolto a Bologna; dove il nuovo presidente GROSOLI invano ha cercato di mediare i contrasti tra gli intransigenti e i democratici cristiani, quest'ultimi inclini ad avviare una partecipazione attiva alla vita politica italiana; Grosoli riuscirà a farsi attribuire la facoltà di sciogliere i comitati locali non attivi sul piano sociale, ma non bastò per porre termine ai dissidi dentro l'Opera dei congressi. Il 28 luglio del 1904, Pio X, vista l'impossibilità di conciliare le due fazioni, con una lettera a tutti i vescovi, sciolse l'Opera, e tutte le organizzazioni regionali, diocesane e locali furono poste alle dirette dipendenze dei vescovi.

LA MORTE DI ZANARDELLI

Nello stesso mese, GIUSEPPE ZANARDELLI, carico d'anni ed esausto dall'intenso lavoro, e con una Camera ormai a lui ostile, pregò il sovrano che lo esonerasse dall'ufficio e si ritirò nella sua villa di Maderno, sul Garda. Il riposo non giovò al vecchio statista 77enne, che cessò di vivere il 26 dicembre, dopo essere stato 43 anni sulla breccia parlamentare.

IL SECONDO MINISTERO GIOLITTI
SUICIDIO DEL MINISTRO ROSANO
PROGRAMMA DEL MINISTERO - ATTIVITÀ LEGISLATIVA

Ritiratosi l'on. Zanardelli, l'incarico di formare il Ministero fu dato dal Re, come tutti prevedevano, all'on. GIOLITTI, il quale, dopo avere invitato socialisti e radicali ad entrare nel suo Gabinetto, lo costituì il 3 novembre 1903, con elementi di destra e del centro, ma più orientato a destra di quello precedente, dopo aver costatata l'impossibilità di coinvolgere socialisti e radicali.

Per sé Giolitti tenne la presidenza del Consiglio e l'Interno, agli Esteri chiamò il senatore TOMMASO TITTONI, alle Finanze l'on. PIETRO ROSANO, al Tesoro l'on. LUIGI LUZZATTI, alle Poste e ai Telegrafi l'on. ENRICO STELLUTI-SCALA, ai Lavori Pubblici l'on. FRANCESCO TEDESCO, alla Grazia e Giustizia l'on. SCIPIONE RONCHETTI, alla Pubblica Istruzione l'on. VITTORIO EMANUELE ORLANDO, alla Guerra il tenente generale ETTORE PEDOTTI, alla Marina il contrammiraglio CARLO MIRABELLO, all'Agricoltura, Industria e Commercio l'on. LUIGI RAVA.

Il nuovo Ministero, piacque a pochi. Ne furono in modo particolare scontenti i socialisti, che attaccarono subito TITTONI e ROSANO. Contro quest'ultimo -ministro delle Finanze- fu iniziata una campagna morale violentissima, alla quale il ministro non seppe resistere e, la notte dell'8 novembre, si tolse la vita con un colpo di rivoltella.
Dopo questo suicidio speravano i socialisti che GIOLITTI si sarebbe dimesso. L'Avanti gridava: "Un Gabinetto circondata dall'atmosfera dell'accusa implacabile della pubblica coscienza; un Gabinetto che, nascendo ha condotto ad un episodio politico tanto tragico che farà parlare oltre le Alpe di noi, come di un paese dove la lotta delle idee e dei programmi è costretta a degenerare nella lotta per la pubblica morale, è un Gabinetto che non può rimanere al suo posto".
Ma GIOVANNI GIOLITTI non si dimise e, affidato a LUZZATTI l'interim delle Finanze, si presentò il 10 dicembre al Parlamento, dove espose il suo programma di governo. Premesso che si sarebbe continuata, nei limiti delle leggi, la politica di libertà, affermò che le questioni che più urgentemente incombevano sull'economia del paese erano i trattati di commercio, la diminuzione dell'onere del debito pubblico, l'ordinamento ferroviario e l'urgente necessità di rialzare le condizioni economiche delle province meridionali.

Nella stipulazione dei trattati commerciali il Ministero avrebbe avuto di mira l'esportazione dei prodotti agricoli. Con la conversione della rendita si sarebbe alleviato di molti milioni il bilancio e si sarebbe potuta affrontare una riforma tributaria, la quale avrebbe sollevato le condizioni delle classi meno agiate. Quanto alle province del Mezzogiorno, il Governo avrebbe mantenuto il disegno di legge in favore della Basilicata e avrebbe presentato proposte per promuovere lo sviluppo industriale di Napoli. Altre riforme che il Ministero promise di attuare, vi erano l'esercizio di Stato delle ferrovie, l'abolizione del domicilio coatto, lo sviluppo dell'istruzione elementare, il consolidamento della Cassa per la vecchiaia degli operai e il riposo festivo. Dopo aver assicurato che nel campo internazionale l'Italia si trovava in ottimi rapporti con tutte le nazioni, l'on. Giolitti invitò la Camera a dire se aveva o no fiducia nel Gabinetto.

Sulle dichiarazioni del Governo parlarono molti deputati fra cui BARZILAI e BISSOLATI ebbero aspre parole per la risoluzione della crisi. Nonostante l'ostilità dei socialisti, dei radicali, dei repubblicani, che facevano capo a SACCHI e ad un manipolo della Destra e del Centro, il 3 dicembre, con 284 voti contro 117, la Camera approvò il programma del Ministero Giolitti.

Dal momento che i trattati di commercio scadevano il 31 dicembre e non c'era il tempo di svolgere i negoziati, si stipularono accordi provvisori. Poi nel luglio e nel dicembre del 1904 si firmarono i trattati con la Svizzera e con la Germania; quello con l'Austria non poté esser firmato che nel febbraio del 1906. In questo frattempo furono approvate molte leggi: fu modificata la legislazione sulla Sanità pubblica e sulle Opere Pie, furono migliorate le condizioni dei maestri elementari, fu istituita la Cassa per l'invalidità e la vecchiaia degli impiegati comunali, si migliorarono le condizioni economiche di alcune categorie di funzionari statali, si stabilirono pensioni per gli operai della manifattura dei tabacchi, si concessero benefici ai superstiti delle guerre d'indipendenza, si riformò il sistema carcerario e s'introdusse nella legislazione penale la condanna condizionale.

Nel febbraio del 1904 si discusse alla Camera il disegno di legge per la Basilicata, quello presentato da Zanardelli e modificato dalla Commissione esaminatrice. Il disegno, approvato il 23 febbraio con 172 voti contro 38 dalla Camera e il 26 marzo dal Senato, divenne legge il 31 marzo del 1904. L'8 luglio del medesimo anno fu emanata la legge in favore di Napoli.

Nonostante questo buon cammino sulle questioni interne, a turbare l'anno furono i problemi di politica estera.

LE VIOLENZE CONTRO GLI ITALIANI A INNSBRUCK
DISCUSSIONE ALLA CAMERA SULLA POLITICA ESTERA
LA POLITICA DELL'ON. TITTONI
L'AMICIZIA ITALO-FRANCESE
LA VISITA DI EMILIO LOUBET A ROMA
LA FRANCIA E LA SANTA SEDE INTERPELLANZE ALLA CAMERA ITALIANA SULLA VISITA DI LOUBET A SULLA NOTA PONTIFICIA DI PROTESTA
ROTTURA TRA LA FRANCIA E LA SANTA SEDE

Il 23 novembre del 1903, con un discorso di ANGELO DE GUBERNATIS sul Petrarca, doveva essere inaugurata a Innsbruck un'università libera italiana, ma la cerimonia fu impedita dalla polizia locale. Gli studenti italiani in Austria, offrirono allora, con il permesso delle autorità, un banchetto al De Gubernatis; ma, uscendo dal luogo dove avevano banchettato, furono selvaggiamente aggrediti e malmenati dagli studenti austriaci.
I fatti di Innsbruck suscitarono violentissime dimostrazioni di protesta in tutta l'Italia e nella seduta del 15 dicembre alla Camera, durante la discussione sul bilancio degli Esteri, fornirono occasione a molti deputati di scagliarsi contro l'Austria. L'onorevole CARLO DEL BALZO, dopo aver sostenuto che gli Italiani dell'Impero Austro-ungarico avevano diritto ad una propria università, chiese a TITTONI (min. Esteri) "se l'Italia era alleata oppure messa sotto il protettorato dell'Austria".
L'on. FRADELETTO stigmatizzò il contegno degli studenti tedeschi, contrario al più umile senso di civiltà e d'umanità. "Mentre l'anima giovanile - egli disse - dovrebbe spontaneamente aprirsi alle generose effusioni, mentre la scienza dovrebbe spogliarla di ogni ruvida scorza di pregiudizi e di rancori, noi vedemmo quegli studenti aggredire i loro compagni con l'audacia vile del numero, li udimmo offendere un insigne maestro, che andava a portare la parola delle grandi tradizioni latine. E notate un'antitesi pungente per noi; il maestro, testimonio di quelle scene brutali, stava proprio per evocare l'immagine di quel Poeta, che, tra le furie delle passioni medievali, aveva simboleggiato la virtù pacificatrice del sapere e dell'ingegno".
E ammonì: "Nelle terre italiane, politicamente non nostre, non si oscurino mai la nostra lingua, le nostre memorie, la nostra cultura, la fresca genialità dello spirito nostro, che vola agilmente all'ideale senza smarrirsi nel vuoto, e scruta intimamente il reale senza rimanere prigioniero".

Il ministro TITTONI, rispondendo ai vari oratori, cercò di fare cadere la colpa dei disordini di Innsbruck non sul governo austro-ungarico ma sui contrasti delle varie nazionalità dell'impero, che mettevano in serio imbarazzo il governo medesimo, ed affermò esser necessario che i rapporti tra i due Stati fossero cordiali. "Noi crediamo - disse - che l'alleanza con l'Austria debba essere mantenuta e che la nostra amicizia con questa nazione debba rimanere piena e sincera. Qualora si volesse una cosa diversa, sarebbe opportuno dirlo in modo molto chiaro, affinché altri uomini vengano su questi banchi per preparare subito, per preparare senza indugio quei provvedimenti atti a fronteggiare le gravi conseguenze che un diverso indirizzo di politica estera porterebbe. La via di mezzo, in questi casi, è proprio la peggiore; la via delle polemiche, delle recriminazioni, la via delle piccole contese che si rinnovano sempre, la via del dilettantismo irredentista, universitario o parlamentare, io credo che sia la peggiore, la più gravida di pericoli, la più funesta per il nostro paese. Il nostro paese desidera la pace o la tranquillità per potersi dedicare allo sviluppo delle sue energie economiche, e noi miriamo alla conservazione della pace come a meta suprema della nostra politica; e per questo rimaniamo fedeli alla Triplice Alleanza".

Fedeltà alla Triplice, amicizia alla Francia, all'Inghilterra e alla Russia: questa era la politica dell'on. TITTONI, il quale, trovati molto tesi i rapporti tra l'Italia e l'Austria, si diede da fare, e con successo, per migliorarli. Divennero, almeno in apparenza, tanto cordiali che, nel gennaio del 1904, l'imperatore Francesco Giuseppe propose che alla direzione della gendarmeria internazionale in Macedonia fosse posto un generale italiano, il sardo DE GIORGIS, che fu poi sostituito da ROBILANT, e il 26 marzo del 1904, in un convegno a Napoli tra GUGLIELMO II e VITTORIO EMANUELE III questi brindò al capo venerato della Casa d'Absburgo imperatore FRANCESCO GIUSEPPE.
Per rinsaldare ancora di più i rapporti fra le due nazioni alleate, il 9 aprile di quello stesso anno, l'on. TITTONI si recò ad Abbazia, dove per accordarsi sulla questione balcanica ebbe un incontro con il conte GOLUCHOWSKI, il quale restituì la visita al ministro degli Esteri italiano nell'aprile del 1905, a Venezia.

Queste manifestazioni dell'amicizia italo-gemanico-austriaca non impedirono manifestazioni, di gran lunga più significative e pompose, dell'amicizia franco-italiana. Il 14 ottobre del 1903 i Reali d'Italia si erano recati a Parigi e vi erano stati accolti con feste grandiose. A restituire la visita, il 24 aprile del 1904 (nemmeno da un mese era ripartito Guglielmo) il presidente della Repubblica Francese EMILIO LOUBET, accompagnato dal ministro DELCASSÈ, si recò a Roma, "espressione - com'ebbe a dire ENRICO PANZAECHI in un discorso - viva e degna del sentimento profondo che univa, nel sangue e nella storia, nei ricordi e nei propositi, le due grandi nazioni latine".
Le accoglienze del francese a Roma furono entusiastiche. In piazza del Quirinale una immensa folla fece al Presidente una calorosa dimostrazione; al pranzo di gala, Vittorio Emanuele, brindando all'ospite, disse: "L'Italia e la Francia, sorte ambedue dal vecchio tronco latino, conservarono attraverso i secoli tradizioni di attività incancellabili ed oggi riaffermano la loro amicizia in questa eterna Roma, dalla quale tante ispirazioni ha tratto il genio nazionale dei due popoli". Mentre il Loubet, fra l'altro rispose: "I nostri Governi hanno compreso quanto importante è mettere d'accordo gli interessi dei due paesi con le simpatie che li portano l'uno verso l'altro. Dalla loro felice collaborazione sono derivate ultimamente la convenzione d'arbitrato e il trattato di lavoro, in cui mi piace scorgere con voi il nuovo pegno di pace politica ed un fecondo strumento di progresso sociale".

Le accoglienze calorose a LOUBET, culminarono (vi era stato un mese prima Guglielmo) e si conclusero a Napoli, con una rivista della flotta italiana e della squadra francese del Mediterraneo; ma il mancato accenno, nei brindisi, alla Germania, irritarono il Governo tedesco e l'ambasciatore a Roma conte DE MONTAS, limitò i rapporti con TITTONI a quelli puramente epistolari, e scrisse a BULOW che "bisognava astenersi dal riprendere per il momento gli antichi confidenziali rapporti con la Consulta" e gli diede il consiglio di mostrarsi freddo con il conte LANZA, ambasciatore italiano a Berlino. "L'unico argomento da adottare -egli diceva - e con il quale si poteva ottenere qualche cosa era quello della paura e del rispetto".

Per far tornare buoni i rapporti italo-germanici GIOLITTI si recò, il 27 settembre del 1904, a Homburg da BULOW e gli fece osservare che le festose accoglienze al Loubet erano state un dovere di ospitalità. Esse poi avevano avuto il risultato di mostrare che il Governo francese non sosteneva il Papa, ma anzi, con l'amicizia verso l'Italia, faceva tramontare le speranze di molti di coloro che ancora pensavano ad una restaurazione del potere temporale della Chiesa in Italia.

Il viaggio del LOUBET a Roma e la mancata sua visita al Santo Padre contribuirono a turbare i rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Infatti il segretario di Stato Cardinale MERRY DEL VAL inviò, il 28 aprile del 1904, a tutte le potenze cattoliche la seguente durissima nota di protesta:

"Il viaggio a Roma, in forma ufficiale, del signor Loubet, Presidente della Repubblica Francese, per restituire la visita a Vittorio Emanuele III, è stato un avvenimento di così eccezionale gravità, che la Santa Sede non può lasciarlo passare senza richiamare su di esso la più seria attenzione del Governo che Vostra Eccellenza rappresenta. E' appena necessario ricordare che i Capi di Stati Cattolici, legati come tali da vincoli speciali al pastore supremo della Chiesa, hanno il dovere di usare verso di lui i più grandi riguardi, comparativamente ai Sovrani di Stati non cattolici, in ciò che concerne la sua dignità, la sua indipendenza e i suoi diritti imprescrittibili. Questo dovere, riconosciuto finora ed osservato da tutti, nonostante le più gravi ragioni di politica, di alleanza e di parentela, incombeva maggiormente al primo magistrato della Repubblica francese, che, senza avere alcuna di queste ragioni speciali e, per contraccambio, a capo di una Nazione, la quale è unita dai rapporti tradizionali più stretti col Pontificato romano, gode, in virtù di un patto bilaterale con la Santa Sede, privilegi segnalati, ha una lunga rappresentanza nel Sacro Collegio dei cardinali e quindi nel governo della Chiesa universale, e possiede, per singolare favore, il protettorato degli interessi cattolici in Oriente.
Perciò, se qualunque capo di nazione cattolica reca una grave offesa al Sommo Pontefice venendo a rendere omaggio a Roma, cioè nella stessa sede pontificia e nello stesso palazzo cattolico, a colui che, contro ogni diritto, detiene la sua sovranità civile e ne inceppa la necessaria libertà e indipendenza, questa offesa ò di gran lunga più grande da parte del signor Loubet. Se, malgrado tutto ciò, il nunzio pontificio è rimasto a Parigi, ciò è unicamente dovuto a gravissimi motivi di ordine e di natura del tutto speciali. La dichiarazione fatta dal signor Delcassè al Parlamento francese (dichiarazione secondo la quale il fatto di non fare questa visita non implicava alcuna intenzione ostile alla Santa Sede) non può cambiarne il carattere e la portata, giacché l'offesa è intrinseca all'atto, tanto più che la Santa Sede non aveva mancato di prevenire questo stesso Governo. E l'opinione pubblica, tanto in Francia quanto in Italia, non ha mancato di scorgere il carattere offensivo di questa visita, ricercata intenzionalmente dal Governo italiano, allo scopo di ottenere con ciò un indebolimento dei diritti della Santa Sede e un'offesa alla sua dignità, diritti e dignità che questa tiene per suo principale dovere di proteggere e di difendere nell'interesse stesso dei cattolici di tutto il mondo. Perché un fatto così doloroso non possa costituire un precedente qualsiasi, la Santa Sedo si è vista obbligata a fare contro di esso la protesta più formale e più esplicita ....".

Il 17 maggio, il giornale socialista "Humanité" del Jaurés pubblicò la nota papale, suscitando grande indignazione in Francia. Il Governo della Repubblica richiamò da Roma l'ambasciatore NISARD, accreditato presso il Vaticano, il DELCASSÉ rispose alla Santa Sede di avere considerato come non avvenuta la nota e il presidente del Consiglio EMILIO COMBES dichiarò che "si voleva finirla, con la pretesa, priva di valore, del potere temporale".

La visita del Loubet e la nota della Santa Sede fecero sì che nel mese di maggio del 1904 fossero presentate alla Camera parecchie interpellanze. Contro la politica estera del Governo e specialmente contro la Triplice parlò il BARZILAI. Difese la propria politica, nella seduta del 19 maggio, con un forte discorso, il ministro TITTONI, il quale affermò che lo scambio di visite dei sovrani d'Italia e di Germania, la visita del ministro italiano degli Esteri al GOLUCHOWSEKI e quella di LOUBET a Roma non erano tra loro in contrasto, ma, armonizzavano ed erano la conseguenza logica e coerente, l'attuazione del programma comunicato alla Camera nel dicembre del 1903, programma che rimaneva invariato e che non avrebbe portato, come alcuni pretendevano, l'Italia ad un pericoloso isolamento. Dichiarò inoltre che la politica estera italiana non poteva essere diversa, mirando l'Italia alla conservazione della pace, che questa politica non era di bilancia di equilibrio e di destreggiamento, non era né ambigua né piena di sottintesi, ma schietta, leale ed aperta, e quanto all'Oriente balcanico, assicurò che sarebbe stato mantenuto la "status quo". Terminò sostenendo che, nonostante i cordiali rapporti con tutte le potenze e gli scopi pacifici del Governo, era impossibile fare una politica estera qualsiasi senza un forte esercito e una forte marina e senza le frontiere debitamente munite.

Lo interpellanze intorno alla nota della Santa Sede furono presentate dagli onorevoli PILADE MAZZA e CORNELIO GUERCI, repubblicano l'uno e radicale l'altro, che le svolsero il 30 maggio. Ai due deputati rispose GIOLITTI lo stesso giorno, dichiarando: "In quanto alla politica ecclesiastica, crediamo che non vi siano cambiamenti da fare. Noi camminiamo per la nostra via senza occuparci delle osservazioni che altri ci possano fare. Il principio nostro è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno in cui volesse invadere i poteri dello Stato! Libertà per tutti entro i limiti della legge: questo è il nostro programma. E come lo applichiamo a tutti i partiti che sono fuori la costituzione da un estremo, l'applichiamo a quelli che sono fuori dall'altra parte".

La protesta pontificia ebbe per effetto la rottura dei rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Questa denunziò il concordato e il 30 luglio richiamò da Roma l'incaricato d'affari rimasto dopo la partenza dell'ambasciatore NISARD e rimandò da Parigi il Nunzio Apostolico. Inoltre il COMBES presentò un disegno di legge di separazione della Chiesa dello Stato, disegno che fu approvato l'anno dopo, nel dicembre del 1905.

SOPRAVVENTO DEI RIVOLUZIONARI NEL PARTITO SOCIALISTA
CONFLITTI IN PUGLIA, IN SICILIA, IN SARDEGNA E IN LIGURIA

NASCITA DEL PRINCIPE EREDITARIO UMBERTO
LO SCIOPERO GENERALE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA
REVOCA TEMPORANEA DEL NON EXPEDIT
LE ELEZIONI POLITICHE -
INAUGURAZIONE DELLA XXII LEGISLATURA -

Nel partito socialista si andava facendo sempre più numerosi e audaci coloro che seguivano la tendenza rivoluzionaria, impersonata da LABRIOLA, che capitanava la schiera sindacalista, e da FERRI che guidava gli integralisti. Nel Congresso di Bologna dell'11 giugno del 1904, che aveva riaffermato l'unità del partito socialista, il sopravvento l'avevano avuto i rivoluzionari o si temeva perciò che i socialisti portassero la lotta del Parlamento nel paese e dal campo delle idee a quello della violenza; l'uso della forza.


FRA L'ALTRO, AD INNESTARSI NELLA POLEMICA E A CRITICARE I SOCIALISTI RIFORMISTI, DA UN ANNO, DALLA SVIZZERA, GIUNGONO SINGOLARI ARTICOLI DI UN GIOVANE 19 ENNE, BENITO MUSSOLINI.
CHE RIPORTIAMO IN QUESTE PAGINE > >



Che questo timore non era infondato lo si constatò di lì a poco. Il 15 maggio del 1904, a Cerignola di Puglia, erano avvenuti conflitti fra truppa e contadini, dei quali tre erano rimasti uccisi e parecchi feriti. Il 2 agosto altri tumulti avvennero in provincia di Catania e il 4 settembre, a Buggerru (Iglesias), in un conflitto fra soldati e minatori scioperanti, due minatori rimasero uccisi e numerosi i feriti.
All'annunzio dei fatti di Buggerru la Camera del Lavoro di Milano indisse un comizio di protesta invitando il proletariato italiano a mettersi entro otto giorni in sciopero generale.
Quattro giorni dopo, a Castellazzo (Trapani), i carabinieri venuti alle mani con i contadini che cercavano di liberare un capo della loro lega arrestato, ne ferirono tre, di cui uno gravemente, e il 15 settembre, a Sestri Ponente un comizio di protesta per l'eccidio di Buggerru, degenerato in tumulto, costrinse la forza pubblica a fare uso delle armi.

Tutti questi fatti diedero occasione ai socialisti rivoluzionari di proclamare lo sciopero generale. Lo proclamò per prima la Camera del Lavoro di Monza, il 15 settembre, giorno in cui a Rocconigi nasceva il Principe ereditario, al quale fu dato il nome di UMBERTO e imposto il titolo di Principe di Piemonte.
Lo sciopero di Monza si estese con rapidità straordinaria in tutta l'Italia. A Firenze, a Bologna, a Roma e in altri centri durò una sola giornata, ma in altre città si prolungò per molti giorni. Così a Milano durò cinque giorni, durante i quali si sospesero i pubblici servizi e la pubblicazione dei giornali, e si commisero atti inauditi di violenza contro i lavoratori che non volevano scioperare; a Genova per due giorni gli scioperanti furono padroni della città, guastarono le linee ferroviarie e costrinsero il Governo a mandare tre navi da guerra e a dar i poteri pubblici al generale DEL MAYNO; a Napoli, dove furono mandate altre due navi da guerra e due reggimenti di cavalleria, lo sciopero ebbe la durata di quattro giorni, si diede l'assalto alle tranvie, si saccheggiarono i negozi, si tentò di erigere barricate e si ebbero conflitti con la truppa; a Torino ci furono dei morti e feriti; a Venezia gli scioperanti interruppero ogni comunicazione con le terraferma, sospesero il servizio interno delle gondole e dei vaporetti e l'illuminazione pubblica, imposero la chiusura dei negozi e delle chiese, ruppero i fili telefonici, impedirono il trasporto degli ammalati all'ospedale e per tre giorni, insomma, obbligarono la città a vivere in balia del disordine e della prepotenza; a Lugano gli anarchici strapparono lo stemma dal Consolato Italiano lo calpestarono e lo gettarono nel lago; a Verona, a Brescia, a Cremona e altrove si ebbero altre violenze.

Il 18 settembre i deputati dell'Estrema Sinistra, riuniti nella Camera del Lavoro di Milano, deliberarono di chiedere la convocazione immediata del Parlamento per imporre le dimissioni del Ministero e discutere un disegno di legge che vietasse l'intervento della forza pubblica nella lotta tra capitale e lavoro; e decisero su proposta di ARTURO LABRIOLA di continuare lo sciopero fino al 21 settembre; ma l'on. GIOLITTI seppe parare il colpo e quel giorno stesso fece emanare un regio decreto che scioglieva la Camera e convocava i comizi per il 6 e 13 novembre.

Le violenze dei socialisti durante lo sciopero preoccuparono non poco i cattolici, e il Pontefice fu pregato di revocare il Non expedit e permettere loro l'accesso alle urne. Pio X diede facoltà ai vescovi di concedere ai fedeli di partecipare alla lotta elettorale in quei collegi dove sembrava probabile la vittoria di un sovversivo e così l'intervento dei cattolici riuscì di non poco aiuto a Giolitti.

Infatti, le elezioni, segnano, come aveva previsto Giolitti, la sconfitta dell'estrema sinistra che perse 8 seggi; i socialisti (riformisti) invece aumentano i voti ma non i seggi, su tutta la penisola ottenendo 301.525 voti rispetto ai 164.946 delle elezioni di quattro anni prima. Dei "rivoluzionari" fu eletto un solo sindacalista, ENRICO DUGONI.
Buona la partecipazione per la prima volta dei cattolici, liberatisi dal "non expedit" papale in vigore fin dal 1874, due deputati cattolici entrarono a Montecitorio: il marchese CARLO OTTAVIO CORNAGGIA (del collegio di Milano) e l'avvocato AGOSTINO CAMERONI (collegio di Treviglio (Bg). La Camera nuova risultò più moderata della precedente e in gran maggioranza devota a GIOLITTI.

Il 30 novembre del 1904, VITTORIO EMANUELE III inaugurò la XXII Legislatura con un discorso, ricordando:
"Quando per la prima volta qui rivolsi la parola al Parlamento, affermai la mia salda fiducia nella libertà. L'esperienza di questi anni l'ha confermata, e mi ha persuaso che solo con la libertà si possono risolvere i grandi problemi messi ora innanzi a tutti i popoli dalle nuove aspirazioni e dai nuovi atteggiamenti delle forze sociali. Il mio governo continuerà pertanto quella politica di ampia libertà entro i limiti della legge fortemente difesa, che trovò così largo consenso nel Paese. La nuova legislatura avrà innanzi a sé come compito principale la cura assidua delle classi lavoratrici, intesa al fine di elevare progressivamente il tenore di vita e di avviare ad eque e pacifiche risoluzioni i conflitti di interesse fra capitale e lavoro con una sapiente legislazione, che alla lotta infeconda sostituisca la cooperazione di tutto le classi sociali. L'ardente contrasto fra capitale e lavoro, che ora si combatte con la sola arma dello sciopero, fonte di tanti dolori e nel quale vince solamente il più forte, potrà essere in molti casi composto con l'arbitrato, che assicuri la vittoria alla giustizia e all'equità".

Il 1° dicembre 1905, con 292 voti contro 29 dati a COSTA e 113 schede bianche, fu eletto presidente della Camera l'on. GIUSEPPE MARCORA, ex-garibaldino e uno dei capi del partito radicale. Marcora, assumendo la carica, esordì così: "Non ricorderò tanto la parte da cui vengo, quanto il posto dove sono". E sul quale, diciamo noi, l'aveva messo Giolitti.
(Ricordiamo che la nascita ufficiale del Partito Radicale era avvenuta l'anno prima al congresso del maggio 1904. Non erano mancate le divergenze, fra i fedeli alla monarchia e l'incompatibilità alla stessa con le aspirazioni democratiche del partito. A capeggiare il primo gruppo ETTORE SACCHI che uscì vincitore dal congresso, mentre a guidare il gruppo avversario GIUSEPPE MARCORA; che però Giolitti premiò, chiamandolo alla presidenza della Camera).

Giolitti non fu l'unico ad invitare i radicali. Zanardelli nel 1901 aveva già tentato chiamando due importanti esponenti radicali ad entrare nel governo, che però i due rifiutarono affermando che non avrebbero potuto appoggiare le sue proposte riguardo alle esose spese militari messe in programma.
Giolitti invece non li chiama al governo, ma offre a Marcora la presidenza della Camera, un ruolo chiave, decisivo per ogni partito che volesse avvicinarsi a un ruolo di governo. Ed infatti negli anni successivi furono diversi radicali ad entrare a far parte del governo (fra cui lo stesso Sacchi, Pantano (nel breve governo Sonnino), poi Nitti, Caldaro e altri) fino a diventare parte integrante della coalizione governativa.
Nel periodo giolittiano molti di loro smisero di essere radicali, e concessero allo statista molti anni di appoggio leale; anche perché non aveva senso stare all'opposizione con un Giolitti che non minacciava né le istituzioni parlamentari, né le libertà civili, né il progresso industriale, anzi era un promotore di una legislazione sociale. E lo stesso Re non era un reazionario.
I radicali - la cui base elettorale si trovava tra gli impiegati statali, negli insegnanti e in quella classe intellettuale che apparteneva alla struttura dello Stato ne godeva i benefici e volevano accrescerli- continuarono ad essere dei massoni e anticlericali. Il loro partito era delle "Libertà politiche e del socialismo economico"; alcuni gruppi (come quelli vicino a De Marco) criticavano il governo per i troppi benefici che dava alle corporazioni, di essere imperturbabili verso i sindacati, ed erano scettici sul "collettivismo" sociale; ma la maggior parte appoggiò la politica giolittiana.

NUOVE VIOLENZE ANTITALIANE A INNSBRUCK
INTERPELLANZE PARLAMENTARI

L'indomani delle elezioni presidenziali, l'on. TITTONI rispose alle interrogazioni degli onorevoli BARZILAI e BRUNIALTI sui fatti di Innsbruck, dove, un mese prima, inaugurandosi la facoltà giuridica italiana, gli Italiani erano stati insultati, aggrediti ed arrestati. Il ministro degli Esteri deplorò i fatti, ma, disse che "gli eccessi di una folla eccitata non possono affievolire i legami che uniscono la scienza e la civiltà tedesca alla scienza e alla civiltà italiana, né possono influire sulle relazioni fra l'Italia e l'impero Austro-ungarico che hanno profonde radici nella tutela di grandi interessi, nel raggiungimento di alti fini, nei fermi e leali propositi dei due Governi".
Probabilmente non gli avevano raccontato nulla di ciò che era avvenuto in Italia dalla restaurazione fino alla fine degli anni Sessanta dell'800.

L'on. BRUNIALTI invece inviò un saluto "a tutti coloro sui quali i tedeschi hanno sfogata la loro vile rabbia, Vada da quest'Aula il saluto ai professori della facoltà italiana, ai quali mando a dire che vi potranno distruggere le cattedre, ma non menomare la fede; a CESARE BATTISTI malamente ferito mentre esercitava quella missione di giornalista che dovrebbe esse sacra anche per i barbari, al pari della Croce Rossa; agli studenti combattenti con il diritto attinto dalla costituzione imperiale per poter compiere i loro studi nel sereno ambiente dove il veneto leone ancora ricorda alle genti che giustizia è fondamento dei regni, perché essi sappiano, che dovunque sono nel mondo italiani che lavorano o studiano, che combattono o soffrono per la civiltà nostra, lì è anche la vigile, unanime, augurale coscienza del Parlamento italiano".

L'on. BARZILAI si compiacque che la "Camera nuova, uscita dai recenti comizi, prima di affacciarsi al lavoro legislativo avesse sentito .... il bisogno quasi di lavarsi l'anima da tutte le impurità della lotta, rivolgendo, nell'oscurità presente, il pensiero a quella terra italiana, dove pareva si fosse indugiata tutta la poesia italiana, tutto il sentimento di dovere e lo spirito di sacrificio".

Al Senato, nelle sedute del 5, del 6 e del 7 dicembre, fu discussa e aspramente criticata la politica interna del Governo. Fra gli altri, attaccarono vivacemente Giolitti i senatori PELLOUX e GUARNIERI. Il primo accusò il Governo di "avere spinto le classi proletarie, senza freno e senza ritegno, agli scioperi ingiustificati, alle organizzazioni settarie, alla lotta e infine all'odio di classe" e, dopo avere accennato allo spirito di ribellione che si era infiltrato nei dipendenti di quasi tutte le amministrazioni statali e avere ricordato i disordini, i tumulti, le scene selvagge dello sciopero, concluse:
"Mai, dalla sua formazione ad oggi, il Regno d'Italia ebbe ad attraversare momenti così difficili e così tristi. Che cosa farà il Ministero per riparare? Non è il tempo di tergiversare sulle frasi elastiche; non bastano più i luoghi comuni così usati ed abusati di dire che non si vuole né reazione né rivoluzione; qualche cosa bisogna volere! e bisogna dirlo chiaramente, e non con frasi ambigue e contorte. Sino a pochi anni addietro due metodi di Governo erano di fronte: quello del prevenire e quello del reprimere. Il Ministero attuale ne ha trovato un terzo: né reprimere, né prevenire".
Indubbiamente Pelloux, ex generale, ex presidente del Consiglio, rimpiangeva e aveva nostalgia degli sbrigativi cannoni del suo collega Bava Beccaris. Non avvertendo che il 1905, già non era più il 1898.

Il secondo, GUARNIERI, accusò il presidente del Consiglio di "demolire lo Stato e di preparare la fine della monarchia e dell'unità italiana".
Anche lui indubbiamente non conosceva gli ottimi rapporti che c'erano fra Giolitti e il Re (che alcuni storici ritengono che fu proprio il Sabaudo l'ispiratore di tutta la politica di Giolitti, pur stando in disparte). Liberali ambedue, sì, ma non in senso dottrinario. Il re era un uomo di profonde letture; il suo ministro no. Il primo aveva conquistato il senso del liberalismo, ripiegandosi su se stesso, sviluppando la sua vita interiore; il secondo lo aveva espresso dalle sue tradizioni familiari.
Il loro atteggiamento spirituale era molto complesso, diverso nell'origine, ma molto simile gli effetti nel modo di essere; ed entrambi non dimenticavano mai le debolezze che esistono nella personalità di ogni grande uomo; ma non dimenticavano nemmeno le risorse della più umile natura umana.

I tempi favorirono questi due geni della moderazione. Le prime lotte sociali avevano sconvolto dalle fondamenta la vita del Paese. Giolitti e il re furono d'accordo nell'accettare la dura realtà della lotta tra capitale e lavoro e tutti i rischi che implicava, tanto per l'istituto monarchico che per il regime parlamentare. Scioperassereo pure i lavoratori. Poiché le loro condizioni erano veramente intollerabili e i profitti del capitale consentivano larghissimi miglioramenti, l'intervento dello Stato si limitò unicamente al consiglio, che veniva dato continuamente ai datori di lavoro, di andare incontro alle rivendicazioni delle masse. Liberi i lavoratori di associarsi per la tutela dei loro diritti, erano, però, tenuti a rispettare la libertà altrui.
Giolitti e il re non si commossero eccessivamente nemmeno al primo sciopero generale. Aspettarono di vedere nei fatti se era proprio un pericolo per le istituzioni. E avevano ragione. Lo scioperò sfumò, e la conseguenza fu che i datori di loavoro si tranquillizzarono e le masse lavoratrici si calmarono. In dodici anni, la medi dei salari aumentò del cento per cento.
Tutta l'arte di governo di Giolitti e del Re si riduceva nel moderare gli entusiasmi e nel sollevare gli avviliti.

L'on. GIOLITTI all'attacco di GUARNIERI, si difese affermando di voler governare per la libertà e con la libertà, diminuendo la gravità dei fatti e dichiarando che, non lo si poteva rimproverare di avere autorizzato tante associazioni, costituitesi di pieno diritto e non a scopo delittuoso.

"Noi - aggiunse - siamo in un periodo di trasformazione sociale, non soltanto in Italia ma in tutto il mondo. In tutto il mondo le ultime classi sociali vogliono prendere il loro posto al sole, vogliono vivere meglio, vogliono migliorare le loro condizioni economiche, ed è questo il grande problema. Come il terzo stato è venuto su a prendere il suo posto, così anche il quarto stato vuol fare altrettanto, e nessuna legge che vieti le associazioni o ne regoli gli statuti potrà impedire questo moto mondiale.
Ciò che si può fare è di regolare e disciplinare questo movimento, non con la violenza, ma con leggi che tutelino gli interessi di tutte le classi sociali, affinché tutte si affezionino alle istituzioni .... Bisogna render forte la Monarchia non fucilando le masse popolari, ma affezionandole profondamente alle istituzioni, promovendo noi il progresso, senza aspettare che lo promuovano i socialisti, facendo noi tutto ciò che è possibile a loro favore, e non imponendo loro di associarsi per migliorare le loro condizioni. E quando io vedo che ci sono stati dei proprietari che combattevano le leghe e ne domandavano la soppressione, perché queste chiedevano qualche centesimo al giorno di più per i contadini, dico che quei proprietari sono i veri nemici della Monarchia italiana".

Anche alla Camera, alcuni giorni dopo fu criticata la politica di Giovanni Giolitti. Fu l'on. SONNINO ad attaccarlo. Gli chiese "cosa intendesse fare per evitare la rovina della nazione", e, fra l'altro, lo accusò di non aver nulla previsto, di "aver continuato per anni a svolgere una politica che non poteva tra i suoi effetti non avere anche quello di aprire l'adito a nuovi pericoli di tal fatta, senza nulla provvedere nello stesso tempo per anticiparne le conseguenze o per contenerne gli eccessi".

LA QUESTIONE FERROVIARIA - DIMISSIONI DI GIOLITTI

Urgeva intanto risolvere la questione dei ferrovieri, dato che il 30 giugno del 1905 scadevano le convenzioni ferroviarie con le Società che il Governo non voleva rinnovare. Circa cinquantamila ferrovieri si erano organizzati nelle file della Federazione e della associazione chiamata "Il Riscatto", le quali organizzazioni erano dirette da una giunta detta Costituente con sede in Milano e da un comitato di agitazione, detto degli Otto.
Il 2 dicembre del 1904 gli Otto avevano presentato all'on. Giolitti un memoriale contenente i "desiderata" dei ferrovieri; il 14 gennaio del 1905 sollecitarono il presidente del Consiglio telegraficamente a rispondere e, trasferitasi a Roma, il 27 di quel mese la Costituente dichiarò che avrebbe aspettato fino al 15 di febbraio.

Di fronte all'atteggiamento dei ferrovieri il Consiglio dei Ministri stabilì l'esercizio di Stato e il 21 febbraio il ministro dei Lavori Pubblici TEDESCO presentò alla Camera il relativo disegno, nel quale si miglioravano le condizioni del personale, ma si stabiliva l'arbitrato obbligatorio e si comminavano pene per gli organizzatori e gli esecutori degli scioperi.
Alla presentazione di tale disegno i ferrovieri risposero proclamando l'ostruzionismo, che su tutte le linee d'Italia cominciò il 26 febbraio. I ritardi enormi dei treni, le lunghissime soste nelle stazioni, la lentezza straordinaria di tutti i servizi indignarono immensamente l'opinione pubblica.

Di tale indignazione si resero interpreti alla Camera gli onorevoli CAPECE-MINUTOLO di Bugnano, ROSADI, CAVAGNARI e PRINETTI, ai quali il ministro Tedesco rispose, il 27 febbraio, che il Governo altro non poteva fare che invitare le Società a punire gli ostruzionisti ! Ma al Senato il ministro TITTONI, parlando in nome di Giolitti ammalato, disse che un Governo liberale deve non solo rispettare la libertà, ma esigerne il rispetto.
Il Senato votò una mozione con cui si invitava il Governo ad intervenire per far cessare lo sconcio e a studiare il modo d'impedire che l'ostruzionismo paralizzasse i pubblici servizi e il Paese.

L'on. Giolitti o perché temeva, dopo l'ostruzionismo, uno sciopero ferroviario, e che essendo ammalato non avrebbe saputo fronteggiare, o perché vedeva nella mozione del Senato una condanna alla sua politica, il 4 si dimise con una lettera al re in cui diceva che aveva bisogno di un lungo riposo per rimettersi in salute. I suoi colleghi, non avvertiti, si dimisero anch'essi.

Ma forse questa scelta fu dettata dal voler lasciare ad un ministero da lui influenzato, ma non personalmente diretto, la gestione della difficile vertenza per la statalizzazione delle ferrovie.
Il re dovette affidare l'incarico ad un nuovo deputato, ma lo scelse su indicazione di Giolitti: ALESSANDRO FORTIS, che fu subito contrastato e rinunciò all'incarico; ma dopo un dibattito alla Camera, Fortis fu nuovamente designato a formare un governo.

La formazione e l'arco di tempo in cui rimase in vita questo governo fu considerato un "ministero ombra", perchè ritenevano le dimissioni di Giolitti una temporanea fuga, pur rimanendo lui il "regista"

i fatti li narriamo nelle prossime pagine…

… periodo dal 1905 al 1906 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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