ANNO 1919 (4)

DA NITTI A GIOLITTI - LA SITUAZIONE IT. A FINE 1919

LA SITUAZIONE - L'IMPULSO AL MARXISMO - IL GOVERNO NITTI
IL PROGRAMMA DI GIOLITTI
E MUSSOLINI COSA FA?
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Dopo avere già accennato nel precedente capitolo, alla situazione generale, ai problemi che si vennero a creare nel dopoguerra, e all'incapacità del governo di risolverli nonostante il nuovo ministero Nitti, in questo capitolo ritorneremo sugli stessi argomenti, ma visti dalla penna di un altro personaggio, molto vicino a Vittorio Emanuele III, Alberto Consiglio, autore di una interessante e obiettiva biografia proprio del Re Sabaudo, "Vittorio Emanuele II, il Re silenzioso", pubblicata per la prima volta nel 1950 in undici lunghe puntate, sul settimanale Oggi, poi raccolte in volume dalla Rizzoli.
Quello che che a noi c'interessa, per dar seguito al precedente capitolo del 1919, è il capitolo "Giolitti contro D'Annunzio" (e qui ne faremo una sintesi).
Anche Consiglio, non si dilunga negli eventi precedenti, sulla guerra. E, infatti, così inizia:

"Non interessa, ai fini del nostro racconto, dilungarci eccessivamente sui gloriosi giorni del 1915. La gioia della vittoria fu un'ebbrezza forte e fugace. Troppo fugace. L'Italia si divideva in due settori estremi: uno troppo fiducioso, l'altro troppo scettico. Quello troppo fiducioso comprendeva soprattutto la gioventù e, quindi, l'enorme maggioranza del Paese. Il terribile sforzo della guerra aveva costretto anche l'Italia alla mobilitazione totale di tutte le sue risorse, materiali e morali. Nel corso del conflitto, noi c'eravamo resi conto dell'importanza della propaganda di guerra, della forza decisiva del fattore psicologico. Si era compresa la necessità dell'ottimismo la necessità di mantenere segrete le notizie deprimenti, di dare di tutti gli avvenimenti e le interpretazioni più favorevoli. Era nata la nozione di "disfattismo".

L'IMPULSO DEL MARXISMO

"Si trattava di una novità piena d'incalcolabili conseguenze: dire la verità non era più un obbligo morale fuori discussione, e non era ammesso nemmeno il ripiego di tacerla; in molti casi il dovere nazionale consisteva nel dire il contrario della verità. Se si fosse trattato di segreti di Stato, pazienza! Ma si trattava di illudere, di ingannare, di accendere speranze, di promettere risultati mirabolanti.
Era fatale, quindi, che la cessazione delle ostilità significasse non avveramento delle speranze dei combattenti, ma rapida delusione.
Il settore troppo scettico, che era composto soprattutto dai neutralisti del 1915, rimaneva convinto che la guerra era stata un gigantesco delitto, di cui l'Italia avrebbe duramente pagato le terribili conseguenze. Essa si proponeva di compiere ogni sforzo per liquidare la mentalità di guerra e cercare di tornare all'equilibrio di prima.
Il governo della vittoria, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, commise un errore decisivo. La Camera, eletta nel 1913, alla cessazione delle ostilità aveva già compiuto da qualche mese il suo quinquennio di vita. Bisognava indire immediatamente le elezioni, come Francia e Inghilterra fecero, approfittando dell'entusiasmo della vittoria e quindi raccogliendone i frutti (e che frutti, li abbiamo visti nelle precedenti pagine).

Fu invece sotto il controllo di una Camera che era sempre quella del 1913, diffidente e segretamente ostile, che ORLANDO partì per Parigi. Così, mentre il Parlamento fu la forza di Clemenceau e di Lloyd George, fu la debolezza della nostra delegazione.
La conseguenza fu che l'euforia andò rapidamente svanendo cedendo il campo ad un pauroso spirito di dissoluzione.

La violenta, amarissima delusione fu, ad un tempo, sociale e nazionale. I reduci, ritornati a casa, videro che tutti i posti di lavoro erano occupati da coloro che essi, in trincea, erano stati invitati a disprezzare come "imboscati". Niente era stato preparato per assicurare il pacifico ed ordinato passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace. D'altra parte, le industrie che fabbricavano materiali di guerra chiudevano rapidamente i battenti. Venne, quindi, formandosi, fin dai primi mesi del dopoguerra, un'enorme massa di disoccupati, che non apparteneva solo allo strato inferiore della piramide sociale, ma anche al ceto medio.
Le lauree erano state concesse con grande prodigalità: c'era, dunque, una pletora di giovani laureati, ex ufficiali di complemento, che non avevano quasi nessuna possibilità di stabile sistemazione. D'altra parte, la classe dirigente politica, che era sempre dominata dalla maggioranza parlamentare del 1913, non aveva la minima attitudine ad affrontare e risolvere i colossali problemi che le si presentarono.

Una delle principali conseguenze della guerra era stato il colossale impulso che aveva avuto il marxismo: impulso che si era risolto in una profonda trasformazione. La massa dei reduci, appena abbandonato il grigioverde, non trovando nello Stato l'immediata ed efficace protezione alla quale aveva diritto, si rivolse, com'era naturale, ai movimenti sindacali. Questi, diretti da esperti e benemeriti socialisti, assunsero rapidamente proporzioni gigantesche. Sennonché, il socialismo italiano non era già più quello del BISSOLATI del 1901, né quello del MODIGLIANI e del TREVES del 1914, né quello del TURATI patriota del 1917. La rivoluzione russa dell'ottobre 1917 aveva intimamente sconvolto il socialismo di tutti i Paesi.

Noi sappiamo che il partito socialista, in Italia, era maturo, alla vigilia della guerra, per la direzione del potere. L'opinione pubblica attendeva con simpatia che alla definitiva caduta di Giolitti, per morte o per vecchiaia, gli sarebbe successo un Turati o un Treves. Lo svolgimento di questo concreto progresso politico fu interrotto non tanto dalla guerra, quanto dalla rivoluzione russa e dal trionfo della frazione bolscevica del partito socialdemocratico. Il bolscevismo aveva adottato metodi che erano totalmente in contrasto con tutte le tradizioni dei partiti socialisti e socialdemocratici; questi, in tutti i Paesi, rimanevano fedeli al metodo democratico e in questo metodo trovavano la base di collaborazione e di convivenza con i partiti democratici borghesi. I bolscevichi, invece. propugnavano l'azione diretta, l'azione rivoluzionaria, l'instaurazione della dittatura del loro partito, organizzato su uno schema autoritario e militaresco.

La polemica di questo nuovo estremismo marxista era naturalmente antiparlamentare. Essa echeggiava l'altra polemica antiparlamentare: quella della nuova estrema destra, alimentata dai giovani del ceto medio, che avevano gustato il piacere e la fierezza del comando, che avevano sentito il prestigio della condizione di ufficiale e che ora soffrivano di un'umiliante e precaria condizione borghese. A questi giovani era stato detto che la guerra era stata fatta dal re e dal popolo contro la volontà del Parlamento che sarebbe stato in maggioranza neutralista (ricordiamoci dei famosi 320 bigliettini, ricevuti dal neutralista Giolitti, prima delle "radiose giornate di maggio") e germanofilo. Era, dunque, fatale che essi si sentissero vittoriosi non solo contro l'Austria, ma anche contro l'Italia neutralista e disfattista impersonata da Giolitti.

IL GOVERNO NITTI

Delle due delusioni, quella delle grandi masse sul terreno economico-sociale e quella dei giovani sul terreno nazionale, fu la prima che prevalse agli inizi del dopoguerra. ORLANDO tentò invano di conseguire un successo politico nella conferenza della pace.
Quando, in seguito al disastroso andamento della conferenza di Versailles, il ministero Orlando cadde, gli subentrò un ministero NITTI. Non Giolitti, si badi, ché i tempi non erano ancora maturi; ma un suo luogotenente. Nitti era un democratico di sinistra; ma nell'ultima fase del conflitto si era conciliato molte simpatie per l'abilità e l'energia con la quale, da ministro del tesoro, aveva saputo provvedere le somme necessarie al proseguimento del conflitto. Un figliolo del deputato lucano si era valorosamente battuto e questo contribuiva a rendere simpatica la figura del padre.
Nitti aveva nel sangue il liberalismo democratico di Giovanni Giolitti. Egli era di quei giolittiani che non concepiscono altro metodo politico se non quello di cedere gradatamente alla pressione delle sinistre. Questo metodo era quello dell'ordinato progresso, finché la sinistra rimaneva sul terreno legalitario e parlamentare.

Ma in uno schieramento in cui l'estrema sinistra era tenuta dai comunisti, era il metodo della rivoluzione. Nitti dette alle elezioni un'impostazione di sinistra, facendo adottare dalla Camera la proporzionale. Da queste elezioni uscirono centocinquanta socialisti e cento popolari: quasi il cinquanta per cento dei seggi era stato conquistato dai due partiti di massa.

Cominciava con questa innovazione la crisi del parlamentarismo e nessuno ancora ne aveva una precisa sensazione. Fu questo sistema che dette peso decisivo nella vita parlamentare ai partiti politici bene organizzati e molto disciplinati. I partiti politici non furono più delle associazioni private di uomini specializzati nella politica; ma vaste organizzazioni, con sezioni organizzate in tutti i comuni, con una complessa rete di gerarchie periferiche e una direzione centrale fornita di grandi poteri. In Italia, due soli programmi politici potevano formare la base di un grande partito di massa: il programma cattolico, che aveva già nel clero le sue cellule e i suoi propagandisti; e il programma marxista, che poteva giovarsi delle organizzazioni sindacali, ricche di un ventennio di esperienza e di conoscenza dei problemi locali.

Infatti, dalle elezioni del 1919 uscirono vittoriosi socialisti e cattolici. I nazionalisti non conquistarono che pochi seggi. Le varie correnti giolittiane avevano avuto un grave colpo: era dubbio se avrebbero potuto formare una stabile maggioranza.
Le due grandi masse che assumevano posizione predominante avevano, verso la monarchia costituzionale, un atteggiamento che, nella migliore delle ipotesi, era d'indifferenza. Non potevano certo i cattolici sentirsi sentimentalmente legati all'azione che la monarchia era andata svolgendo in sessant'anni: tutt'al più, se erano buoni italiani, potevano trovare nei benefici che la patria comune aveva ricavato da quest'azione, il compenso dei molti anni di anticlericalismo.

In quanto ai socialisti, essi erano repubblicani per principio. La sinistra non considerò il ministero Nitti come una formazione da sostenere, ma piuttosto come un governo da attaccare. L'azione marxista venne aumentando man mano che Nitti concedeva: due delle principali concessioni, la smobilitazione totale delle forze armate e l'amnistia senza riserve ai disertori, contribuirono ad aggravare il pericolo.

Quasi rispondendo al segreto, ma evidente desiderio di Giolitti, Nitti si affrettava a compiere le liquidazioni più odiose. Cominciò con l'abbandonare le posizioni adriatiche. A questo il presidente del consiglio non era tanto spinto dalle pressioni dei socialisti, che volevano una politica di rinuncia al militarismo e al nazionalismo, quanto da uomini autorevoli di parte liberale e democratica, come Albertini, Borgese, Bissolati e via dicendo. Molti di questi erano stati neutralisti, ed ora erano chiamati "rinunciatari".

In quel clima di disfatta morale, in cui il ministero Nitti pareva che non avesse altro scopo se non quello di accelerare la disgregazione dello Stato borghese, per aprire le porte della società capitalistica alle forze del socialcomunismo, si levò GABRIELE D'ANNUNZIO che, alla testa di un pugno di generosi ed esaltati giovani, si impadronì di Fiume, che l'Italia aveva già abbandonata al suo destino.
Il clamoroso gesto dell'occupazione di Fiume venne al momento giusto. Gli spiriti patriottici, che erano stati depressi dalla "riscossa" dei "neutralisti" divenuti "rinunciatari" e dalla sollevazione delle masse operaie inquadrate dai socialcomunisti, si risvegliarono. Si erano avuti dei gravissimi eccessi. Si aggredivano in strada, gli ufficiali e i soldati in divisa, si strappavano dal loro petto le decorazioni, si ingiuriavano e si deridevano i miti per i quali i giovani avevano combattuto. Queste violenze non sarebbero uscite dal quadro di un faticoso dopoguerra, se il governo avesse fatto il suo dovere di difendere con grande energia l'onore e la sensibilità dell'esercito, se il governo avesse provveduto a fare osservare le leggi. Viceversa, il ministero della guerra diramò una circolare in cui si ordinava agli ufficiali in servizio di indossare in pubblico l'abito borghese.

Le ragioni di questo incredibile atteggiamento del ministero Nitti sono da ricercarsi nelle tradizioni ultrademocratiche della classe dirigente. Questa, sotto la guida di Giolitti, da più di vent'anni andava verso sinistra. Ora, la sinistra aveva sempre sulla sua facciata le fisionomie familiari e bonarie di Filippo Turati, di Claudio Treves, di Emanuele Modigliani. Di fronte alle intemperanze delle masse, che assalivano i decorati e gli ex combattenti in nome del socialismo, quegli uomini di governo, che non avevano amato la guerra e che non avevano prestato fede ai suoi miti, adottarono istintivamente una posizione di prudenza e di tolleranza, fiduciosi che i violenti e i prepotenti si sarebbero calmati. Essi non comprendevano, o non comprendevano del tutto, che quel socialismo non era più il movimento di classe degli inizi del secolo.

L'occupazione di Fiume fu un atto di ribellione al disfacimento dei valori nazionali al quale contribuiva apertamente la carenza dell'autorità governativa. NITTI reagì male. Preoccupato delle crescenti difficoltà finanziarie in cui versava il Paese, egli disse dal banco del governo che non era il caso di impegnarsi in pericolose avventure, quando era in ballo la questione del pane quotidiano.

Secondo le migliori tradizioni della poesia carducciana, D'Annunzio iniziò da Fiume una formidabile campagna contro Nitti e il Parlamento. Le plastiche invettive che egli scagliava dal balcone del palazzo del comando di Fiume (trovò lo sprezzante nomignolo "Cagoia" per Nitti) avevano un'eco enorme. Tutto il sentimento patriottico che era stato eccitato ed esaltato ai fini della guerra, e depresso e vilipeso ai fini di una troppo affrettata smobilitazione, risorgeva e si stringeva intorno a Gabriele D'Annunzio. Costui rappresentava efficacemente per la fantasia dei giovani, il collegamento tra i miti del Risorgimento e i miti della nuova Italia.

IL PROGRAMMA DI GIOLITTI

Il suo gesto di ribellione armata determinava una frattura definitiva tra il patriottismo sentimentale e la classe dirigente. Un aeroplano partì da Fiume, un giorno, e sorvolò Roma per gettare un orinale (un vaso da notte) sul palazzo di Montecitorio (indirizzato ovviamente al Cagoia).
Questo mentre i socialcomunisti per far dispetto ai loro repressori, alle elezioni, misero in lista e mandarono alla Camera un disertore. Perchè anche in Italia si sentivano affermazioni come quelle che erano girate in Ungheria con BELA LINDER, "Non abbiamo più bisogno dell'esercito! Non voglio più vedere soldati" o con il "Commissario del Popolo" POGANY che dichiarava: "Il consiglio dei soldati non può avere che un solo scopo: sopprimere definitivamente l'esercito".

Questo lo stato delle istituzioni in Italia alla fine del 1919, e continuato nel 1920 e 1921.
L'impopolarità di Nitti, specialmente nel momento in cui si accinse ad abolire il prezzo politico del pane, che impediva ogni azione di risanamento del bilancio, raggiunse il colmo e superò di gran lunga l'impopolarità di Giolitti nel 1915. L'uomo di Dronero attendeva proprio questo momento. Al capezzale dell'ammalato fu chiamato, per volontà della classe dirigente, lo stesso medico.
Ma quali erano le intenzioni di Giolitti? Egli le aveva già esposte nel consiglio provinciale di Cuneo. Il vecchio statista faceva derivare tutti i mali dalla inadeguatezza dell'autorità del Parlamento. Prima di tutto, egli chiedeva una riforma dell'articolo 5 dello statuto, per modo che non fosse possibile al re né dichiarare la guerra, né stipulare la pace, né contrarre impegni in altri Paesi, senza il preventivo consenso del Parlamento.

Voleva non solo che al potere esecutivo fosse tolta la facoltà di prorogare le sessioni del Parlamento, che abbandonasse la consuetudine di adottare provvedimenti per decreti legge, ma che fossero fatte severe e approfondite inchieste sul modo come erano stati esercitati i pieni poteri nel corso dei quattro anni di guerra. Voleva, naturalmente, che fossero liquidate le posizioni di politica estera ancora pendenti, e si proponeva di sottoporre a revisione i contratti di forniture di guerra, per procedere all'avocazione dei sopraprofitti e di istituire la nominatività dei titoli per poter proseguire a larghe falcidie dei patrimoni privati.
Nessuno dei punti di questo programmi è storicamente criticabile.
Tutti rispondevano ad un'obiettiva esigenza. Ma era profondamente errato nella sua impostazione.
In altri termini, Giolitti si proponeva di fare il processo alla guerra e a coloro che l'avevano promossa. In quel momento e in quel clima, dopo una guerra vittoriosa e sicuramente ispirata da sentimenti e interessi nazionali (dopo Caporetto, con gli Austriaci scesi al Piave, la guerra fu sentita ed era diventata vitale anche per il resto d'Italia), proporre la riforma dell'articolo 5 dello statuto, equivaleva ad accusare il re e i suoi ministri del 1915 di aver trascinato il Paese in guerra contro volontà del Parlamento e limitando i suoi diritti.
Era chiaro che con questi preconcetti, l'avocazione dei sopraprofitti di guerra, la nominatività dei titoli e la falcidia dei patrimoni privati, che erano certamente necessari per risanare il bilancio, acquistavano un senso molto diverso.

Questi provvedimenti avrebbero integrato la liquidazione della guerra, considerata come un crimine e si sarebbero risolti in una concessione totale alle più avanzate richieste dei socialcomunisti.
All'attuazione di questo programma faceva difetto lo strumento che Giolitti soleva adoperare: il Parlamento come lui lo concepiva; e aveva bisogno della "sua" maggioranza, di una maggioranza di uomini di destra e di sinistra, legati, uomo per uomo, alla sua persona. Solo il collegio uninominale poteva fornirgli questa base. Giolitti era, tuttavia, sempre fornito di un'insuperabile abilità amministrativa. Riuscì, infatti, ad abolire il prezzo politico del pane, ad imporre la nominatività dei titoli, a istituire la tassa sul patrimonio, a iniziare la locazione dei sopraprofitti. Ebbe tempo, tuttavia, di constatare che questi provvedimenti non svuotavano affatto le rivendicazioni socialcomuniste. Anzi, proprio durante il suo ministero si ebbe il maggiore esperimento rivoluzionario, che fu l'occupazione delle fabbriche. Giolitti si astenne dall'usare la forza e l'esperimento fallì.
Ma non falli perché il governo si era astenuto dall'intervenire, fallì perché i comunisti non avevano conquistato alla loro politica rivoluzionaria l'adesione dei più autorevoli socialisti, quelli che avevano ancora largo seguito nelle masse. Fallì perché gli operai italiani, dotati di molta intelligenza e di grande discernimento critico, intendevano le lotte sociali come mezzo per difendere e migliorare le loro condizioni di lavoro; ma non come arma per sovvertire l'ordine costituito.

L'occupazione delle fabbriche fu l'errore decisivo che determinò la decadenza del movimento socialcomunista in Italia. Le masse che, deluse dalla guerra, erano affluite nei ranghi marxisti, furono scompaginate da una nuova delusione.
Intanto si approfondiva la frattura tra la vecchia classe dirigente e gli strati più sensibili alle questioni nazionali. Giolitti che si sarebbe guardato bene dall'usare la forza contro l'illegalismo comunista, liquidò il dannunzianesimo a cannonate.
Volle che queste cannonate le sparasse uno dei generali più popolari della guerra: Caviglia. Costui, con perfetto spirito di obbedienza, non esitò ad usare la forza contro D'Annunzio e i suoi legionari.
D'Annunzio che non era certo sospettabile di paura fisica, non fu da meno: la sua resistenza fu solamente simbolica.

Certo Giolitti era troppo vecchio per comprendere che si può chiedere ad un esercito ben disciplinato di compiere l'amarissimo dovere di usare la forza contro un movimento al quale, piaccia o non piaccia, andavano le simpatie di tutti i combattenti; ma che ci si deve domandare, prima di impartire il terribile ordine, se l'adempimento di quel dovere non lascia nell'animo dei soldati che lo compiono una ferita insanabile.

Nel 1921 Giolitti fece le nuove elezioni, dalle quali i socialisti e i popolari
uscirono indeboliti, ma risultarono rafforzate le forze di estrema destra. Entrò nella Camera, in quelle elezioni, una notevole pattuglia di fascisti guidata da BENITO MUSSOLINI. Il ministero Giolitti ottenne da quella Camera una maggioranza di pochi voti. II vecchio uomo di Stato vide subito di aver perduto la partita; le urne non gli avevano dato la solida maggioranza parlamentare. Si dimise, e gli successe BONOMI, un socialista riformista che si era venuto formando alla sua scuola.
Mussolini aveva fondato, nel 1919, un movimento politico che all'inizio, non ebbe nessuna risonanza e che nelle elezioni di quell'anno, non raccolse nemmeno i voti sufficienti per portarlo alla Camera. Tra la guerra italo-turca e l'inizio della guerra mondiale, Mussoplini era stato il più vivace e dinamico esponente dell'estremismo socialista. Aveva diretto con molto successo l'Avanti, ma poi aveva finito per farsi espellere dal partito e dal giornale socialista proprio per il suo estremismo. Solo alla vigilia dell'intervento riuscì a fondare un giornale, a Milano, il "Popolo d'Italia", che sotto il titolo si qualificava socialista indipendente. Mussolini con quel foglio, fu poi uno dei principali fautori dell'intervento e conquistò, nel coro interventistico della guerra, un notevole seguito nelle masse giovanili e patriottiche. Non corse subito ad arruolarsi come volontario, ma attese la sua chiamata. Tuttavia quando fu la sua ora, non si sottrasse di andare in prima linea, dove fu anche ferito in un incidente di proiettili avariati.
Nel 1919, odiato e vituperato dai socialisti, subì pure lui la conseguenza della depressione generale di tutti i valori nazionali e patriottici. E indubbiamente anche forti crisi di ideologie politiche, come molti del resto, dentro i cattolici, nei liberali e...nei socialisti (che sono prossimi ad una divisione, riformisti e rivoluzionari, dopo il II congresso dell'Internazionale del 23 luglio a Pietroburgo e Mosca. In Italia, nel gennaio del '21, la scissione darà vita al PCI).

Ma Mussolini non si diede sconfitto. Oltre che avere un grande gusto per l'azione, e l'esplicava soprattutto nella polemica giornalistica ed oratoria, a differenza di molti socialisti autorevoli, che provenivano dalla borghesia, lui invece era uscito dal proletariato. Aveva quindi un acuto senso della massa. Capì che delle due rivendicazioni, quella nazionalista e quella proletaria, bisognava fare una formula unica, creare qualcosa di nuovo; mica poteva tornare indietro a fare il rivoluzionario, a picchiare sulla testa borghesi e socialisti, o a insultare capitalisti e preti.
Per di più, non come tanti, era ben informato cosa succedeva in Russia e per di più la Russia non era l'Italia. In Italia il capitalismo era forte, mentre i rivoluzionari erano deboli e pochi e "se vogliono fare la rivoluzione, i conti non tornano".

La nuova formula fu esposta alla riunione di piazza San Sepolcro, (intervento che leggeremo nel prossimo capitolo) ma alle prime deludenti elezioni, per Mussolini sembravano finite tutte le speranze e la carriera di uomo politico. I suoi nemici bontemponi improvvisarono perfino un funerale con l'effige di Mussolini, e l'Avanti, vendicandosi per il passato, dileggiandolo, pubblicò in cronaca una notizia di due righe: "Un cadavere è stato ripescato dalle acque del Naviglio; è stato riconosciuto per quello di Mussolini". Albertini del Corriere d. S.) parlando con Nitti gli disse che "Mussolini è un rudere. E' uno sconfitto, non occorre farne un martire". Del resto i 4657 voti che aveva preso erano più che sufficienti per farlo rientrare nell'anonimato; o al massimo per fare l'assessore in qualche piccolo comune.

Ma pur fra gli avvilimenti, le incertezze e le contraddizioni (non parliamo del passato ma nella stessa riunione "sansepolcrina" i "postulati del programma fascista" erano risolutamente a sinistra - ma già al II congresso del 24 maggio 1920, il radicalismo scompare) l'ostinato uomo di Predappio ha perso solo una battaglia, ma non ancora la guerra che è appena iniziata, e che non ha ancora dichiarato. Anche perché qualcosa nella testa gli frulla.
La svolta è quando il suo "Popolo d'Italia" da "quotidiano socialista" -dopo aver ricevuto alcuni finanziamenti di industriali, inizia dal 3 agosto a sottotitolarlo "Quotidiano dei combattenti e dei produttori". Poi il 1° gennaio del '21, ottenendo qualche finanziamento dai "siderurgici"- sarà ancora più opportunista ed esplicito mettendo il motto di Blanqui "Chi ha del "ferro" ha del pane". Il patto con gli industriali è ormai senza più sottintesi. E non fa nulla da solo! Inoltre lo aiuta il fallimento di Nitti, lo aiuta l'ingenuo Giolitti che vuole diabolicamente usarlo come ago della bilancia ed è invece è lui ad essere usato; lo aiuta il vento della crisi economica; ed infine anche la "piazza" quando scoppia la crisi italo-albanese. Mussolini si trova davanti ad un terreno di coltura molto fertile, sufficiente per tentare la sua personale avventura. L'aveva -con un innato fiuto da mastino- anche previsto, ma non nella misura che poi ottenne; fra l'altro con la simpatia del re, dell'esercito e del Paese.

Le grandi masse in fondo chiedevano la stabilità economica, mentre un'altra piccola massa, cioè gli ex 600.000 imboscati, i 200.000 obbligazionisti, temevano di non incassare il proprio denaro, temevano la disoccupazione e la diminuzione del tenore di vita conquistate durante la guerra, e i contadini irrazionalmente temevano (dai venti dell'Est) di perdere l'orticello che possedevano. Quindi solo un governo autoritario, che avesse largamente promosso l'intervento dello Stato nella vita economica e nell'ordine pubblico del Paese, poteva rispondere alle esigenze delle masse, della piccola e media borghesia e degli agrari. Poi c'era la gioventù borghese e nazionalista, e questa che cosa voleva? Anche questa era bisognosa di decorose occupazioni. E non solo gli "arditi", ma anche i "timidi" si volsero speranzosi al fascismo, perché il governo non era in grado di difendere la vita, la proprietà dei cittadini, le fabbriche e i campi.
Ci mancava solo più che Nitti, dopo aver chiesto consiglio ai militari per smobilitare i militari, che chiedesse consiglio agli industriali per smobilitare le industrie.

Dunque una politica in senso autoritario era auspicata dai detentori del potere, dalla monarchia, dall'esercito, dal capitalismo e come vedremo più avanti dalla stessa Chiesa (che a metà percorso (ai Patti Lateranensi), all'"eretico" della "Lima", gli diede il titolo di "Uomo della provvidenza").

Ma come fa a ribaltare la situazione in poco più di un anno, un uomo che presentatosi alle elezioni di novembre, prende solo 4657 voti? Forse, rispose Antonio Pescarzoli: "Mussolini è come Molier, prende, in uomini e idee, il suo bene dove lo trova".
Premendogli l'aiuto di Giolitti (che iniziava in quei giorni la difficile missione del trattato di Rapallo), per farsi includere nel suo "listone" ed entrare in Parlamento, alle elezioni del '21, non indugia a "buttare a mare" D'Annunzio e la sua "avventura". Sbarazzandosi così di due rivali, di cui uno molto fastidioso, per non dire, pericoloso: D'Annunzio (che già cominciava a farsi chiamare Dux)

La Carta del Carnaro (promulgata l'8 settembre - messaggio dell'ideologia sindacalista nazionale (che ricevette perfino i complimenti di Lenin) preparata concettualmente da De Ambris, ma curata nello stile da D'Annunzio, non affermava soltanto l'italianità di Fiume, ma sosteneva uno statuto rivoluzionario; sembrava quasi una prova generale prima di scendere (con i generali Caviglia e Giardino, e con l'immancabile Rizzo) in Romagna e in seguito a Roma a spazzare via la monarchia (tempo addietro anche Mussolini aveva queste idee); ma sia il governo, sia Mussolini diffidarono un simile connubio. Perché c'era il grosso pericolo che se passava Fiume e si avallava quello Statuto, l'impresa dannunziana si trasformava in un messaggio dirompente; la città diventava un simbolo per tutti gli oppositori della democrazia liberale, cioè avrebbe incoraggiato i rivoluzionari in altre parti d'Italia. Infatti, D'Annunzio, a Fiume, stava già progettando lo sbarco in Romagna e la Marcia su Roma con due anni di anticipo su quella di Mussolini, e che lo stesso Mussolini tramite De Ambris con una lettera gli consigliò di non fare. Poi temendo il peggio, prese le distanze dal Poeta. E con Rapallo gli diede la "botta".

Ma per conoscerlo meglio lui e le sue idee, torniamo indietro, al 23 marzo di questo stesso anno, a Piazza San Sepolcro.

Piazza S. Sepolcro - Programma Rivoluzione fascista > > >

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