ANNO 1922 (1)

GOVERNI INETTI - L'ALLEANZA DEL LAVORO

PAESE ALLO SBANDO

SVILUPPI DEL FASCISMO - MORTE DI BENEDETTO XV - PIO XI - 1° GABINETTO FACTA - ZANELLA SCACCIATO DA FIUME - LA CONFERENZA DI GENOVA - GLI ACCORDI ITALO-JUGOSLAVI DI S. MARGHERITA - L'ALLEANZA DEL LAVORO - LO "SCIOPERO LEGALITARIO" - 48 ORE DI TEMPO PER RIENTRARE NELLA LEGALITA' - RIMPASTO DEL MINISTERO - SPEDIZIONE A BOLZANO E TRENTO - ADUNATA DI UDINE - ADUNATA DI NAPOLI
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Nei precenti 12 mesi della Marcia su Roma, vi erano stati in Italia 643 scioperi nelle industrie e 37 nelle campagne, per un totale di 7.337.000 ore perdute (scenderanno nei successivi 12 mesi a 247.000)

Anno 1922 - La nazione mai come ora sentiva il bisogno di un governo forte, e invece il Paese era retto da un governo debolissimo, che faceva la voce grossa, ma in realtà era incapace di ristabilire l'ordine e di rialzare le sorti di una Italia in crisi dopo lo sforzo immane della guerra; di un Paese travagliato dalla crisi industriale e monetaria, che alla fine del 1921 fu aggravata dal crollo della Banca di Sconto al cui salvataggio, Bonomi non volle prestarsi. A quel punto il suo governo iniziò ad avere i giorni contati.

Nel gennaio del 1922, il Ministero, fieramente osteggiato dai fascisti e dai socialisti, tiranneggiato dai popolari, abbandonato dai democratici, già navigava in cattive acque, quando, il 22 gennaio, cessò di vivere, dopo breve pontificato BENEDETTO XV (questo fatto ebbe una notevole importanza, nei rapporti di Mussolini con la Chiesa, e il Vaticano mise poi un veto a
Il Governo fece annunziare dalla Gazzetta Ufficiale la morte del Pontefice e assicurò che, secondo la legge delle Guarentigie, avrebbe tutelato la libertà del Conclave. Gli uffici pubblici esposero la bandiera a mezz'asta e le scuole fecero un giorno di vacanza.
Mussolini fece commemorare alla Camera il Papa morto (mai accaduto prima d'allora) e scrisse su Il Popolo d'Italia, un singolare articolo.
“Affiora nelle nuove generazioni italiane una diversa valutazione di tutti gli elementi spirituali della vita, quindi anche nel cattolicesimo.... La forza, il prestigio, il fascino, millenario e duraturo del cattolicesimo stanno appunto nel fatto che non è la religione di una data nazione o di una data razza, ma è la religione di tutti i popoli e di tutte le razze. La morte del papa e l’emozione suscitata da questo avvenimento in tutto il mondo civile, ci permettono di constatare che gli elementi religiosi della vita stanno potentemente risorgendo nell’anima umana. Il laicismo scientista e la sua logica degenerazione, rappresentata dall’anticlericalismo ciarlatano, stanno agonizzando”.
(Mussolini non è più "l'eretico", come si firmava sulla "Lima")

Il 2 febbraio si riunì il Conclave e quattro giorni dopo riuscì eletto il cardinale ACHILLE RATTI, arcivescovo di Milano, che prese il nome di PIO XI. Egli era nato a Desio il 31 maggio del 1857, era stato prefetto delle biblioteche Ambrosiana e Vaticana, Visitatore Apostolico e poi Nunzio in Polonia e dal 9 settembre 1921, tre mesi dopo di essere stato nominato cardinale, arcivescovo di Milano.
Proprio a Milano in una manifestazione fascista
affiancata dalla rappresentanza e dall'autorità religiosa (onoranze al Milite Ignoto) al cardinale non gli dispiacquero  per nulla i gagliardetti fascisti che erano presenti e che quindi benedisse sul sagrato del Duomo.

E Mussolini non si fermò solo a commemorare il papa morto, ma a quello vivo inviò un messaggio chiaro, che non dispiacque alla Chiesa. "Fra Italia e Vaticano - affermò e augurò Mussolini - speriamo possano presto nascere delle buone relazioni; augurabili e possibili".

Pio XI, rinnovando una cerimonia che Leone XIII, Pio X e Benedetto XV (per protesta) non avevano più usata, benedisse la folla, che gremiva Piazza S. Pietro, dalla loggia esterna del Vaticano "con la particolare intenzione - come si espresse il principe Chigi in un comunicato trasmesso all'Agenzia Stefani - che la benedizione stessa fosse diretta non solo ai presenti sulla piazza di S. Pietro, non solo a Roma, all' Italia, ma a tutte quante le nazioni e a tutte le genti, e portasse a tutti lo augurio e l'annunzio di quella universale pacificazione che tutti così ardentemente sospiravano".
Qualcuno cominciò a dire che Mussolini aveva fatto il miracolo, e la Chiesa salutò l'evento come la seconda  "resurrezione" del Cristo. Il suo Vicario finalmente poteva tornare tra la folla.
La marcia su Roma deve ancora avvenire. Ma il clima fra cattolici e fascisti era già questo! Di consenso, anche emotivo. Un po' meno con i cattolici di Don Sturzo, lui non era in sintonia né con Mussolini né con il Vaticano. E anche lui ebbe i giorni contati.

Il giorno stesso in cui si riuniva il Conclave terminarono le vacanze parlamentari e il Ministero Bonomi si presentava al Parlamento per dare l'annunzio delle sue dimissioni. Il Re pregò il Gabinetto di restare in carica per il mantenimento dell'ordine pubblico e il disbrigo degli affari ordinari, quindi incaricò ufficiosamente di costituire un nuovo Ministero prima l'on. De Nicola, poi l'on. Orlando. Riuscite infruttuose le pratiche di entrambi, il 16 febbraio, dopo un accordo tra popolari e democratici, il Ministero Bonomi si ripresentò al Parlamento, ma fu battuto e ripresentò le dimissioni. Vani furono i tentativi di riportare al governo Giolitti e Orlando e si dovette dare l'incarico al giolittiano LUIGI FACTA, il quale ne costituì uno che ebbe per base l'accordo popolare-democratico, la collaborazione dei liberali, e appoggiato anche dai nazionalisti e dai fascisti. Causando non poco malcontento nei socialisti.

Il compito del nuovo Ministero non era facile, data la situazione: continuarono gli attriti tra fascisti e comunisti e socialisti, qua e là anche tra fascisti e popolari; la riforma burocratica che si voleva fare dormiva; le finanze erano in dissesto; la crisi industriale si faceva di giorno in giorno più grave; occorreva dare un assetto alle provincie annesse, malgovernate da commissari straordinari; era necessario pensare seriamente alla condizione di Zara, strozzata fra terre slave; bisognava regolare la sorte di Fiume e di Porto Baros. Infine ripristinare l'autorita dello Stato, sempre più assente.

A Fiume il rinnegato Zanella aveva resa la vita dei fascisti e degli altri elementi annessionisti impossibile con le prepotenze dei suoi questurini slavi e tedeschi e con le continue aggressioni. Il 1° marzo due ex-legionari Zambon e Prevedel, venivano aggrediti e feriti e più tardi, il fascista Fontana, studente universitario, veniva ucciso a revolverate. Questi fatti fecero precipitare gli avvenimenti, e il Comitato di Difesa Nazionale, sorto per opera del Fascio e di tutti gli elementi nazionali, d'accordo con i capi delle squadre d'azione venute da varie parti d'Italia, decise d'insorgere contro il governo zanelliano. Il 3 marzo le squadre capitanate dall'on. Francesco Giunta assalirono il palazzo del Governo, ma dopo alcune ore di combattimento non avrebbero potuto avere ragione della difesa se Giunta, impadronitosi di un mas non avesse dal mare cannoneggiato il palazzo e costretto i difensori ad arrendersi.
Lo Zanella, dopo di aver per iscritto rimesso i poteri al Comitato di Difesa Nazionale e promesso di non occuparsi più di politica fiumana, se ne andò in territorio jugoslavo. L'ordine pubblico e la sicurezza dei confini furono affidati ai Carabinieri ed alle truppe italiane. Il Governo d'Italia fu invitato ad assumere l'amministrazione della città. Si cercò inoltre di porre a capo del Governo di Fiume l'avvocato GIOVANNI GIURIATI, deputato fascista, ma questi, non avendo ricevuto l'assenso del Ministero, rifiutò e il comando della città fu affidato a un consiglio militare diretto dal tenente CABRUNA.

Il Governo italiano cercò di conciliare i partiti cittadini e di stringere accordi con la Jugoslavia. E infatti, aprì trattative con gli Jugoslavi su Zara, su Porto Baros, su Fiume, sulla tutela delle minoranze italiane in Dalmazia, sullo sgombero della terza zona previsto dal Trattato di Rapallo. Queste trattative si svolsero in parte durante la conferenza di Genova, inaugurata l' 8 aprile, dove ospitalmente accolti dal Governo italiano si riunirono i delegati delle varie potenze europee, fra cui quelli della Russia sovietica guidati dal commissario del popolo CICERIN.
La conferenza di Genova si chiuse il 19 maggio senza avere risolto nessuna delle questioni trattate. L'Italia stipulò, il 24 maggio, con la Russia accordi commerciali definitivi e completi in continuazione degli accordi parziali del 26 dicembre 1921 prossimi. a scadere. Durante la conferenza di Genova e particolarmente con vari incontri a Santa Margherita i delegati italiani e jugoslavi riesaminarono la questione adriatica: fu meglio chiarita l'annessione di Zara e del suo territorio all' Italia; si convenne che 1' Italia non favorirebbe gli annessionisti fiumani e coopererebbe a rendere effettiva l'autonomia del nuovo Stato. Non furono discusse le questioni del Delta e di Porto Baros. I protocolli delle discussioni di Santa Margherita furono poi firmati a Roma il 23 ottobre.

Mentre tutto questo avveniva, la lotta della sinistra contro il Fascismo si faceva più aspra. I suoi nemici cercarono perfino, pur d'abbatterlo, di contrapporre ad esso il d'Annunzianesimo, ma gli approcci del Baldesi, del capitano Giulietti e del D'Aragona, capo della Confederazione del Lavoro non approdarono a nulla. Pareva che i tentativi degli avversari di annientare il nuovo partito avessero la forza di renderlo più numeroso.
Davanti alle persecuzioni governative il Fascismo iniziò nella primavera un nuovo genere di lotta: i concentramenti di numerosissime squadre nelle zone più bersagliate, in segno di protesta e di monito. Così per protestare contro l'opera del prefetto Mori a Bologna si radunarono in questa città tra il 25 maggio e il 2 giugno oltre 10 mila squadristi dell' Emilia, provocando l'intervento del senatore VIGLIANI, direttore generale della pubblica sicurezza.
Il 28 maggio 45 mila fascisti toscani si concentrarono a Firenze; 1500 squadristi della provincia di Siena, radunatisi il 25 giugno a Radicondoli chiedono e ottengono le dimissioni del sindaco socialista; il 15 luglio migliaia e migliaia di fascisti convenuti a Cremona (guidati dal ras Farinacci) fecero mostra della loro forza e diedero alle fiamme la casa del Popolare on. Miglioli; lo stesso giorno gli squadristi dell' Umbria eseguirono minacciosi concentramenti a Tolentino, a Foligno e ad Ancona.

Il 19 luglio, avendo i Popolari provocata la crisi di governo per la distruzione della casa del Miglioli a Cremona, l'on. FACTA fu abbattuto con un secco 288 voti contro e 103 a favore.
Tentò invano l'on. ORLANDO di costituire un Gabinetto pacificatore, mettendovi popolari, democratici, liberali e socialisti; provarono BONOMI e DE NAVA; rifiutò MEDA. Fu consultato dal Sovrano e si recò al Quirinale perfino TURATI (Allarmando fascisti, liberali e....industriali).
Ritentò ancora, ma inutilmente, ORLANDO. Pareva che dovesse essere incaricato DE NICOLA a risolvere la crisi; intanto si era arrivati al giorno 30, quando l'Alleanza del Lavoro decise lo sciopero generale per il 31 luglio.
Turati sperava che messo sotto pressione il nuovo governo con gli scioperi, il nuovo gabinetto sarebbe nato antifascista e avrebbe ospitato alcuni ministri socialisti.

(Nota - L'ALLEANZA DEL LAVORO era nata al convegno tenutosi a Roma dal 18 al 20 gennaio dello stesso anno, dai rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, Unione Sindacale Italiana, Unione Italiana del Lavoro, Sindacato Ferrovieri e Federazione dei Lavoratori del Mare. Scopo della coalizione, alla quale non aderivano i sindacati cattolici, era quello di «opporre alle forze coalizzate della reazione l'alleanza delle forze proletarie, avente di mira la restaurazione delle pubbliche libertà e del diritto comune, unitamente alla difesa delle conquiste di carattere generale delle classi lavoratrici, tanto sul terreno economico, quanto su quello morale». Che era nella sua sostanza, la "libertà" di far scioperare.
L'iniziativa si dimostrò, nella situazione caratterizzata dall' imperversare dello squadrismo fascista, oltre che tardiva anche inefficace. Lo fu principalmente per i dissidi che dividevano la maggioranza riformista della Confederazione Generale del Lavoro dalle minoranze comunista e massimalista, e dall'Unione Sindacale Italiana, di orientamento anarchico.
In questo 30 luglio 1922, l'Alleanza del Lavoro, volendo dare risposta alle violenze fasciste culminate nell'occupazione di Ravenna, proclamava lo sciopero generale. Questo sciopero voleva essere «un solenne ammonimento al Governo del Paese» affinché venisse posta fine «ad ogni azione violentatrice delle civili libertà, che debbono trovare presidio e garanzia nell'imperio della legge». Ovviamente non erano d'accordo che tale imperio valesse anche per loro ma solo per i fascisti.
FILIPPO TURATI, in un'intervista al giornale Il Mondo, dichiarava che lo sciopero avrebbe avuto un carattere «legalitario», «venendo a fiancheggiare lo Stato nella necessaria difesa contro le minacce e le intimidazioni dei fascisti» . Quello che chiedevano però era fermare i fascisti con la legge, ma essere loro dispensati dall'osservarla, cioè liberi di promuovere scioperi che già molti operai erano stanchi di fare (negli ultimi 12 mesi, erano stati 643 gli scioperi nelle industrie, e 37 nell'agricoltura, con 7.336.393 giornate di lavoro perdute).
Lo sciopero, che ebbe un'adesione miserevole, mancò quindi allo scopo principale, che era quello di influire sulla crisi parlamentare (apertasi con le dimissioni di Facta), per una soluzione che portasse al ripristino della legalità democratica (libertà di scioperare era una di queste, anche a costo di paralizzare il Paese, che già da tempo era economicamente in ginocchio).
Provocò inoltre il rifiuto dei democratici e dei popolari a una collaborazione con i socialisti, e fu anzi causa indiretta della formazione di quel secondo Ministero Facta che, con la sua incapacità di fare osservare la legge ad entrambi i due antagonisti (con le sinistre deboli, e i fascisti sempre più forti - appoggiati ora non solo dagli industriali ma anche dagli operai esasperati), avrebbe aperto tre mesi dopo la via del potere proprio ai fascisti.
Infatti di rimando alla minaccia di paralizzare il Paese, la Direzione del Partito Nazionale Fascista aveva avvertito, lo stesso 30 luglio che, se entro quarantotto ore lo Stato non avesse dato prova «della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano all'esistenza della nazione», il fascismo avrebbe rivendicato «piena libertà d'azione» e si sarebbe sostituito all'autorità statale.
Senza nemmeno attendere lo scadere dell'ultimatum, e nonostante il 2 agosto l'Alleanza del Lavoro avesse proclamato la fine dello sciopero (che si stava rivelando fallimentare, un vero e proprio boomerang), le squadre fasciste -decisi a farla finita una buona volta- si scagliarono subito all'assalto dei fortilizi ancora in mano ai partiti di sinistra. A Milano invasero il 3 agosto Palazzo Marino, estromettendovi l'Amministrazione comunale socialista, e incendiarono il giorno dopo la nuova sede dell' Avanti!. A Genova misero a ferro e a fuoco il giornale socialista Il Lavoro e occuparono Palazzo San Giorgio, sede del Consorzio del Porto al quale fu imposto di rompere i contratti con le cooperative rosse. Morti e devastazioni si ebbero anche a Firenze, dove furono distrutti la Camera del Lavoro e il giornale socialista La Difesa; incidenti a La Spezia, Pistoia, Novara, Pavia, Livorno, Bari, Parma. Spesso appoggiati da gran parte della cittadinanza.
Dopo questa "Caporetto", l'Alleanza del Lavoro si sfaldò rapidamente. II 18 agosto il Sindacato Ferrovieri, che ne era stato il promotore ritirava la propria adesione. L'uscita dell'Unione Sindacale Italiana e dell'Unione Italiana del Lavoro, avvenute rispettivamente il 29 ed il 30 agosto, sanzionarono praticamente la fine della coalizione).


Il Fascismo come accennato sopra, rispose mobilitando le sue forze, che in molti punti tennero a bada i sovversivi. A Milano, a Livorno, ad Ancona e a Bari ebbero luogo conflitti sanguinosi. Il 2 agosto il Partito Fascista intimò la cessazione dello sciopero e minacciò rappresaglie che in parte attuò. Dovunque, in Liguria, in Lombardia, nell' Emilia, nella Toscana, nelle Marche, nelle Puglie il sovversivismo fu pienamente sconfitto. A Parma, dove ebbe luogo un grande concentramento di squadre, si combattè per cinque giorni.

2° GOVERNO FACTA

Durante l'agitazione -falliti tutti i tentativi- venne rimpastato il Gabinetto dimissionario: FACTA conservò la presidenza dando gli Interni al senatore Taddei, prefetto di Torino (vedi la composizione, nella pagina della Cronologia dell'anno). Del Gabinetto precedente rimasero Amendola e Schanzer. Il 16 agosto la Camera accordò la fiducia al Ministero con 247 voti contro 121 e concesse l'esercizio provvisorio dei bilanci fino al 31 dicembre 1922.

Ritorniamo allo "sciopero legalitario" che Salvemini definì "Mossa pazzesca. Moralmente un delitto, Politicamente un errore". Insomma, fu un suicidio. Se volevano infierire alla sinistra un colpo mortale, i fascisti non avrebbero potuto fare meglio!
La pietosa fine dello sciopero, affrettò il crollo della sinistra (al suo interno poi dilaniata da fazioni con reciproche accuse per il fallimento) e fece un grosso favore al Fascismo, i cui dirigenti, il 9 agosto, potevano proclamare ai loro gregari:
"Fascisti ! La grande battaglia è vinta su tutto il fronte. Il bluff del sovversivismo, che fino ad ieri ricattò lo Stato, che fino ad ieri minacciò la tranquillità della nazione, è stato duramente, inesorabilmente punito! Crediamo che di scioperi generali generali non si parlerà più per un bel pezzo. L'Italia può oggi, grazie al sacrificio dei nostri indimenticabili morti, grazie l'opera santa di tutti voi, o fascisti italiani, l' Italia può oggi iniziare senza tema di essere pugnalata alle spalle la sua ricostruzione morale ed economica”.
E a dire il vero gli scioperi avevano stancato proprio tutti. E questi erano le sole e uniche armi di ricatto della sinistra, e salvo una rivoluzione non ne avevano altre più convincenti. Ma anche una rivoluzione se proprio la si voleva fare, i conti non tornavano. Se i lavoratori disertavano uno sciopero, figuriamoci poi una rivoluzione.

Così questo sciopero che nelle intenzioni delle Alleanze del Lavoro, doveva aiutare la formazione di un nuovo ministero con le sinistre, invece causò l'effetto contrario affrettando la riproposizione del governo Facta e spingendo popolari e democratici ad abbandonare ogni ipotesi di collaborazione con i socialisti. Fu insomma un errore politico e lo sciopero un clamoroso fallimento; alla Fiat di Torino soltanto 800 lavoratori su 10.000 si astennero dal lavoro.
E se in questi ultimi mesi, per le azioni delle "squadracce fasciste" (spesso senza più il controllo di Mussolini) c'era stato un certo allontanamento dal fascismo da parte della borghesia, questa e non solo questa, trovò nel fascismo l'unico valido strumento per farla finita con i "rossi". Inoltre con la "mossa pazzesca" perfino le masse lavoratrici passarono all'altra parte; e a confermarlo troviamo la Kuliscioff che scriveva pochi giorni dopo da Milano a Turati -il 14 agosto- "...anche qui pare che ci sia un gran esodo degli operai dalla Camera del Lavoro con numerosi passaggi, con armi e bagagli, al fascismo..." e pochi giorni dopo aggiungeva "...non nascondo che la cittadinanza , nel suo attuale stato d'animo, mal tollererebbe azioni a fondo contro fascisti" (Turati-Kuliscioff, Carteggio, p.558).

“E’ stata la nostra Caporetto” scrisse e ammise mestamente “La Giustizia” .
Ma già all'indomani, il 3 agosto, anche Albertini sul Corriere della Sera, scriveva: "Lo sciopero è stato uno sbaglio colossale per i socialisti perchè ha rialzato le azioni dei fascisti nella pubblica considerazione e ha sciupato, pure nell'opinione pubblica del paese, la pretesa conversione dei turatiani alle istituzioni, mentre dall'altro canto ha ristabilito automaticamente quel fornte unico tra popolazione, fascisti e agenti dell'ordine che i socialisti vorrebbero ad ogni costo spezzare".

Dopo questa clamorosa vittoria (regalata su un piatto d'argento), il Fascismo smobilitò, lasciando però presidi nelle località dove la situazione lo richiedeva. Ma in generale la situazione era ormai favorevole al Fascismo, che vedeva crescere di giorno in giorno le sezioni e il numero degli iscritti, svilupparsi le organizzazioni degli avanguardisti, dei balilla, degli studenti universitari, crollare i sindacati e le amministrazioni comunali dei rossi, fiorire i fasci all'estero. Occorreva però non dormire sugli allori, sfruttare la vittoria, allargare il campo d'azione, permeare di fascismo il Mezzogiorno e pensare a prendere in mano le redini dello Stato.
Il 13 agosto, in un convegno milanese della direzione del Partito, del comitato centrale, nel Gruppo parlamentare dei rappresentanti della confederazione delle corporazioni sindacali, il segretario generale MICHELE BIANCHI, nella sua relazione, disse:
"La vittoria nostra è stata quella che è stata. Strepitosa, assoluta, superiore a tutte le previsioni. Gli stessi avversari sono costretti a riconoscerla. Oggi però, concludendo, ci troviamo di fronte ad una enorme responsabilità: ingenti masse di lavoratori vengono a noi. I nostri 700 mila iscritti nei sindacati ben presto saranno un milione. Il problema va esaminato profondamente e seriamente. Il Fascismo s'impone oramai all'attenzione degli avversari: o esso diventerà la linfa da cui lo Stato sarà nutrito, oppure ci sostituiremo allo Stato. Questo evento maturerà nel giro di pochi mesi. Io voglio augurarmi che i ceti dirigenti italiani comprendano questa fatalità. Il movimento fascista è un fiume troppo gonfio per non dovere incutere dei timori salutari. O avremo in breve tempo le elezioni generali, e con le elezioni una rappresentanza proporzionata al valore ed al peso politico che rappresentiamo nel nostro Paese, e pertanto ci comporterà l'onere e l'onore del potere; o, diversamente, nuove azioni si renderanno forse indispensabili. O questo monito verrà accolto o, in caso contrario, il Fascismo dovrà fare suo il secondo corno del dilemma che Mussolini ha enunciato”.

Infatti, quel giorno stesso, Benito Mussolini, chiudendo la discussione sulla relazione Bianchi, disse:
“C'è una linea sulla quale siamo tutti d'accordo: siamo tutti convinti che il Fascismo deve divenire Stato; che deve divenire Stato non per nutrire le sue speciali clientele formate o da formarsi, ma per tutelare gli interessi della Nazione, della collettività; che per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extra legale dell' insurrezione.... Bisogna che la preparazione dell'una e dell'altra eventualità sia intrapresa per tutto con la massima energia. Io non sono parlamentare e voi tutti lo sapete”.

ADUNATA DI UDINE

Il 21 settembre ci fu grande adunata ad Udine dei fasci della Venezia Giulia e Mussolini pronunziò un importantissimo discorso (vedi nella pagina degli scritti e discorsi -"Discorso di Udine") indicando Roma come meta del Fascismo, giustificando la violenza dell'azione fascista, che chiamò “morale, necessaria e risolutiva”, spiegando gli scopi del sindacalismo nazionale, dichiarando che il programma del Fascismo era quello di voler governare l' Italia, affermando la necessità di sostituire la classe politica italiana, ritenendo potersi rinnovare il regime anche lasciando la Monarchia (ma precisò “La Corona non è in gioco purché non voglia, essa mettersi in gioco”), dicendo doversi demolire tutta la superstruttura socialistide-democratica, ammonendo amici e nemici.

Altre grandi adunate fasciste ci furono il 20 settembre a Vicenza, a Novara, ad Alessandria e a Piacenza, il 24 a Cremona il 29 ad Ancona. A Cremona Benito Mussolini disse: “Il Piave non è una fine, ma un principio. È di lì che prendono le mosse i nostri gagliardetti; di lì comincia la marcia che solo a Roma avrà termine” e a Milano, il 4 ottobre: “I cittadini si domandano: Quale Stato finirà per dettare la sua legge agli Italiani? Noi non abbiamo nessun dubbio a rispondere: Lo Stato fascista!”.

Fra il 30 settembre e 10 ottobre, si concentrarono a Bolzano -che dopo 4 anni dalla vittoria era rimasta interamente governata dai locali tedeschi sud-tirolesi, come se nulla fosse accaduto- squadre fasciste di Vicenza, Verona, Mantova, Trento, Cremona, Brescia ed altre città; occuparono l'edificio scolastico Imperatrice Elisabetta che venne intitolato alla Regina Elena; occuparono il palazzo dell'amministrazione provinciale di Trento e ne assediarono la prefettura reclamando l'abolizione del Commissariato e delle autonomie locali; chiesero l'allontanamento del commissario Credaro e la creazione d'una provincia unica Trento-Bolzano. Il 5 il Credaro inviò le dimissioni a Roma e il Consiglio dei Ministri deliberò la soppressione dell'ufficio centrale delle terre liberate e i Commissariati.

ADUNATA DI NAPOLI

Il 18 ottobre, in un convegno di capi fascisti a Milano, si nominò un quadrunvirato (BIANCHI, BALBO, DE VECCHI, DE BONO) che doveva assumere i pieni poteri per una prossima azione rivoluzionaria.
Questa doveva essere fatta il 21 ottobre, poi si rinviò, organizzando prima un'adunata a Napoli. Una seconda prova di logistica. Questa avvenne il 24 e, infatti, superò in grandiosità quella di Udine. I due fatti culminanti della giornata furono il discorso tenuto da Benito Mussolini al San Carlo e la sfilata di 40 mila squadristi e di 20 mila lavoratori organizzati nei sindacati fascisti. Durante la sfilata, in Piazza S. Ferdinando, dalle squadre si levò il grido “Andiamo a Roma!”.
“Oggi, senza colpo ferire, - rispose Mussolini - abbiamo conquistata l'anima vibrante di Napoli, l'anima di tutto il Mezzogiorno d' Italia. La dimostrazione è fine a se stessa e non può tramutarsi in una battaglia, ma io vi dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci daranno il Governo o lo prenderemo calando su Roma. Oramai si tratta di giorni e forse di ore. È necessario per l'azione che dovrà essere simultanea e che dovrà in ogni parte d' Italia prendere per la gola la miserabile politica dominante, che voi riguadagniate sollecitamente le vostre sedi”.
Ci fu l’immediato rientro degli squadristi e a Napoli rimase solo Bianchi, con i fascisti locali e i dirigenti del Consiglio convenuti, in attesa dei futuri eventi.

Il 25 e il 26 ottobre furono impiegati nei lavori del Consiglio nazionale dei Fasci, cui parteciparono tutte le gerarchie politiche, militari e sindacali del Fascismo, che trattarono molteplici argomenti, riguardanti il partito, il sindacalismo, i gruppi di competenza, le elezioni, la politica estera, la scuola.
MICHELE BIANCHI disse parole brevi, ma significative:
“Eravamo esitanti fino a qualche giorno fa; ma, o signori, è nell'animo vostro com è nell'animo mio che nelle ultime 24 ore tutte le esitazioni abbiano lasciato libero il campo ad una precisa ostinata volontà che vorrà e dovrà essere vittoriosa. Come la conquisteremo noi questa vittoria? Non è il caso, mi pare, di discorrere in pieno congresso e non è neppure il caso di convocare il comitato segreto di 70 e più membri. Basta per intenderci ed io credo che già ci intendiamo a pieno. Ad ogni modo, o signori, la situazione io la riassumo scheletricamente così: l'attuale Camera non rappresenta più il Paese. Ogni ministero che dovesse uscire dell'attuale Camera accetterebbe illegittimamente il potere; si porrebbe questo ministero, sortito da una Camera come quella lì oggi, sul terreno della illegalità e sarà nostro compito ridare la legalità agli istituti rappresentativi in Italia”.
Prolungatosi troppo la discussione sul problema meridionale, Bianchi disse:
“Io vi chiamo al senso della misura. Abbiamo ancora parecchi temi la trattare e il tempo fugge. Insomma, fascisti, a Napoli ci piove; che ci state a fare? Io a mezzogiorno di domani debbo essere a Roma”.- Era il 26 sera.

Già fin dal 21 ottobre era stato posto il piano d'azione, concordato a Bordighera tra generale DE BONO, ITALO BALBO E CESARE DE VECCHI.
La Marcia su Roma doveva essere effettuata dalle Camicie nere dell' Italia centrale, che dovevano concentrarsi a S. Marinella, a Monterotondo e a Tivoli donde sarebbero partite per la capitale tre colonne comandate la prima dal generale Ceccherini con il marchese Dino Perrone Compagni, la seconda dal generale Fara con il tenente Ulisse Igliori, la terza da Giuseppe Bottai.

Le legioni dell’Italia meridionale dovevano occupare le province delle proprie regioni e impedire che eventuali rinforzi di truppe affluissero verso la capitale; le forze napoletane e pugliesi al comando di Padovani e di Caradonna, avevano il compito speciale di sbarrare le conumicazioni con l'Adriatico e con il Tirreno. Sede del comando generale doveva essere Perugia. Le legioni provenienti dai punti più lontani dovevano concentrarsi a Foligno come riserva al comando del generale Zamboni. In alcune città dell' Italia settentrionale i fascisti dovevano impadronirsi delle prefetture, delle caserme, delle poste, dei telegrafi, dei telefoni, dei municipi, dei depositi e magazzini militari.

Il piano strategico doveva svolgersi in cinque tempi:
l° mobilitazione ed occupazione degli edifici pubblici nelle principali città del regno;
2° concentramento delle Camicie nere a S. Marinella, Monterotondo, Tivoli, Perugia;
3° ultimatum a Facta per la cessione dei poteri statali;
4° entrata in Roma e presa di possesso dei ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste dovevano ripiegare verso il centro della penisola protette dalle riserve;
5° costituzione del Governo fascista in una città dell' Italia centrale. Radunata rapida delle Camicie nere della Valle Padana e ripresa dell'azione su Roma fino alla vittoria.

L'ordine della mobilitazione fu diramato nel tardo pomeriggio del 26 (ecco perché Bianchi a Napoli accellerò i tempi)
Il 27 mattina veniva lanciato dal Quadrunvirato il seguente proclama:

“Fascisti di tutta Italia ! L'ora della battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, l’Esercito Nazionale scatenò di questi giorni la suprema offensiva che lo condusse alla vittoria: oggi l'esercito delle Camicie nere riafferma la vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio.
Da oggi principi e triari sono mobilitati. La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore. Dietro ordine del Duce i poteri militari, politici ed amministrativi della Direzione del Partito vengono riassunti da un Quadrunvirato segreto d'Azione, con mandato dittatoriale.
L' Esercito, riserva e salvaguardia suprema della Nazione, non deve partecipare alla lotta. Il Fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all’Esercito di Vittorio Veneto. Nè contro gli agenti della forza pubblica marcia il Fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che da quattro anni non ha saputo dare un Governo alla Nazione. Le classi che compongono la borghesia produttrice sappiano che il Fascismo vuole imporre una disciplina sola alla Nazione e aiutare tutte le forze che ne aumentino l'espansione economica ed il benessere. Le genti del lavoro, quelle dei campi e delle officine, quelle dei trasporti e dell' impiego, nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno sinceramente tutelati. Saremo generosi con gli avversari inermi; saremo inesorabili con gli altri.
Il Fascismo snuda la sua spada lucente per tagliare i troppi nodi di Gordio che irretiscono ed intristiscono la vita italiana. Chiamiamo Iddio sommo e lo spirito dei nostri 500 mila morti a testimoni che un solo impulso ci spinge, una sola volontà ci accoglie, una passione sola c'infiamma: contribuire alla salvezza ed alla grandezza della Patria. Fascisti di tutta Italia ! Tendete romanamente gli spiriti e le forze. Bisogna vincere. Vinceremo !”.
F.to: De Bono, Italo Balbo, Cesare De Vecchi, Michele Bianchi.


Tutto era quindi pronto: per iniziare la Marcia su Roma
Ma prima leggiamo tutti gli interventi di Mussolini
negli scritti sul suo giornale e i discorsi nelle adunate > >>

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