ANNO 1922 (7)

UNA ANALISI
PIÙ APPROFONDITA DELL'ANNO 1922



ERRORI DEI GIOLITTIANI - DE NICOLA RIFIUTA - TRATTATIVE CON MUSSOLINI - LA MARCIA SU ROMA - STATO D'ASSEDIO - ATTEGGIAMENTO DELL'ESERCITO - MUSSOLINI AL POTERE
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Oltre la cronaca degli eventi riportati nelle precedenti pagine, vogliamo attingere qui, ad una più accurata analisi di questo stesso periodo, fatta da un uomo molto vicino al Re; autore di una serie di articoli (11), pubblicati nel 1949-1950, apparsi sul settimanale Oggi: Alberto Consiglio, in "Vittorio Emanuele III, il Re silenzioso".
Del medesimo autore abbiamo già citato qui e là alcuni passi, quando abbiamo trattato la personalità di Vittorio Emanuele III. Qui invece, lo citiamo spesso, riguardo a Mussolini e ai rapporti che ci furono nel corso di questo fatidico anno della Marcia su Roma e la sua presa del potere.

"La personalità di Mussolini era veramente un fatto nuovo nella società politica italiana. Nel partito socialista egli difettava quasi, completamente delle virtù, che rendevano ammirabili, anche agli avversari, uomini come Treves, Turati, Modigliani, Prampolini, Caldara; ma possedeva in abbondanza le qualità di cui questi illustri personaggi difettavano. La sua cultura era scarsa e superficiale, appena sufficiente per un buon giornalista di provincia. Possedeva largamente la virtù giornalistica di afferrare con estrema rapidità i più disparati problemi; ma era inadatto ad approfondirli. D'ogni questione egli pensava quel tanto che gli era necessario per un articolo o per un corsivo, e per simulare, agli occhi dello sprovveduto lettore, una larga competenza. Aveva un grande gusto per l'azione; ma lo esplicava soprattutto nella polemica giornalistica ed oratoria. A differenza di molti socialisti autorevoli, che provenivano dalla borghesia, egli era uscito dal proletariato. Aveva, quindi, un acuto senso della massa".

ERRORI DEI GIOLITTIANI

Mussolini capì però che delle due rivendicazioni, quella nazionalista e quella proletaria, bisognava fare una formula unica. In fondo, le grandi masse che seguivano il socialismo chiedevano la stabilità economica e temevano la disoccupazione e la diminuzione del tenore di vita conquistato durante la guerra. Solo un governo autoritario che avesse largamente promosso l'intervento dello Stato nella vita economica del Paese, poteva rispondere alle esigenze delle masse.
Che cosa voleva, all'altro estremo dello schieramento politico, la gioventù borghese e nazionalista? Anche questa era bisognosa di decorose occupazioni: la naturale aspirazione dei giovani laureati e diplomati del nostro Paese agli impieghi statali, si faceva sempre più larga e pressante. D'altra parte,
tutta la borghesia attiva, industriale, commerciale e agricola, che per tradizione appoggiava il moderatismo giolittiano, non poteva non vedere senza apprensione il ritorno alla politica del "piede di casa" proposto da Giolitti.

Naturalmente, solo una grande superficialità giornalistica poteva tentare una formula di conciliazione tra queste due opposte esigenze. Ma Mussolini non si preoccupò eccessivamente delle facili e fondate critiche degli esperti e colti politici della democrazia giolittiana.
Lui era prima di tutto un istintivo, non proveniva da quell'ambiente dei compromessi, era pur sempre un socialista uscito dal proletariato, si era fatto una esperienza di giornalista spesso scomodo a Trento come a Forlì, era uno dei tanti che erano tornati dalla guerra, infine aveva solo 39 anni!! ma aveva carisma dentro il suo nutrito gruppo del movimento dei Fasci.

Dalla sconfitta elettorale del novembre 1919, per nulla scoraggiato era riuscito, dopo poco più di un anno, alle elezioni del maggio 1921 a portare dentro la Camera 35 suoi deputati. Una minoranza, ma piuttosto agguerrita.
Nell'anno 1922 il progresso compiuto dal Fascismo nell'organizzazione - su basi nazionali- fu addirittura imponente. A favorirne una ulteriore ascesa venne poi il clamoroso fallimento dello "Sciopero legalitario" di agosto proposto dal sindacalismo della sinistra, con la precisa intenzione di fare pressioni sul governo, mentre questo, ancora una volta, si dibatteva dentro in una profonda crisi di partiti e di uomini incapaci di riportare il Paese nella legalità e alla pace sociale.

L'Italia era stanca di scioperi, e attendeva solo un governo capace di essere all'altezza della grave situazione in cui era precipitato il Paese. E guardò con simpatia, o come al male minore, al fascismo, nonostante le violenze che alcune squadre esercitavano. Violenze che Mussolini in più di una occasione giustificò essere "necessario" per riportare l'ordine. Un prezzo da pagare, insomma, per uscire dal vicolo cieco in cui si era. Perfino Nitti scrivendo ad Amendola fu dell'opinione che "Bisogna che l'esperimento fascista si compia indisturbato: nessuna opposizione deve venire da parte nostra".

La democrazia giolittiana, da parte sua, non comprese l'importanza disgregatrice di questo movimento. Con un'ingenuità senza pari, essa si pose, tra fascisti e comunisti, nella stessa posizione di indulgente moderatrice che aveva presa di fronte agli agrari e ai socialisti della fine del secolo scorso. Ad un certo punto, in quel vecchio tempo, i Marcora e i Bissolati si erano distaccati dalla sinistra rivoluzionaria e i Saracco, i Sonnino, i Salandra dalla destra reazionaria, e tutti insieme erano saliti al potere con Giolitti, per instaurare il rispetto della legge e l'ordinato progresso nella legge.
Così si sperava che, ad un certo punto, Mussolini e Turati sarebbero andati al governo con Giolitti e con Salandra e che insieme avrebbero messo in prigione sia Gramsci come Farinacci!

Invece, in un crescendo sanguinoso di risse e di omicidi, che spingevano sempre più perfino gli amanti del quieto vivere verso la prepotenza fascista, si arrivò alla metà del 1922. La situazione si poteva riassumere in poche parole: coloro che avevano il diritto di vivere in pace, si domandavano se il governo era in grado di difendere la vita e la proprietà dei cittadini.
Chi poteva dare una risposta favorevole a questa domanda? Era, dunque, naturale che non solo gli sfrontati ma anche i timidi si volgessero speranzosi verso il fascismo.
Ma questo era proprio il punto culminante che la democrazia giolittiana attendeva. Furono i popolari e i socialisti che determinarono, sulla questione dell'ordine pubblico, la caduta del ministero Facta.

Ma per la prima volta, dopo Peschiera, rientrò in scena il re; il "Re silenzioso", tuttavia attento a sondare gli animi; anche nella guerra era sempre rimasto in disparte, non aveva mai interferito; ma che poi a Peschiera minimizzò Caporetto, quando tutti i suoi generali erano già nella disperazione; per non dire sconfitti come uomini e come soldati.

Appena cessate le ostilità della Grande Guerra, il parlamentarismo aveva ripreso tutte le sue funzioni. Le crisi determinate dalla caduta dei ministeri Orlando, Nitti, Giolitti e Bonomi, non avevano presentato difficoltà per il re: rovesciato un ministero dal voto della Camera, i gruppi parlamentari, gli ex-presidenti del consiglio e i presidenti delle due assemblee avevano sempre designato un parlamentare capace di radunare sul suo nome la necessaria maggioranza. Invece, col 25 luglio '22 si iniziava, più che una crisi ministeriale, la crisi del parlamentarismo italiano.

Il Re iniziò le consultazioni. Quale era l'opinione di Giolitti? Lo statista piemontese era a Vichy. Invece di venire a Roma per essere consultato dal re, come era suo diritto e suo dovere, egli continuò la cura delle acque. Ma scrisse, in data 26 luglio, una lettera a Olindo Malagodi, direttore della Tribuna, che era notoriamente l'interprete autorizzato del suo pensiero politico. Giolitti esprimeva il seguente giudizio: "Il governo si getterà a capofitto nella lotta contro il fascismo e porterà ad una vera guerra civile: oppure userà la necessaria prudenza e i paurosi che provocarono questa crisi, lo rovesceranno".

Era dunque proprio Giolitti che lasciava chiaramente intendere come la formazione di un governo senza i fascisti o contro i fascisti poteva significare la guerra civile.
Il re, in base alle designazioni, affidò l'incarico a Orlando. Lo statista siciliano tentò di attirare nella combinazione rappresentanti del fascismo e del socialismo. Ma, mentre i primi avrebbero aderito, i secondi opposero un rifiuto. Orlando a quel punto rinunciò.
Il Re passò al secondo nell'ordine delle designazioni, e affidò l'incarico a Bonomi. Costui tentò di formare un governo di centro-sinistra, ma i gruppi giolittiani si rifiutarono di aderire. Bonomi rinunciò pure lui.
Il sovrano si rivolse, allora, al terzo designato, che era Meda, il più autorevole rappresentante del partito popolare; ma costui declinò l'incarico perché il suo partito avrebbe sì acconsentito ad entrare in una combinazione di centro-sinistra, ma non ad assumere direttamente la responsabilità della formazione del ministero.

DE NICOLA RIFIUTA

C'era un quarto designato, il demoliberale De Nava: il suo tentativo di pacificazione e di conciliazione degli estremi fallì in poche ore. A questo punto il Re richiamò Orlando, ed era un passo logicissimo: poteva darsi che il prolungarsi della crisi avesse logorato le eccessive intransigenze e disposti gli animi ad una considerazione molto più realistica dei fatti. Orlando rispose con molto patriottismo e bruciò tutte le formule: o Mussolini e Turati; o un minore rappresentante di destra, Maury, e un minore rappresentante di sinistra, Canepa; o un ministero di centro-destra con appoggio socialista.
Niente. Anche questa volta Orlando dovette declinare l'incarico.

Allora il re si rivolse a De Nicola, che era stato auspicato da popolari e da socialisti come presidente di un governo di centro-sinistra e che si era sottratto all'incarico. Il gesto del sovrano aveva un significato chiarissimo. Si erano determinate due sole correnti d'opinione, nel corso delle consultazioni: una sosteneva l'opportunità di un governo di centro-sinistra, che avrebbe in pratica raccolto solo l'adesione dei popolari e dei socialisti, che non erano certamente tutti sinceri nel sostenere il ritorno al conclamato rispetto di una legge eguale per tutti, anche per loro che erano una delle parti in conflitto; l'altra, sosteneva la formazione di un governo di coalizione di cui avessero fatto parte fascisti e socialisti a titolo di garanzia e di avallo.

Senonché, la prima soluzione non avrebbe raccolta una stabile maggioranza ed avrebbe accentuato i pericoli di guerra civile; e nessuno dei capi gruppo si era rivelato capace di raggiungere la seconda.
Era una classica situazione di paralisi parlamentare in cui si imponeva l'intervento della Corona. Il re si rivolse non all'on. De Nicola, come autorevole rappresentante della democrazia, ma al presidente della Camera. Era evidente che solo il presidente della Camera, che godeva delle universali simpatie,
poteva assumersi la responsabilità di raggiungere una qualsiasi soluzione della crisi.
Questa era l'opinione del re. Ma De Nicola fu di diverso avviso: egli non ritenne di potersi assumere la responsabilità di risolvere la crisi; ma consigliò la Corona di riaffidare l'incarico a Facta. Costui era stato rovesciato, sì, da un voto della Camera; ma l'ordine del giorno Longinotti-Granchi concerneva la politica interna; quindi, se l'onorevole Facta abbandonava il ministero dell'interno e lo affidava ad un senatore indipendente, ad un prefetto di provata energia, egli poteva ripresentarsi alla Camera e ottenere la maggioranza!
Poteva il sovrano respingere questa soluzione? E se l'avesse respinta, a quali forze avrebbe potuto appellarsi per costituire un qualsiasi governo capace di ristabilire l'ordine e la legalità?
Non c'era che da rassegnarsi ad una riedizione riveduta e peggiorata del ministero Facta, che ebbe, incredibile a dirsi, la maggioranza.

"Noi abbiamo un documento molto serio su questo periodo, un documento freddo, obbiettivo, impressionante, che ci permette di formulare un giudizio preciso sul periodo che va dal luglio all'ottobre 1922 e sui rapporti tra Parlamento e Corona e tra i vari partiti politici. Si tratta delle Memorie del consigliere di stato EFREM FERRARIS, che fu capo di gabinetto al ministero dell'interno durante il primo e il secondo ministero Facta. L'autore non pubblica solamente le impressioni scritte giorno per giorno nel suo Diario; ma le copie di verbali, di intercettazioni telefoniche e di informazioni di polizia che, d'ordinario, vengono sepolti nel segreto degli archivi e solo dopo molti decenni vengono messi a disposizione degli studiosi. Questo documento ci consente di prescindere da tutto quello che è stato detto e scritto posteriormente sulla Marcia su Roma e sull'avvento del fascismo al potere".

TRATTATIVE CON MUSSOLINI

Risulta chiaramente che la soluzione della crisi era stata adottata in linea provvisoria. Si voleva, in quell'ultimo scorcio di estate, condurre delle trattative comode e segrete per raggiungere, verso ottobre, la soluzione definitiva. In realtà, tutti o quasi tutti pensavano che solo Giolitti poteva condurre ii fascisti al potere. Il presidente del consiglio Facta si manteneva in stretto contatto con Giolitti che, da Dronero, dirigeva le operazioni. Prefetto di Milano era il senatore Lusignoli, uomo di fiducia di Giolitti. Fu costui che, pochi giorni dopo la provvisoria soluzione della crisi, coadiuvato dall'on. Corradini, si mise in contatto con Mussolini e si fece tramite tra il capo del fascismo e il capo della democrazia per la formazione del governo di ottobre. La cosa era tanto pacifica e scoperta, che Lusignoli teneva quotidianamente al corrente il presidente del consiglio dello sviluppo delle trattative.

Facta, buono buono, attendeva che da Dronero gli venisse l'ordine di dimettersi. Anzi, talvolta sollecitava con impazienza il suo congedo. Ma c'era un altro uomo di Stato che riteneva di poter dire la sua parola, ed era Salandra. Costui, a mezzo di Federzoni e di De Vecchi, si mise in contatto con Mussolini, per la formazione di un governo di destra, con la partecipazione dei fascisti. Mussolini si mostrò avverso a tale soluzione, e avvertì Facta che, invece di collaborare con Salandra, avrebbe collaborato con lui. In altri termini, il capo del fascismo si manteneva aperte tre vie di compromesso, Salandra, Giolitti e Facta, mentre i suoi uomini saggiavano attentamente la capacità di resistenza dell'avversario.

Il prefetto di Milano, Lusignoli, espose a Taddei, ministro degli interni, la situazione in termini chiarissimi. Subito dopo la soluzione provvisoria della crisi, i fascisti avevano iniziato i preparativi per l'insurrezione armata e per la conquista del potere per l'ottobre. Il governo era, giorno per giorno, ora per ora, minuziosamente informato. Lusignoli avvertì che non bisognava commettere l'errore di attendere che i fascisti prendessero l'iniziativa. Essi avevano ormai una organizzazione così estesa e così approfondita, che avrebbero simultaneamente attaccato in tutte le province. Quindi, bisognava attaccare, simultaneamente, in tutte le province. Poteva il governo far questo? Mobilitare, cioè, tutto l'esercito, contemporaneamente, e scagliarlo contro il movimento fascista?

Ricordiamo la parola d'ordine lanciata da Giolitti da Vichy: "Un governo senza i fascisti e contro i fascisti significa la guerra civile•. Oggi, a distanza di anni, si afferma che lo stato d'assedio, non in quell'ultimo scorcio di estate, ma alla fine di ottobre, avrebbe spazzato i fascisti in un batter d'occhio.
Non era di questo parere, nell'agosto 1922, il più autorevole parlamentare del nostro Paese. Chi esitava di più, però, era proprio Mussolini che continuava a domandarsi che cosa avrebbe fatto l'esercito. Infatti, mentre si prendevano le misure per la mobilitazione generale dei fascisti, venne intensificata la propaganda e la penetrazione nell'esercito.
Ed anche negli alti gradi - nonostante tante dicerie- sembra che nessuno volesse esporsi, ma piuttosto stare alla finestra a guardare; compreso il chiacchierato Badoglio, uomo troppo furbo per rischiare tutta la sua carriera.

Si comportarono tutti come i politici, la patata bollente la misero in mano a Vittorio Emanuele.

ATTEGGIAMENTO DELL'ESERCITO

Di questo, il governo venne informato. Il ministero dell'interno, per esempio, seppe che Mussolini aveva fatto parecchi viaggi in incognito a Napoli sotto il nome di Lo Presti. Era facile comprendere che egli si era incontrato con DIAZ e forse col DUCA D'AOSTA. In quel periodo, il fascismo si costituì in milizia e si dette un regolamento di disciplina. Nei circoli militari si disse che autore di questo regolamento (molto militare) era stato l'ammiraglio THAON DE REVEL.
Insomma, da una parte e dall'altra esistevano tutti i dubbi su quello che sarebbe stato il comportamento dell'esercito nel caso che si fosse venuti ad una politica di repressione violenta.
D'altra parte i governi democràtici e giolittiani che si erano succeduti al potere, avevano assunto un atteggiamento nettamente e ostentatamente antimilitarista e salvo quelli molto vicini al Re, gli altri anche se non li avevano potevano porsi dei dubbi.
Il governo Facta e quelli che lo avevano preceduto erano, dunque, direttamente e consapevolmente responsabili della dubbia posizione morale delle forze armate.

Le trattative Giolitti-Mussolini, per il tramite di Lusignoli, si trascinarono fino all'ottobre. Si arrivò ai particolari: Giolitti offrì quattro ministeri e cinque sottosegretariati ai fascisti. Sotto l'assillante pungolo di Michele Bianchi, si faceva però intanto strada, nell'animo di Mussolini, il disegno di impadronirsi di tutto il potere.
Oltre agli altri raduni a Udine, Cremona, MIlano, il 24 ottobre si tenne a Napoli il congresso e l'adunata delle camicie nere. La manifestazione riuscì di una tale imponenza, che dette coraggio a Mussolini e la certezza agli uomini politici che il momento era giunto. La crisi parlamentare venne scatenata da una mossa di Salandra. Costui voleva evitare la combinazione Giolitti-Mussolini, per assumere egli stesso la presidenza con gli elementi di destra e del fascismo. Egli, quindi, si recò da Facta e lo invitò a dimettersi. Giolitti, da Dronero, dette all'amico lo stesso consiglio.
Facta, dopo essersi fatto consegnare i portafogli dai colleghi, avvertì il re a San Rossore. Il sovrano arrivò a Roma la sera del 27 alle diciannove. Il giornalista Sinibaldo Tino, che era presente all'incontro di Vittorio Emanuele col presidente del consiglio, riferisce che il re, molto scuro in volto, parlò subito e distintamente di stato d'assedio. Poi iniziarono i dubbi.

Intanto, al Viminale arrivavano notizie sempre più gravi da ogni parte d'Italia. Ferraris riferisce, e le sue informazioni devono essere documentate nell'archivio del ministero dell'interno, che si trattava di "prefetture occupate, di uffici telegrafici invasi, di presidi che fraternizzavano coi fascisti fornendoli di armi, di treni che le milizie requisivano e che si avviavano carichi di armati verso la capitale".

Tutto questo prima delle ore diciannove del giorno 27. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, il ministro Taddei aveva ricevuto assicurazione dal comandante del presidio di Roma che, se fossero stati impartiti ordini precisi, cioè scritti, la capitale sarebbe stata efficacemente difesa. Senonché, alle ore 21, in considerazione delle notizie non buone che arrivavano, Facta decise di presentare le dimissioni.
Certamente, nel momento in cui presentava le dimissioni, Facta deve aver parlato al Re dello stato d'assedio.
Secondo le consuetudini, il governo rimaneva in carica per l'ordinaria amministrazione. Tuttavia, la situazione del Paese, con una insurrezione armata in atto che investiva tutto il territorio nazionale, richiedeva ben altro che un'ordinaria amministrazione. Come una mente equilibrata potesse conciliare le dimissioni del governo con il progettato stato d'assedio, è molto difficile comprendere.

Comunque, l'aiutante di campo del re, generale Cittadini, si recò al Viminale proprio mentre, alle quattro e mezzo del mattino, si iniziava la seduta del consiglio dei ministri. Il capo gabinetto Ferraris gli mostrò gli ultimi telegrammi delle prefetture: il generale Cittadini poté farsi un'idea molto precisa della situazione dei presidi, delle questure e delle prefetture.

Alle otto e mezzo del 28 l'ordine di stato d'assedio veniva diramato a tutto il Paese e affisso a Roma. Solo dopo l'inizio dell'esecuzione, Facta si recò al Quirinale per sottoporre il decreto alla firma reale. Ma Vittorio Emanuele rifiutò la sua sanzione. Non ci sarebbe bisogno d'altre informazioni e d'altri documenti, per giudicare il comportamento politico del Re. Bastavano le notizie raccolte al ministero dell'interno dal generale Cittadini per comprendere che la proclamazione dello stato d'assedio sarebbe stata una pura e pericolosa follia. O meglio non sarebbe stata una follia, ma un atto di grande saggezza, se nel 1921 Giovanni Giolitti, sciolta la Camera, avesse gettato nella stessa prigione i violenti di destra e di sinistra e avesse dimostrato, con severe misure e con severe condanne, che il governo voleva e poteva difendere il prestigio della nazione e promuovere il progresso, senza dover aprire le porte né alla rivoluzione di destra, né a quella di sinistra. Ma ciò non era stato fatto.

É necessario precisare che nella notte fatidica tra il 27 e il 28 Vittorio -Emanuele, come era suo dovere di comandante supremo delle Forze Armate, chiese il parere dei capi dell'esercito. Egli chiese specialmente ai marescialli Diaz e Pecori Giraldi quale contegno avrebbe tenuto l'esercito, nella eventualità di uno stato d'assedio. I due marescialli risposero che "l'esercito avrebbe fatto il suo dovere, ma che sarebbe stato bene non metterlo alla prova". Questa informazione capitalissima venne fornita nel 1945 al Ferraris, con lettera autografa, dal generale on. Roberto Bencivenga, che l'aveva saputa dalla viva voce del maresciallo Pecori-Giraldi. Fu in conseguenza di questa testimonianza che Bencivenga modificò il suo giudizio sull'operato del Re in quel fatale 28 ottobre.
D'altra parte, è il caso di domandarsi che cosa il re avrebbe potuto fare di diverso. In regime di stato d'assedio, ogni possibilità di collaborazione di Mussolini con i gruppi democratici sarebbe sfumata.
Chi di quegli uomini, che non avevano avuto il coraggio di assumere il potere nell'agosto, lo avrebbe assunto nell'ottobre, in regime di stato d'assedio, con la sola prospettiva di sommergere in una atroce guerra civile il regime parlamentare e la dinastia?

Il Re avrebbe dovuto rivolgersi ad un generale e ripetere il deprecato esperimento Milano 1898?. Ma con quali forze questo generale avrebbe combattuta la guerra civile? Era evidente che solo una parte dell'esercito avrebbe obbedito agli ordini del re. L'altra parte era stata già guadagnata alla causa fascista.

Questa era la situazione che la democrazia giolittiana consegnava nelle mani di Vittorio Emanuele III. Il re rifiutò di firmare lo stato d'assedio e incaricò Salandra di costituire un governo che riportasse il Paese nella legalità. Chi aveva designato Salandra? Giolitti era a Dronero. Comunque, era saggio tentare una soluzione di destra, che presentava almeno il vantaggio d'essere più parlamentare e che aveva almeno la possibilità di esercitare una certa autorità morale sui fascisti. Ma proprio per questo Mussolini avversava, più di ogni altra, proprio la soluzione Salandra. Egli, da Milano, rifiutò seccamente di intavolare trattative con lo statista pugliese; lo liquidò con un secco "Non stiamo qui facendo la rivoluzione per prendere solo quattro portafogli"..

MUSSOLINI AL POTERE

Il re, che aveva già domandato con molta ansietà se ci si poteva fidare di Mussolini, aveva posto chiaramente le sue condizioni: o il Paese ritornava nella legalità o egli avrebbe abdicato. Questa minaccia venne comunicata a Mussolini e lo rese molto perplesso. In quel momento non si trattava di sapere se il fascismo avrebbe o non avrebbe preso il potere. Era evidente che Mussolini non intendeva dividere la sua vittoria con nessuno. Il problema era un altro: bisognava adottare la tesi di Michele Bianchi, cioè la conquista violenta, o seguire una forma legale, pure approssimativa?

Mussolini, nel suo discorso a Udine e a Milano sulla monarchia aveva detto pur qualcosa ma nel discorso di Napoli, aveva ritirata la riserva repubblicana e aveva fatta una dichiarazione di monarchismo. Più che una sincera conversione, il suo fu un atto di realismo e di opportunismo. Tuttavia, apparve evidente in lui un certo timore reverenziale.
Gli venne comunicato a Milano che il re intendeva consultarlo. Era un momento della prassi costituzionale: perchè nella crisi, fino allora, il sovrano non aveva ancora consultato il capo del gruppo fascista.

Egli fece rispondere che in nessun caso sarebbe venuto a Roma per essere consultato, ma che attendeva che gli si desse l'incarico ufficiale: solo in questa eventualità egli sarebbe andato immediatamente a Roma per presentare la lista dei ministri che era già nella sua tasca.
Si fece ancora qualche tentativo per indurlo a più miti consigli. Alfine, Salandra declinò l'incarico e si assunse la responsabilità di consigliare al re di affidare l'incarico a Mussolini. E volle che l'invito del Re fosse scritto di suo pugno e dal generale Cittadini.

Finalmente Mussolini venne a Roma in gambali e calzoni grigio-verde, che aveva dovuto indossare appositamente, non certo perché ve lo costringessero le fatiche guerresche, e presentò al re una lista di ministri, composta di deputati e di senatori, scelta in base a suoi criteri personali, senza aver trattato né con i partiti, né con gli individui. Buona parte della lista la compilò in treno, durante il viaggio.
Vittorio Emanuele all'incontro, gli chiese prma di tutto se avesse dato gli ordini necessari per impedire che le squadre e le bande fasciste entrassero nella capitale. Mussolini rispose che il movimento di afflusso non poteva essere arrestato da un momento all'altro. Il re insistette con energia. Infine si venne ad un compromesso: i fascisti sarebbero entrati nella capitale al solo scopo di sfilare ordinatamente innanzi al Quirinale e sarebbero usciti da Roma prima di notte.

Mussolini aveva incluso nel ministero dei liberali, dei demoberali, dei democratici, dei nazionalisti, dei popolari, con l'aggiunta dei due capi della guerra vittoriosa, Diaz e Thaon de Revel. Ogni ministro partecipava al governo a titolo personale. Nessuno dei gruppi ai quali appartenevano i ministri osò sconfessarli. Il presidente del consiglio, presentatosi alla Camera, spiegò...
"Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti...a un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di quest'Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli; potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto".

La Camera, riconoscente di tanta generosità, gli votò la fiducia
a grande maggioranza!
306 a favore, 116 contrari e 7 astenuti.
Avendo Mussolini in Parlamento solo 35 deputati,
271 onorevoli gli si erano affiancati.
Quasi non credeva neppure lui a un successo così facile!
Una cosa era certa: che Mussolini si era riappropriato dell'inizitiva politica.
E che una buona parte del Parlamento lo sosteneva.

Lasciamo ora i fatti e andiamo a leggere alcuni discorsi e scritti di Mussolini
fatti e pubblicati nel corso dell'anno 1922 > > >

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