ANNO 1923 (10)

RIEPILOGO 1922-1923

E ANTICIPO DEL CRITICO 1924

DOPO IL '22 - I RAPPORTI CON I POPOLARI - LA RIFORMA ELETTORALE
LE ELEZIONI CONTESTATE - DELITTO MATTEOTTI - L'AVENTINO
CONGIURE - I RAPPORTI CON IL RE - LA "FUNZIONE ARALDICA"
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Prima di entrare nell'anno 1924 (ma qui ci entreremo comunque, anticipando alcuni fatti) ripercorriamo gli eventi che hanno portato Mussolini al governo; il periodo astioso con don Sturzo e i suoi Popolari; il varo della nuova legge elettorale; il successo (contestato) nelle elezioni; e alla fine di queste pagine, il critico periodo attraversato durante e dopo il delitto Matteotti e i rapporti con il Re.

Ci affidiamo per buona parte di questo capitolo, ancora alle "memorie" di Alberto Consiglio, uomo molto vicino alla Casa Reale, autore di una accurata e interessante biografia del Re "Vittorio Emanuele III, il Re silenzioso". Undici puntate che apparvero nel 1950, sul settimanale "Oggi". Poi riunite in un volume edito dalla Rizzoli.
Consiglio, ci narra i fatti con una certa obiettività, e proprio per questo lo preferiamo a molti altri storici di quel periodo; così intenso di colpi di scena, ma anche molto sofferti da Mussolini, attaccato da più parti dall'esterno ma... anche all'interno del suo stesso partito.

Pochi giorni prima che si svolgesse la Marcia su Roma, mentre molti politici, casa reale e militari, si stavano chiedendo cosa sarebbe accaduto nei giorni successivi, il 23 ottobre 1922, nel consiglio provinciale di Cuneo, l'on. Giolitti aveva dichiarato che "... il fascismo doveva prendere quel posto al quale il numero dei suoi aderenti gli dà diritto". In questo suo concetto, era già implicita una designazione, un avallo. Per come poi andò a finire, lo abbiamo già letto nelle precedenti puntate.

Il Senato votò infatti i pieni poteri all'unanimità e la Camera con 175 voti contro 90 contrari.
Mussolini, governò, in quel breve scorcio del 1922 e per tutto il successivo 1923, con crescente e generale successo: cominciò a mettere in atto alcuni dei principali punti del programma giolittiano: avviò il bilancio al pareggio, restaurò la disciplina nella burocrazia e cominciò lo sfollamento dei pubblici uffici.

Come abbiamo già ricordato, nell'aprile del 1923, dopo il congresso di Torino, i popolari uscirono dal governo. O meglio, essi (ovvero don Sturzo) a quel congresso (pur avendo due popolari al governo, che Mussolini aveva scelto per le loro capacità e non per l'appartenenza) vollero definire la loro collaborazione ( tiepida ma anche vaga, "condizionata"): Mussolini, che chiedeva adesioni totali e senza riserve, quel "condizionato" non gli piaceva proprio, preferì rinunciare al loro concorso; e sapeva quel che faceva.

Infatti, i popolari erano profondamente divisi, fino al punto da dissociarsi dal prete siciliano, e pubblicare un manifesto di completo consenso al governo Mussolini, spaccarsi e creare un proprio gruppo: i "Cattolici nazionali".

A dare una mano a Mussolini, si aggiunse il Vaticano, che non solo provvide a mantenere rigorosamente estranea l'Azione cattolica dal movimento politico, ma arrivò a manifestazioni e atti di scontento per la parte che un sacerdote, don Sturzo, prendeva alla lotta politica.
Era evidente che il Vaticano non approvava la marcia strategica del partito popolare verso sinistra (se Mussolini lo aveva definito il "prete sinistro", possiamo pensare come lo definivano oltretevere).

Il "Corriere d'Italia", organo di stampa cattolico, fu ancora più chiaro quando pubblicò un articolo (25 giugno) in cui si invitava don Sturzo a "non creare impicci all'autorità ecclesiastica".
Pochi giorni dopo (10 luglio) con la posizione nello stesso ambiente cattolico nei confronti del segretario del partito, divenuta insostenibile, Don Sturzo si dimise (o fu fatto dimettere, come dirà poi lui in seguito) da segretario del PPI.

Uno dei motivi principali delle ostilità di don Sturzo verso Mussolini (oltre che una diversa concezione dell'etica) era la sua riforma elettorale presentata da Acerbo; il prete sosteneva a spada tratta il sistema proporzionale, ed era convinto che senza l'appoggio dei popolari (forte di un centinaio di deputati) il sistema maggioritario con il premio di maggioranza alla Camera non sarebbe passato.
Ma il partito non poteva tener conto anche della volontà della Chiesa di "non volere rimanere coinvolta in una disputa col fascismo e col suo capo".
A questo punto Mussolini ottenuta la neutralità delle gerarchie ecclesiastiche, giudicò che nei confronti dei popolari era possibile attuare la cosiddetta "tattica del carciofo", che si mangia una foglia alla volta.
Iniziando gli attacchi verbali e quelli (feroci) scritti nel '22 (vedi articolo "Noi e il Partito Popolare") Mussolini aveva iniziato la sua opera di lenta erosione, ma sicura, togliendo ai Popolari molta della loro forza; fino a giungere -come abbiamo accennato- di far prima spaccare il partito, poi a far mettere da parte il capo storico del PPI (il Vaticano sembrò proprio soddisfatto "..così non si creano eccessivi imbarazzi alla Santa Sede" -
(Mons. Pucci, sul Corriere d'Italia, del 25 giugno)
Il successo dell'operazione a Mussolini gli riuscì in pieno; la lacerazione del partito fu definitiva, e lui, anche con l'appoggio dei cattolici, va a creare quel meccanismo elettorale "legale" che consentirà il definitivo affermarsi della dittatura (come vedremo più avanti, sull'Aventino, rimase solo una piccola minoranza dei Popolari, gli altri andarono a Canossa)

LA RIFORMA ELETTORALE

Fu un anno di tranquillità e di ottimismo, quel 1923. Per Vittorio Emanuele III fu un anno di gioie familiari: la sua prima figliola, Jolanda, andò sposa al conte Carlo Calvi di Bergolo, un gentiluomo piemontese la cui famiglia si era già imparentata con la casa reale di Danimarca. Un matrimonio d'amore che venne circondato da ogni tenerezza familiare: tuttavia, coloro che avevano arricciato il naso quando l'umile principessa montenegrina (Elena) aveva sposato l'erede al trono d'Italia, fremettero di sdegno all'annuncio della inaudita mésalliance tra la figlia del re d'Italia e un nobiluccio slavo che aveva a mala pena un secolo di blasone.
Ma lo storico già appunta lo sguardo su quello che fu il più importante avvenimento politico dell'anno: la riforma elettorale.
Che l'opinione pubblica se la prendesse col sistema proporzionale, era ovvio. Che da ogni parte si invocasse un sistema dal quale uscisse una solida maggioranza parlamentare, era logico. Che i fascisti cercassero di assicurarsi, per le prossime elezioni, una posizione di decisivo vantaggio, era comprensibile.
Non è tuttavia comprensibile che uomini come Giolitti, Orlando, Salandra recassero la loro collaborazione e adesione ad una riforma elettorale che consisteva nell'attribuire due terzi dei seggi della Camera alla lista che avesse ottenuto almeno il 35 per cento dei voti validi.

In altri termini, se gli elettori iscritti erano 12 milioni e i votanti il 60 per cento, due milioni e mezzo di elettori potevano conquistare 356 seggi, mentre quattro milioni e mezzo avrebbero dovuto contentarsi di 180 posti. Questa era la "legge Acerbo" !!

Chi si oppose a questa riforma? I comunisti, i socialisti, i popolari, che avevano seguito don Sturzo nella sua intransigenza, Nitti e i suoi amici, qualche democratico isolato come Amendola e un solo giolittiano, il venerando Cocco Ortu. Amendola disse anche qualcosa di più: "Di fronte alla nuova maggioranza ministeriale, la corona dovrebbe limitarsi ad una funzione araldica".
Lui poi morirà per le percosse ricevute da una "squadraccia", e suo figlio più tardi sarà fra quelli che dirà che il Re avrebbe dovuto imporsi, cacciare e fare arrestare Mussolini. (lo fece 20 anni dopo !!)

Centotrentacinque furono i liberali e i democratici che all'inizio del 1924 accettarono di far parte della lista nazionale insieme ai fascisti di Mussolini: fra i quali, Orlando, De Nicola, Porzio, Salandra, Scialoia, Paratore, Fera, De Nava, Beneduce. De Nicola ritirò la sua candidatura, ma solo perché i socialisti avevano chiesto il contraddittorio in un suo comizio. Le urne dettero il sessantacinque per cento alla lista nazionale (il famoso "listone", ovvero "Lista Nazionale"). La minoranza si suddivideva in sessantacinque socialisti, trentanove popolari, in undici demosociali e in dodici costituzionali di opposizione.

Le elezioni si erano svolte il 6 aprile in un clima di tensione. Alcuni "ras" provinciali, organizzarono comizi "bollenti"; le schede fac-simile, sollecitavano in una direzione; e quel nome "Lista Nazionale" era accattivante non solo alla massa.


Il famoso "listone"


Con diritto al voto i cittadini erano 12.067.275. Votarono 7.614.451, validi 7.165.000. Il listone dei fascisti ottiene il 64,9 % dei voti (4.650.000) le opposizioni il 35,1 % (2.511.000). Con un distinguo territoriale però, al Nord gli oppositori (più proletari a ovest, più cattolici a est) ottennero più consensi dei fascisti. 1.317.117 di voti contro 1.194.829.
Tuttavia con i premi di maggioranza della "legge Acerbo" entrata in vigore, i seggi del listone fascista furono alla fine 356 contro i 161 dell'opposizione.

Poche settimane dopo questo trionfo, mentre la Camera discuteva l'indirizzo di risposta al messaggio della corona, il segretario politico del partito socialista unitario, on. MATTEOTTI , pronunciò un severo discorso sulle illegalità delle operazioni elettorali.
Fu un atto consapevole di sfida, rivolto a screditare le pretese di rispettabilità e di "normalizzazione" di Mussolini. Mirava inoltre ad impedire che i capi della CGL arrivassero a un accordo con i fascisti.
Volarono insulti, minacce, grida. Matteotti chiese di invalidare le elezioni perche "inficiate dalla violenza e dalle intimidazioni".

Ma con il voto si palesa per la prima volta la netta solidarietà della maggioranza al fascismo. La proposta viene respinta con 285 no, 57 sì, e 42 astenuti (poi il 7, alla fiducia al governo, la vittoria fu ancora più netta: 361 sì e 107 no).

Matteotti attese in piedi l'esito della prima votazione. Appreso poi il risultato -e pensando a cosa aveva detto - si rivolse agli amici sorridendo dicendo profeticamente: "Io il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me".

Mussolini l'aveva ascoltato, in silenzio, accigliato, perfino infastidito da quella aggressiva requisitoria; ma quando un deputato (Facchinetti) criticò l'amnistia che era stata concessa ai disertori della Grande Guerra (alludendo ai socialisti) e Matteotti gli rispose che anche il Popolo d'Italia l'aveva approvata, Mussolini scattò in piedi e insorse a smentire.
Nulla da fare, Matteotti, documentato e implacabile gli ricordò parola per parola cosa aveva scritto e quando l'aveva scritta, dove l'aveva scritta.
Scrive Giorgio Amendola, nel suo libro "Una scelta di vita": "Colsi, a un certo punto, uno scatto di Mussolini, come se dicesse ai suoi -ora basta, non si può continuare così!" E ho sempre creduto che sia maturata in quel momento la decisione di dare a Matteotti una "buona lezione".

Matteotti - tre giorni dopo - scomparve dalla circolazione il 10 giugno. Ci si allarmò. Dopo due giorni non si sapeva ancora nulla. Alla Camera si chiese a gran voce chiarimenti. Mussolini non interveniva. Qualcuno (Chiesa) gridò "Allora è complice!". Ci si indignò per la frase, poi si fece marcia indietro, tuttavia si chiesero spiegazioni al capo del Governo.

E' ormai accertato che, dopo il violento discorso del deputato socialista, Mussolini ebbe a domandare ai suoi intimi "perché non glielo avessero ancora tolto dai piedi". Come era
accaduto per l'on. Misuri, un deputato fascista che l'anno prima aveva pronunciato una severa requisitoria contro gli illegalismi del suo partito, ed era stato prima duramente malmenato, poi espulso dal partito. Lo sfogo a caldo del Presidente del Consiglio parve un ordine; e qualcuno dei "ras" che voleva forse emergere, fece troppo lo zelante; interpretò così il suo desiderio di "dare una lezione" al deputato socialista; ma poi calcando la mano, si trovò fra le mani uno scomodo morto (vedi nelle prossime pagine la confessione di Dumini, al processo)

Matteotti non era uno dei soliti timidi democratici, era audace: probabilmente oppose tale resistenza ai suoi rapitori che essi persero la testa, reagirono, finirono per ammazzarlo e ne occultarono il cadavere. Le ricerche si protrassero per settimane. Lo scandalo dilagò. I principali esponenti del partito furono direttamente o indirettamente coinvolti e il sospetto investì lo stesso presidente del consiglio.

Con una subitaneità prodigiosa, l'opinione pubblica si capovolse: l'atmosfera di generale consenso si trasformò in un clima di perplessità e di timore nel quale echeggiavano solo le ostili voci della minoranza.
Oltre le manifestazioni spontanee, si assistette a una fuga generale dal fascismo; presero le distanze molti politici che lo avevano appoggiato nel listone. Alcuni generali e il gruppo degli ex combattenti espressero sentimenti di condanna. Gli industriali s'interrogarono e fecero sapere:  "abbiamo un profondo disagio nella nostra coscienza".

Alcune compagini alleate cominciarono ad avere dei dubbi. GIOLITTI uscì dalla maggioranza. GRAMSCI propose uno sciopero nazionale, poi per paura di fare brutta figura, o per evitare scontri di piazza con le squadre fasciste, lo annullò.

Per il fascismo é vicina la disgrazia politica, molti fascisti si tolgono il distintivo, non rispondono nemmeno all'appello alcuni ufficiali della Milizia, e il partito va incontro a una lacerazione interna tra gli estremisti e la corrente più cauta, quella legalitaria, che é sconvolta.
Intorno a Mussolini si va sempre di più creando un vuoto. Si chiedevano le dimissioni del governo, lo scioglimento della milizia, nuove elezioni generali.

Riapertosi il parlamento, si attese l'opinione del Senato: il nuovo sistema elettorale alle elezioni aveva creato nella Camera dei deputati una tale situazione di maggioranza, che solo la Camera Alta poteva mettere il governo in minoranza.

Il senatore Albertini, direttore del Corriere della Sera, dal suo foglio pronunciò un nobile e severo discorso, che terminava "...la cosa più saggia che può fare Mussolini è di dare le dimissioni" ( l'anno dopo i due fratelli Albertini perderanno sia la direzione che la proprietà del giornale).

Ma "al dunque" solo una ventina di senatori votarono contro il governo: 225 SÌ a favore, 21 contrari e 6 astenuti). Spiccava nella schiacciante maggioranza anche il voto di Benedetto Croce.

Non fu un voto dato a caso. Il filosofo idealista ebbe il coraggio e la onestà di spiegare chiaramente il significato del suo consenso in una intervista poi concessa al Giornale d'Italia il 9 luglio di quell'anno. In essa, Croce manifestava il suo orrore per l'assassinio di Matteotti e per gli altri tragici illegalismi, ma aggiungeva: "Voi sapete che io ho sempre sostenuto che il movimento fascistico fosse sterile di nuove istituzioni, incapace di plasmare, come i suoi pubblicisti vantavano, un nuovo tipo di Stato. Perciò esso non poteva, e non doveva essere altro, a mio parere, che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte. Doveva rinunciare a inaugurare una nuova epoca storica, conforme ai suoi vanti; ma poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana, cogliendo, per merito dei già combattenti, il miglior frutto della guerra"

L'AVENTINO

"Non si poteva aspettare -concludeva Benedetto Croce- e neppure desiderare, che il fascismo cadesse di un tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione. Sicché per una parte c'è, ora, nello spirito pubblico, il desiderio di non lasciar disperdere i benefici del fascismo, e di non ritornare alla fiacchezza e all'inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall'altro c'è il sentimento che gli interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e non benefici, sono pure una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi sopra"

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Si tenga presente un fatto di capitalissima importanza. Quando Croce concedeva questa intervista, i liberali più qualificati d'Italia e venti rappresentanti della Confindustria
erano intervenuti per rafforzare la posizione politica di Mussolini.
Lungi dall'invocare le dimissioni dei ministri non fascisti, ben quattro personalità liberali - il senatore Casati e i deputati Sarocchi, De Nava e Di Scalea, erano entrati a far parte del governo. Dal canto suo Mussolini aveva abbandonato l'interim del ministero dell'interno, che era stato assunto dal nazionalista Federzoni, uomo in odore di legalità e di conformismo parlamentaristico (ma anche con qualche ambizione di troppo).

L'opposizione decise di astenersi dal partecipare ai lavori della Camera dei deputati, e cominciò con questo atto la cosiddetta secessione dell'Aventino. Solo Giolitti e i suoi amici rifiutarono di aderire all'Aventino. E in un secondo tempo, anche i comunisti ritornarono nell'aula.

A che cosa si riduceva l'opposizione aventiniana? Ad una maggioranza di socialcomunisti e ad una minoranza di popolari con l'aggiunta di qualche democratico. L'azione rivoluzionaria contro il fascismo non avrebbe quindi potuto non assumere un carattere socialcomunista: nel movimento di piazza, i popolari si sarebbero dispersi; comunque, non era su di loro che il regime monarchico costituzionale poteva fare assegnamento.
Gli orrori della guerra civile avrebbero rapidamente cancellato il ricordo di Matteotti. Il pericolo socialcomunista avrebbe -semmai- dato nuova forza e nuova giustificazione al movimento fascista, facendo convergere verso di esso tutte le correnti reazionarie. Perfino i cattolici avrebbero spinto altri cattolici verso i lidi di destra.

Ma spaccando la Camera in due, privando il parlamento della necessaria funzione dell'opposizione, istituendo una controcamera, si apriva una insanabile crisi costituzionale. Gli aventiniani sapevano che questa crisi non poteva in alcun modo sboccare in una crisi parlamentare, a meno che la maggioranza non si fosse scissa. Dunque, era fatale l'intervento della corona.

Che cosa sarebbe accaduto se il re si fosse lasciato cogliere in questa impasse? Qui bisogna guardare non agli "immortali principi", ma alle concrete forze politiche dello schieramento.
Per la monarchia costituzionale, la situazione, rispetto all'ottobre 1922, era notevolmente aggravata. Le libertà democratiche che erano andate sviluppandosi dal 1848 attraverso il moto del Risorgimento, e di cui la monarchia era promotrice e custode, su quali gruppi potevano fondarsi? Sui liberali certamente; sulla democrazia, senza dubbio.
Ma potevano sperare di essere intese e difese dai fascisti, che erano colmi di giovani barbari scesi dalle province, presuntuosi e confusionari?

Potevano ricevere nuova vita dai popolari, che non avevano, e non potevano di certo avere, il minimo attaccamento per i miti del Risorgimento e per le ideologie derivate dalla rivoluzione francese?
Potevano sperare qualcosa dai socialisti che, sotto il pungolo comunista, avevano abbandonato la sirena giolittiana, per ritornare ad una maggiore ortodossia marxista?
Potevano sperare altro che la morte dai comunisti?

UNA CONGIURA RIENTRATA

Il computo numerico era ancor più scoraggiante. Il suffragio universale aveva ridotto il partito liberale ad una esigua minoranza. La democrazia, priva di un grande seguito, si era già da tempo frazionata in giolittiani, nittiani, democratici sociali, riformisti, radicali e via dicendo. Dunque, l'intervento del re, disperdendo la maggioranza parlamentare, si sarebbe risolto in un sovrano avallo ad una opposizione dominata dai socialcomunisti.
Un re di debole carattere, un re facilmente impressionabile, si sarebbe avvalso dello statuto, che stricto jure, gli riservava il diritto di congedare i suoi ministri. Dopo di che avrebbe dovuto assumersi la responsabilità diretta della situazione, a mezzo di un governo militare che avrebbe determinata una inevitabile soluzione rivoluzionaria e repubblicana, o avrebbe fatto appello ad un Giolitti o ad un Salandra che questa volta sarebbero stati i Kerenski della situazione.

Il re vide i capi delle opposizioni: vide Turati, vide Amendola. Turati, nell'esilio, narrò a Saragat che il re gli disse: "Invidio lei che ha un'opinione. Io non ho il diritto di averne". Si ricolleghi questa frase, a quella che gli uscì a Peschiera, quando Lloyd George deplorò che il governo italiano non avesse appoggiato la sua proposta di un concentramento di forze alleate sul Carso.
Fu tuttavia Vittorio Emanuele che dette un buon consiglio ai capi dell'opposizione: "Provocate le dimissioni di Mussolini -egli disse - ed io risolverò la situazione".

Un consiglio da uomo politico, da profondo conoscitore degli uomini, dei movimenti e dei costumi. Infatti, la cosa non era impossibile. Se i ministri liberali si fossero improvvisamente dimessi, Mussolini, che da qualche tempo cercava di mostrarsi ossequiante della legalità, avrebbe forse presentate le dimissioni dal governo, per ottenere naturalmente il reincarico: e solo in sede di crisi, il re avrebbe potuto affrontare a suo agio il problema dell'Aventino.

Non era, questo, un mero espediente formale: l'intervento diretto e autoritario del sovrano, avrebbe disperso non solo tutte le conquiste del parlamentarismo, ma avrebbe umiliato il parlamento; mentre la via indicata da Vittorio Emanuele avrebbe mantenuta la crisi sul terreno parlamentare. Ma è chiaro che una soluzione del genere richiedeva o forza o abilità.
La forza non c'era e l'abilità fu assente.

Naturalmente, i liberali e i democratici della maggioranza sentivano più degli altri l'anormalità della situazione parlamentare, e si rendevano conto che bisognava arrivare ad una soluzione. Le trattative, condotte con non sappiamo quanta discrezione, arrivarono alla conclusione. Verso la fine dell'anno, in un drammatico consiglio dei ministri, un gruppo di ministri affrontò Mussolini; erano Casati, Sarocchi, De Nava, Di Scalea, Oviglio, con qualche consenso di Federzoni.
I "congiurati" dichiararono al presidente del consiglio che la situazione era ormai insostenibile e che si imponeva un gesto chiarificatore. Essi ritenevano che fosse necessario dimettersi, per consentire ad un governo di transizione composto di amici fidati e presieduto, per esempio, da Salandra; di compiere una larga epurazione, punendo certi eccessi, sanando talune situazioni, ripristinando, col ritorno dell'Aventino, la normalità parlamentare.
Dopo, in un secondo tempo, Mussolini sarebbe ritornato al potere. I congiurati dipinsero così bene il quadro, che Mussolini parve perfino convinto ad agire così.

Disse, ad un certo punto, che si sarebbe ritirato per qualche tempo in Romagna. Qui, uno dei presenti, sembra che sia stato Federzoni, fece una gaffe, e gli consigliò di fare un viaggio all'estero. Mussolini capì tutto. Volevano la sua testa. Egli non era Giolitti che poté, al tempo della Banca Romana, serenamente andarsene in Germania, sicuro delle mille solidarietà della società borghese dalla quale derivava. Mussolini era il figlio del fabbro di Predappio, il transfuga socialista, che aveva già conosciuto la prigione e l'esilio.
Il giorno dopo le dimissioni, egli sarebbe rimasto solo: su quali aiuti, su quali solidarietà, poteva contare all'estero? Egli capì che la borghesia liberale e democratica, dopo essersi servita di lui per azioni che ripugnavano alla sua pigrizia e alla sua mancanza di coraggio, voleva metterlo alla prova, si irrigidì e congedò i ministri.

Federzoni fece pronta ammenda, capì che Mussolini preferiva combattere. E l'estremismo fascista non aspettava che quello. Il 4 settembre, il giornale fascista "L'Impero", presentò una vignetta che mostrava un gruppo di fascisti con le mani incantenate, con sopra la scritta: "Duce, scioglieteci le mani".

L'irruente Farinacci l'11 ottobre fu lapidario "O abbattere le opposizioni, o abbattere il fascismo". "Cremona Nuova" il 31 dicembre fu ancora più esplicito "La parola di Capodanno: mettere il manganello a portata di mano".
Insomma sempre più forti le pressioni dell'estremismo fascista che insiste per fare "piazza pulita" di ogni opposizione.
Pressioni fino quasi al ricatto "o con noi o contro di noi", e un tono da ultimatum quello di Curzio Malaparte
sull "Impero" il 31 dicembre: ricorda al suo capo che il suo mandato gli viene dalle "province fasciste" e che "non deve credere di salvarsi sacrificando i fascisti", e concludeva "o tutti in galera o nessuno".

Quella "forza bruta",
che Mussolini aveva creato e utilizzato per l'ascesa,
gli fece capire che se lui voleva disfarsi di loro, la cosa non gli sarebbe proprio riuscita, e che c'erano altri (anche se incapaci) pronti ad occupare il suo posto. La piazza? Ci avrebbero pensato loro. I capi dell'Aventino? "fucilarli", e insistono. "O sei con noi o contro di noi".
"
"O rompi gli indugi, e noi ti siamo accanto, o tutti in prigione, compreso voi, che però ci resterete per sempre. Ti sconfesseremo con un gesto clamoroso, ci consegneremo tutti all'autorità giudiziaria per dimostrare solidarietà ai nostri colleghi esecutori del delitto, ma ci dissoceremo dal mandante, che ormai tutti lo sanno, siete stato voi".
Aria di rivolta insomma.

Ed in effetti il 31 dicembre (il 27 Il Mondo, aveva iniziato a pubblicare i primi estratti del "memoriale" accusatorio di Cesare Rossi) sono attaccati le sedi di vari partiti, e a Firenze confluiscono squadristi armati da tutta la regione. A farne subito le spese Il Nuovo Giornale, devastato e incendiato.
Il giorno prima, il 30, in sede di Consiglio dei ministri, fu ancora avanzata la proposta che l'intero governo rassegnasse le dimissioni. Ma l'iniziativa non passò.
Il momento è dunque drammatico. Pìù per Mussolini, che non per il fascismo. Ma drammatico anche per il Paese che potrebbe trovarsi da un momento all'altro dentro una guerra civile.

Il 3 gennaio 1925, preannunciando "Importanti misure necessarie per la tutela morale e materiale del Paese, per riportarlo alla legalita'", alla Camera, Mussolini pose sul tavolo la carta insanguinata del socialista Matteotti, assassinato dai fascisti, accanto alla carta non meno insanguinata del fascista Casalini, assassinato dai socialcomunisti per vendicare Matteotti.
Giocò tranquillamente la testa, dichiarando che assumeva personalmente tutta la responsabilità della situazione: "Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto... Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere".

Giudica l'Aventino
"il risveglio sovversivo".... "Allora viene il momento in cui si dice: basta!"...Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza". ...Tuttavia non sarà necessario scatenare la forza, perché il governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino..."

Rivendica gli sforzi compiuti in funzione di una effettiva "normalizzazione" e per reprimere ogni illegalismo, compreso quello fascista; e assicura che
"nelle quarantotto ore successive la situazione sarà chiarita su tutta l'area".


Il momento psicologico era critico. Milioni di persone avevano da sei mesi il fiato sospeso. Alcuni erano in attesa della riscossa socialcomunista. Scrive Nenni, in "Vent'anni di Fascismo":
"Nell'atmosfera creata dall'affaire, i partiti d'opposizione ritrovavano credito e seguito; ogni giornale ritrovava i suoi lettori. L'Avanti! non sapeva più come far fronte alle richieste dei giornalai; c'erano province dove il giornale non era venduto da due anni e dove di colpo ricuperava la vecchia affezionata clientela del 1919. Ogni giorno edizioni speciali, ogni giorno una folla emozionata e indignata si contendeva i giornali freschi di stampa . Tutto tornava in discussione. La Galleria a Milano, e Piazza Colonna a Roma erano trasfomati in fori permanenti. L'Aventino non avanzava. Il dialogo fra Corona e opposizione non c'era. Le masse in una posizione d'attesa dapprima fiduciosa, di giorno in giorno appariva sempre più sfiduciata"
.

C'era, insomma - dopo sei mesi, una grande stanchezza nel Paese.
Qualche giornale scriveva che il Paese era contro Mussolini. E lui rispondeva a corte "ho il Senato con me".... "....E se qualcuno è contro di me è anche contro la monarchia. Il Paese è socialista e repubblicano. Se me ne vado io e se i fascisti esasperati si buttano anch'essi in una avventura bolscevica, che resterà in piedi dell'impalcatura monarchica?" (fece atterrire la corte sabauda!)

E gli Aventiniani cosa hanno fatto? Solo un "bel gesto", una protesta morale, più che politica, privo di scopi e di obiettivi concreti. Una posizione di principio moralmente ineccepibili, ma astratta. Piansero e si stracciarono le vesti all'inizio, dicendo che il governo fascista stava calpestando le leggi fondamentali dello Stato, affermavano che bisognava invadere la Camera e fare arrestare Mussolini e tutti i suoi sgherri.
Ma nessuno si muoveva. Si appellarono ai regolamenti, alle formalità, ai cavilli. Chiesero l'intervento del Re, ma lui che non era mai stato un uomo energico, difficilmente poteva esserlo ora; lui -come già detto sopra- il consiglio ai "capi dell'opposizione" l'aveva già dato: "Provocate le dimissioni di Mussolini ed io risolverò la situazione". Ma all'Aventino mancava l'azione.

Inoltre all'Aventino non c'era tutta l'opposizione, e la stessa, oltre che mancare di unità, non aveva coraggio, fece solo proclami (che rari giornali pubblicarono, non sapendo ancora chi sarebbe uscito vincitore); fecero tante chiacchiere, creando lacerazioni interne, e poi, molti, moltissimi, uno alla volta scesero dall'Aventino e montarono sul carro del vincitore per non perdere la carica di deputato; mettendosi a fianco dei più intransigenti fascisti antimussoliniani, quelli che speravano di scalzare il capo con una spallata; che era ingrata, perchè Mussolini molti di loro li aveva fatti eleggere pur essendo degli inetti, dei piccoli arroganti ras di provincia.
Tuttavia la posizione di Mussolini rimaneva molto molto critica.

Ma allora come fece Mussolini a ribaltare questa situazione così difficile, che stava facendo perdere terreno al suo governo, stava rischiando di far naufragare tutto il fascismo, e lui stesso, impietosamente attaccato dalla stampa, stava perdendo prestigio, mentre l'opposizione infittiva i suoi ranghi?

Mussolini fu abile e diabolico. Fece una mossa da grande giocatore, mettendo in stallo (e in sgomento) i deputati dell'opposizione (Aventininiani o no) e i suoi stessi (ribelli) parlamentari, che a lui tutto dovevano se erano lì alla Camera come Deputati, o occupavano importanti cariche.

Mussolini accettava sì le dimissioni del governo che molti sollecitavano da più parti; ma accettava alle condizioni di andare subito a nuove elezioni. E fin qui nulla di strano. Il colpo "gobbo" fu quello di presentare negli ultimi giorni di dicembre, un progetto di legge (che se messo ai voti passava subito anche con i voti dei dissidenti, come poi in effetti passò) che prevedeva il ristabilimento del sistema elettorale uninominale.

Questa mossa, così improvvisa, la facciamo chiarire da Renzo De Felice, nella sua "Storia del Fascismo".
« Il suo intento doveva essere stato quello di prepararsi un dono da offrire ai liberali (infatti, sia Giolitti, sia Salandra accolsero favorevolmente la notizia) al tempo stesso un espediente per risolvere, appena l'opinione pubblica si fosse un po' placata, la crisi aventiniana (con nuove elezioni) e falcidiare le opposizioni socialiste, popolari e comuniste, che il sistema nominale avrebbe gravemente svantaggiate.
Se però... si decise a tirar fuori e a presentare il progetto di legge con tanta precipitazione fu dovuto alla volontà... di avere uno strumento per tenere a freno la "palude" dei deputati fascisti che certo non potevano guardare con simpatia a nuove elezioni e per di più con il "sistema uninominale" che, anche per essi, non si sarebbero presentate facili, né rispetto all'elettorato né rispetto alle designazioni dei candidati che, questa volta, Mussolini avrebbe certo voluto controllare più da vicino di quanto non aveva fatto in occasione delle elezioni dell'aprile».


"Un'intimidazione
-
(Qui Petacco, in Storia del Fascismo, Vol. I, pag 374) dunque, rivolta agli aventiniani e un ricatto esercitato sugli elementi della stessa maggioranza che, in una competizione elettorale fondata sul "sistema uninominale", sarebbero in completa balia del governo e, quindi, di Mussolini.
Il colpo raggiunge il segno. Quei deputati della maggioranza che avevano fatto intravedere qualche espressione di insofferenza si affrettano a tornare disciplinatamente nei ranghi. Ora le forze da battere rimangono due: gli aventiniani, che la prospettiva di nuove elezioni con un siffatto sistema spinge ormai a giocare il tutto per tutto, e le frange del fascismo intransigente.
I primi hanno ancora una carta importante da gettare sul tappeto: il Memoriale Rossi che, sebbene circoli da tempo negli ambienti dell'opposizione, non è stato ancora fatto pubblicare. . Ma ormai il momento arrivaquando appaiono i primi estratti dell'esplosivo documento. Le rivelazioni provocano una viva impressione, nonostante il governo fascista si impegni in tentativi allo scopo ben preciso di minimizzarne la portata. Luigi Albertini, sul Corriere della sera, chiede che "Mussolini si dimetta e si ponga a disposizione dell'autorità giudiziaria".


La proposta - lo abbiamo accennato già sopra- che l'intero governo rassegni le dimissioni fu avanzata il 30 dicembre, in sede di Consiglio dei ministri, da Casati e Sarrocchi. L'idea è probabilmente condivisa anche da alcuni ministri fascisti: De Stefani, Oviglio e FEDERZONI. Quest'ultimo - stando a quanto racconta Salandra (nelle sue Memorie
) informato dagli stessi Casati e Sarrocchi, d'accordo la mattina, cambia parere nel pomeriggio. Teme forse di esporsi, dal momento che... da più parti è indicato come un possibile successore di Mussolini (!!). Contro le dimissioni si pronunciano invece i due militari del governo, Di Giorgio - ministro della Guerra - e Thaon de Revel - ministro della Marina. Nel determinare il loro rifiuto gioca probabilmente il timore che Mussolini sia costretto a ricorrere alla Milizia creando così i presupposti per uno scontro armato. Ecco perché -anche per questi motivi- l'iniziativa di chiedere le dimissioni del gabinetto non passa.

Ma la minaccia di Mussolini resta. La nuova legge elettorale l'ha presentata personalmente alla Camera prima del discorso del 3 gennaio. Lui potrebbe ora salire al Quirinale, rassegnare al Re le dimissioni, chiedere le elezioni, e a quel punto mandare a casa i nemici all'esterno e anche quelli all'interno (i ras di provincia che si agitano troppo, ambiziosi, già pronti ad abbatterlo e sostituirsi a lui).
Quando Mussolini si presenta alla Camera il 3 gennaio, sfodera tutta la sua tattica con un'alta strategia. Prendendo la parola, inizia col dichiarare di non voler chiedere un voto di fiducia, né un voto politico; aggiungendo "in passato ne ho avuti anche troppi". Poi nel silenzio generale, inizia il discorso che abbiamo già riportato sopra.
Una sfida, la sfida definitiva; ma nessuno si è sentito di raccoglierla, né all'interno dell'aula, né fuori dall'aula, e nemmeno tra i secessionisti dell'Aventino.
Al termine del suo intervento, non ci fu discussione, non ci fu voto, e la seduta fu sospesa.

Cominciava così in quel 3 gennaio la dittatura personale di Mussolini. Inizia il regime.
Ma Mussolini non fa tutto da solo, né ha deciso lui solo la nascita del regime fascista; c'è invece una pubblica accettazione.

C'è una parte del vecchio Stato, l'appoggio degli industriali, i nuovi ceti sociali, i militari, i cattolici, la monarchia; ed infine le masse, il "popolo" che fa numero e "consenso".
Del resto basta leggere, gli attestati, le approvazioni, i sostanziali appoggi che alla politica mussoliniana giunsero poi da tutti i settori, e proseguirono per anni.

Facciamo notare che la "sua" legge uninominale, fu poi approvata dalla Camera 14 giorni dopo; con 307 voti a favore (!!!) e solo 33 contro. Ma la legge non verrà mai utilizzata. Di elezioni fino al 1929 non se ne parlerà più; e non si chiameranno più "elezioni", perché fu introdotto il "plebiscito".

Qui ora possiamo già un po' anticipare, i suoi 12 anni di cammino con a fianco il Re.

GLI ANNI DI "FUNZIONE ARALDICA" DEL RE
Cosa aveva detto Amendola? "
"Di fronte alla nuova maggioranza ministeriale, la corona dovrebbe limitarsi ad una funzione araldica".
Il Re lo prese in parola; poi si lamentarono!

Dal 1925 al 1936 trascorrono dodici anni durante i quali la monarchia è ridotta, secondo Giovanni Amendola, ad una semplice "funzione araldica". In questo senso, rispetto al "maggio radioso", a Peschiera dopo Caporetto, alla "Marcia su Roma": non accade nulla di comparabile all'Aventino, che ponga il re in condizione di intervenire.
Nei primi anni di questo periodo, Mussolini compie gli atti più gravi dal punto di vista della limitazione e della soppressione delle libertà civili: il regolamento dell'editto della stampa viene applicato con ogni rigore, fino a costringere gli editori a uniformarsi, per la nomina dei direttori, alle designazioni di Mussolini; ed alcuni saranno costretti a vendere la proprietà; il governo procede allo scioglimento dei partiti politici; la Camera vota la decadenza dei deputati aventiniani; vengono soppresse le autonomie locali; l'autorità del partito fascista viene estesa capillarmente fino a penetrare in ogni recesso della vita pubblica e privata.
Sì arriverà, grado a grado, al momento in cui la tessera di iscrizione al P.N.F. sarà come un certificato di abilitazione alla vita civile: privi di questo documento, nessun impiego, nessuna carriera, nessuna attività regolarmente stipendiata e sindacalmente tutelata sarà possibile.

Certo, ognuno di questi atti avrebbe offerto al re una ragione valida per intervenire e per richiamare il presidente del consiglio all'osservanza delle libertà statutarie. Coloro che, ormai, già ritenevano il re reponsabile della situazione, per non avere agito di sua iniziativa
, in sostituzione della deficiente classe dirigente, posero grandi speranze nella situazione internazionale. Pareva impossibile che un'Inghilterra in cui il laborismo assumeva per la prima volta il potere, una Germania che si immergeva nel più schietto socialismo democratico, una Francia sempre più permeata di radicalismo, un'America democratica, potessero dar credito a Mussolini. Senonché, nessuno di questi Paesi, in sostanza, ritenne intrattabile il nostro per il solo fatto che in esso un regime di polizia aveva soppresso i partiti di opposizione.

Questo perchè il mondo attraversava un periodo psicologico molto propizio alle avventure mussoliniane. Gli eccessi del bolscevismo in Ungheria, le sanguinose insurrezioni di Vienna e di Berlino, la profonda penetrazione del comunismo in Italia e in Francia, avevano destato grande preoccupazione nella borghesia capitalista: questa era ancora solidamente assisa nel Paesi anglosassoni e nell'Europa nordica, ma appariva evidente che gli Stati liberali, democratici e socialisti sorti sulle rovine degli Imperi Centrali, erano apertissimi all'influenza comunista.

L'Inghilterra, che manteneva sul continente europeo un notevole predominio, era fortemente interessata al sorgere di solidi regimi anticomunisti che avessero elevata una barriera contro le ondate rosse che venivano dall'oriente.
Era fatale che Londra e Washington vedessero con molta maggiore simpatia la dittatura di Mussolini, che non gli effimeri governi liberaldemocratici, che ripetevano ingenuamente il tentativo di ripristinare la società dell'anteguerra, oppure guardavano altrettanto ingenuamente al bolscevismo russo.

Queste simpatie, accompagnate da un coro di approvazioni giornalistiche, spesso ditirambiche, si tradussero in concreti vantaggi, come il regolamento dei debiti di guerra, qualche sostanzioso prestito per la difesa della nostra moneta, e la sistemazione delle questioni del Dodecanneso e dell'Oltregiuba.

Infine, a questi successi sul piano internazionale, se ne aggiunse uno più d'ogni altro clamoroso, e fu (gli approcci iniziano già in questa metà degli anni Venti) il Trattato del Laterano e il Concordato con la Santa Sede. (Ne parleremo ampiamente nel 1929 - Nda).
Su questa materia, il senatore Croce pronunciò un discorso di opposizione in cui affermò che i rapporti tra la Chiesa e lo Stato erano regolati dalla legge delle Guarentigie e che nulla si poteva fare per dare ai rapporti tra le due parti una base più conveniente.

E' opportuno, tuttavia, riconoscere, per dovere di obbiettività, che la ragione di maggiore doglianza dei laici - gli effetti civili del matrimonio religioso - non ha molto fondamento, quando si consideri che gli stessi effetti vennero riconosciuti in altri concordati stipulati, nel dopoguerra, da Paesi molto meno cattolici del nostro.

Mussolini faceva un colpo decisivo, assicurandosi l'adesione del mondo cattolico e conquistando al suo regime una solida base. Del resto, egli non risolse la vecchia Questione Romana per iniziare un idillio col clero. Immediatamente egli provvide ad arginare l'Azione cattolica, nella quale ravvisò subito l'unica organizzazione, in regime totalitario, capace di trasformarsi in partito politico, o di alimentare un partito di massa, nel caso che il partito fascista fosse crollato (E aveva ragione! nel dopoguerra, la Democrazia Cristiana, proprio grazie alla Chiesa, divenne il più grosso partito di massa, appoggiandosi alle 26.000 parrocchie).

Dopo un periodo di grave tensione, i rapporti tra Stato e Chiesa raggiunsero un certo equilibrio, soprattutto dopo la morte di Pio XI, mantenendo lo Stato una rigorosa supremazia nella sfera che gli era propria: i vescovi e gli arcivescovi divennero i fautori e i difensori dell'ordine costituito e, nel corso del conflitto con l'Etiopia, il loro atteggiamento patriottico non dette luogo ad equivoci. I problemi semmai vennero dopo.

Che la dittatura di Mussolini avrebbe, in definitiva, condotto il Paese ad una catastrofe, era evidente, ma solo agli esperti di cose politiche ed economiche. Il punto di vista dal quale il suo regime era criticabile, non andava chiesto ai liberali storici, ai democratici di varie tinte e ai socialdemocratici. Mussolini era soprattutto un uomo privo di vere qualità politiche; non era certamente un uomo di Stato. Gli mancava, principalmente, quella freddezza nei giudizi, quel dominio delle passioni e dei sentimenti, quel minimo di cinismo, quella attitudine a sdrammatizzare le situazioni che erano gli aspetti salienti della personalità di Giolitti e di Vittorio Emanuele III.

Egli credeva che per dominare la stampa fosse necessario un severo apparato poliziesco, e un sistema di controllo che andava dalla nomina dei direttori alla orchestrazione quotidiana dei titoli. Egli credeva che per governare con continuità e per preservarsi dall'azione dei partiti avversi, fosse necessario sciogliere, per mano della polizia i partiti dell'opposizione.
In realtà, egli finiva per occuparsi enormemente delle manifestazioni esteriori della dittatura e trascurava, invece, di assicurarsi saldamente il controllo della vita del Paese.
Si vide, in definitiva, che dopo un ventennio di regime di polizia, egli dominava molto meno di un Giolitti dopo dieci anni di un governo che aveva rispettato scrupolosamente la procedura parlamentare.
Mussolini non è mai uscito dalla tipica mentalità del giornalista e del polemista: alla impulsività ed alla passionalità del polemista, egli aggiungeva il gusto per il successo quotidiano.

La concretezza della dittatura si risolveva per lui nella possibilità di dirigere cento quotidiani, tutti i quotidiani d'Italia: il suo principale nemico era colui che scriveva e pubblicava qualcosa che sminuiva o menomava il suo prestigio. È nel quadro di questa singolare psicosi giornalistica, che si comprende il suo odio per la Francia: come egli aveva ridotto la concretezza del proprio Paese ad una collezione di gazzette, così ridusse la concretezza della Francia ai fogli che lo definivano César de Carnaval (Un Cesare da Carnevale).

Come fu la sua vita dopo l'Aventino? Non facile. Perfino nella salute. Soffrì di un ulcera duodenale. La più grave manifestazione del male la ebbe proprio durante il semestre dell'Aventino.
Pochi giorni dopo il 3 gennaio del 1925, si liberò di molti dell'ala intransigente (con la loro espulsione dal Partito), ma molti "Soloni" rimasero. Alcuni componenti del Gran Consiglio erano membri di diritto: potevano, quindi, sfuggire al controllo personale di Mussolini. E, infatti, gli sfuggirono; ognuno cercò di farsi i propri "granducati". E a dar vita anche alle "fronde", sempre in attesa di qualche altra crisi.

Abbiamo anticipato un po' troppo.
Dobbiamo ritornare alla cronologia dei fatti del 1924.
Quanto ai rapporti di Mussolini con il Re, dedicheremo più avanti un'altra puntata. Partendo, quando, il Re nel 1931 subì un attentato a Milano e, con un riepilogo, ci dilungheremo fino al 1939. Alla vigilia delle ore fatali.

Fonti, citazioni, testi, bibliografia
ALBERTO CONSIGLIO - V.E. III, il Re silenzioso. 11 puntate su Oggi, 1950
PUBBLICAZIONE NAZIONALE UFFICIALE, (con l'assenzo del capo del governo)
MUSSOLINI, Diario della Volontà (1914-1922) - Quaderni Fascisti, Ed. Bemporad 1927

MUSSOLINI, Scritti e Discorsi, La Fenice.
RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista, Einaudi
A. PETACCO, Storia del Fascismo (6 vol.) Curcio
ZEEV STERNHELL, Nascita dell'ideologia fascista, Baldini & Castoldi
+ AUTORI VARI DALLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  


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della DOTTRINA MONROE"

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