ANNO 1946 

Dal 1946, finita la II guerra mondiale, l'Italia paga il conto: l'Istria viene annessa alla neonata 
repubblica comunista jugoslava; poi si progetta di trasformare la città in un Territorio libero.

  QUANDO TRIESTE
RISCHIÒ LO STRAPPO DALLA MADRE PATRIA

di GIAN LUIGI FALABRINO

Nei primi giorni del luglio 1946, il Consiglio dei Ministri degli Esteri delle grandi potenze decideva definitivamente la creazione del Territorio Libero di Trieste (T.L.T.), stabilendo che tutti i territori ad est della cosiddetta “linea francese” venissero ceduti dall’Italia alla Jugoslavia, e che il territorio ad ovest della stessa linea venisse costituito in Territorio Libero e, pertanto, sottratto anch’esso alla sovranità italiana.
(VEDI INTEGRALE TRATTATO DI PACE DEL 10 FEBBRAIO 1947)
Queste mutilazioni territoriali trovarono quindi accoglimento nel trattato di pace imposto dalle nazioni vincitrici all’Italia; l’allegato VIII del trattato riportò lo Strumento per il regime provvisorio del T.L.T. mentre l’allegato VI ne stabiliva lo Statuto permanente. Il primo dei due documenti permetteva, fra l’altro, che gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Jugoslavia mantenessero nel Territorio proprie truppe, in numero di 5.000 militari per ciascuno Stato, fino a tredici giorni dopo l’assunzione del potere da parte del Governatore previsto dallo stesso Strumento e dalla Statuto.
Secondo quest’ultimo documento il governatore avrebbe dovuto essere nominato dal Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. e non avrebbe dovuto essere né cittadino italiano, né jugoslavo, né del Territorio Libero. Il confine che correva fra l’Italia e la Jugoslavia, all’inizio della seconda guerra mondiale, lungo le Alpi Giulie, era certamente il confine naturale d’Italia e rappresentava il miglior confine possibile dal punto di vista militare italiano.
Ma era anche tale da non soddisfare i sentimenti degli sloveni e dei croati, poiché esso aveva il torto di inglobare nel territorio italiano troppi dei loro connazionali. Indubbiamente il miglior confine possibile dal punto di vista etnico sarebbe stato quello tracciato dalla linea proposta dal presidente Wilson nell’altro dopoguerra: esso lasciava numerosi sloveni e croati all’Italia, ma in base a indiscutibili criteri di unità economica della regione e di sicurezza militare; dall’altra parte lasciava fuori dei confini nazionali gli italiani di Fiume, Abbazia e Cherso, ma poiché si era trovato modo di unire queste località, insieme al territorio di Postumia, a Susak e all’isola di Veglia, nello Stato Libero di Fiume – assai più esteso e più vitale dell’attuale Territorio di Trieste – anche l’italianità di quella zona sarebbe stata salvaguardata. Subito dopo l’ultima guerra, apparve chiaro che sarebbe stato impossibile rivendicare il confine del 1939 e che Fiume e Zara sarebbero state irrimediabilmente perdute: la linea Wilson appariva allora come il massimo delle nostre aspirazioni, ma purtroppo l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia nel maggio 1945, il fatto che la Jugoslavia chiedesse un compenso per la sua partecipazione alla guerra contro l’Asse, l’esasperazione contro la politica autoritaria e snazionalizzatrice svolta dal regime fascista nella Venezia Giulia e, ancor più, l’esasperazione contro l’Italia che nel 1941 aveva annesso la provincia di Lubiana e gran parte della Dalmazia, la politica delle grandi potenze che si contendevano l’influenza nei Balcani blandendo la Jugoslavia, il desiderio sovietico di spostare quanto più in occidente fosse possibile il confine della comunista ed allora alleata repubblica di Tito per imporre all’Italia un confine militarmente inefficace a qualsiasi difesa alle soglie della pianura veneta (buona parte della linea proposta dai russi era molto più ad occidente del confine esistente nel 1866) – tutto ciò, unendosi al vecchissimo e quasi patologico odio degli slavi verso l’Italia e verso gli italiani della Venezia Giulia, rese impossibile la creazione di un confine abbastanza equo. 


Alla conferenza della pace furono successivamente respinte la linea Wilson, la linea americana e la linea inglese che almeno salvavano la parte occidentale, cioè la più italiana, dell’Istria; fu accettata solo la linea francese, ma a patto che la piccola porzione di Istria che essa comprendeva non venisse attribuita all’Italia, bensì costituita nel Territorio di cui si è detto.
In sostanza il criterio etnico fu rispettato solo nella regione di Gorizia, poiché ivi veniva a nostro danno; ma in quella zona non fu affatto rispettato il criterio dell’unità economica né tanto meno quello della sicurezza militare, e solo Tarvisio fu lasciata all’Italia in base a considerazioni economiche e geografiche essenziali (vi passa infatti la “Pontebbana”, l’unica ferrovia, mentre quella del Predil e quella di Lubiana si svolgono – in seguito ai mutamenti territoriali – in territorio Jugoslavo sino a pochi chilometri dal porto giuliano). Dove invece il criterio etnico veniva a nostro vantaggio, e cioè in Istria, là esso non fu applicato.

Col trattato di pace, 187.920 italiani, secondo il censimento del 1921, (aumentati probabilmente nel frattempo ad almeno duecentomila) furono posti nella condizione di scegliere fra la permanenza nel luogo accettando la cittadinanza jugoslava, e l’opzione per la cittadinanza italiana comportante l’abbandono del territorio ceduto alla Jugoslavia. Almeno 150.000 persone, tra cui l’intera popolazione di Pola, optarono per l’Italia e per l’esilio.
Altri italiani (265.418 secondo il censimento del 1921) furono sottratti alla Madre Patria, vivendo essi nei confini del Territorio Libero. Il problema del Territorio Libero trovò le sue origini nell’artificiosità di quella costruzione statale non voluta dalla sua popolazione, geograficamente esigua, economicamente insufficiente alla propria indipendenza, occupata da truppe straniere che la dividevano in due zone ben distinte e completamente isolate l’una dall’altra, e nell’impossibilità di nominare un governatore e di dar vita agli organi di governo previsti dallo Statuto.

Per vari anni le grandi potenze cercarono di giungere alla nomina del governatore, ma senza riuscirvi, a causa del conflitto fra i due grandi blocchi democratico e sovietico, delineatosi quasi subito dopo la fine della guerra: la nomina di un governatore filo-occidentale era ovviamente sgradita al governo sovietico, come sarebbe stata invisa agli anglosassoni la nomina di un filo-russo. Italiani e Jugoslavi poi si adombravano a ogni nome proposto dalle varie parti in causa, perché anch’essi temevano sempre la parzialità del probabile governatore a danno o degli uni o degli altri. Dopo varie, inconcludenti trattative, si giunse alla dichiarazione tripartita del 20 marzo 1948, con la quale Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia, osservando che l’accordo sulla scelta del governatore era impossibile e che la Jugoslavia aveva virtualmente incorporata la zona del territorio affidata alla sua temporanea amministrazione, compromettendo l’applicazione dello Statuto, proponevano il ritorno dell’intero Territorio Libero alla sovranità italiana.


La dichiarazione non ebbe alcun seguito, soprattutto per il mutamento sopravvenuto poco dopo nei rapporti fra la Jugoslavia e le potenze occidentali; né poté avere miglior sorte la decisione dell’8 ottobre 1953 con la quale gli Stati Uniti e la Gran Bretagna comunicavano che avrebbero trasferito, nel più breve tempo possibile, la zona da loro amministrata all’amministrazione italiana (non alla sovranità). Le possibilità di risolvere soddisfacentemente per l’Italia il problema del Territorio Libero, erano assai scarse, soprattutto per il fatto che la Jugoslavia occupava una parte del territorio conteso e naturalmente non aveva alcuna intenzione di lasciarlo.
Come ricordavamo più sopra, lo Strumento per il regime provvisorio del T.L.T. permetteva alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e alla Jugoslavia di mantenere proprie truppe nel Territorio in attesa della nomina del governatore e dell’assunzione dei poteri da parte sua. Un accordo fra le tre nazioni interessate stabilì che le truppe anglo-americane avrebbero occupato e amministrato una zona (detta Zona A), comprendente icomuni dell’area triestina già occupati nel maggio-giugno 1945, e che le truppe jugoslave avrebbero occupato e amministrato la restante parte del Territorio (Zona B).
Dopo le incertezze del primo periodo post-bellico, il Governo militare alleato della zona A si è comportato abbastanza obiettivamente fino al 1951 (cioè fino alla nomina del Comandante di Zona, gen. Winterton) rispettando le libertà fondamentali del cittadino e le prerogative comunali, permettendo libertà di stampa e d’opinione, l’attività dei partiti e delle associazioni, elezioni amministrative con pieno rispetto delle norme democratiche, e abrogando la legislazione fascista anti-slava e anti-ebraica.

Nel settembre 1947, uno speciale accordo fra il Governo Militare Alleato (G.M.A.) e il Governo italiano stabilì un regime di unione economica fra la Zona A e l’Italia in attesa della costituzione del T.L.T. Un cambiamento di rotta in senso anti-italiano si è però avvertito nel 1951-52, sia (oltre a qualche minore episodio) in occasione della manifestazione del 20 marzo 1952 (un concerto della banda della Lega Nazionale era stato autorizzato per quel giorno in piazza dell’Unità, ma la folla intervenuta fu caricata e dispersa dalla polizia senza ragione e preavviso: ne seguirono disordini e sassaiole), sia specialmente nelle tragiche giornate 4-5-6 novembre 1953 che videro la ripetuta offesa al Tricolore, al Sindaco e al palazzo comunale, e soprattutto le sparatorie dei “nuclei mobili” della polizia sui dimostranti, che provocarono la morte di sei persone e il ferimento di molte altre. Vi furono poi molti arresti tra la popolazione e due processi in cui fu evitato ogni riferimento alle responsabilità delle autorità militari. Le richieste di procedere a un’inchiesta sulle responsabilità di quegli eventi non furono prese in considerazione dal G.M.A., e neppure dai governi inglese e americano. Dopo i disordini del marzo 1952, era stata convocata a Londra una conferenza italo-anglo-americana che concluse i suoi lavori decidendo la partecipazione dell’Italia all’amministrazione civile della Zona A, ma essa fu praticamente un insuccesso, per le seguenti ragioni:
1) ciò che allora preoccupava i giuliani ed era stato all’origine delle manifestazioni non era la situazione di Trieste, ma quella della Zona B, per cui nulla fu fatto;
2) con l’inserimento di funzionari italiani nel G.M.A. fu offerto il pretesto legale agli Jugoslavi, che fino allora ne mancavano, di estendere ulteriormente e anche formalmente la legislazione jugoslava alla Zona B;
3) i settori più importanti dell’amministrazione della Zona A (pubblica sicurezza, porto, affari legali, informazioni e telecomunicazioni), nonché tutte le responsabilità e i poteri militari, rimasero agli anglo-americani, che furono così sempre in grado di ostacolare e anche annullare qualsiasi iniziativa italiana, mentre d’altra parte gli italiani erano corresponsabili di fronte all’opinione pubblica mondiale di situazioni sulle quali in realtà non potevano affatto influire.
Molto peggiore era la situazione della zona B, praticamente incorporata alla Jugoslavia che vi praticava una politica snazionalizzatrice e conculcava le fondamentali libertà democratiche, specialmente allo scopo di indurre gli istriani a lasciare la loro terra.


Già due volte vi si erano svolte le elezioni amministrative, ma solo una lista poteva raccogliere i voti degli elettori, ed era naturalmente quella degli slavo-comunisti. Fino al 1952, circa 10 mila istriani avevano lasciato la zona B per riparare a Trieste, secondo quanto dichiarò a suo tempo il sindaco della città di San Giusto, ing. Bartoli; all’8 ottobre 1953 questi esuli erano già saliti a 11 mila, cui se ne aggiunsero, dall’8 ottobre 1953 al gennaio ’54 altri tremila (dati del Centro di documentazione della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Non è compito nostro ricordare in qual modo i giuliani dimostrarono la loro italianità nella storia, dai triestini Antonio e Domenico Piatti, patrioti e liberali, impiccati a Napoli dalla reazione borbonica del 1799, a Guglielmo Oberdan e al capodistriano Nazario Sauro, da Giacomo Venezian morto difendendo Roma nel 1849 ai 250 giuliani (di cui 105 triestini) morti nel ‘15-’18 per la liberazione della loro terra, dai due dimostranti triestini uccisi dagli austriaci ai portici di Chiozza nel 1868 ai cinque uccisi dalle truppe jugoslave in Corso il 5 maggio 1945, ai sei falciati dal fuoco della polizia civile del T.L.T. nel novembre 1953.

LA SITUAZIONE ETNICA
Il Territorio Libero di Trieste aveva un’estensione di 738 kmq di cui 222,5 costituivano la Zona A e 515,5 la Zona B. La prima comprendeva la città di Trieste, il comune costiero di Muggia e altri quattro piccoli comuni carsici (Duino-Aurisina, Sgònico, Monrupino, San Dorligo della Valle1, e praticamente non è altro che un piccolo arco intorno al porto di Trieste. La seconda comprendeva i comuni costieri di Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova e quelli interni di Villa Decani, Marèsego, Monte di Capodistria, Buie, Verteneglio, Grisignana, e le località Tòppolo in Belvedere, frazione di Pòrtole, comune annesso alla Jugoslavia, e San Sèrvolo, frazione di Erpelle-Còsina, anch’essa passata alla Jugoslavia.
La Zona B altro non era che l’orto di Trieste, e lacittà a sua volta rappresentava il mercato di vendita dei prodotti ortofrutticoli e del pesce provenienti da quei paesi. Molti erano in tempi normali gli istriani che da Capodistria e da Isola si recavano giornalmente a lavorare a Trieste. Fra Trieste e i comuni della Zona B vi erano gli stessi legami d’interessi e di affetti che uniscono, ad esempio, Genova e molte cittadine della sua riviera. Va aggiunto che qualche parte dei comuni di Duino-Aurisina, Monrupino, Trieste, San Dorligo, Villa Decani, Marèsego, Grisignana, Cittanova è stata annessa alla Jugoslavia col trattato di pace, il quale aveva peraltro attribuito al T.L.T. piccole porzioni disabitate di comuni passati alla Jugoslavia: 32 ettari già di Parenzo, 16 già di Visinada, 147 già di Sesana. Nel 1951, la popolazione della Zona A era costituita da 296.229 persone, di cui 271.899 nella sola Trieste, 11.800 a Muggia, 4.800 a San Dorligo, 4.700 a Duino-Aurisina, ecc.
Molto inferiore è invece la popolazione della Zona B che, secondo fonti slovene, sarebbe stata nel 1954 di 66.811 persone. Secondo il censimento del 1936 la popolazione della Zona sarebbe stata di 76.963 persone, così ripartite: Capodistria 11.955, Isola 9.771, Pirano 15.117, Umago 7.112, Cittanova 2.517, Buie 7.293, Verteneglio 3.242, Grisignana 3.977, Monte di Capodistria 4.820, Marèsego 3.518, Villa Decani 6.808, Tòppolo 614, San Sèrvolo 219. Forse la consistenza della popolazione (non calcolando gli esuli) è più vicina a quella indicata dalla fonte jugoslava, dato che quattro dei comuni della Zona B hanno ceduto parte del loro territorio alla Jugoslavia col trattato di pace.
Purtroppo il più recente censimento secondo la lingua d’uso si svolse nel 1921, e bisogna quindi riferirsi ad esso e a quelli ancor più lontani compiuti ai tempi dell’impero austro-ungarico; d’altra parte, se sono avvenuti cambiamenti dal 1921 in poi, essi si erano certamente svolti a nostro favore, fino al 1945 almeno, e quindi sarebbe misura di obbiettività e di prudenza trascurarli. Secondo i dati della presidenza del Consiglio, il censimento pre-fascista del 1921 svoltosi secondo il principio della lingua d’uso, diede i seguenti risultati per i territori costituenti il Territorio Libero:

 

Italiani

Sloveni-Croati

Altri

Totale

Zona A

211.660

32.427

18.319

262.406

Zona B

54.651

16.287

212

71.150

Territorio Libero

266.311

48.714

18.531

333.556


Tuttavia questi dati non tengono conto del fatto, del resto non molto rilevante ai fini statistici complessivi, che alcuni dei comuni del T.L.T. sono stati ad esso attribuiti solo in parte (e sia pure nella maggior parte). Ritengo quindi opportuno riportare i dati del censimento austriaco del 1910 e di quello italiano del 1921 secondo il criterio del prof. Diego De Castro (che li ha esposti alla pag. 281 de “Il problema di Trieste”, vol. I, ed., Cappelli 1952); l’Autore citato, allora consigliere politico italiano presso il G.M.A. di Trieste, ha determinato a calcolo la popolazione dei comuni passati solo in parte al T.L.T. Le differenze, come si vedrà, sono minime.

Censimento Austriaco del 1910

 

Italiani

Sloveni

Tedeschi

Serbo-Croati

Altre lingue

Stranieri

Zona A

127.597

69.960

11.963

2.433

809

35.538

Zona B

48.304

16.486

285

1.751

35

1.612

Territorio Libero

175.901

86.446

12.248

4.184

844

41.150


Questi dati debbono essere interpretati. In primo luogo va ricordato che nel censimento erano ovviamente compresi i funzionari governativi, i poliziotti, i ferrovieri, ecc. , appartenenti ai gruppi linguistici tedeschi e slavi di altre regioni, da cui l’impero traeva i suoi più fedeli servitori. Nella città di Trieste l’87 per cento degli impiegati dello stato erano slavi: “tribunali, dogane, ferrovie, magazzini generali, poste, telegrafi, luogotenenza, viceprefettura – dice Attilio Tamaro2 – ne rigurgitavano. Si provava così con tutta evidenza che la loro presenza a Trieste era dovuta soltanto all’essere la città soggetta allo straniero e risultava da un travaso artificiale, metodicamente operato per snaturarne il carattere nazionale. Degli slavi più di un terzo proveniva da regioni non giuliane. Nel quartiere di San Vito erano state importate in una sola volta nelle case per loro preparate 700 famiglie di ferrovieri slavi della Carniola con circa 4.000 persone”. In secondo luogo, la maggior parte degli stranieri residenti nel territorio era costituita da cittadini del regno d’Italia, la metà dei quali erano friulani e molti altri nati a Trieste; essi erano sicuramente 30 mila a Trieste e presumibilmente 35 mila nel territorio, complessivamente. In terzo luogo, e questa è l’osservazione principale da farsi, i dati di quel censimento furono scientemente alterati per quanto riguardava la città di Trieste3.Il censimento del 1910 si fondava sulla “Umgangssprache”, cioè sulla lingua parlata. Dopo che il censimento era stato fatto per tutta l’Austria con questo sistema, alcuni esponenti slavi intervennero presso il principe Hohenlohe, luogotenente imperiale a Trieste, che fece fare una revisione dei dati del censimento per la sola città di Trieste: in essa ci si attenne, invece che al criterio della lingua parlata, a quello della razza, cioè indicando come slavi e tedeschi tutti quelli che avevano cognomi slavi e tedeschi e che provenivano da luoghi slavi e tedeschi. In questo modo la popolazione di Trieste risultò così composta:

 

Italiani

Sloveni

Tedeschi

Serbo-Croati

Altre lingue

Stranieri

Trieste

118.957

56.845

11.856

2.403

779

38.597


Con le correzioni del principe Hohenlohe gli italiani apparvero in numero inferiore di 22 mila persone, mentre figurarono 20 mila slavi in più e 2 mila tedeschi in più. Che la situazione fosse diversa è comprovato dal censimento municipale dello stesso anno:

 

 

Italiani

Sloveni

Tedeschi

Italiani del Regno4

Trieste

142.000

36.500

9.600

30.000


I dati corretti del censimento per Trieste sommati a quelli delle altre località oggi costituenti il T.L.T. alterarono quindi la composizione etnica totale del Territorio. Si può ammettere che anche i dati del censimento municipale peccassero di parzialità, ma, considerando la politica anti-italiana del governo asburgico, le alterazioni citate dal Quarantotto non destano meraviglie. Senza di esse, il censimento austriaco avrebbe dovuto indicare per l’intero territorio oggi raccolto nel T.L.T. 198 mila italiani (senza i regnicoli) invece di 176 mila, 66 mila sloveni invece di 86 mila e 10 mila tedeschi invece di 12 mila. Se agli italiani sopra citati si aggiungono anche i 30-35 mila regnicoli si constata che il totale degli italiani abitanti nell’attuale T.L.T. era già allora di circa 230 mila persone. Che questi calcoli siano molto più degni di fede del censimento austriaco, è dimostrato anche dal fatto che la commissione statistica centrale di Vienna dichiarò non corrispondere alla verità i dati riguardanti Trieste, e dalla discussione seguita all’interpellanza del deputato Pitacco al parlamento austriaco, che dimostrò l’illegalità del procedimento adottato dal luogo-tenente principe Hohenlohe.

Censimento Italiano del 19215

 

Italiani

Sloveni

Serbo-Croati

Ladini

Stranieri

Zona A

211.156

31.414

30

8

18.316

Zona B

54.262

13.156

39

-

207

Territorio Libero

265.418

44.570

69

8

18.523


L’aumento di almeno 35 mila italiani rispetto al loro numero complessivo del 1910 (italiani cittadini dell’impero più regnicoli) è dovuto al fatto che vari italiani già sudditi dell’Austria rientrarono nel territorio triestino dalle altre provincie dell’impero, che altri vi tornarono dalle vecchio provincie del Regno dove si erano rifugiati per sfuggire alle leve militari austriache, mentre alcune migliaia di dalmati e di abitanti dell’isola di Veglia si stabilirono a Trieste dopo la formazione della Jugoslavia; in più si trovarono a Trieste e nel territorio gli italiani venuti dalle vecchie provincie, in maggioranza funzionari statali che sostituirono nella Venezia Giulia quelli austriaci e slavi.
I croati diminuirono di circa quattromila a 69 e gli sloveni da 66 mila (86 mila secondo lo Hohenlohe) a 44 mila sia perché alcuni di essi, come pure vari tedeschi si dichiararono italiani, ma soprattutto per l’allontanamento di molti degli ex funzionari dell’impero che passarono nelle amministrazioni statali dei nuovi organismi sorti dalla rovina dell’Austria e specialmente in Jugoslavia, cui fornirono i migliori quadri della burocrazia della polizia e dell’esercito. Va notato che il censimento pre-fascista del 1921 fu svolto secondo la dichiarazione della lingua d’uso e che non ci furono alterazioni; nemmeno gli jugoslavi hanno mai insistito su questo punto. In particolare, per la città di Trieste e il suo suburbio il censimento diede i seguenti dati:


 

Italiani

Sloveni

Serbo-Croati

Ladini

Stranieri

Trieste 1921

203.373

18.088

-

-

18.122


I dati di tutti questi censimenti concordano nel rilevare che la maggioranza della popolazione di ciascuna delle due zone costituenti il T.L.T. e naturalmente dell’intero Territorio fosse italiana. Nella Zona A gli italiani dovevano essere anche più di quanti erano nel 1921, se non altro perché vi si erano rifugiati molti esuli dai territori ceduti alla Jugoslavia. Nella Zona B invece il dopoguerra ha visto uno spostamento di popolazione a nostro danno: quattordicimila persone sono state costrette a rifugiarsi nella Zona A già prima del 1954; questo non avrebbe alterato il profilo etnico complessivo del Territorio se, com’è purtroppo naturale, gli slavi non avessero provveduto a sostituire gli espulsi o i fuggitivi dalla zona da loro occupata con loro connazionali fatti affluire dal territorio jugoslavo.

LA SITUAZIONE ECONOMICA
Le guerre mondiali hanno notevolmente alterato la struttura del retroterra del porto di Trieste, che serviva prima del 1915 un “Hinterland” unitario e vastissimo, composto dai territori oggi costituenti l’Austria, la Cecoslovacchia, parte della Polonia, l’Ungheria (cui apparteneva il porto di Fiume).

Il passaggio di Trieste all’Italia non avrebbe molto danneggiato i suoi traffici portuali se alle spalle le fosse rimasto un solido organismo statale costituente un retroterra unitario e ancora abbastanza esteso.
Disgraziatamente, l’impero austro-ungarico fu smembrato in vari piccoli Stati e il territorio che prima gravitava naturalmente su Trieste fu diviso da varie linee doganali; la parte settentrionale dell’ex-impero (Polonia austriaca e Cecoslovacchia) distolta dal sistema doganale e tariffario austriaco, sentì l’attrazione dei porti dell’Europa settentrionale che vi svolsero spesso con successo una notevole concorrenza ai danni di Trieste.
Ciò nonostante il porto riuscì a difendersi e a riprendere quota: nel 1938 il suo traffico era quasi uguale a quello “record” del 1913. Ma questo brillante risultato era inficiato dal mutamento qualitativo sopravvenuto nel traffico dopo la grande guerra; come tutta l’Europa, Trieste, che era stata un centro notevolissimo del traffico commerciale (cioè negoziato in loco, con evidente guadagno degli operatori economici) risentì le conseguenze della diffusione del sistema di “clearing”, per cui il traffico si andò sempre più avviando verso la semplice forma “di transito”. Nel secondo dopoguerra la situazione è ancora peggiorata, in conseguenza della divisione dell’Europa nei due blocchi contrapposti. La Cecoslovacchia e l’Ungheria sono state inserite nel sistema politico ed economico sovietico, e ciò ha determinato una duplice tendenza per i loro traffici d’importazione ed esportazione: da una parte i loro traffici si orientavano ancora sulle direttrici che si dimostravano le più convenienti dal punto di vista economico, ma dall’altra seguono anche la direttrice politica, indirizzandosi verso i porti della Polonia e della Germania orientale, appartenenti alla sfera d’influenza sovietica.

Inoltre la stessa Cecoslovacchia e l’Austria erano esposte all’influenza anche dei porti della Germania occidentale, in ispecie di Amburgo; nel caso della Cecoslovacchia, Amburgo è favorita dalla situazione geografica, mentre nel caso dell’Austria (molto più vicina a Trieste che non al porto tedesco) i fattori sono più complessi: la tendenza che l’Austria dimostrava ad aumentare i suoi traffici verso Amburgo – nel 1948 vi passarono 6.662 tonn. di merci austriache divenute già nel 1950 tonn. 87.000 – era dovuta, tra l’altro, alla politica tariffaria tedesca e alle speciali tariffe ferro-fluviali, molto convenienti. La speciale situazione politica dell’Europa centrale aveva progressivamente ridotto, insomma, il retroterra di Trieste alla sola Austria, anche questa insidiata dalla concorrenza.
In più questa nazione risentiva ancora molto delle conseguenze della guerra e dell’occupazione militare straniera, e i suoi traffici sono costituiti in maggior parte dalle importazioni, e queste a loro volta dagli aiuti americani e dai rifornimenti militari. Ciò spiega perché, pur essendo nel dopoguerra aumentati fino a superare i dati del 1938 e del 1913, i dati dei traffici portuali triestini non potessero soddisfare gli osservatori attenti alla sostanza delle cose.


C’è infine da notare che gli Jugoslavi tentavano di penetrare sul mercato austriaco e carpire parte dei traffici destinati a Trieste dirottandoli sul porto di Fiume. In tali condizioni non si riesce a capire come molti credessero alle possibilità di vita indipendente del T.L.T. e soprattutto come alcuni credessero o mostrassero di credere, che la costituzione del T.L.T. sarebbe stata un ritorno all’epoca d’oro dell’impero (che non fu tutta un’epoca d’oro, sia detto tra parentesi) mentre il ritorno all’Italia avrebbe accentuato le difficoltà economiche.
Non si riesce cioè a capire quale eguaglianza potesse essere stabilita fra l’impero austro-ungarico, vastissimo e popolato da 70 milioni d’abitanti, e il T.L.T., piccola fascia costiera attorno al porto di Trieste, popolato in tutto da 360 mila persone circa, circondato da una nazione ostile e minacciosa, posto in mezzo a un’Europa profondamente divisa dalla cortina di ferro e dalle barriere doganali, in cui era impossibile ricostruire le condizioni preesistenti al 1914. L’impossibilità di vita del T.L.T. era ancora più evidente se si pensa al contributo dato dall’Italia alla Venezia Giulia e a Trieste in particolare prima dell’ultima guerra e poi alla Zona A.
Dopo il 1918 il governo italiano, constatando la trasformazione in atto nell’economia triestina e la decadenza della funzione portuale, cercò di suscitare nella città una maggior funzione industriale: gli impianti industriali esistenti prima del 1918 furono ampiamente sviluppati (i cantieri triestini hanno prodotto il 16 per cento delle costruzioni navali italiane e la Fabbrica Macchine Sant’Andrea aveva una capacità costruttiva di motori marini pari a un terzo di quella totale italiana), e nuove attività industriali furono avviate: appartengono al periodo fra le due guerre le fonderie dell’ILLVA, le raffinerie Aquila, Standard e Gaslini, il progetto del 1928 per il porto industriale di Zaule con esenzioni fiscali concesse dal governo italiano (nel cui ambito furono costruite le raffinerie citate) e l’inizio dei lavori di bonifica della plaga di Zaule e della costruzione del canale navigabile, interrotti solo con l’armistizio dell’8 settembre. Il processo d’industrializzazione, di cui sono esempio queste grandi industrie ed altre minori, trovò la base e la ragione del suo sviluppo nel mercato italiano.
Le ditte industriali e commerciali che erano 3.628 nel 1927, ammontavano a 13.988 nel 1937 e a 16.694 nel 1952, di cui 4.135 erano aziende industriali con 45.953 dipendenti. E ancora nel mercato italiano trovavano sbocco i prodotti delle nuove industrie sorte nel dopoguerra nel porto industriale di cui si dirà fra poco.
Numerose furono anche le opere pubbliche, eseguite fra le due guerre mondiali, specialmente nel porto di Trieste: qui i lavori principali furono la costruzione e la ricostruzione dei muri di sponda nei bacini doganale e Vittorio Emanuele, la costruzione della calata prospiciente la stazione marittima, il consolidamento di altri muri di sponda, la costruzione di cinque capannoni al molo VI, l’installamento di 35 nuove gru, la costruzione del silos granario al porto Duca d’Aosta, della capacità di 30 mila tonn. di grano, la costruzione della stazione marittima per il traffico passeggeri, dell’Idroscalo civile e del Faro della Vittoria.
A Muggia fu sistemato il piccolo porto. Il governo italiano, subito dopo la prima redenzione di Trieste, pose mano alla costruzione dell’attuale strada costiera fra la città giuliana e Monfalcone, risolvendo un assillante e annoso problema trascurato dal governo austriaco; anche la strada Capodistria-Portorose-Buie fu costruita dopo il 1919, per non dire dell’intera rete stradale della Venezia-Giulia, completamente sistemata dal governo italiano.
Questi provvide anche all’elettrificazione del tronco ferroviario Trieste-Monfalcone-Bivio San Polo-Gorizia (sulla ferrovia pontebbana) e del tronco Trieste C. Marzio-Villa Opicina, nonché di altri situati in territori oggi annessi alla Jugoslavia. In quel periodo fu istituita a Trieste l’Università degli studi, ostinatamente rifiutata dal governo austriaco, per la quale è stata costruita una sede monumentale. L’accordo anglo-italiano del 1921 e l’accordo franco-italiano portarono alla definitiva assegnazione al Lloyd Triestino del naviglio dell’ex Lloyd Austriaco, cosicché in totale le navi rimaste a Trieste dopo la prima guerra mondiale furono 272 per 862.350 tonn., cioè quasi la metà della marina mercantile austro-ungarica.
In quegli anni si verificò l’immissione sempre più sensibile nel movimento portuale del traffico italiano (25%) che dimostrava di essere in grado di sostituirsi a quella parte del traffico transalpino che era venuta a mancare, con la conseguenza di creare un’osmosi economica fra Trieste e l’Italia. La convenzione italo-austriaca e quella italo-ungherese, alle quali era legato il traffico triestino, esercitarono una decisiva influenza nel 1934, l’anno della ripresa portuale dopo la grande crisi.
Gli ambienti anti-italiani rimproveravano ai nostri organismi le riorganizzazioni delle maggiori società marittime italiane compiute nel 1932 e nel 1937 che però furono causate dalla crisi dei noli, conseguenza della depressione economica del 1929, che provocò ingenti perdite a tutti gli armatori nazionali. Già nel 1928 la Società Cosulich di Trieste aveva un passivo di 214 milioni di lire, e la Navigazione Libera Triestina un deficit di 16 milioni che aumentò a 116 nel 1930. Il nuovo ordinamento delle società di navigazione vide la Cosulich fusa assieme a due compagnie genovesi nella soc. “Italia” con sede a Genova, mentre il Lloyd Triestino inglobava due altre società genovesi; le due organizzazioni così formate, insieme a due altre minori di Venezia e Napoli, furono finanziate dalla “Finmare”, società per il finanziamento marittimo che ne integrava il deficit d’esercizio e che ha sopportato in questo dopoguerra l’onere della ricostruzione delle flotte. “In particolare, nell’epoca fra le due guerre, si constata: a) il potenziamento al massimo dell’attrezzatura portuaria; b) il potenziamento delle linee di navigazione e specialmente delle linee triestine affidando alla navigazione locale zone ben definite e di alta capacità economica; l’inserimento di Trieste nel quadro armatoriale nazionale, facendola sede di grandi organismi dell’armamento; c) la spesa documentata di tre miliardi e mezzo prebellici per lavori pubblici ed il saltuario aiuto fatto di credito su una “piazza” restia ad esporre il proprio capitale… Il bilancio comunque si presenta decisamente attivo, anche se considerato dal puro angolo dell’attività e dei risultati economici. L’economia triestina si era salvata con l’inserimento nel complesso economico dell’Italia, a cui del resto la legavano vincoli spirituali che costituiscono pur sempre basi solide ed estremamente condizionanti anche rispetto all’economia. Ne è la prova la relativa facilità di fusione avvenuta senza scosse sensibili”6. Fra le opere più importanti rese possibili dal contributo italiano di questo dopoguerra dev’essere ricordato il porto industriale di Zaule, per cui si ripresero i lavori interrotti nel 1943, e si costituì un ente apposto. Lo scopo dell’ente (come già della società fondata nel 1929) è quello di costruire negli immediati dintorni di Trieste un grande complesso d’industrie che svolgano rispetto alla città giuliana una funzione analoga a quella di Marghera rispetto a Venezia: una funzione che, mentre avrebbe dato lavoro ad impiegati e operai all’interno della zona industriale, potesse attivare nuovi traffici marittimi e nuove attività complemenTari, in regime di privilegio fiscale. Fra le varie agevolazioni concesse alle industrie della zona, vi era la possibilità che lo stabilimento fosse retto a regime di “deposito franco”. La creazione del porto industriale in una località deserta e paludosa ha richiesto grandi lavori pubblici: opere di bonifica su mq 500.000 a nord del canale navigabile, lo scavo del semialveo nord del canale stesso, strade, raccordi ferroviari, fognature, ecc. Anche la Fiera di Trieste (con sede nei padiglioni appositamente costruiti a Montebello) è stata resa possibile dall’interessamento governativo italiano e dopo i primi esperimenti dell’immediato dopoguerra è divenuta un’iniziativa utile e promettente.

Note
1
A pag. 1825 del fascicolo di novembre 1953 di Documenti di vita italiana, edito dal Centro di documentazione della Presidenza del Consiglio, il Comune di San Dorligo (ivi impropriamente chiamato San Dorlingo) viene inesplicabilmente attribuito alla Zona B; siccome questa errata attribuzione è riportata in una statistica del censimento del 1921 nei territori oggi costituenti il T.L.T. nelle sue zone A e B, essa altera la composizione etnica della Zona A, cui toglie circa cinquemila slavi, e della Zona B cui invece li aggiunge.
2
A. Tamaro: Trieste, ed. Istituto editoriale italiano, Milano 1946, pag. 233.
3
Lettera di A. Quarantotto, in Giornale di Trieste, 5 novembre 1952
4
Dati approssimativi, riportati dal Tamaro, op. cit., pag. 232.
5
D. de Castro: Il problema di Trieste, I ed., Cappelli 1952, I vol. pag. 281; come si è detto più sopra, l’A. ha determinato a calcolo la popolazione dei comuni passati solo in parte al T.L.T.; cfr. coi dati della Presidenza del Consiglio esposti al pag. 259.
6
Giorgio Roletto: Trieste e i suoi problemi, ed. Borsatti, Trieste 1952, pagg. 55-56. Per la situazione economica di Trieste fra le due guerre mondiali dev’essere consultata anche L’economia della Venezia Giulia pubblicata dall’Istituto di Statistica dell’Università di Trieste nel 1946, con la collaborazione di diversi studiosi sotto la direzione del prof. P. Luzzatto Fegiz.

Le immagini che illustrano questo articolo sono tratte dal libro "Trieste a stelle e strisce" di Pietro Spirito
di GIAN LUIGI FALABRINO
Ringrazio per l'articolo
FRANCO GIANOLA, 
direttore di Storia in Network

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