GIULIO CESARE
IL RUBICONE - GUERRA CIVILE - LOTTA CON POMPEO, SUA MORTE

IL PASSAGGIO DEL RUBICONE - POMPEO NELL' ITALIA MERIDIONALE - ASSEDIO DI BRINDISI - POMPEO FUGGE A DURAZZO - CESARE A ROMA - ASSEDIO DI MARSIGLIA - LA PRIMA GUERRA DI SPAGNA - RITORNO DI CESARE IN ITALIA - LA GUERRA IN ILLIRIA - SUCCESSO DEI POMPEIANI - BATTAGLIA DI FARSAGLIA - FUGA DI POMPEO IN EGITTO - MORTE DI POMPEO - TOLOMEO E CLEOPATRA - LA GUERRA ALESSANDRINA - BATTAGLIA DEL NILO E FINE DI TOLOMEO - BATTAGLIA DI ZIELA - "VENNI, VIDI, VINSI" - CELIO RUFO E MILONE - SECONDA DITTATURA DI CESARE - PROVVEDIMENTI DI CESARE - AMMUTINAMENTO DI TRUPPE IN CAMPANIA
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IL PASSAGGIO DEL RUBICONE - CESARE PADRONE D'ITALIA

Terminata la guerra in Gallia, rientrato in Italia alla fine dell'anno 50 a.C., con la sua legione aveva posto il campo a Ravenna. A Cesare il 1° marzo del 49 a.C. scadeva il suo mandato in Gallia, e dunque sarebbe dovuto tornare a Roma da privato cittadino; la prospettiva era d'essere esposto all'attacco dei suoi nemici, e in primo luogo, di Pompeo, che non avrebbe certo né ceduto né diviso con lui il potere.

CESARE reagisce poi con durezza, quando il console CLAUDIO MARCELLO a gennaio, appena prese le funzioni di console, propone al Senato il suo richiamo a Roma prima ancora del termine. Gli inviarono un ultimatum con un termine stabilito per deporre il comando.
Cesare rifiutando quest'ordine, inizia la sua ribellione.

Quando Cesare seppe che il Senato lo aveva dichiarato nemico della Repubblica e MARC'ANTONIO, CASSIO, CURIONE E M. CELIO, fuggiti da Roma l'8 gennaio, erano giunti ad Arimino (Rimini), per Cesare la misura era colma; Cesare non poteva più aspettare e lasciare che i suoi nemici raccogliessero forze contro di lui. Era necessario rinnovare il gesto di Silla e presentarsi sotto le mura di Roma, non come nemico, non sotto le vesti di Coriolano, ma come giustiziere, per difendersi da coloro che per primi avevano violato la legge della patria.
CESARE non aveva con sé che una Legione: cinquemila fanti e trecento cavalli, né poteva aspettare che lo raggiungessero le truppe lasciate nella Transalpina; ma contava molto sulle due legioni che aveva cedute per la guerra contro i Parti e che avrebbero indubbiamente sposata la sua causa, contava su tutti i suoi veterani mandati in congedo, contava sul popolo, il quale lo considerava suo campione e sarebbe subito accorso sotto le sue insegne, e contava soprattutto sulla sua fortuna.

Senza perder tempo radunò i suoi legionari e, informati della situazione e dell'offesa recata a lui e al popolo, con parole di fuoco li persuase a seguirlo, poi si mise in marcia verso Arimino e giunse alla sponda sinistra del Rubicone (nella sponda destra sorge oggi Bellaria).
Qui si fermò: quel piccolo fiume povero d'acque segnava il confine tra 1'Italia e la Cisalpina; nessun romano poteva passarlo in armi senza il permesso della Repubblica. Di là dal Rubicone pure Cesare era sì il proconsole delle Gallie, rivestito d'imperio, ma di qua dal corso sarebbe stato un ribelle.

Cesare parlò ancora ai suoi soldati, espose loro i pericoli cui andavano incontro, disse che, passando sulla sponda opposta, avrebbero dovuto proseguire con il ferro in pugno, poi, letto negli occhi dei suoi il fermo proposito di seguire ovunque il loro generale, esclamò: - "Alea jacta est" "il dado è gettato !" e spinse il cavallo nel fiume, seguito dai legionari.
Scrive Appiano che Cesare, prima di passare il Rubicone, affermasse:
"E' venuto il momento di rimanere per mia disgrazia al di qua del Rubicone o di passarlo per disgrazia del mondo".

Tito Livio commenta il gran passo con le seguenti parole rimaste famose:
"Alla testa di cinquemila uomini e trecento cavalli Cesare mosse contro l'universo"
.

All'alba del giorno dopo, il grande ribelle giungeva a Rimini e se ne impadroniva; e da Rimini si diffondeva rapidissima la notizia del suo arrivo insieme con un'altra più grave: Cesare marciava su Pesaro e su Arezzo diretto a Roma.
Quella notizia produsse una grande impressione nella metropoli. Non si sapeva di quante forze disponeva il proconsole, le voci più disparate ed esagerate correvano sulle sue milizie e sulle sue intenzioni e si temeva che Cesare, penetrato a Roma, rinnovasse gli eccidi di Mario e di Silla.
Tutti gli sguardi erano appuntati su Pompeo e questi, il 17 gennaio del 49, anziché marciare alla testa delle sue truppe contro Cesare sostenne che si doveva abbandonare Roma e trasferire il governo nel mezzogiorno d'Italia, e dichiarò nemici della Repubblica i senatori e i magistrati che fossero rimasti in città.
Fu una fuga più che una ritirata; fuggirono i consoli, fuggì Pompeo, fuggì Catone, fuggì Cicerone che riparò a Formia; ma non tutti i senatori lasciarono la metropoli.
A Cesare intanto da Arimino faceva un ultimo tentativo di risolvere la grande contesa pacificamente dichiarandosi disposto a ritornare nella Cisalpina se Pompeo si fosse recato in Spagna. Fallite però le trattative, iniziate privatamente, per l'opposizione del Senato, Cesare si mosse, ma non marciò su Roma; impadronitosi di Pesaro, Fano, Gubbio ed Osimo e ingrossato il suo esercito con le reclute che dovevano raggiungere Pompeo, scese verso l'Abruzzo. Poi risalì la stretta valle del Pescara

A Corfinio l'aspettava DOMIZIO ENOBARBO con il proposito di sbarrargli il passo; aveva trenta coorti con sé, ma non furono sufficienti a difendere la città che cadde in potere di Cesare insieme con Domizio, con Lentulo Spintero, Vitellio Rufo e Quintilio Varo.
Cesare fece allora comprendere che non intendeva imitare Mario e Silla, sbarazzandosi con la morte dei suoi nemici. Anziché uccidere Enobarbo o trattenerlo prigioniero, lo rimandò a Roma da Pompeo con tutti gli altri senatori caduti nelle sue mani, poi fece giurare alle coorti che non avrebbero brandito più le armi contro di lui e le inviò in Sicilia.
Era il 13 febbraio. Da quel giorno con la sua generosità Cesare si era assicurata la vittoria.
Alla testa di sei legioni ora marciava alla ricerca di Pompeo. Questi intanto si era rifugiato a Brindisi. Suo proposito era, poiché 1'Italia era in potere del suo rivale e le città gli aprivano una dopo l'altra le porte, di trasferirsi in Oriente, dove contava molta amicizie, e di iniziare là la riscossa, mentre in Occidente lasciava la Spagna difesa dai suoi luogotenenti.

Da Brindisi. POMPEO aveva mandato a Durazzo i consoli, il Senato e parte dell'esercito, ed aspettava il ritorno delle navi per imbarcarsi con il resto delle truppe, quando giunse Cesare. Il proconsole delle Gallie invitò Pompeo ad un incontro, illudendosi ancora di convincerlo alla pace, ma il suo rivale rispose che nulla poteva fare senza l'autorizzazione dei consoli ed allora Cesare cinse d'assedio la città.
Ma per impedire a Pompeo la fuga bisognava chiudere il porto e Cesare non aveva navi per bloccarlo, perché tutta la flotta era in potere degli avversari. Cesare era però l'uomo che aveva scavato 28 chilometri di trincee dal lago Lemano al Giura e quindici chilometri di fossati intorno ad Alesia. Concepì allora di chiudere il porto con una diga gigantesca iniziandone subito la costruzione, ma per la profondità dell'acqua fu costretto a sospenderla e fece continuare le opere di sbarramento con delle zattere munite d'ancora, coperte di graticci e di terra e difese da parapetti. Ma tutto questo lavoro non valse ad impedire la fuga di Pompeo, che appena disponibili le navi, prese il mare con le sue milizie e fece vela per Durazzo dove giunse il 17 marzo.

Il giorno dopo Cesare entrava a Brindisi senza colpo ferire e poiché non poteva inseguire il nemico sulle coste dell'Epiro, rimasto assoluto padrone d'Italia, si mise a fortificarne le coste, pose forti presidi a Brindisi, a Sponto, a Idrunto, a Taranto e a Turio, poi prese la strada per Roma.
Giunto nella capitale, Cesare convocò i senatori rimasti, espose loro le ragioni che lo avevano spinto a penetrare armato in Italia, affermò che era venuto per dare più forza alle leggi avendo di mira il benessere della Repubblica, si dichiarò pronto, a risolvere amichevolmente la contesa e propose che in seno al Senato si eleggesse una commissione che si recasse a trattare con Pompeo.
Ma nessuno dei Senatori volle assumersi tale incarico, temendo tutti le rappresaglie di Pompeo ai cui ordini avevano giù disubbidito nell'ascoltare Cesare.
Cesare allora decise di cominciare la conquista della province della Spagna. Occorrendogli molti denari per pagare le truppe chiese ed ottenne di prendere il tesoro segreto, composto - secondo Plinio - da quindicimila verghe d'oro. Solo il tribuno CECILIO METELLO tentò di opporsi; minacciato però di morte, tacque, e Cesare lasciato il governo di Roma al pretore M. EMILIO LEPIDO col titolo di prefetto dell' Urbe, e quello d' Italia a Marc'Antonio, partì per la Spagna.
Famose sono le parole pronunziate da Cesare all'atto della sua partenza, nelle quali è compendiata la situazione: "Andiamo a combattere un esercito senza generale; poi torneremo per combattere un generale senza esercito".

CESARE IN SPAGNA

Cesare prese la via delle Alpi, ma nel suo cammino verso la Spagna dovette sostare a Marsiglia, che, sobillata da DOMIZIO ENOBARBO, lì rifugiatosi dopo il fatto di Corfinio, si era dichiarata per Pompeo. Ma Cesare non poteva fermarsi troppo a Marsiglia. Conferì l'incarico perciò a TREBONIO e a DECIMO BRUTO di assediare la città con tre legioni e una flotta di dodici navi appositamente costruite ad Arelate (Arles); poi, preceduto da FABIO, si avviò verso la Spagna con sei legioni.
Qui POMPEO aveva sette legioni, cinque nella Citeriore comandate dai luogotenenti L. AFRANIO e M. PETREJO, due nell' Ulteriore con MARCO TERENZIO VARRONE.
Afranio e Petrejo erano accampati sopra un'altura presso la città di Ilerda (Lerida) sulla riva destra del Sicoris affluente dell' Ebro.
Quando Cesare giunse nella Spagna, Fabio era già tra il Sicoris e il Cinga, aveva sostenuto alcune scaramucce con i Pompeiani e costruiti due ponti sul primo fiume che assicuravano le comunicazioni e i rifornimenti.
Alcuni giorni dopo il suo arrivo, per lo sciogliersi delle nevi dei Pirenei i due fiumi improvvisamente s'ingrossarono, le acque, straripando, allagarono la campagna e i ponti andarono distrutti. Le truppe di Cesare si trovarono bloccate, in una critica situazione, destinate a perire di fame.
AFRANIO era così certo della prossima fine dell'esercito nemico che ne diffuse la notizia a Roma, dove i pochi partigiani di Pompeo ripresero animo e i molti senatori dubbiosi si schierarono con quest'ultimo. Fra questi c'era CICERONE, il quale si trovava a Cuma, aspettando che la fortuna si dichiarasse per l'uno o per l'altro dei due rivali. Saputa la notizia inviata da Afranio, si decise e, imbarcatosi, andò a raggiungere Pompeo.
Molti però si pentirono di aver prestato fede così presto ai Pompeiani di Spagna. Cesare aveva ricostruito i ponti, aveva ristabilite le comunicazioni e aveva approvvigionato il suo esercito e, mentre DECIMO BRUTO otteneva una vittoria sulla flotta di Massilia, lui riceva ambasciatori di cinque importanti città spagnole che giunsero a lui per fare atto di sottomissione.

Dunque le cose volgevano male per i due luogotenenti di Pompeo, i quali, temendo di essere assaliti alle spalle, decisero di abbandonare la loro posizione e ritirarsi nell'interno; ma Cesare, che vigilava, li inseguì tra i monti, dove, se avesse voluto, avrebbe potuto tagliare a pezzi le loro milizie. Cesare invece non volle spargere il sangue dei suoi stessi fratelli e preferì questa volta lui vincerli con la fame.
Afranio e Petrejo si accorsero ben presto che non avrebbero potuto continuare a resistere a lungo e, poiché le loro legioni avevano cominciato a fraternizzare con quelle di Cesare, il 2 agosto decisero di arrendersi.
Il vincitore secondo il suo costume, fu magnanimo con i vinti. Mandò liberi i due capi e congedò i soldati, moltissimi dei quali però vollero passare sotto le sue insegne.

Avuta così ragione dei Pompeiani della Spagna Citeriore, il proconsole mosse contro quelli dell' Ulteriore, la cui conquista gli riuscì più facile. Infatti, al suo apparire, una legione pompeiana passò subito dalla sua parte. Cordova, Gades, Siviglia, e Italica gli aprirono le porte e VARRONE, vista inutile anzi pericolosa ogni resistenza, si arrese pure lui.
La guerra in Spagna era finita più in fretta d'ogni più rosea previsione.

Lasciato il governo della Spagna a Q. CASSIO LONGINO, da Gades, per mare, Cesare si portò a Tarracona, poi per terra, a Narbo Martius e all'assediata Massilia, che, tormentata dalla fame e dalla peste, essendo DOMIZIO ENOBARBO fuggito, si arrese, consegnò le armi, le macchine guerresche, le navi e il denaro dell'erario al vincitore e ne ricevette un presidio di due legioni.
A Massilia, Cesare seppe che, durante la sua assenza, su proposta di LEPIDO, era stato dal Senato creato dittatore. .
Avuta nelle sue mani anche la colonia focese, Cesare fece ritorno in Italia. Passando per Piacenza punì con la morte dodici soldati che avevano istigato una legione ad ammutinarsi; giunto a Roma, vi esercitò la dittatura per soli undici giorni, durante i quali prese delle misure che le circostanze rendevano necessarie. Anzitutto occorreva risolvere la questione dei debiti, la quale aveva fatto scomparire il credito e il denaro, creando una situazione pericolosissima. I debitori volevano le "tabulae novae", che cioè i debiti fossero condonati; Cesare invece, con la sua legge "de pecuniis", stabilì l'annullamento degli interessi, imputando quelli pagati al capitale mutuato, ed autorizzò i debitori a saldare i loro debiti con terreni al prezzo di stima anteriore alla guerra civile. Questo provvedimento valse ad innalzare il credito. A far poi tornare in circolazione il denaro, giovò il divieto imposto ad ogni cittadino di tenere presso di sé più di sessantamila sesterzi.
Né questi furono i soli provvedimenti adottati da Cesare. Per ingraziarsi il popolo alleviandone la miseria e ad accrescere in Italia e fuori le proprie aderenze, ordinò una distribuzione gratuita di grano, concesse alle popolazioni di Gades e della Transpadana la cittadinanza romana e richiamò dall'esilio tutti i proscritti, eccettuati Milone e Cajo Antonio.
Poi si fece eleggere console per l'anno 48 a.C., con SERVILIO ISAURICO e, lasciate a MARC'ANTONIO sei legioni con 1' incarico di raggiungerlo presto in Oriente, con altre sei partì per Brindisi. Qui s'imbarcò e raggiunse l'Epiro ma dopo un infruttuoso assedio di Durezza, dove si era rifugiato Pompeo con il suo esercito, puntò sulla Tessaglia.

LA VITTORIA DI FARSAGLIA

POMPEO in Oriente aveva approfittato dell'attività di Cesare in Italia e in Spagna, per radunare un esercito poderoso ed una flotta numerosissima.
Nove legioni costituivano il suo esercito; cinque le aveva condotte con sé dall'Italia, una, la "gemella", gli era venuta dalla Sicilia, un'altra dalla Macedonia, due erano state reclutate da Lentulo in Asia. Oltre queste truppe, altri soldati aveva raccolti nell' Epiro, in Tessaglia, nella Beozia, nell'Acaia e a Candia e due legioni gli doveva condurre dalla Siria Scipione. Numerosa era la cavalleria di cui disponeva Pompeo; settemila cavalieri romani ne formavano il nerbo, il resto era costituito di Cappadoci del re ARIOBARZANE, di Traci, comandati da SAFALE, figlio del re Coti, di Galati condotti dal vecchio re DEIOTARO, di Tessali e di Macedoni.

La flotta comprendeva cinquecento navi da guerra ed era posta agli ordini di BIBULO il quale aveva sotto di sé otto luogotenenti: SESTO POMPEO, LELIO, TRIASCO, CASSIO, MARCELLO, POMPONIO, LIBONE e OTTAVIO.
Le forze di Pompeo, erano di gran lunga superiori a quelle di Cesare, ma erano forze raccogliticce, soldati di molte nazionalità che non costituivano una salda compagine, che avevano metodi diversi di guerra e difettavano d'allenamento e di disciplina, mentre quelle di Cesare erano composte di veterani agguerriti che idolatravano il loro duce.
CESARE, eludendo la vigilanza della flotta avversaria, sbarcò sulle coste dell'Epiro il 4 gennaio del 48 a.C., s'impadronì di Erico e, passato nell' Illiria, prese Apollonia. Nell'attesa che MARC'ANTONIO lo raggiungesse per tentar con lui la conquista di Durazzo, si accampò sulle rive dell'Apsus. Ma le navi del suo luogotenente incontrarono la flotta di Pompeo che ne catturò trenta e Marc'Antonio dovette prolungare il suo soggiorno a Brindisi. Morto CALPURNIO BIBULO, Marc'Antonio forzò audacemente la squadra di Libone che incrociava davanti al porto e, sbattuto da una furiosa tempesta che causò gravi danni alle navi nemiche, riuscì a prender terra nell' Illiria, al promontorio Ninfeo.
Quasi un centinaio di miglia separavano il campo di Cesare dal punto in cui Antonio era fortunosamente approdato. Pompeo tentò d'impedire che i due eserciti nemici si congiungessero, ma non vi riuscì e, ritirandosi verso la sua base di Durazzo, trovò chiusa la via dall'esercito di Cesare, che con marcia fulminea per sentieri aspri e difficili si era messo fra i nemici e la città.
Costretti i pompeiani ad accamparsi sul monte Petra, Cesare concepì il disegno di bloccarli, recingendoli di trincee, ma i nemici avevano la via del mare aperta, dalla quale potevano ampiamente rifornirsi mentre lui non aveva dietro di sé che un paese montagnoso e sterile dal quale non poteva procurarsi che scarsissime vettovaglie.
Tuttavia Cesare si ostinò nell'impresa, assecondato mirabilmente dai suoi soldati, i quali, a corto di viveri, si ridussero, senza lagnarsi, a cibarsi di radici e qualsiasi cosa trovavano.
POMPEO, sebbene superiore di uomini, nulla fece per rompere il cerchio entro il quale il nemico lo andava chiudendo. Si limitava alla difesa e temporeggiava accortamente per logorare le forze avversarie e dar modo al suocero SCIPIONE di portargli in aiuto le due legioni della Siria. Informato però da due disertori delle condizioni in cui si trovavano i trinceramenti di Cesare, Pompeo decise un'azione offensiva ed assalita improvvisamente una trincea non ancora terminata, se ne impadronì.

A questo successo un altro poco tempo dopo se n'aggiunse. In un combattimento, dove s'impegnarono trentatre coorti di Cesare e sei legioni di Pompeo, queste ultime ottennero una facile vittoria e causarono sensibili perdite al suo rivale.
CESARE a quel punto capì che non avrebbe ridotto all'impotenza Pompeo finché a questo rimaneva aperta la via del mare. Occorreva perciò attirarlo lontano dalla costa e, per raggiungere questo scopo, levò il campo dalle vicinanze di Durazzo e prima andò ad Apollonia poi si diresse verso la Tessaglia.
Se Pompeo, dopo i suoi successi, fosse corso in Italia, impedendo con la flotta che Cesare lo seguisse nella penisola, forse la guerra tra i due rivali avrebbe presa una piega diversa; ma Pompeo fu ingenuamente convinto che Cesare fuggisse e iniziò a seguirlo.
Non era cosa facile raggiungere l'esercito di Cesare, stoico, capace di soffrire con lui, e abituato alle marce lunghe e faticose. Dopo quattro giorni Pompeo si rivolse contro DOMIZIO CALVINO, luogotenente di Cesare, che, accampato presso Eraclea Lincesti, impediva a METELLO SCIPIONE di congiungersi con Pompeo.
Ma Domizio, inferiore di forze, non aspettò l'arrivo del nemico e presa la via della Tessaglia, anche lui a marce forzate, velocemente andò ad unirsi a Cesare.

Congiunte le truppe con quelle di Metello, anche Pompeo penetrò in Tessaglia dietro le orme del suo rivale. Ormai credeva sicura la vittoria, di aver messo in trappola Cesare. Del medesimo avviso erano i suoi amici, i quali già facevano piani per l'avvenire, si dividevano i beni di Cesare e si disputavano la carica di pontefice massimo.

Cesare, dopo una marcia faticosa in mezzo a popolazioni ostili, si fermò nella pianura di Farsaglia che si stende sulla sinistra dell' Enipeo e qui impavido aspettò il nemico.
Disponeva di otto legioni ridotte che formavano un totale di venticinquemila fanti. Circa mille erano i suoi soldati a cavallo. Ma con quelle poche migliaia di uomini era certo di conseguire la vittoria contro un esercito doppio di forze. I suoi non erano i soldati sofferenti per le privazioni subite presso Durazzo; la lunga marcia anziché indebolirli li aveva resi più vigorosi e la battaglia che avevano dovuto sostenere a Gonfi aveva procurato una gran quantità di vettovaglie con le quali si erano abbondantemente rifatti dei precedenti digiuni.
Altissimo era il morale delle truppe ed erano impazienti di trovarsi di fronte ai soldati di Pompeo e di ingaggiare con loro battaglia. Il braccio e la mente funzionava benissimo

Pompeo, giunto a Farsaglia, pose il campo sopra un'altura. II suo esercito contava circa cinquantamila fanti ed ottomila cavalli e ostentava una grande sicurezza di vittoria. Fra i luogotenenti di Pompeo vi erano LABIENO, che aveva fatto la campagna della Gallia con Cesare, DOMIZIO ENOBARBO e MARCO GIUNIO BRUTO, figlio di Servilia, sorella di Catone e già amante di Cesare. Questo fatto fece credere agli storici che Bruto fosse figlio naturale del grande capitano; ma questa sembra una sciocca leggenda che ancora oggi trova credito.
GIUNIO BRUTO si vantava addirittura di discendere da quel Bruto che aveva con Collatino scacciato Tarquinio. Sebbene suo padre fosse stato ucciso da Pompeo all'inizio della guerra civile, lui aveva voluto seguire le sorti di quest'ultimo perché in lui vedeva la salvezza della Repubblica e perché con lui militava lo zio CATONE di cui aveva grandissima stima.

Il 9 agosto del 49 a.C. davanti alla tenda di Cesare, sventolò il gagliardetto scarlatto. Era il segnale della battaglia, e i due eserciti si schierarono nella famosa pianura dove si dovevano decidere quel giorno le sorti del mondo.

L'ala destra di POMPEO si appoggiava ad un affluente dell' Enipeo: la componevano le legioni della Cilicia e le coorti della Spagna e la comandava L. AFRANIO; il centro era costituito dalle legioni della Siria ed era comandato da METELLO SCIPIONE; alla sinistra stavano le due sue ex legioni che Cesare aveva cedute per la guerra contro i Parti, gli arcieri, i frombolieri e la cavalleria. Quest'ala era comandata da POMPEO, il quale aveva predisposto di rompere con i suoi cavalieri la destra di Cesare per poi avvolgergli l'esercito.

L'ala destra di CESARE era sotto il comando di MARC'ANTONIO, il centro sotto quello di LUCIO CALVINO e la sinistra comandata da SILLA.
Indovinando il piano di Pompeo, Cesare mise i suoi mille cavalli alla destra e sullo stesso lato, nella terza linea, sei coorti di fanti scelti armati di lancia e di spada che dovevano sostenere l'urto della cavalleria nemica e quindi impedirle l'aggiramento.

CESARE stesso si pose in quest'ala, alla testa della sua "fedelissima" X legione; posizione che costituiva la parte più delicata ed importante di tutto lo schieramento in battaglia.
CESARE non attese, ma volle prendere lui 1'iniziativa della battaglia e ordinò alla sua fanteria di avanzare. Precedute da un manipolo di coraggiosi, le prime due linee di fanti assalirono con sprezzo del pericolo i pompeiani che contennero l'urto dell'assalto a piè fermo.
A quel punto Pompeo comandò alla sua cavalleria di uscire. Avanzando al galoppo, l'enorme massa di cavalieri diede di cozzo sui mille cavalli di Cesare e li travolse, poi si buttò addosso all'ala destra nemica.
Ma ad un segno di Cesare, le sei coorti uscirono dai ranghi della terza linea ed affrontarono i cavalieri pompeiani. Una selva di aste dalle punte di acciaio scintillanti si parò davanti alla cavalleria nemica come una barriera insormontabile; poi seguì l'assalto degli astarii che fu sferrato con un impeto tremendo, poi avanzando minacciosi senza ostacoli, i cavalieri di Pompeo soccombenti voltarono le spalle e si misero in fuga, scoprendo così gli arcieri che erano destinati a compiere l'attacco della destra di Cesare. Di modo che assaliti da queste audaci coorti, in breve furono messi in rotta e la sinistra di Pompeo, scoperta anche quella, rimasta senza alcuna protezione, fu accerchiata senza via di scampo. La battaglia doveva ancora iniziare, ma l'esercito nemico non si era quasi neppure mosso.

Allora Cesare ordinò alla X legione ed alle milizie della terza linea di entrare in battaglia. L'esercito di Pompeo tentò di resistere, ma, assalito di fronte ed al fianco sinistro, cedette ed allora cominciò la strage.
Ma Cesare ordinò che si desse salva la vita ai romani che militavano nelle file del suo rivale e questi -soprattutto gli uomini delle due ex sue legioni- passarono sotto le insegne di Cesare.
La battaglia però non era ancora finita; alcune migliaia di scelti ausiliari si erano rifugiati negli alloggiamenti e Pompeo aveva dato disposizioni che si chiudessero le porte del campo e di prepararsi alla resistenza.

Appresa questa mossa di ripiego, Cesare, chiese ai suoi soldati un ultimo sforzo e, nonostante stanchi avendo combattuto per molte ore senza tregua, ugualmente si lanciarono con il grido di guerra, sull'ultima ancora di salvezza di Pompeo; che però non aspettò l'arrivo del nemico, lasciato le insegne, come un qualsiasi soldato disertore in fuga, montò sopra un cavallo, uscì dalla porta decumana e fuggì precipitosamente sulla via di Scotussa.

Senza più un capo, incapaci a difendersi, il campo cadeva in mano di Cesare. Che non si fermò neppure, ma lasciati a guardia del campo nemico due terzi delle truppe, con il resto si mise alle calcagna dei fuggiaschi, tagliò loro la via e li bloccò sulle montagne, prima ancora che calasse la notte.
All'alba del giorno dopo i pompeiani che non avevano più speranza di cavarsela, e anche indignati dalla fuga di Pompeo, si arresero.

Secondo il racconto di Cesare la battaglia costò ai pompeiani quindicimila fra morti e feriti, ma questa cifra forse è esagerata. Fra i morti fu trovato DOMIZIO ENOBARBO. I superstiti dell'esercito di Pompeo passarono ad ingrossare le file del vincitore e M. Giunio Bruto, che era riuscito a salvarsi, chiamato da Cesare, lo raggiunse e ne ricevette il perdono.

MORTE DI POMPEO

Pompeo, che aveva pre-annunciato prossima la disfatta di Cesare, dopo la sconfitta di Farsaglia con pochi fidati si recò a Larissa e riuscito a procacciarsi nella vicina costa una nave fece vela per Lesbo dove vi erano, sua moglie Cornelia e il figlio Sesto. Da Lesbo si recò in Cilicia, dove riuscì a radunare alcune navi e fu raggiunto da alcune decine di senatori e cavalieri. Lì apprese che la sua flotta era rimasta intatta e che Catone era partito per l'Africa. Tutto dunque non era perduto; ora occorreva solo trovare un rifugio sicuro; alla riscossa ci avrebbe pensato poi.

La regione che più di ogni altra gli offriva probabilità di sicurezza era la Siria. Qui avrebbe potuto mantenere il contatto con i suoi amici dell'Oriente, raccogliere un altro esercito, stringere alleanza con il re dei Parti e ritentare la fortuna delle armi; ma le città siriache gli fecero capire che lui non era un ospite gradito ed allora Pompeo decise di andare in Egitto sperando di trovarvi buona accoglienza per avere proprio lui fatto rimettere sul trono TOLOMEO AULETE.
Questi, morendo, aveva lasciato il regno ai figli TOLOMEO DIONISIO e CLEOPATRA, a patto che si sposassero, ma Potino, il tutore del quindicenne re, per poter meglio spadroneggiare aveva cacciato la sorella del suo sovrano. CLEOPATRA, rifugiatasi in Siria, con un piccolo esercito là allestito tentava di ritornare in Egitto, ma il giovane fratello con un numeroso esercito dislocato a Pelusio gli sbarrava il passo.
II momento non era certo dei più propizi per chiedere ospitalità ad un re giovinetto occupato nella guerra contro la sorella e completamente in balia del suo tutore e dei suoi generali, il cui animo, per la vittoria di Cesare, non poteva essere ben disposto verso il vinto; ma Pompeo non pensò a tutto questo e con duemila soldati e poche navi fece vela da Cipro e il 28 settembre del 48, vigilia del 59° anniversario della sua nascita, si presentò davanti a Pelusio e chiese ospitalità al sovrano d'Egitto.
Tolomeo inviò una barca con alcuni schiavi verso la nave con sopra POMPEO, il generale ACHILLA, SALVIO e L. SETTIMIO. I tre avevano militato sotto le insegne del vinto come centurione l'uno e di capo-coorte l'altro ed erano pure loro fuggiti da Fersaglia.
La richiesta di Pompeo dunque era stata accolta e quella barca veniva a prenderli per condurli alla riva. Si narra che Pompeo, come se presentisse il destino cui andava incontro, salutando la moglie, mormorasse i versi di Sofocle: "Chi si reca alla casa del tiranno lascia la libertà e corre verso la schiavitù".

Accompagnato da un suo liberto di nome Filippo, e dai suoi tre "amici", Pompeo scese nella barca che, spinta dai remi, si allontanò verso la riva. Quando fu giunto all'approdo, Pompeo si alzò per discendere. In quell'istante SETTIMIO, sguainata la spada, inferse un colpo tremendo a colui che era stato il suo generale, subito imitato da Salvio e da Achilla. Pompeo non reagì; al primo colpo si era già coperto il volto con la toga, e lasciò che il tradimento si concludesse fino in fondo.
Con una sciabolata gli fu tagliata di netto la testa e inviata a Tolomeo, mentre il corpo fu abbandonato sulla spiaggia.

Dalla nave, Cornelia, i figli e gli amici assistettero atterriti alla tragedia. L'infelice consorte avrebbe voluto accorrere al lido per ricuperare il corpo del marito, ma siccome la flotta di Tolomeo si preparava a muover contro le navi dei pompeiani, indubbiamente per catturarle, queste sciolsero le vele e si allontanarono, lasciando risuonare nell'aria le lamentose grida di Cornelia.
Così finiva la vita, tredici anni dopo il trionfo sui pirati e su Mitridate, colui che per qualche tempo era stato il padrone del mondo. Quel giorno stesso il suo cadavere fu bruciato dal fedele Filippo sopra un improvvisato rogo formato con i fradici rottami di una barca.

LA GUERRA ALESSANDRINA - IL RITORNO DI CESARE

CESARE intanto, ignaro di quanto era già accaduto, dava la caccia al suo rivale. Lasciata la Tessaglia, si era recato a Gnido e lì apprese che Pompeo da Cipro aveva fatto rotta per 1'Egitto. Allora con una quindicina di navi, ottocento cavalli e due legioni della forza di tremila e duecento uomini, fece vela per Alessandria.
Si narra che, appena sbarcato, da alcuni messi di Tolomeo, gli fu mostrata la testa di Pompeo che, così facendo, credeva il giovane re d'ingraziarsi il vincitore di Farsaglia. Cesare invece si mostrò addolorato, accolse presso di sé tutti i pompeiani d'Egitto, fece raccogliere le ceneri di Pompeo e ordinò che fossero inviate a Cornelia.
Sul luogo in cui era stato ucciso Pompeo, più tardi - scrive Appiano - fece erigere un tempio all'Indignazione.
In Egitto Cesare volle rappacificare TOLOMEO XII e CLEOPATRA, ma anche riscuotere la somma di diecimila talenti dovuti a Roma fin dal 59, ma che poi ridusse generosamente a duemila e cinquecento.
Invitò pertanto Tolomeo e Cleopatra, la quale non era ancora ventenne ed era famosa per la sua bellezza e la sua grazia, a comparire dinnanzi a lui e in omaggio alla volontà del genitore ordinò che si unissero in matrimonio; poi rese la libertà a Cipro e al governo di quell'isola pose i figli minori di Aulete, 1'undicenne TOLOMEO (poi XIII) e ARSINOE che contava poco più di sedici anni.
Non fidandosi degli Egiziani, Cesare trattenne presso di sé il primo Tolomeo e Cleopatra, occupò e fortificò la reggia e fece uccidere Potino che congiurava contro di lui.

LA GUERRA ALESSANDRINA (48-47 a.C.)

Gli avvenimenti dimostrarono quanto erano necessarie le misure precauzionali adottate da Cesare. ACHILLA difatti, sobillato da ARSINOE, lasciato un forte presidio a Pelusio, era corso ad Alessandria con l'esercito ed aveva posto l'assedio al quartiere dove i Romani, rinforzati da una legione inviata da DOMIZIO CALVINO, si erano trincerati.
Avendo saputo che se avesse lasciato libero il loro re, gli Egiziani avrebbero levato l'assedio, Cesare restituì loro TOLOMEO che andò fra i suoi protestando amicizia; ma, non appena libero, si mise a capo della rivolta e l'assedio continuò sotto la sua direzione.
Non avendo grandi forze a disposizione per fare delle sortite, per cinque mesi Cesare resistette validamente agli Egiziani che fecero di tutto pur di avere ragione del nemico, inquinando perfino con l'acqua del mare quella delle cisterne e tagliando i canali che portavano nel quartiere degli assediati l'acqua del Nilo. Ma a nulla valsero i loro sforzi, perchè i Romani respinsero sempre gli attacchi, si procurarono acqua per mezzo delle navi loro rimaste, e, quando Tolomeo intensificò la sorveglianza sul mare, scavarono all'interno profondi pozzi.

Nel marzo del 47, giunse la notizia che MITRIDATE di Pergamo, attraverso la Siria stava correndo in aiuto di Cesare, e si trovava alla frontiera orientale dell'Egitto. Mitridate conduceva un esercito forte di circa ventimila uomini. Giunto a Pelusio, diede l'assalto alla piazzaforte e se ne impadronì, poi, risalito il Nilo, lo passò a Menfi, mentre contro di lui correva Tolomeo con tutte le sue forze per combattere il nuovo nemico.
Appena apprese che Mitridate, espugnata Pelusio, avanzava su Alessandria, Cesare lasciò la città con un gruppo di legionari e, girato il lago di Marea, puntò verso il Nilo per congiungersi con il suo soccorritore.
Tolomeo aveva posto il suo campo in un luogo fortissimo, tra il fiume e una palude. Dalla parte del grande fiume era guardato da alcune navi della sua flotta, e il fronte verso la pianura era stato fortificato con profondi trinceramenti.
Da questa parte soltanto i soldati di Cesare potevano attaccare gli Egiziani, ma non era facile espugnare le trincee guardate dalla maggior parte delle truppe nemiche. Ma Cesare però trovò il modo di impadronirsi del campo del re.
Avendo osservato che tra il fiume e il campo correva un piccolo sentiero, ordinò ad un suo ufficiale di nome CAMULENO di spingersi in quell'angusta via con mille soldati e sorprendere il campo alle spalle. Lui avrebbe distratto da quella parte l'attenzione del nemico attaccando le trincee che guardavano la pianura.

Il piano di Cesare riuscì a meraviglia. Gli Egiziani, attaccati dai Romani, li fronteggiarono bene; ma ecco levarsi alle loro spalle, urli altissimi. Erano i mille di Camuleno, che sembravano diecimila, e penetrati come una furia nel campo, attaccavano alle spalle i difensori delle trincee.

Questi, minacciati da dietro, tentennarono. Approfittò Cesare dell'indecisione del nemico, dal davanti, alla testa di venti coorti fresche, assalì il trinceramento
con tutto l'impeto dei suoi uomini Gli Egiziani non resistettero al duplice urto poderoso e si dettero alla fuga disordinatamente.
Incalzati dai legionari, cercarono scampo nella palude e nel fiume; coloro che tentarono di fuggire attraverso la palude perirono nella melma, quelli che si erano buttati nel Nilo, parte riuscirono a raggiungere a nuoto le navi, parte annegarono.
Il giovane Tolomeo anche lui in fuga, riuscì a salire sopra una nave, ma questa era talmente piena di fuggiaschi, che in breve tempo s'inabissò trascinando tutti in fondo al limaccioso e profondo fiume.
Così finiva la cosiddetta "guerra alessandrina".

Cesare alla testa del suo esercito si mosse verso Alessandria. La fama della sua strepitosa vittoria lo aveva preceduto; gli abitanti avevano abbattuto le mura erette intorno alla reggia e al teatro e, vestiti in gramaglie per far mostra del loro pentimento, erano andati incontro al vincitore portando le immagini dei loro numi per placare la collera del console.
Seguito dalle sue legioni vittoriose, Cesare attraversò le vie della città in mezzo a due ali interminabili di folla supplicante, diretto alla reggia.
Sulla marmorea scala del palazzo ad aspettarlo c'era la bellissima Cleopatra, abbigliata in eleganti vesti di regina, circondata dalle sue ancelle, la quale lo accolse con un sorriso maliardo e gli pose sul capo una corona d'oro.
Cesare rimase ancora tre mesi in Egitto per dare assetto al regno; mise sul trono accanto a Cleopatra il fratello minore Tolomeo XIII (Neotero), incorporò Cipro alla provincia Cilicia, diede ai Giudei diritti pari ai Greci e punì l'infedele Arsinoe riservandolo per il proprio trionfo.

Nel luglio dello stesso anno 47, lasciate due legioni ad Alessandria, partì alla volta dell'Asia. Si recava contro FARNACE, sovrano del reame del Bosforo Cimmerio, che aveva iniziato una campagna per occupare il Ponto appartenuta al padre Mitridate, aveva già invaso la piccola Armenia e la Cappadocia. Dietro intimazione di DOMIZIO CALVINO di sgombrare dai paesi invasi, egli aveva abbandonato soltanto la Cappadocia, costringendo Calvino a dichiarargli guerra; ma rimasto con una sola legione, era stato sconfitto a Nicopoli.
Cesare unì alle sue scarse milizie che portava dall'Egitto le truppe di Calvino e le soldatesche di Deicotaro, re di Galazia, attraversò rapidamente la Siria, la Cilicia e la Cappadocia, piombò fulmineamente su Farnace che lo aspettava a Zela (o Ziela), e qui il 2 agosto subì una disastrosa sconfitta.

Cinque giorni durò la guerra con Farnace. Informando il Senato delle operazioni contro il re del Bosforo, Cesare si esprimeva laconicamente con le tre parole rimaste famose: "venni, vidi, vinsi" ("Veni, vidi, vici").
Dopo la vittoria di Ziela, Cesare mise sul trono del regno del Bosforo e parte della Galazia, MITRIDATE di Pergamo che così validamente lo aveva aiutato nella guerra alessandrina, il resto della Galazia lo lasciò a DELOTARO e restituì la Cappadocia ad ARIOBARZANE cui diede inoltre la piccola Armenia, poi si mise in viaggio per l'Italia dove vi giunse nel settembre.

Durante la sua lunga assenza (e con i vari colpi di scena accaduti durante la guerra, poi la misera morte di Pompeo) i giochi dell'ambiguità avevano sostituito quelli del circo, e molti fermenti si erano verificati nella penisola. M. CELIO RUFO, che Cesare aveva innalzato alla carica di pretore, aveva rimesso in campo la questione dei debiti riproponendo che il pagamento, libero degli interessi, fosse prorogato di sei anni, e che per un anno dovevano essere condonate agli inquilini le pigioni. Le sue proposte erano state respinte e, poiché lui con un gruppo di faziosi aveva cacciato dall'ufficio il pretore urbano C. TREBONIO, il console SERVILIO lo aveva sospeso dalla carica.
A quel punto, CELIO, chiamato da MASSILIA MILONE, si era recato nell'Italia meridionale per ribellarla a Cesare, ma a Turio era stato ucciso dalla stessa guarnigione. Milone, alla testa di una schiera di gladiatori, era sceso nell'Irpinia, ma, assediando una fortezza, un fatale sasso, lanciatogli contro da un assediato, gli aveva tolto la vita.

Di altri disordini erano stati causa altre due ex fidi di Cesare: CORNELIO DOLABELLA, genero di Cicerone, e MARC'ANTONIO. Quest'ultimo, dopo la famosa giornata di Farsaglia, era stato rimandato in Italia con una parte delle truppe. A Roma la notizia la lui portata della clamorosa vittoria e la fuga di Pompeo, aveva recato a Cesare grande fama, fatto aumentare i suoi sostenitori, molto di più che non la conquista della Gallia.
Il Senato lo aveva creato dittatore, lo aveva dichiarato inviolabile, gli aveva concesso il diritto di chiedere per cinque anni consecutivi il consolato, di muover guerra e concludere trattati di pace, di designare i magistrati, eccettuati i tribuni e gli edili plebei, e di assegnare le province pretorie.
Appresa ad Alessandria la sua nomina a dittatore, Cesare (a distanza) aveva creato maestro della cavalleria MARC'ANTONIO, sebbene questi per la sua ambizione, per la sua avidità e per i suoi costumi, fosse malvisto dal Senato e, in parte, dal popolo, di cui prima godeva il favore.
DOLABELLA aveva rimesso in campo le proposte di Celio sui debiti e le pigioni e, avvalendosi della sua carica di tribuno, aveva convocato l'assemblea del popolo per fare approvare le sue leggi. MARC'ANTONIO però, dietro incarico del Senato, aveva sciolto con le armi l'assemblea e questo fatto aveva lasciato strascichi di odi, suscitato molti malumori, si preannunciava un'altra anarchia.

Quando nel settembre CESARE si mise in viaggio verso Roma, sulla via di Taranto a Brindisi gli andò incontro CICERONE, che dopo la sconfitta di Farsaglia, aveva lasciato Pompeo e si era ritirato a Brindisi. Cesare, appena vide il famoso oratore, scese da cavallo e proseguì solo con lui per un buon tratto di strada affabilmente conversando.
Cesare giunse a Roma, e l'anarchia scomparve come per incanto; MARC'ANTONIO fu sospeso dalla carica di maestro della cavalleria, ma DOLABELLA non ebbe alcuna punizione, anzi la sua legge sulle pigioni fu da Cesare accettata, e gli affitti delle case furono condonati fino alla somma di duemila sesterzi a Roma e cinquecento in Italia. Al popolo fu fatta una straordinaria distribuzione di grano e di olio, dieci moggi del primo e dieci libbre del secondo a testa, più cento sesterzi, e una distribuzione di carne.

Dopo questi doni fatti al popolo, Cesare pensò agli amici e, per avere maggior numero di cariche da distribuire fra di loro, aumentò di due il numero dei pretori e di uno quello dei pontefici, degli auguri e dei custodi dei libri sibillini. Aumentò inoltre il numero al Senato con molti membri scelti fra i cavalieri e fra i centurioni del suo esercito, poi nominò consoli per gli ultimi tre mesi dell'anno 47 i suoi amici Q. FUFIO CALENO e PUBLIO VATINIO e pretore lo storico SALLUSTIO CRISPO che nel 50 era stato espulso dal Senato dai censori Appio Claudio Pulcro e L. Calpurnio Pisone sotto l'accusa di vita scostumata.
Proprio negli ultimi mesi dell'anno 47, a settembre, un grave ammutinamento era scoppiato fra le truppe nella Campania. Cesare aveva ordinato di trasferirle in Sicilia e tenersi pronte per scendere con lui in Africa alla fine di ottobre, ma le milizie chiedevano il premio e il congedo rifiutandosi di obbedire agli ordini del dittatore trasmessi dal luogotenente M. Gallio.

Cesare spedì SALLUSTIO in Campania per ridurre all'obbedienza le truppe ammutinata, ma il neopretore non solo non fu ascoltato ma minacciato dall'ira dei soldati dovette salvarsi con la fuga; poi gli ammutinati minacciosamente marciarono su Roma.
Quando giunsero alle porte della città, Cesare si presentò alle milizie e le arringò chiamandoli "quiriti" (cittadini) anziché "milites" come era sua abitudine quando parlava ai soldati; accordò poi loro il congedo sciogliendoli dal giuramento e promettendo che alla fine della guerra, al ritorno avrebbe pagato il premio con gli interessi.
La presenza di Cesare, il suo franco linguaggio e - dicono gli storici - l'appellativo inusitato di "quiriti", il quale sottilmente annunciava che da quel momento gli ammutinati non erano considerati più soldati e compagni del generale, impressionarono talmente le truppe che, smesso il contegno minaccioso, domandarono scusa, supplicarono Cesare di tenerli sotto le armi e si dichiararono pronte a seguirlo in Africa a combattere.

Tornate all'obbedienza le truppe, Cesare designò i magistrati per l'anno 46, nominò fra i suoi amici i governatori delle province, si fece eleggere console e scelse come collega M. EMILIO LEPIDO, rientrato da poco dalla Spagna Citeriore.

Poi, l' 8 ottobre dello stesso anno 47 (25 dicembre del vecchio calendario) GIULIO CESARE, da Lilibeo (Marsala) fece vela per la costa africana con sei legioni.

Questa, e quella successiva in Spagna, fatte per sbarazzarsi degli ultimi pompeiani;
ma questi erano meno pericolosi di quelli che a Roma già tramavano una congiura.


E' l'ultimo periodo di CESARE !

... il periodo dall'anno 47 al 44 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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