ANNI 1162 - 1167

LEGA VERONESE - LEGA LOMBARDA - GIURAMENTO DI PONTIDA
( dal 1162 al 1167 )

LA DIETA DI LAUNES E IL FALLITO TENTATIVO DI RISOLVERE PACIFICAMENTE LO SCISMA PAPALE - CONCILIO DI TOURS E SCOMUNICA DI VITTORE IV - LA POLITICA ITALIANA DEL BARBAROSSA: TERZA DISCESA IN ITALIA - RINVIO DELLA SPEDIZIONE CONTRO LA SICILIA - LA DIETA DI PARMA E LA QUESTIONE DELLA SARDEGNA - MORTE DI VITTORE IV ED ELEZIONE DELL'ANTIPAPA PASQUALE III - POLITICA DI VENEZIA - LA LEGA VERONESE - FEDERICO RITORNA IN GERMANIA - DIETA DI WURZBURG - RITORNO DI ALESSANDRO III A ROMA - QUARTA DISCESA DEL BARBAROSSA IN ITALIA - DIETA DI LODI; ASSEDIO DI ANCONA - LA LEGA LOMBARDA E IL GIURAMENTO DI PONTIDA. - RIEDIFICAZIONE DI MILANO - BATTAGLIA DI MONTE PORZIO - IL BARBAROSSA IN PUGLIA E ALL'ASSEDIO DI ROMA - FUGA DI ALESSANDRO III - LA PESTILENZA DI FEDERICO - L' IMPERATORE SI RITIRA NELL' ITALIA SETTENTRIONALE - PROGRESSI DELLA LEGA LOMBARDA E SUOI ACCORDI CON LA LEGA VERONESE - FUGA DEL BARBAROSSA DALL'ITALIA
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LA TERZA DISCESA DI FEDERICO IN ITALIA - LEGA VERONESE

Abbiamo visto nel capitolo dell'anno 1159-1162 (quello sulla triste sorte toccata a Milano) il Barbarossa raccogliere nelle città nemiche dei Milanesi, gli applausi per lo scempio compiuto sulla città, e promettere (era il 9 giugno 1162) ai Genovesi in cambio dell'aiuto con le loro navi per la spedizione nel Regno di Sicilia, che a vittoria ottenuta sui Normanni avrebbe concesso loro, come ricompensa in feudo la costa da Monaco a Porto Venere, la città di Siracusa e duecentocinquanta feudi nella valle di Noto in Sicilia.

Barbarossa poi, per tanti motivi, rimandò a successivi tempi l'invasione, e lasciati in Lombardia dei propri rappresentanti con l'incarico di mantenere il controllo sulla provincia, attraversò le Alpi per andare prima in Borgogna poi far ritorno in Germania.

La causa che spingeva Federico Barbarossa in Borgogna era il desiderio di risolvere pacificamente lo scisma papale. L'Imperatore aveva cercato di togliere ad ALESSANDRO III il favore del re LUIGI VII di Francia promettendo a quest'ultimo di aiutarlo contro ENRICO II d'Inghilterra (in quegli anni in forte contrasti con il sovrano francese.
Gli Inglesi a conoscenza di questi passi per un'eventuale alleanza, si allarmarono, e fu proprio Federico alla fine a far interrompere i contrasti e a far nascere un'intesa di Enrico II e Luigi VII.
Quest'ultimo era ad un passo dall'alleanza, andò perfino all'incontro che doveva avvenire il 29 agosto 1162 a Saint-Jean-de-Losne ( o Lune, o Launes), con l'Imperatore; già lo aveva voluto evitare e ci si recò con grandi incertezze, poi quando fu sul posto e gli annunciarono che Federico era già arrivato ma non trovandolo se n'era andato, e irritato, ma anche sollevato, se ne tornò a Digione. Non ebbe poi a pentirsi della scelta.

Luigi VII aveva accettato la proposta di Federico - trasmessagli dal cognato Ugo di Champagne - di convocare in quella città una dieta generale dei due regni nella quale sarebbero state sottoposte a un definitivo esame le ragioni dei due papi. Come sede della dieta era stata appunto scelta Losne, sulla Saona ed era stato deciso che, se uno soltanto dei pontefici si fosse presentato, quello sarebbe stato dichiarato legittimo Papa.
A Losne, però, come era da prevedersi, ALESSANDRO III non comparve: si rifiutò affermando che "non conveniva alla maestà di un pontefice regolarmente eletto sottoporsi al giudizio di un concilio convocato da chi apertamente favoriva l'antipapa"; intervenne invece VITTORE IV che dal Barbarossa ebbe la conferma della legittimità attribuitagli al concilio di Pavia.
Dopo due giorni di vivo dibattito, i vescovi francesi si rifiutarono di riconoscere Vittore come Capo legittimo della Chiesa e il Barbarossa, pieno di sdegno, se ne tornò in Germania.

La dieta di Losne riuscì però di gran vantaggio ad ALESSANDRO III, il quale non solo ebbe il riconoscimento di Luigi, ma ebbe anche quello del re d'Inghilterra. I due sovrani, incontratisi a Tours, tennero la staffa al Pontefice e, dimenticando le antiche rivalità, conclusero un patto d'alleanza.

Un bel pasticcio per Federico, proprio quando si sentiva maggiormente sicuro della sua posizione, si ritrovò invece minacciato da un pericolo inatteso.
Aveva contro la Francia, l'Inghilterra, il Papato già alleatosi con i Normanni, questi ultimi due con i Bizantini e i Veneziani, e in quanto alla Lombardia sapeva benissimo che dopo il suo passaggio non era certo rimasto nei cuori della gente e che quel popolo aspettava solo l'occasione buona; in più per risolvere alcuni affari era necessaria la sua presenza in Germania.

Incoraggiato dall'aiuto dei due sovrani che avevano fatto pace, ALESSANDRO III, convocò a Tours, per il giugno del 1163, un concilio. Vi parteciparono diciassette cardinali, centoventiquattro vescovi, quattrocento abati, convenuti dalla Francia, dalla Spagna, dall'Inghilterra, dalla Scozia e dall'Irlanda, oltre una moltitudine di chierici minori e di laici. Nel concilio furono presi parecchi provvedimenti riguardanti la disciplina ecclesiastica; ma l'atto più importante fu l'anatema lanciato contro VITTORE IV e l'invito fatto al Barbarossa di abbandonarlo, altrimenti l'anatema era già pronto anche per lui.
Qui Federico non fu proprio politicamente abile, e nemmeno riuscì a capire quanto invece era stato abile il suo avversario che aveva fatto sentire tutto il peso della sua influenza ai due sovrani; di riflesso riceveva omaggi e riconoscimenti da gran parte del clero europeo; né gli venne in mente che in Lombardia quelli che lui credeva domati e umiliati, erano ora ancora più decisi di prima di combatterlo fino a distruggerlo.

Prendiamo un passo di Bertolini: "La fortuna del Barbarossa cominciava dunque a declinare; e una volta che si era messa sulla sdrucciolevole via, proseguì il fatale cammino fino a che non ebbe compiuto la sua rovina e dell'intera sua casa. Questa politica italiana seguita fedelmente dai suoi successori, fu poi la cagione della luttuosa catastrofe degli Hohenstaufen. Quella politica era, infatti, tutta una cosa personale (fra lui e il Papa). E per questa ragione, il regno germanico vide consumarsi le vite dei suoi figli, i suoi sogni e il suo stesso prestigio, e con questo dissolversi l'egemonia esercitata dall'impero fin dal tempo degli Ottoni su l'Europa.
"Non è, infatti, con l'esagerazione del rigore, né con gli atti di ferocia che il potere si afferma. La vittima dell'oggi è il vendicatore del domani; e la vittima solleva sempre intorno a sé la compassione con lo spettacolo stesso delle sue sventure; e a tale sentimento del tutto umano nessuno resiste. Non può far quindi meraviglia, di vedere i devastatori di Milano divenuti poi ospiti dei cittadini rimasti senza patria: Pavia, Cremona, Lodi, Como fecero a gara nell'ospitare i miseri orfani, come prima avevano fatto a gara nell'opera di distruzione della loro città loro (Bertolini)".
Il popolo alla fine "fa sempre quello che vuole, quando vuole, e dove vuole"!

Né era soltanto il sentimento d'umanità di fronte alla sventura di Milano che inteneriva l'anima degli abitanti delle città rivali: era, anche quasi una protesta alle vessazioni che i luogotenenti imperiali facevano patire alle terre dell'alta Italia. Sappiamo perfino i nomi di alcuni tra questi luogotenenti, che spogliavano, imprigionavano, uccidevano senza pietà: ARNALDO BARBAVARIA a Piacenza, BELLANUCE a Ferrara, MARQUARDO di GRUMBACH a Bergamo e a Brescia, EZIO a Parma, PAGANO a Como.
Ma più di tutti tiranneggiava un PIETRO CLUNIN, procuratore imperiale nelle quattro misere borgate milanesi, a paragone del quale VERRE si poteva considerarlo un galantuomo.
Le popolazioni lombarde nei confronti dell'Imperatore erano nonostante tutto, perfino generose - e se dobbiamo credere al cronista "Acerbo Morena" - non credevano che tutte queste vessazioni fossero state ordinate dall'Imperatore ed erano sicure che Federico, ritornando, si sarebbe mostrato dispiaciuto della condotta dei suoi luogotenenti ed avrebbe sollevato i cittadini dai mali da cui erano afflitti: e fiduciosi aspettavano ogni giorno l'arrivo del Barbarossa ("Imperatoris adventum quotidie expeotabant").
Anche se sotto il monito della terribile sorte cui era andata incontro, sotto la superficie stava già maturando il germe della rivolta.

E Federico scese per la terza volta in Italia nell'ottobre del 1162, senza esercito, ma con un numeroso seguito di principi e di vescovi. E fu assediato letteralmente dalle rimostranze contro l'esosità dei suoi agenti e dalle richieste di mitigare le pene delle popolazioni oppresse.
A Lodi, dove alcuni giorni dopo il suo arrivo lo raggiunse VITTORE IV, convocò una dieta alla quale intervennero i legati di Pisa e Genova, con cui fu stabilito che il 1° maggio dell'anno seguente le due repubbliche avrebbero messo a disposizione dell'Imperatore le loro flotte per l'impresa di Sicilia.

Da Lodi il Barbarossa passò a Pavia. I Pavesi si dispiacquero con lui per la resurrezione di Tortona e l'Imperatore, il 24 novembre, accordò loro di distruggerla una seconda volta, mostrando alle popolazioni lombarde quanto era fragile la speranza di sollievo che riponevano nell'arrivo del principe. Nonostante questo, il 3 di dicembre, quando il Barbarossa si recò a Monza, i Milanesi di Borgo Vigentino gli andarono incontro sotto una battente pioggia e, gettatisi ai suoi piedi, lo pregarono con le lacrime agli occhi che restituisse loro i beni e la patria. Parve commuoversi a quelle preghiere, ma in effetti non prestò quasi orecchio a questi appelli, si limitò l'Imperatore ad incaricare l'arcivescovo di Colonia, perché li ascoltasse lui e vi provvedesse.
Ma quando i deputati dei quattro borghi portarono al prelato le loro rimostranze per le vessazioni, da cui erano oppressi, ottennero un'altra vessazione; cioè si sentirono domandare una forte somma di denaro.

All'inizio del 1164 il Barbarossa passò il Po, visitò la Romagna e si spinse fino a Fano, dove lo troviamo il 24 febbraio dello stesso anno. Qui gli si presentarono i legati di Genova per chiedergli se confermava la data fissata a Lodi per la spedizione di Sicilia. L'Imperatore invitò i legati a seguirlo a, Parma, dove il 22 marzo aveva convocata una dieta. Ma qui nulla fu deciso per l'impresa contro i Normanni; fu invece trattata solo la questione della Sardegna.
Al possesso di quest'isola aspiravano la Santa Sede, Genova e Pisa. Queste due repubbliche vi avevano stabilito fiorenti colonie e avevano in mano tutto il commercio isolano, e, stando in perpetua rivalità tra loro, s'intromettevano nella politica interna della Sardegna che allora era divisa nelle quattro giudicature di Gallura, di Logudoru, di Arborea e di Cagliari.

In questo periodo, BARESONE, principe della Gallura, per le trame dei Pisani era stato cacciato dalla sua giudicatura. Per rientrare in possesso del suo principato si era rivolto a Genova affinché con le sue buone relazioni con l'imperatore gli procurasse l'appoggio del Barbarossa; e alla dieta di Parma aveva mandato come suo legato il vescovo di San Giulio in compagnia di due autorevoli cittadini genovesi.
Volendo Federico far valere i diritti dell'Impero anche sulla Sardegna, creò re dell'isola Baresone a patto che pagasse quattromila marchi. Non avendo però quel tale somma, pagò Genova per lui; ma, avendo la repubblica sospettato che il re cercasse di avvicinarsi ai Pisani, per non perdere la somma prestata, trattenne presso di sé Baresone fino a che non avesse pagato il suo debito.

Verso la fine di marzo 1164, Barbarossa, lasciata Parma, si recò a Pavia dove si ammalò e per alcune settimane sua fedele compagna fu la febbre; di modo che fu costretto a rinunziare all'impresa di Sicilia. Altro motivo che lo consigliò a rimandare ad altri tempi la spedizione contro i Normanni fu la morte di VITTORE IV, avvenuta a Lucca il mese dopo, il 20 aprile del 1164.
La fine dell'antipapa non servì a far cessare lo scisma, perché i cardinali sostenitori del Barbarossa, (mal) consigliati dall'arcivescovo di Colonia, elessero con il nome di PASQUALE III il cardinale GUIDO da Cremona, discendente di nobile famiglia, uomo magniloquente, accorto ed energico, il quale per le sue qualità dava a Federico la certezza che avrebbe condotto ad oltranza la lotta contro ALESSANDRO III.

Ma non era solo con lo scisma che poteva il Barbarossa sostenersi in Italia, scisma che tutti sapevano avere origine prettamente politica; né era sufficiente la sua presenza, nella penisola per tenere a freno le popolazioni soggette. Un gravissimo malcontento serpeggiava fra gl'Italiani del nord e del centro; i Milanesi che andavano peregrinanti in ogni luogo raccontando la misera fine della loro città, il malumore mentre lo allargavano nello stesso tempo mitigavano nelle popolazioni le antiche o recenti rivalità municipali e quell'impulso fratricida.
L'opera tirannica dei luogotenenti imperiali rendeva pesante il giogo tedesco e faceva pensare con nostalgia, anche alle città una volta amiche di Federico, al tempo in cui fiorivano le libere istituzioni comunali.
La politica egoistica del Barbarossa aveva insomma destato nelle città italiane una gran preoccupazione e le aveva rese tutte pensose del loro avvenire; inascoltate ogni tipo di richieste, si resero conto che avrebbero potuto contare solo sulle proprie forze.
Anche perché ormai vedevano in lui un serio ostacolo al proprio sviluppo, un danno irreparabile per loro interessi, né si vedevano avvantaggiate dalla sua amicizia, come ai Pisani aveva dimostrato la decisione di Parma circa la questione della Sardegna.
Preoccupata più di tutte era Venezia, che con un'accorta politica si era schierata a seconda che le circostanze richiedevano, ora con i Bizantini, ora con i Normanni e che sotto il doge DOMENICO MOROSINI, aveva stretto un trattato con il Barbarossa rinnovando i rapporti amichevoli che aveva tenuto con i suoi predecessori. A Venezia conveniva che la potenza di Federico non si affermasse nell'Italia settentrionale, perché la politica espansionista della repubblica poteva ottenere maggiori vantaggi da città rette a comune e divise tra loro, che non da un organismo compatto dipendente da un monarca quasi assoluto.
Un grido di allarme era stato provocato dal decreto emanato dall'imperatore dopo la distruzione di Milano: quello a favore dei Genovesi, ai quali era arbitrariamente accordata libertà di traffico nei possedimenti veneziani. Da allora Venezia giustamente preoccupata del suo avvenire, politico e commerciale, corse ai ripari e trovò nello scisma e nel malcontento delle città vicine un terreno favorevole alla difesa de suoi interessi.
Nella lotta tra i due pontefici, dietro iniziativa del patriarca di Grado, Venezia si schierò a favore di Alessandro III, il che gli procurò pure un avvicinamento con Guglielmo di Sicilia; colse poi occasione dal malcontento che tenevano in agitazione alcune città dell'Italia superiore per promuovere e capeggiare una lega tra Verona, Vicenza e Padova, che passò alla storia con il nome di LEGA VERONESE.

Era, questo, un avvenimento di grande importanza, che non poteva lasciare indifferente il Barbarossa e che costituì uno dei motivi del rinvio della spedizione siciliana (inverno del 1163-64). Non disponendo di un forte esercito e fidandosi poco delle milizie lombarde, l'imperatore cercò di scongiurare il pericolo minacciato dalla nuova coalizione concedendo alle città di dubbia fede vicine della marca veronese privilegi che in altri tempi non avrebbe mai concessi. E così non solo le città di Treviso, Mantova e Ferrara ebbero confermate nel maggio del 1164 le franchigie comunali, ma ne furono accordate pure alle altre città lombarde fedeli, tra le quali Pavia fu la più favorita di tutte, ottenendo che i consoli, liberamente eletti, fossero parificati per dignità ai marchesi e ai conti.

Ma il provvedimento, oltre che preso troppo tardi, era parziale e perciò non solo inefficace, ma dannoso. Il malcontento, anziché cessare, s'inasprì e si estese, e Bologna e Piacenza scacciarono i podestà imperiali.
Allora il Barbarossa si convinse che gli occorreva ritornare al sistema della forza, a quel sistema che, se gli aveva dato un tempo il successo, era stato (ma lo dimenticava) pure la causa della situazione attuale.
Con il proposito di radunare un forte esercito e tornare poi in Italia per domarla con le armi, nell'autunno del 1164 prese la via del ritorno verso la Germania.

QUARTA DISCESA DI FEDERICO IN ITALIA
LA LEGA LOMBARDA E IL GIURAMENTO DI PONTIDA

La posizione del Barbarossa era più grave di quanto lui credesse. Non era soltanto nella rivolta delle città lombarde il pericolo, ma nell'atteggiamento degli stati occidentali, decisi ad opporsi alla politica imperiale la quale apertamente, tendeva al dominio mondiale. Della coalizione, che contro le mire del Barbarossa si veniva formando, aveva assunto la direzione Alessandro III, che presto vide accrescere paradossalmente le file dei suoi aderenti anche in Germania, dove gli arcivescovi di Salisburgo e di Treviri si rifiutarono di riconoscere l'antipapa Pasquale III e lo stesso fece Corrado di Wittelsbach, arcivescovo di Magonza, che pure doveva a Federico la sua nomina.

Barbarossa tentò di rompere la coalizione guadagnando alla sua causa ENRICO II d'Inghilterra. Nella Pasqua del 1165 inviò l'arcivescovo di Colonia a Rouen presso la corte di Enrico. La missione ebbe buone accoglienze e l'arcivescovo ottenne un considerevole successo: infatti, Matilde, la figlia maggiore del re inglese fu fidanzata al duca di Sassonia e di Baviera e un'altra figlia minorenne fu promessa in matrimonio ad Enrico, primogenito del Barbarossa.

Politicamente fu però un successo debole, perché l'arcivescovo di Colonia non riuscì a guadagnare Enrico II alla causa dell'antipapa; il re d'Inghilterra anzi avendo i suoi legati giurato a nome suo, alla dieta di Wúrzburg, di non riconoscere Alessandro, disapprovò la condotta dei suoi ambasciatori, e dichiarò non valido quel giuramento, perché non da lui autorizzato e nel frattempo si ritirò dall'alleanza che aveva concluso con l'imperatore.
La dieta di Wiirzburg era avvenuta nella Pentecoste del 1165. Vi erano convenuti centoquaranta prelati germanici, che riconoscevano l'antipapa Pasquale III come Capo legittimo della Chiesa e si erano impegnati con un giuramento a non prestare obbedienza ad Alessandro. In quella dieta si stabilì inoltre che i principi temporali e spirituali non intervenuti prestassero lo stesso giuramento entro un certo spazio di tempo.

La dieta non rialzò proprio per nulla le sorti di Pasquale III; spronò invece i sostenitori del Papa legittimo ad appoggiare più energicamente la lotta. Alessandro III si trovava allora in Francia, ma aveva moltissimi sostenitori in Italia, specie fra le popolazioni nemiche al Barbarossa; e anche a Roma la situazione si era mutata in suo favore, grazie all'abilità del cardinal di S. Giovanni e Paolo, suo vicario. Questi fece tanto che riuscì a guadagnare i Romani alla causa di Alessandro, s'impadronì della Basilica di S. Pietro fino allora in mano ai seguaci di Pasquale III, ricondusse la Sabina all'obbedienza del Pontefice, poi convocò una grand'assemblea a Roma di ecclesiastici e laici dove fu deliberato di inviare in Francia ambasciatori per invitare Alessandro in nome dei Romani a fare ritorno nella capitale della Cristianità.

Nell'agosto del 1165 Alessandro 111 s'imbarcò a Maguelonne con parecchi cardinali su una nave narbonese; sfuggito a stento prima ad una crociera di navi pisane poi ad una furiosa tempesta, approdò a Messina; di qua scortato da cinque galee di re Guglieimo e da vescovi e baroni siciliani, andò a Salerno ed infine ad Ostia, dove giunse il 22 novembre 1165. Il giorno dopo il Senato, recatosi ad Ostia, lo condusse a Roma.
Fuori la città lo aspettavano i magistrati, il clero, le milizie con i loro vessilli e una moltitudine di gente, che accompagnarono in trionfo il Pontefice fino al palazzo del Laterano.

"Tuttavia erano ben tristi le condizioni del Papa, gravato com'era da debiti: qualche elemosina e qualche prestito ricevute e avuto in Francia (dall'arcivescovo di Reims) gli davano poco da vivere a Roma; mentre aveva attorno a sé un popolo avido il quale, per dirla con le sue parole, anche in tempo di pace, non guardava altro che alle mani del Pontefice. La morte di Guglielmo I nel maggio del 1166, e l'esaltazione al trono di suo figlio Guglielmo II che era ancora in età minore, con reggente la madre, rendevano ad Alessandro assai dubbio l'aiuto della Sicilia, da cui ebbe però un sostegno in danaro.
Pericoloso, d'altro canto, era un nuovo alleato che gli si offriva: era questi EMANUELE COMNENO di Bisanzio, che rotta l'amicizia con Federico, proponeva al Papa una lega. Come tanti imperatori greci, anche Emanuele sperava di ricavar vantaggio dallo scisma per restaurare la sua signoria in Italia, dove aveva da qualche tempo già messo un saldo piede nella munita e forte Ancona.
Cercò di sedurre il Papa con la prospettiva di ricondurre all'unione le due chiese, faceva mostra d'ogni sorta di attenzioni, gli offrì ricchi sussidi, promise di riportargli in sudditanza Roma e l'Italia, ma in cambio chiedeva la corona dell'Impero Romano.

Bisanzio in ogni momento si ricordava delle sue pretese su Roma, questa era sempre nella memoria dei legittimisti.
Alessandro accolse molto bene l'ambasciatore bizantino, che era l'augusto GIORDANO, figlio dello sventurato Roberto di Capua.
Ma Alessandro non fece alcun conto su questa prospettiva; e se fece finta di ascoltare e anche di aderire -tuttavia non formalmente-, e se inviò pure i suoi legati a Bizanzio, facendolo sapere in giro, è perché voleva incutere timore all'imperatore tedesco; ma nello stesso tempo - questo dipendeva dalle future circostanze, che riteneva prossime- avere sgombra la via per quell'utile alleanza" (La Lumia)

ALESSANDRO III aveva ragione di temere il Barbarossa, perché sapeva che la spedizione che l'imperatore stava preparando, era, in parte rivolta contro di lui, e già si aspettava di veder comparire le truppe germaniche sotto le mura di Roma.

Mentre lui guardava con abilità e chiarezza al futuro, e rientrato a Roma il 22 novembre celebrava il Natale '65, il suo avversario nello stesso Natale, guardava al passato, e "resuscitava" dalla tomba il suo predecessore ad Aquisgrana; riportava alla luce, per accrescere con l'ombra di un fantasma l'autorità dell'Impero, CARLOMAGNO.
Alla celebrazione della Natività, dal suo antipapa Pasquale, faceva canonizzare l'antico imperatore, riportandolo in mezzo ai vivi, in una situazione che era ormai completamente diversa da quel periodo, quando era la gente ad essere fantasma e lui vivo, mentre ora era lui un fantasma e la gente viva.

BARBAROSSA mise insieme durante l'estate '66 un potente esercito e partì dalla Germania circa un anno dopo l'ingresso trionfale del Pontefice. Preceduto dall'arcivescovo RAINALDO di Colonia, con lui in testa, accompagnato dall'Imperatrice, nell'ottobre del 1166, scese per la quarta volta in Italia, Passò per la Valcamonica, essendo la valle dell'Adige difesa dai Veronesi e dai Padovani, e, giunto nel bresciano, fece subito sentire la sua presenza devastando la contrada. Non si rese subito conto che l'ostilità era maggiore di quanto non fosse mai stata, e che intorno a lui era venuta a crearsi un'atmosfera di odio molto intenso.
Giunto in Lombardia, a Lodi fu tenuta una dieta generale e solo in questa l'imperatore si accorse quanto fosse difficile l'opera alla quale si accingeva. Per la spedizione contro i Normanni gli erano indispensabili le navi dei Pisani e Genovesi; ma le due repubbliche marinare erano ancora in guerra tra loro per il possesso della Sardegna. I rappresentanti delle due città erano andati a Lodi solo per presentare le rispettive pretese. E da due alleati così non ci poteva di sicuro fare affidamento. Il Barbarossa cercò di pacificarle, ma i suoi sforzi riuscirono inutili, e la speranza di averle a fianco pure.

Durante la dieta di Lodi, furono poi all'imperatore presentate dalle città lombarde numerose lagnanze per le vessazioni dei procuratori imperiali.
Era da due anni che le infelici popolazioni imploravano Federico affinché 1e sollevasse dai mali che le affliggevano e le liberasse dalla rapacità dei magistrati da lui imposti. Ma neppure questa volta il Barbarossa volle dare ascolto alla voce degli oppressi; anzi dopo aver fatto alcune scorrerie a Bergamo e nei dintorni di Bresci, aggravò la situazione calcando la mano, illudendosi con la forza di tenere a freno le città ribelli, facendosi consegnare da quelle più sospette, come Brescia e Bologna, degli ostaggi.

Dopo la dieta e dopo le scorrerie, Federico nella primavera del 1167 si mosse verso l'Italia centrale ma a Bologna invece di prendere la direzione per Roma per liquidare subito la questione di Alessandro, marciò verso Imola, Faenza, Forlì, taglieggiando i luoghi che attraversava, fiaccando alcune resistenze, chiedendo prima di avvicinarsi ostaggi con la minaccia altrimenti di devastare i dintorni, e giunse, dopo alcune settimane di marcia, ad Ancona che gli chiuse le porte in faccia. Non potendo lasciarsi alle spalle una città, che, per la sua posizione e per gli aiuti bizantini, avrebbe costituito una seria minaccia al suo esercito, l'imperatore la pose in assedio.
Solo una piccola parte del suo esercito, a Bologna, prese la via per Roma, al comando di RAINALDO arcivescovo di Colonia, e l'arcivescovo guerriero CRISTIANO BUCH di Magonza.

Ma mentre lui lasciata la Lombardia si era messo in marcia, alle sue spalle, le città oppresse inalberavano la bandiera della rivolta. La prima Cremona, una città filo-imperiale.
La misura era colma, ora perfino quelle terre che erano state fedeli a Federico e da lui avevano rivevuto onori e privilegi levavano il capo contro il tiranno, avendo finalmente compreso che la politica egoistica del Barbarossa e la discordia dei comuni prima o poi avrebbero determinata la rovina di tutti.

Le città di Verona, Padova e Vicenza avevano dato l'esempio: le seguirono oltre Cremona, Mantova, Bergamo e Brescia che l'8 di marzo del 1167 si strinsero in lega e subito si misero in relazione con i Milanesi, che taglieggiati e orribilmente oppressi dal conte di DIETZ, vicario imperiale, non potevano di certo che rispondere all'appello.
Il 4 aprile i legati delle quattro città suddette ebbero un incontro con i legati Milanesi e fu fissato un convegno da tenersi tre giorni dopo per concludere l'accordo e al quale dovevano intervenire i delegati di altre città, tra cui quelli di Ferrara.
Il convegno avvenne il 7 aprile 1167, nel monastero di S. Giacomo di Pontida, tra Bergamo e Lecco. Qui i convenuti furono unanimemente dell'avviso di doversi dimenticare ogni discordia passata e unire tutte le loro forze in una sola forza per scuotere l'insopportabile tirannide tedesca; decisero quindi la costituzione di una coalizione, che fu detta LEGA LOMBARDA, la quale doveva prendere accordi con quella Veronese e doveva durare cinquant'anni.

I collegati si obbligavano con giuramento di rivendicare i diritti che i loro comuni godevano da tempo di Enrico IV, di opporsi con le armi alle vessazioni dei ministri imperiali, di mantenere fedeltà all'imperatore, ma di non prestargli obbedienza fino a che non avessero ottenuta la restaurazione dei loro diritti, "cosa che parrebbe strana ai giorni nostri, - osserva l'Emiliani-Giudici - come era naturale a quei tempi in cui l'idea dell'impero personificata nei Cesari germanici, non era impugnata, né messa in dubbio dai papi, i loro perpetui nemici, ed era invece rispettata dai popoli con un tradizionale e continua devozione, che le vicissitudini di tanti secoli non erano riuscite a far cessare".

Tutti inoltre s' impegnavano di soccorrersi a vicenda, di non far pace separata, di non prendere nessuna decisione senza il consiglio e il consenso degli altri, di restituirsi le terre donate (perché usurpate) dal Barbarossa e di regolare amichevolmente le questioni pendenti tra le città collegate.
Gli aderenti, sulle pagine aperte del Vangelo, al luccichio della spade snudate, giurarono fede ai patti e ciascun deputato portò con se una copia della formula del giuramento affinché fosse pronunciata dagli abitanti di ogni città. Prima che il convegno si sciogliesse fu stabilito di riedificare e fortificare Milano a spese della lega.
Il 27 aprile i Milanesi di uno dei quattro sobborghi videro con gioia comparire dieci cavalieri bergamaschi con gli stendardi del loro comune, che annunciarono di essere finalmente per loro giunto il momento di riavere la patria. Comparvero, più tardi, con le insegne spiegate, le milizie di Brescia, di Cremona, di Mantova, di Verona e di Treviso, che accompagnarono gli esuli sul luogo in cui le rovine della grande città facevano testimonianza della ferocia imperiale e dei malefici effetti della discordia intestina.
Per fortuna il grande fossato non era che in minima parte colmato e le imponenti i mura erano soltanto qua e là sbrecciate; non fu quindi impresa lunga e difficile alla moltitudine dei Milanesi (che nonostante tutto lì erano rimasti), aiutati dai collegati, di rimettere in efficienza tutta la cinta fortificata.
Un grande errore! - disse in seguito un cronista dell'epoca - non destinarli a località lontane dalla città in rovina! Nessuno infatti, avrebbe immaginato che la città e i Milanesi in quelle condizioni potessero risorgere. Fra l'altro in un periodo di grande potenza del Barbarossa.

La riedificazione di Milano era un atto giusto e nobile di riparazione; la città risorgeva come simbolo della giurata fraternità e come monito severissimo alla superbia del Barbarossa. Ai lavori partecipavano alacremente non pochi di coloro che spinti da un cieco e stolto odio, avevano quattro anni prima contribuito alla rovina di Milano.

Ma non tutti i vecchi nemici erano là, a ricostruire la metropoli: mancavano i Pavesi, mancavano i Comaschi, mancavano i Lodigiani. La mancanza di questi ultimi, come quelli che erano più vicini, costituiva una minaccia non trascurabile alla sicurezza della nuova Milano. Furono pertanto avviate trattative con Lodi affinché entrasse nella lega, dimenticando gli antichi rancori; ma i Lodigiani, con una lealtà degna di miglior causa, dichiararono di non voler macchiarsi d'infamia staccandosi dall'imperatore che li aveva aiutati ed aveva loro concesso la riedificazione della nuova città.

Riuscite vane le preghiere, si ricorse alle minacce, ma neppure queste valsero a piegare i Lodigiani; e allora le città della lega si videro costrette ad usare le armi, quelle armi, che preparate contro il Tedesco, per necessità furono rivolte contro una città italiana.
Il 12 maggio del 1167 il primo esercito della Lega Lombarda si presentava. sotto le mura di Lodi e il 19 dello stesso mese i Lodigiani erano sconfitti a Serravalle sull'Adda. Stretta d'assedio e tormentata dalla fame, Lodi si arrese ed entrò nella confederazione: i collegati le riconobbero tutti i diritti di libero comune, le giurarono amicizia e protezione, le promisero di rafforzarne le difese e le restituirono il territorio che Milano le aveva portato via.

Dopo Lodi, anche Piacenza entrò nella Lega; più tardi, il 10 agosto, i Parmigiani, vinti sul Taro, vi entrarono pure loro, e restituirono a Bologna gli ostaggi che il Barbarossa aveva loro dati in custodia. Purtroppo la guerra per l'indipendenza s'inaugurava bagnando di sangue italiano il suolo della patria; i fratelli uccidevano ancora i fratelli, ma facevano anche sentire il peso della loro forza ai traditori e agli stranieri, perché, infatti, tra la battaglia di Serravalle e quella del Taro, il castello di Biandrate era distrutto e quello di Trezzo, presidiato da una numerosa guarnigione tedesca, fu preso per fame poi distrutto fino alle fondamenta.

IL BARBAROSSA A ROMA
PROGRESSI DELLA LEGA LOMBARDA
FUGA DELL'IMPERATORE DALL' ITALIA

FEDERICO BARBAROSSA ebbe le prime notizie della rivolta lombarda e della lega mentre si trovava all'assedio di Ancona. Ma invece di ascoltare la voce dell'interesse, che lo chiamava al nord, prestò orecchio a quella dell'orgoglio e volendo, prima, costringere la città assediata ad arrendersi, rimase. (da questa sciocca ostinazione che fu poi negativa, non fece tesoro, e più avanti come vedremo ad Alessandria, la stessa testardaggine fu la sua rovina)

Sperava pure che dopo una vittoriosa spedizione su una Roma facile, poi gli sarebbe riuscito senza difficoltà domare i comuni lombardi cui nel frattempo dovevano tener testa Como, Pavia e le altre città a lui fedeli.
Per non perdere troppo tempo, mandò una schiera tedesca verso lo stato pontificio a rinforzare l'arcivescovo di Colonia, il quale, il 18 maggio del 1167, con l'aiuto di navi pisane, si impadronì di Civitavecchia, poi andò a Tusculo, chiamato dagli abitanti. Questo fatto irritò il Senato romano, che, nonostante la disapprovazione del Pontefice, armò un esercito di trentamila uomini - questa cifra è data dai cronisti contemporanei, ma ci sembra esagerata - e lo mandò ad assediare e a punire il tradimento di Tusculo.

A mal partito sarebbe stato ridotto l'orgoglioso Rainaldo di Colonia se non l'avesse in tempo aiutato con un compagnia di milizie tedesche l'arcivescovo Cristiano di Magonza, che il 29 maggio fu attaccato dai Romani a Monte Porzio. La battaglia fu accanita e sarebbe terminata con la vittoria delle truppe romane se queste fossero state più disciplinate e meglio comandate; ma mancavano la disciplina e un buon capo. Vedendo le truppe di Cristiano indietreggiare, si diedero disordinatamente ad inseguirle, credendo di averle vinte; quelle invece ricomposte e tornarono ben compatte alla carica; da Tusculo uscirono dalle mura le milizie di Rainaldo con gli abitanti locali e attaccati di fronte e alle spalle, assalirono i Romani, che sebbene superiori di numero, subirono una drammatica sconfitta.

La rotta di Monte Porzio apriva la via di Roma all'imperatore e questi sarebbe corso ben presto a dare man forte ai due arcivescovi se non lo avesse trattenuto l'assedio di Ancona, che più ostinata di lui ancora resisteva. Alla notizia della vittoria sui Romani seguirono poco dopo altre notizie preoccupanti: alcuni baroni pugliesi, insorti, si trovavano a mal partito di fronte all'avanzarsi delle truppe che, al comando del Conte di GRAVINA, la reggente dei Normanni MARGHERITA aveva mandato contro di loro; e questi ora chiedevano aiuto all'imperatore.
Allora il Barbarossa ruppe gl'indugi, fece proposte di pace con gli Anconitani, accettò una forte somma di denari, richiese quindici ostaggi e partì alla volta del mezzogiorno.
Scarse notizie ci danno gli storici contemporanei intorno a questa spedizione di Barbarossa contro i Normanni (ribelli): sappiamo solo da loro che gl'imperiali liberarono una fortezza assediata dal nemico (normanni regi) e che lo inseguirono fino a un fiume, dove moltissimi Normanni perirono; però né della fortezza né del fiume è stato tramandato il nome.

Del resto per quanto lacunosa quella riferita dagli storici, la spedizione nel mezzogiorno fu priva d'importanza e anche di brevissima durata; infatti, il Barbarossa, il 24 luglio era con l'esercito già a Monte Mario e iniziava l'assedio della città Leonina. Ma vani riuscirono gli assalti sferrati dalle truppe germaniche; per otto giorni i Romani si difesero con valore, ricacciando indietro il nemico e tentando pure qualche sortita per incalzarlo; solo nell'ultimo giorno di luglio, avendo Federico dato fuoco alla chiesa di Santa Maria in Terni, i difensori si arresero per impedire che l'incendio distruggesse la vicina basilica di S. Pietro e qui, il giorno dopo, l'imperatore ricevette per la seconda volta dalle mani dell'antipapa (Pasquale III) la corona imperiale.

Ma la grande, la vera città resisteva, ed Alessandro III aveva trovato asilo sicuro nelle torri dei Frangipane. Il Barbarossa, o perché ritenne non facile l'espugnazione del resto di Roma, o perché voleva mostrarsi ai Romani animato da buone intenzioni, propose agli abitanti di risolvere lo scisma deponendo i due Pontefici e facendo eleggere un nuovo Papa; ma ALESSANDRO III, udita la proposta, rispose che "Dio solo poteva giudicare il Pontefice"; e presentatasi l'occasione, poiché non si sentiva più sicuro a Roma, fuggì travestito da pellegrino prima a Terracina poi scese a Benevento.

"Nel momento in cui il gran nemico dell'imperatore - scrive il Bertolini - si metteva in salvo con la fuga, giunsero a Roma, risalendo il corso del Tevere, otto galere inviate al Barbarossa dai Pisani, per facilitargli la conquista della metropoli.
La fuga del Papa e la comparsa delle navi pisane persuasero i Romani che ogni resistenza sarebbe stata inutile. Tuttavia Senato e popolo si accordarono di mandare legati all'imperatore per sapere a quali condizioni lui avrebbe concesso la pace alla città. L'imperatore fu abbastanza moderato nelle sue richieste: a) che i Romani giurassero fedeltà a lui e al papa Pasquale; b) consegnassero 400 ostaggi; c) dovevano accettare un nuovo Senato da lui formato.

Senza tanta esitazione il popolo accettò queste condizioni: e l'imperatore, soddisfatto per il successo conseguito con così poca fatica, si accingeva ad entrare in trionfo nell'antica Roma, quando una calamità spaventosa piombò improvvisamente sul suo capo.
Si era nell'afoso fine luglio-agosto del 1167.

I cristiani di Roma sostennero che erano i biblici "Angeli sterminatori" armati del flagello delle febbri, che invasero il campo imperiale, compiendovi una strage orribile nelle sue truppe".
I partigiani di Alessandro gridarono al "miracolo" e interpretarono il flagello per una punizione divina inflitta a chi aveva osato infrangere l'unità della Chiesa. II versetto biblico: "E il Signore mandò un angelo, il quale distrusse ogni valente uomo ed ogni capo e capitano che era nel campo del re degli Assiri; laonde egli se ne tornò svergognato al suo paese", fu applicato al Barbarossa, novello Sennacheribbo, e ispirò ai cronisti invettive contro di lui. L'analogia, infatti, non mancava; anche a lui la peste aveva ucciso i migliori duci del suo esercito.

Morirono l'arcivescovo RAINALDO di Colonia, che era stato il braccio destro della, politica di Federico, il giovane, bello e cavalleresco duca di Svevia, cugino dell'imperatore, GUELFO VII, i conti di NASSAU, di STULTZBACH, di ALTOMONTE, di LIPPE, di TUBINGA, i vescovi di RATISBONA, PRAGA, VERDUN, SPIRA, LIEGI e molti altri grandi laici ed ecclesiastici. Morì, fra gli altri, il cronista ACERBO MORENA, figlio di Ottone, storico imperiale anche lui.
A quel punto Barbarossa lasciò Roma, con una pestilenza che seminava strage non solo ai nemici ma anche tra gli abitanti, e prese la via del nord, portandosi dietro un esercito decimato e i supersiti con addosso il morbo. Fu un Odissea nell'attraversare le contrade d'Italia.
I Pisani e i Lucchesi videro passare dalle loro terre le truppe imperiali, disordinate come dopo una tremenda rotta. La metà dell'esercito febbricitante che si trascinava dietro dentro carri o barelle l'altra metà e i più autorevoli comandanti in fin di vita, o le loro salme da riportare in patria. Federico si diresse verso gli Appennini, ma i Pontremolesi, aizzati e soccorsi dai Lombardi, sbarrarono i passi e lo costrinsero a cambiare percorso eludendo l'esercito della lega grazie all'aiuto del Marchese Obizzo Malaspina che lo scortò nei i suoi possedimenti che si estendevano (dalla Lunigiana alla valle Padana) passando per le valli appenniniche (Val Borbera, Val Trebbia Valle Staffora) sostando ad Oramala (Pv) nell'imprendibile castello dei Malaspina, proseguendo poi per Voghera.

Verso la metà del settembre del 1167 il Barbarossa era a Pavia. Non rassegnandosi all'insuccesso della spedizione romana e non rendendosi conto della situazione della Lombardia, la quale non credeva proprio che poteva essere cambiata con una semplice dieta di ribelli, il Barbarossa ne convocò una lui pochi giorni dopo il suo arrivo a Pavia.
Com'era da prevedersi pochissimi furono gl'intervenuti; di tutte le città lombarde soltanto Pavia, Como, Vercelli e Novara inviarono rappresentanti; dei feudatari intervennero i marchesi GUGLIELMO del Monferrato ed OBIZZO MALASPINA, il conte BIANDRATE e i Signori del SEPRIO, della MARTESANA e di BELFORTE.
FEDERICO dichiarò ribelli tutte le città della lega, le mise al bando dell'impero escluse Lodi e Cremona, che volle credere trascinate con la forza dalle altre e, gettato il guanto in mezzo all'assemblea, proclamò la guerra per punire i collegati.

Le ostilità furono subito iniziate contro alcuni territori vicini a Milano, quali Rosate, Abbiategrasso, Magenta e Corbetta, ma la fortuna non era dalla parte all'imperatore, soprattutto perché era in quelle misere condizioni, e per il tempestivo accorrere delle milizie delle lega e fu ricacciato indietro. Ed anche un tentativo fatto contro Piacenza fallì, e da lì Barbarossa fu costretto a rifugiarsi a Pavia, dove aveva intenzione di rinchiudersi e passare l'inverno.

" Fino al mese di marzo 1168 -scrive l'Emiliani-Giudici - continuò a fare una guerra magra, evitando sempre di correre il rischio di impegnarsi in una gran giornata campale: con quelle ripetute scaramucce s'ingegnava solo per poter coprire la propria impotenza, la quale si rendeva in ogni scontro più manifesta, gli tolse la reputazione; e siccome era l'epoca dei giudizi di Dio, da questo suo continuo indietreggiare, scansarsi, o fuggire, i popoli e perfino le sue genti credevano che il cielo ora proteggesse la giusta causa dei ribelli contro la malvagità del loro oppressore.
Federico a quel punto era moralmente sconfitto; restare ancora a lungo in Italia sarebbe stato un irreparabile errore.
"E tanto più che la lega lombarda nell'inverno si era meglio organizzata dopo l'arrivo a Milano del nuovo arcivescovo GALDINO. Costui discendeva dalla nobile famiglia milanese de' VALVASSORI di SALA. Morto a Benevento il vecchio arcivescovo Oberto, papa Alessandro III nell'anno 1166 elesse Galdino, già cardinale, alla sedia di Milano, e lo deputò suo legato apostolico.

Vi giunse circa due anni dopo, quindi in questo periodo e il suo arrivo fece crescere nuove speranze alle città della lega lombarda, la quale mentre un altro legato di nome ILDEBRANDO CRASSO agitava i territori sulla riva meridionale del Po, il 1° dicembre dell'anno 1167 in solenne parlamento si unì alla lega veronese, con tali vincoli ed ordinamenti da diventare un corpo solo.
Le città intervenute alla memoranda assemblea furono queste: Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Bologna.
Rinnovarono il giuramento di reciproca difesa, sentenziando che la loro lega non mirava ad altro che a rivendicare i diritti che i liberi comuni godevano prima del regno di Federico Barbarossa, cui tuttavia promettevano di mantenere fedeltà come capo dell'impero; ordinarono stabilmente gli interessi e i doveri della società, sottoponendola ad un magistrato detto de' "Rettori della lega", i quali costituivano ciò che ai giorni nostri indichiamo come il potere esecutivo della confederazione, superiore a tutti quelli che ne facevano parte, e al tempo stesso soggetto al sindacato di tutti.
E dalle convenzioni passando subito ai fatti, armarono un esercito di ventimila guerrieri pronti ad un cenno dei rettori ad uscire dal campo.
Nel frattempo la lega faceva altri preziosi acquisti: vi entrava il marchese OBIZZO MALASPINA che per la sua perizia nelle cose di guerra era destinato a sostenervi una parte notevole, e vi entravano Novara, Vercelli, Como ed Asti, di modo che, sul finire del 1167, unico sostegno dell'imperatore nell'Italia settentrionale rimanevano il marchese Guglielmo di Monferrato e Pavia.

Prima che finisse l'inverno 1167, BARBAROSSA stimò prudente lasciare Pavia, perché un atto di ferocia commesso in città da un tedesco contro un nobile pavese, aveva suscitato una generale indignazione e malcontento. Con poco seguito, evitando di passare dalla Lombardia (in quelle condizioni l'avrebbero annientato) fece un lungo giro, si portò in Piemonte e alla chetichella si trasferì nel Monferrato, e da qui pensò di passare in Borgogna; ma il passaggio di Susa gli fu negato da UMBERTO III di SAVOIA, detto "il Santo" ma "indiavolato" contro l'imperatore perché ai vescovi della sua contea aveva concesso privilegi che oltraggiavano la sua sovranità e occorsero i buoni uffici del marchese Guglielmo del Monferrato e la promessa di revocare le concessioni per far desistere il conte dal rifiuto.

Ma nel passare da Susa, poco mancò che il Barbarossa non finisse ingloriosamente la sua vita, perché, avendo fatto impiccare un nobile bresciano, uno degli ostaggi che si portava dietro in Germania dalla Lombardia, il popolo, sdegnato, si levò a tumulto ed obbligò con le minacce l'imperatore a rimettere in libertà gli altri. Ma poi corsa la voce che in città si era ordita una congiura contro di lui, si travesti da servo e, lasciato nel suo letto un cavaliere che gli rassomigliava, con il favore della notte fuggì e valicò, nel mezzo del 1168, quelle Alpi per le quali, fuggiasco da Spira, Enrico IV era disceso, subendovi al pari di lui un'umiliazione per opera di un altro Savoia.

Un'umiliazione quella fuga nella notte, come un ladro, che Barbarossa inizia a rimuginare; il suo primo pensiero nella prossima discesa sarà quello di andare a punire Susa, per poi, con altrettanta ostinazione andarsi ad impantanare ad Alessandria, una città che gli fu fatale.

Appena Barbarossa si era messo in fuga, a Milano
si preparavano alla riscossa e progettavano come metterlo in "trappola"
se tornava a scendere in Italia. Ed è il prossimo capitolo...

dall'anno 1168 al 1176 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
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