ANNI 1238 - 1241

LOTTA PAPATO-IMPERO - I MONGOLI - MORTE DI GREGORIO IX -

FEDERICO II DOPO LA VITTORIA DI CORTENUOVA - OFFERTE DI PACE DEI MILANESI - ASSEDIO E RESISTENZA DI BRESCIA - MATRIMONIO DI ENZO CON ADELASIA DI GALLURA - GREGORIO IX SCOMUNICA L' IMPERATORE - CAUSE DELLA SCOMUNICA - ASPETTO DELLA NUOVA LOTTA TRA L' IMPERO E LA CHIESA - ORAZIONE DI PIER DELLE VIGNE - RASSEGNA DELLE FORZE GUELFE E GHIBELLINE - LA GUERRA NELL' ITALIA SETTENTRIONALE - FEDERICO II IN ROMAGNA E IN TOSCANA - FEDERICO MARCIA SU ROMA - GREGORIO IX E I ROMANI - FEDERICO SI ALLONTANA DA ROMA - PARLAMENTO DI FOGGIA - LA SITUAZIONE NELL' ALTA ITALIA: I GUELFI OCCUPANO FERRARA; L'IMPERATORE CONQUISTA RAVENNA E FAENZA - CONVOCAZIONE DEL CONCILIO DI ROMA E OPPOSIZIONE DI FEDERICO - BATTAGLIA DELL' ISOLA DEL GIGLIO - FEDERICO MUOVE DI NUOVO VERSO ROMA - L' INVASIONE DEI MONGOLI NELL' EUROPA ORIENTALE - OFFERTE DI PACE DELL' IMPERATORE AL PONTEFICE - MORTE DI GREGORIO IX
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SECONDA SCOMUNICA DI FEDERICO II
NUOVA LOTTA TRA IL PAPATO E L' IMPERO

La vittoria di Cortenuova nel 27 novembre del 1237, non diede a Federico II i risultati che lui sperava; alcuni comuni si sottomisero, è vero, e la stessa Milano, che era la città più importante della Lega, chiese di far pace con l'imperatore, dichiarandosi pronta a giurargli fedeltà, a consegnargli tutti i tesori e le bandiere e a fornirgli diecimila uomini per la crociata; ma Federico, accecato dal successo ottenuto con le armi, voleva che Milano si arrendesse incondizionatamente e le iniziate trattative furono interrotte.

Le dichiarazioni dei legati milanesi, i quali dissero di preferir piuttosto la morte con le armi in pugno al giogo del tiranno, facevano prevedere una ripresa più aspra della guerra. Altre città come Brescia, Alessandria, Piacenza e Bologna, seguirono l'esempio della grande sorella e tutte si prepararono a difendere accanitamente le loro libertà.
Milano, che sapeva di esser la prima a dover patire le offese imperiali, non indugiò a prepararsi alla resistenza: rafforzò le mura e le torri, mettendole in condizioni di opporre una valida difesa agli assalti del nemico, riordinò le sue milizie, fece copiose provviste di vettovaglie per essere in grado di sopportare un lungo assedio e distrusse da se medesima i ponti sul Ticino.

Mentre fervevano i preparativi da parte delle città della Lega, Federico II non stava inoperoso, ma otteneva con la forza la sottomissione delle minori città dell'Italia settentrionale, radunava milizie presso i comuni e i signori che gli erano fedeli e chiamava dalla Germania il figlio Corrado con nuove truppe.

Quando fu convinto di disporre di forze sufficienti riaprì le ostilità. Sua determinazione era quella di isolare Milano, togliendole l'aiuto di Alessandria e Brescia.
Ridotte all'impotenza queste due città gli sarebbe stato più facile avere ragione della metropoli lombarda. Contro Alessandria mandò il marchese LANCIA, che mise a ferro e a fuoco il territorio, ma non riuscì a far piegare gli abitanti dell'eroica città che aveva, molti anni prima, saputo tenere in scacco l'infuriato Barbarossa; contro Brescia marciò lui stesso con il grosso dell'esercito, cingendola d'assedio il 3 agosto del 1238.

Ma l'assedio di questa città non fu fortunato. I Bresciani, consapevoli delle conseguenze che una vittoria imperiale avrebbe prodotto per le sorti della Lega, certi che la loro libertà sarebbe finita per sempre e alle istituzioni comunali sarebbe successo il governo assoluto del superbo monarca, difesero con grandissimo accanimento la loro terra, coadiuvati dalle perfezionate macchine guerresche di cui un ingegnere loro concittadino, di nome CLAMANDRINO, li aveva dotati.
Invano per tre mesi Federico II si ostinò sotto le mura di Brescia (e ne erano passati dodici di mesi da quando era sceso in Italia). Avvicinandosi l'inverno e rendendo la stagione piovosa disagevole alle sue truppe la permanenza intorno alla città, il 9 di ottobre l'imperatore bruciò le macchine e, levato il campo, si ritirò con tutte le milizie nella fedele Cremona.

Era, questo, per Federico, uno scacco gravissimo, che non solo rincuorava i comuni della Lega, ma faceva uscire dall'incertezza altre potenti città, che avevano interesse di schierarsi contro l'imperatore, faceva trionfare il partito guelfo in Roma e faceva sì che il Pontefice si dichiarasse apertamente contro il monarca. GREGORIO IX aveva ragione di temere una vittoria definitiva di Federico. Questa avrebbe causato non solo la fine del potere temporale ma anche la stessa indipendenza della Santa Sede e il Pontefice lo sapeva da qualche tempo. Se non si era messo prima contro Federico il motivo lo si deve ricercare nella posizione sfavorevole in cui Gregorio IX si era per un po' di tempo trovato e nella potenza del suo rivale, contro cui sarebbe stato imprudente schierarsi.

Lo scacco subito dall'imperatore sotto Brescia, aveva fatto comprendere al Pontefice che quello era il momento buono per scendere in aperta lotta contro Federico. L'indugio avrebbe potuto essere di vantaggio al nemico secolare e danneggiare gravemente gl'interessi della Curia romana.
I pretesti per romperla con il sovrano non mancavano e uno validissimo lo forniva la questione della Sardegna. Al tempo dell'assedio di Brescia, Federico II aveva sposato il figlio naturale ENZO con ADELASIA, unica erede delle giudicature sarde di Torre e di Gallura e vedova del pisano Uberto Visconti, e lo aveva nominato re di Sardegna. Questo titolo dato al figlio del sovrano più che il rifiuto opposto da Adelasia al Pontefice, il quale le aveva proposto di sposare un guelfo della famiglia PORCARIA, aveva irritato moltissimo Gregorio IX, che vedeva con quel matrimonio sottratta l'isola alla sovranità della Santa Sede.

II Pontefice protestò vivamente contro quelle nozze, ma l'imperatore rispose che l'Italia, come tutti sapevano, gli apparteneva tutta ("Italia haereditas mea et hoc notum, est toto orbi"), e lui era fermamente risoluto di riunirla sotto il suo scettro. Era una sfida e questa fu raccolta dal bellicoso 93 enne Pontefice, il quale, anche senza di essa, avrebbe rotto lo stesso gli indugi e ne è prova l'alleanza che, nel novembre del 1238, lui stipulò con Genova e Venezia con la quale le due potenti repubbliche s'impegnavano a non concludere alcun patto con l'imperatore senza consenso del Pontefice.
Era la domenica delle Palme, ossia il 20 marzo del 1239. L'imperatore si trovava a Padova quando Gregorio IX, in pieno concistoro, scomunicò Federico II, sciogliendone i sudditi dal giuramento di fedeltà, ponendo l'interdetto nei luoghi da lui abitati e minacciando di deposizione quegli ecclesiastici che in sua presenza celebrassero i sacri riti.

Il Pontefice dichiarava di scomunicare il sovrano perché questi, violando i giuramenti, metteva in pericolo la libertà e i diritti della Chiesa e suscitava a Roma ribellioni contro la Santa Sede; perché impediva al cardinale di Preneste di restaurare nelle terre degli Albigesi la fede cattolica; perché nel regno di Sicilia lasciava che rimanessero vacanti venti sedi vescovili e due abbazie, perché si impadroniva dei beni della Chiesa, perché gravava di tributo gli ecclesiastici, perché li faceva giudicare da tribunali laici, perché li faceva imprigionare, esiliare ed anche mandare a morte; perché, venendo meno ai patti, tratteneva ancora molti beni dell'Ordine dei Templari e degli Ospitalieri; perché perseguitava i guelfi, favoriva i Saraceni e si opponeva alla restaurazione della chiesa di Sora; perché tratteneva prigionieri il nipote del re di Tunisi, che doveva andare a Roma per battezzarsi, e un ambasciatore del re d'Inghilterra; perché aveva occupato terre della Santa Sede nelle diocesi di Ferrara, Bologna e Lucca e sottomessa alla propria signoria la Sardegna; perché, infine, opponeva ostacoli alla liberazione della Terra Santa e alla restaurazione dell'impero latino e con le parole e le azioni faceva dubitare della sua fede.
Gregorio IX si fermava qui, ma come abbiamo visto c'era di tutto. Più di cosi non poteva andare.

"Dopo questa scomunica - scrive il Prutz - scoppiò la grande lotta destinata a decidere dei destini dello Stato e della Chiesa medioevale, lotta in cui a vicenda entrambi dovevano rovinarsi per fare spazio all'insorgere di nuove potenze dopo che si erano rivelati impossibili, lo Stato universale e la Chiesa universale.
Che anche le parti avessero piena coscienza dell'importanza della imminente lotta, che non contemplassero più la possibilità di una pace, che comprendessero invece ciascuno di dover vincere o perire, lo dimostrano le dichiarazioni scambiate allora e in seguito dal Papa e dall'imperatore, dichiarazioni in cui a vicenda si dicono privi d'ogni diritto ed in cui ciascuno si presenta quale rappresentante di pretese intangibili, cercando, con grosse parole e frasi roboanti, di convincere il mondo del loro buon diritto.
Quanto sembrano gentili e moderati i documenti che si erano scambiati Enrico IV e Gregorio VII, Federico I ed Alessandro III, al paragone di quelle diatribe piene di furore appassionato, di odio indomabile, che ormai a vicenda si scambiavano Federico II e Gregorio IX.

Il mondo assistette ad uno spettacolo inaudito, che non gli era stato presentato. nemmeno durante la lotta per le investiture. Contro il protettore riconosciuto dalla Chiesa ed in lettere apostoliche, che presso i fedeli volevano essere accolte con piena autorità, il rappresentante terrestre di Dio scagliava le accuse più terribili, le più feroci contumelie e le più audaci minacce.
Quei documenti rimarranno monumenti imperituri di presunzione sacerdotale e di un'ambizione, che si scrivevano e si mettevano in atto per nascondere, sotto le bibliche frasi intorno alla missione della Chiesa, passioni prettamente mondane; di un'ambizione che si fece scudo con accuse in parte esagerate, in parte menzognere, per spogliare di ogni loro diritto e precipitare in vergognosa servitù lo Stato, il suo capo ed i suoi componenti.
Emerse ormai con evidenza il contrasto inevitabile, ad ogni mediazione, ad ogni conciliazione refrattario, nel quale doveva terminare e terminò, giusta la natura delle cose umane, l'evoluzione ecclesiastica e politica dell'età di mezzo. tutta dominata dall'idea di un regno universale.
Perfino i contemporanei, accesi anche essi da ardore della lotta che era scoppiata, finirono per accorgersi del significato degli sconvolgimenti a cui assistettero; riconobbero subito trattarsi di ben altra cosa da quella che avevano rivelato i decreti furibondi del Pontefice, quei discorsi fanatici, animati da odio feroce, con i quali schiere di frati predicatori e questuanti si agitavano per sobillare i popoli contro l'imperatore.

Sotto l'impressione degli eventi che stiamo per narrare, i popoli compresero quale fosse stato il loro errore, quando, come finora, avevano creduto di promuovere il bene proprio, aggrappandosi all'idea del regno universale, e credendo di trovare in esso la maggior garanzia di prosperità politica.
Al contrario, si convinsero che le conseguenze fatali, sorte dall'aspirazione a effettuare il concetto universale, non potevano essere sviate se non col sacrificio di quel concetto, applicandosi ogni popolo a costituire, di sua, iniziativa, una comunanza politica sua propria.
Sorse la coscienza nazionale: di fronte all'impero universale caduto in sfacelo, di fronte all'universale Chiesa che ne rivendicava il patrimonio, sorsero gli Stati nazionali, traendo da loro stessi ragione e diritto di esistenza.
Quantunque la curia romana combattesse in FEDERICO II "il re della pestilenza"; quantunque considerasse addirittura come fatti dimostrati e annunciasse al mondo, come tali, le maggiori calunnie contenute nelle accuse e nelle insinuazioni dirette contro l'imperatore, essa non poteva alla lunga ingannare, con questi mezzi il mondo intero; anzi, senza saperlo ed agli occhi di tutti i contemporanei, la curia stessa, procedendo nel modo descritto, formulava una critica schiacciante riguardo alla politica sino a quel momento dalla Santa Sede praticata.

Per molti anni essa era stata strettamente alleata, sia nelle cose ecclesiastiche come in quelle politiche, con il sovrano, che ora andava additando come "feccia del genere umano"; lo aveva lasciato passare come campione predestinato dei cristiani contro gli infedeli ed aveva affidato alle sue mani la lotta che doveva salvare la Terrasanta; lo aveva considerato come protettore della fede e si era servita del suo braccio temporale per impedire l'estensione delle eresie; mediante le sue armi fece sottomettere i Romani rivoltosi; aveva (esteriormente e con poca sincerità) appoggiato i diritti di lui di fronte ai Lombardi, e condannato più di una volta la resistenza da questi opposta all'imperatore, come un delitto "contro l'interessi di tutti i cristiani".

"Le accuse, che ormai la Chiesa scagliava, da quei fatti erano smentite; e se erano fondate, tanto maggiore era la colpa della curia, che per anni ed anni si era lasciata da un simile indegno alleato, caricare di debiti di gratitudine.
Chi dunque era cambiato? Federico alla Chiesa non aveva né ricusato l'ubbidienza né dichiarato una guerra; qualunque cosa di lui si pensasse a riguardo delle sue idee personali sul cristianesimo, nessuna delle imputazioni fattegli a tale proposito è stata dimostrata, ed all'invenzione menzognera di preti maligni va attribuita esclusivamente quella frase che si diceva lui avesse pronunciato: che erano "tre i furfanti che, con le pretese rivelazioni trassero in inganno il mondo intiero: Mosè, Cristo e Maometto".
Agli occhi dell'osservatore imparziale tutte queste insinuazioni ipocrite erano, in modo semplice quanto efficace, confutate dal contegno ecclesiastico assolutamente corretto, da tutti conosciuto, da nessuno contestato, che l'imperatore tanto più s'impegnava ad osservare, per non dare motivo a censure o malignità.
Difatti, i motivi che determinarono la Chiesa a mutare la politica fino allora osservata, i motivi che l'indussero a romperla con Federico II con modi che fin dall'inizio escludevano ogni possibilità di riconciliazione; i motivi che lo spinsero ad iniziare, contro Federico che prima aveva protetto e poi accolto come alleato, questa lotta che dai mezzi usati si rivelava destinata ad annientarlo, nulla avevano a che fare con il vero carattere della Chiesa, nulla con l'alta sua missione né con i sacri suoi fini; sotto il manto di una lotta, che si pretendeva iniziata per la libertà della Chiesa, si combatté esclusivamente per questioni d'influenza temporale, solo per gl'interessi del potere profano.

"Gli ultimi successi riportati da Federico II, la vittoria di Cortenuova, l'acquisto della Sardegna in seguito all'unione di Enzo con Adelasia, avevano portato la potenza dell'imperatore ad un punto, che minacciava di schiacciare la Chiesa; lo smacco, toccato all'imperatore sotto le mura di Brescia e seguito da nuova sommossa dei Lombardi, porgeva alla curia, per un attacco contro la potenza del monarca, un'occasione così favorevole come forse per molto tempo invano l'avrebbe aspettata.
Come già fece ai tempi di Federico I e di Alessandro III, così anche in questo nuovo frangente la curia cercò di nascondere le sue mire interessate sotto la luce abbagliante di aspirazioni liberali a favore della nazione italiana.
Il che tanto più facile doveva riuscirle, quanto maggiori si diffondeva lo scontento, l'eccitazione contro il dominio straniero con quel desiderio appassionato di conquistare la libertà nazionale oppressa da Federico, il quale piegava sotto il suo giogo tutta l'Italia ed aveva imposto, al suo regno ereditario, i ceppi dell'ordinamento burocratico e dispotico che abbiamo descritto.
In ogni tempo la curia ha saputo mettere a profitto quei sentimenti. Come protettrice dell'indipendenza nazionale italiana la curia aveva cominciato a prendere la direzione degli affari temporali della penisola; appoggiandosi a questo stesso titolo, Gregorio VII aveva radunato contro l'elemento germanico tutte le forze dell'Italia, e perfino dove la grave delusione, preparata loro da Alessandro III, i Lombardi ancora non si erano perfettamente convinti dell'incompatibilità degli interessi nazionali e teocratici, errore che in seguito piangeranno caro e che ha essenzialmente contribuito a condannare, per molti secoli la penisola italiana a trascinare la trista esistenza di un paese, privo di libertà nazionale ed afflitto dal regime egoistico di casate straniere.
Ma anche la mente dell'imperatore era ammaliata da altrettante simili illusioni (vedi poi in fondo nel successivo capitolo)


"Abituato a contemplare le condizioni politiche dell'epoca sua e le questioni di potenza che ne scaturivano esclusivamente dal punto di vista della monarchia siciliana e da quello dell'impero mondiale, che egli si era prefisso di creare, Federico non aveva senso né per il diritto né per l'importanza dell'evoluzione municipale, e fatalmente disconosceva la vera forza di una borghesia sorta dall'associazione libera e divenuta dopo una lotta di venti anni, l'alleata migliore dell'avo, Federico I.
Invece di rinnovare senza alcuna riserva la pace di Costanza e di assicurarsi in tal modo l'alleanza dei comuni dell'alta Italia, che di fronte alla Chiesa teocratica avevano con lui in comune i più importanti interessi; invece di privare in questo modo il Papato dell'appoggio principale per l'agitazione nazionale, Federico spinse i comuni lombardi sul campo dei suoi avversari i quali, senza quel soccorso, difficilmente avrebbero potuto vincerlo".

"Ma quanto meno la distribuzione di partiti rispondeva ai veri loro interessi, tanto maggiori furono la passione e l'accanimento con cui ognuno difendeva la propria causa, tanto minore lo scrupolo nella scelta dei mezzi per farla trionfare. Evidentemente l'imperatore si trovava in svantaggio, non disponeva di quella somma di argomenti e di motivi che nutriva e sussidiava l'agitazione dei suoi antagonisti, né valse a controbilanciare questa sua inferiorità, l'unità del criterio direttivo che costituiva il vantaggio del partito imperiale".

Dal punto di vista ecclesiastico, nazionale, politico, Roma chiamava alle armi i Lombardi per annientare Federico; disponevano degli argomenti più solidi, degli impulsi più forti per dimostrare la necessità di atterrarlo, e pareva che a ciascuno di essi la vittoria riservasse come premio un compenso particolarmente desiderato. Nulla di tutto ciò Federico poteva promettere ai suoi; per quanto grandi fossero le ricompense, con cui egli di solito rimunerava i servizi prestati, il guadagno propriamente detto rimaneva sempre a lui solo, e non pochi che si armavano in suo favore, temevano che, dopo la vittoria, quando cioè l'imperatore avrebbe avuto il pieno potere e quando liberamente il suo dispotismo si sarebbe potuto compiere, essi avrebbero visto scemare i loro privilegi e i loro territori".

"Soltanto nella fortuna Federico II poteva dirsi in un certo modo sicuro dei suoi seguaci: ma appena quella l'abbandonava, doveva sempre temere di vederli disertare dalle sue bandiere e passare nel campo degli avversari vittoriosi".


FEDERICO II CONTRO I GUELFI DELL'ALTA ITALIA E CONTRO ROMA

La scomunica fu confermata il Giovedì Santo, il 24 marzo 1239, pubblicata e fu ordinato a tutte le chiese del mondo cristiano di esporla alla luce dei ceri, accompagnati dal suono grave del rintocco della campana "dolens" (quella che accompagnano i funerali).
Federico II ne ebbe notizia a Padova, dove era rimasto quasi tutto l'inverno, credendo di essere riuscito a pacificare la famiglia dei Romano con il
marchese d' Este, il cui figlio Rinaldo aveva unito in matrimonio con Adelaide, figlia di Alberico.
Non volendo che la notizia della scomunica per bocca di altri fosse appresa dai Padovani, l'imperatore radunò i cittadini nel palazzo del comune e fece da PIER DELLE VIGNE confutare i motivi della scomunica contenuti in una bolla papale, dichiarando poi egli stesso che se lui si fosse meritata la sentenza sarebbe stato pronto a riconoscere e riparare i propri torti, ma, poiché il Pontefice lo aveva scomunicato per colpe che non aveva commesso, se ne sentiva maggiormente addolorato ed offeso.

Iniziò allora una violentissima polemica fatta con lettere e circolari in cui GREGORIO I1 e FEDERICO II si accusavano a vicenda, o tentavano di dimostrare false le accuse ricevute, o cercavano sostenitori alla propria causa. L'imperatore inviò un'epistola ai Romani con i quali si lagnava perché non rispondevano alle offese lanciate al loro sovrano, sempre impegnato alle sorti della gloriosa città.

Poi scrisse ai re e ai principi d' Europa, chiamandoli a giudicare il contegno del Pontefice e il diritto imperiale, coprendo di contumelie il Papa "protettore degli eretici lombardi", ed esortando i principi medesimi a sostenere "la causa del più grande sovrano cristiano, perché tutti devono portar acqua alla propria casa quando brucia quella del vicino".
Li invita a far causa comune con lui, "non perché egli non abbia la forza di respingere le offese del Papa, ma perché è in gioco l'onore di tutti i re quando è colpito l'onore di uno di essi"

Ribattè il Pontefice (con l' "Ascendit de mari bestia balsfemiae") replicò Federico (con "Levate in circuito oculus vestros"; e un'altra senza firma che gira come libello è la "Collegerunt pontigices et farisei"). La guerra fatta a base di violentissime epistole durò un bel pezzo e con esse Gregorio IX voleva dimostrare che non era sceso in lotta contro l'impero, ma contro l'imperatore, e Federico, dal canto suo, che lottava non contro la Chiesa, ma contro il Papa. Dei tanti scritti riportiamo quella del cancelliere imperiale Pier delle Vigne:

L'ORAZIONE DI PIER DELLE VIGNE AL PAPA

"Si riunirono in consiglio i Pontefici e i Farisei contro l'imperatore romano loro signore e dissero: -Che dobbiamo fare se egli così trionfa dei suoi nemici? Se lo lasciamo fare egli sottometterà tutto il glorioso popolo lombardo e subito verrà, secondo l'imperiale costume, a toglierci ogni potere, a scacciarci dalle nostre sedi, a sterminare tutta la nostra gente. Egli darà ad altri agricoltori la Vigna del Signore e noi, condannati senza giudizio, saremo precipitati nell'abisso d'ogni male. Resistiamo perciò fin da ora, prima che la piccola scintilla provochi l'inesorabile incendio e la lieve malattia attacchi le midolla. Non aspettiamo altre repliche, affiliamo le nostre lingue, scocchiamo le nostre frecce, vibrandole in modo da ferire e recare vero danno e abbattere il nostro nemico e far sì che non possa più risorgere e si convinca della vanità dei suoi sogni". Così oggi i Farisei, seduti sulla cattedra di Mosè, si sono stoltamente levati contro l'imperatore dei Romani, accusandolo di colpe immaginarie, calpestandogli ogni suo diritto, talmente accecati dalla malvagità del loro animo da condannare un principe innocente e giusto e da stravolgere quella potestà delle somme chiavi. Il padre dei padri, che si vanta d'esser il servo dei servi di Dio, mutatosi in un sordido aspide, lasciata da parte ogni giustizia, non ammessa alcuna discolpa dell'imperatore, rigettato qualunque consiglio, lanciò ad un tratto, come un sasso dalla fionda, la mala parola; e, gridando: "ciò che ho scritto ho scritto" si allontanò dalla via della pace. Ma tu che ti chiami vicario di Cristo, successore di Pietro, umile pescatore, perché mai, acceso d'ira, fuggi da quel che condusse il Re del Mondo a vestir la forma di un servo? Dimmi, ti prego: cosa disse ai suoi discepoli, risorgendo dai morti, quel maestro di tutti i maestri? Non disse: "Prendete armi, scudo e spada", ma: - "Con voi sia la pace". E pace suona l'angelico inno, e nient'altro che pace e amore il Figlio dell'Eterno Re lasciò ai suoi diletti quando tornò da dov'era venuto; e volle che, dopo la sua dipartita, a queste due cose essi si attenessero. Ora, poiché tu affermi di essere il vicario di Cristo e il successore di Pietro, tu non dovresti abbandonare la loro via, ma le tue azioni dovrebbero concordare con i loro atti e dovrebbe il Pontefice seguir le orme del Galileo.
Chiamato da Cristo, Pietro gettò la rete ed ogni sua cosa, poiché aspirava al tesoro della patria celeste, tutto possedendo e nulla avendo. Tu invece tendi soltanto a divorare e ad ingoiare tutto, così che l'intero mondo non basta a soddisfare il tuo ventre vorace. Pietro, giunto alla porta speciosa, disse allo zoppo: "Bada che io non possiedo oro né argento". - Tu invece, appena ti pare che diminuisca il mucchio dell'adorato oro, ti metti a zoppicar con lo zoppo, ricercando con ansia le ricchezze di questo mondo. Se vai predicando la povertà perché non fuggi la ricchezza che invece esalti? Pietro, quantunque tormentato da crudele fame, non volle cibarsi di vivande immonde. Tu invece non vivi che per mangiare e sopra tutti i tuoi vasi si legge a caratteri d'oro: "Bevo, bevi". E, a mensa o dopo il pasto, ripeti così spesso queste parole che, quasi rapito al terzo cielo, parli ebraico, greco e latino; e quando il vino ti ha riempito la pancia ti sembra di essere portato su le ali dei venti. Soltanto allora tu vedi sottomesso a te il Romano Impero; soltanto allora i re della terra ti offrono i loro doni, e grandi eserciti si schierano dinanzi a te e tutte le genti s'inginocchiano ai tuoi piedi. Pianga, sì, pianga la Madre Chiesa poiché il pastore del gregge del Signore è diventato un lupo rapace. Egli divora il grasso del gregge ma non lega ciò che è sciolto, non ricompone ciò che ci dissolve. Amante dello scisma, capo ed autore di scandalo, padre d'inganni, pare insegnare i diritti e l'onore del principe romano, ha deposto ogni timore dell'Altissimo, rigettata ogni vergogna degli uomini, protegge gli eretici, i nemici di Dio e di tutti i fedeli di Cristo. E per nascondere meglio la malvagità del suo animo li favorisce sotto la maschera della pietà, dichiarando di aiutare i Lombardi affinché l'imperatore non li mandi a morte o li giudichi più severamente di quanto non richiede il suo diritto. Ma l'astuzia della scaltra volpe non riuscirà mai ad ingannare la sagacità del cacciatore. Sta scritto che all'ombra di Pietro erano sanate le più grandi malattie. Tu invece non miri che a far versare sangue innocente, non miri che a far guerreggiare tra loro i popoli. Eppure ti fu detto: "Custodisci, pascola i miei agnelli", e perciò il diritto e la verità non dovrebbero essere oppressi da arbitrio o furore. Ma i tuoi pensieri, l'animo tuo sono solo rivolti ai beni mondani, solo intesi a far tesoro in terra delle cose terrene. E intanto i tesori della Chiesa sono poco o non sono mai usati per sollevare le miserie dei poveri! E mentre, immemore della povertà di Pietro, che soltanto la sua rete possedeva, tu innalzi case e palazzi con le offerte dei fedeli destinati a ricuperare la Terrasanta, la nostra Gerusalemme, dove Cristo volle soffrire e morire, giace in potere dei cani, sotto il giogo dei Saraceni; un giorno florida, oggi siede deserta, piange come tortora, invocando il Re dei Re, il Romano imperatore, unica sua speranza per salvarsi.
E tu, empio Erode, che difendi gli Eretici, figli della perdizione e dell'errore, non solo temevi di recarti là, ma mettesti a soqquadro terra e mare affinché quell'ammirabile Cesare, luce del mondo e specchio immacolato, non riuscisse a soccorrere la terra di Dio. Ma rinsavisci oramai: non ti opporre più al principe difensore della Chiesa; pensa alla povertà di Silvestro e alla generosità di Costantino. Il figlio dell'Eterno Re disse che settanta volte si deve perdonare al peccatore; e tu non vorrai risparmiare l'innocente che domanda pace? Accogli dunque benignamente il figlio che desidera ritornare nel grembo materno della Chiesa, che pur senza colpa, chiede perdono; altrimenti quel forte nostro leone, destatosi dal suo finto sonno, con il solo suo terribile ruggito trarrà tutti i corpulenti tori dai confini della terra e, rotte le corna dei superbi, governerà la Chiesa con la giustizia".

La lotta tra Gregorio IX e Federico II non poteva limitarsi - come difatti non si limitò - agli scritti polemici. Il Pontefice cercò di trovare aderenti in Francia e in Inghilterra contro l'imperatore, ma non pare che ne trovasse molti, e non fu neppure accolta la proposta che fece al re di Francia di dar la corona imperiale al fratello ROBERTO D'ARTOIS; cercò, ma con scarsi risultati, di accrescere il numero dei suoi sostenitori in Germania, dove però soltanto il duca d'Austria tornò a ribellarsi. Tentò poi, per mezzo di agenti segreti, di sollevare contro il suo nemico le popolazioni dell'Italia meridionale, ma un principio di sommossa fu subito represso.

Erano questi i prodromi della guerra che necessariamente doveva avere come principale teatro l'Italia. Per il Pontefice parteggiavano nell'Italia centrale, la maggior parte delle città dell'Umbria e della Toscana, nella settentrionale la Lega Lombarda e le repubbliche di Genova e di Venezia, poi si erano aggiunti PAOLO TRAVERSARI che si era impadronito di Ravenna, il conte di SAN BONIFAZIO, il MARCHESE D'ESTE ed ALBERICO da ROMANO, il quale (con un impensabile voltafaccia) con l'aiuto del signore di CAMINO, si era impadronito, in nome dei Guelfi, della città di Treviso.
Dalla parte di Federico stavano Padova, Vicenza, Verona, Mantova, Cremona, Modena, Reggio, Parma, Pisa, il fedele EZZELINO da ROMANO, il valoroso SALINGUERRA, capo del partito ghibellino di Ferrara.
La guerra assunse un carattere violento nell'Italia settentrionale. Qui FEDERICO verso la fine del 1239, marciò con le sue armi per tentare di risolvere militarmente la questione. Cominciò dalla Romagna dove si rese padrone dei due castelli di Piumazzo e Crevalcore; poi improvvisamente entrò in Lombardia e verso la metà di settembre giunse a Pieve di Locate, a venti miglia da Milano.
All'avvicinarsi di Federico, i Milanesi, manovrati allora dal suddiacono GREGORIO di MONTELUNGO (legato Pontificio !) presero le armi, andarono ad accamparsi a Campognano, ad otto miglia fuori dalla città e, rotti gli argini del fiume Olona, costrinsero gl'imperiali a ritirarsi sul Ticino.

Federico sperava di impadronirsi con la sorpresa di Milano; caduta questa speranza ed avvicinandosi l'inverno, si ritirò a Cremona, quindi scese in Toscana. Qui la sua permanenza non fu senza profitto: a Pisa rappacificò le famiglie dei Visconti e della Gherardesca, ricevette la sottomissione di Siena, che, essendo in lotta con Firenze, sperava (ed è questo il gioco perverso maggiormente praticato) di ricevere contro la rivale gli aiuti dell'imperatore, e, raccolto un nuovo esercito, verso la fine dell'inverno del 1240 invase lo stato pontificio. Parecchie città dell'Umbria, fra cui Foligno e Viterbo, gli aprirono le porte e seguirono l'esempio Corneto, Civitacastellana, Sutri, Montefiascone, Orte e Toscanella.
Avvicinandosi a Roma, Federico II invitò con lettere il Senato e il popolo a mandargli i più autorevoli cittadini assicurando che voleva dare e conferire loro le più nominali dignità e l'amministrazione delle province. Sperava così di volgere a suo favore i Romani, fra i quali contava non pochi sostenitori capeggiati dai Frangipani (tempo addietro papale); e ci sarebbe riuscito se il Pontefice non avesse stretto insieme alla sua causa l'animo della cittadinanza con un'impressionante cerimonia religiosa.

Era il 22 febbraio del 1240. Quel giorno il 95 enne GREGORIO IX riunì gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, tutto il clero, e alla testa della processione fece il giro delle vie, preceduto dalle reliquie della Croce e dalle teste degli Apostoli e seguito da un'infinita marea di popolo. Giunto nella basilica vaticana, il Pontefice, lacrimando, si tolse la tiara dal capo e con mano tremante la depose sui teschi di S. Pietro e S. Paolo, esclamando: "Difendetela voi, o Santi, la città che i Romani lasciano alla mercé dei nemici !"
A queste parole e alla vista del vecchio Papa piangente il popolo si commosse, s' inginocchiò, ricevette la benedizione pontificale e disse di volere difendere il suo Pastore. Alla commozione seguì l'esaltazione subito ravvivata dai frati domenicani e francescani che in tutte le chiese predicarono la guerra santa contro l'eretico imperatore. Gli animi furono talmente infiammati che ecclesiastici e laici vollero ricevere dallo stesso Gregorio la croce, simbolo della guerra contro Federico.

Lo sdegno dell'imperatore fu enorme, solo due anni prima aveva inviato a Roma il carroccio dei Comuni, e aiutato il papa a riconquistare Roma, e ora trovava papa e romani contro di lui, e lo stesso Gregorio protettore dei Comuni.
Federico ordinò che ad ogni romano crocesegnato, che fosse caduto in potere degli imperiali, si stampasse sulla fronte con un ferro rovente il segno della croce, poi, non potendo con le forze di cui disponeva sperare di impadronirsi di Roma, levò il campo e andò a Spoleto; qui lasciato un presidio di quattrocento Tedeschi, marciò verso l'Italia meridionale e pose l'assedio a Benevento, città papale.
Il motivo che aveva fatto allontanare Federico da Roma non consisteva soltanto nell'esiguità delle forze, ma anche nel difetto di denaro, che rendeva critica la posizione dell'imperatore in un momento in cui non gli era possibile radunare un poderoso esercito con le milizie pugliesi e saracene sparse nell'Italia centrale per tenerne a freno quelle popolazioni. Le forze ghibelline del nord sue alleate a stento erano sufficienti a contenere l'impeto dei Guelfi. Ed infine non poteva fare affidamento ad eventuali truppe tedesche che nei confini orientali della Germania stavano tendendo fronte anche alla nuova minaccia dei mongoli.

Assillato dal bisogno di denaro, appena giunto nel suo regno, Federico II convocò un parlamento che si tenne a Foggia nell'aprile del 1240, al quale convennero anche i rappresentanti delle città demaniali e in cui furono emanate disposizioni e imposte nuove tasse per impinguare l'erario già esausto.
Mentre l'imperatore nel mezzogiorno si adoperava a radunar forze, nell'Italia settentrionale la situazione per lui si faceva critica. Ferrara, dopo quattro mesi di assedio era costretta a capitolare e, contro i patti della resa, fu orribilmente saccheggiata dall'esercito guelfo "papale": l'ottuagenario Salinguerra, che invano l'aveva difesa, carico di catene fu mandato e rinchiuso nelle carceri di Venezia, dove vi morirà quattro anni dopo.

Alla perdita di Ferrara, che costituiva un grave colpo per Federico, seguirono alcuni attacchi guelfi nelle stesse città ghibelline, come Cremona, Parma, Reggio e Modena, e alcuni tentativi dei nemici di Ezzelino contro il potente signore ghibellino, tentativi che, andati a vuoto, provocarono da parte di Ezzelino feroci rappresaglie che sono entrate perennemente nell'immaginario collettivo di alcune città, come Vicenza.

Reclamando la situazione dell'alta Italia la presenza dell'imperatore, Federico, nell'estate dello stesso anno 1240, con un esercito reclutato nel mezzogiorno e rafforzato da contingenti ghibellini della Toscana e della Romagna, marciò verso il nord per restaurarvi il suo dominio. I suoi primi sforzi furono fatti contro la città di Ravenna, che cadde nelle mani del monarca svevo il 22 agosto del 1240. Più difficile fu per Federico avere ragione di Faenza, la quale, difesa da formidabili fortificazioni, da un popolo ostinato e da un capo valoroso, qual era il podestà MICHELE MOROSINI, veneziano, oppose valida resistenza per ben otto mesi. Stremati dalla fame, i Faentini cercarono di mandar fuori i vecchi, le donne e i bambini, ma questi furono ricacciati dentro dal nemico; allora chiesero di arrendersi a patto di aver salva la vita e di andare dove decideva l'imperatore; ma le loro richieste non furono accolte. Federico pretendeva la resa a discrezione e l'ottenne il 14 aprile del 1241.

Tuttavia l'imperatore non abusò della vittoria: agli eroici cittadini lasciò la vita, le sostanze, né volle deportarli, purché gli giurassero fedeltà e gli promettessero di non parteggiare più per i suoi nemici; e, comunicando la vittoria al fedele Ezzelino, scriveva:
"Noi stimiamo esser vendetta gloriosa il perdonare quando si potrebbe invece punire; ed ai felici titoli del nostro trionfo scriviamo il dar la vita ai soggetti e ai condannati perché possano sperimentare come nulla vi sia di più dolce, di più.giusto e di più benigno della sovranità imperiale a cui si sono risottomessi. Del resto il vero il Sacro Impero non ama il sangue e le stragi; il suo trono è illuminato dalla Divina Potenza, è cinto di misericordia e verità, è circondato dalla pace e dalla giustizia. Perciò noi, che accettiamo la conversione dei fedeli, ci ostiniamo nel domare l'ostinazione dei ribelli. Esulta dunque con noi per la resa di Faenza tu che sei così pieno di zelo e di fede per la nostra causa, tu che sopporti fatiche e affronti pericoli per domare i nostri ribelli e ristabilire la pace e la giustizia".

Alla resa di Faenza seguirono quella di Cesena e quella di Benevento, dove Federico fece smantellare le mura e disarmare i cittadini.
Nonostante le ristrettezze finanziarie in cui si trovava lo svevo, che per far fronte alle spese aveva perfino dovuto emettere scudi di cuoio a costo forzoso, la guerra procedeva a favore dell'imperatore.
I suoi successi però erano insidiati da un'abile mossa del Pontefice, il quale, accogliendo ora una proposta di Federico, fatta fin dall'inizio della contesa, di portar questa davanti il giudizio di un concilio generale, aveva convocato a Roma tutti i principi temporali a lui favorevoli e i maggiorenti della Chiesa, per il 31 marzo del 1241.
Su tale concilio Federico non faceva nessun assegnamento, né si aspettava un giudizio equo, e quindi decise di impedirlo e vietò ai vescovi e ai signori d'Italia di recarsi a Roma. Ai comuni e ai signori della sua parte, pena il bando, fu ordinato di opporsi al passaggio degli ecclesiastici diretti a Roma, se occorreva imprigionandoli e togliendo loro bagagli, denaro e cavalli; AMEDEO di Savoia, vicario imperiale in Piemonte, fu incaricato di custodire i valichi delle Alpi per non far entrare gli ecclesiastici.
Gregorio IX non si diede vinto e poiché sapeva che un buon numero di prelati avevano preso la via di Genova mandò in questa città JACOPO PECORARIO cardinale di Preneste e OTTONE cardinale di S. Niccolò per fare imbarcare i prelati su navi genovesi e condurli a Civitavecchia.

Il 25 aprile del 1241 una flotta genovese comandata da GUGLIELMO OBRIACHI, sulla quale avevano preso posto numerosi prelati della Francia e della Spagna, salpò dal porto di Genova e puntò le prore verso le coste del Lazio. Ma per ordine di Federico, la flotta siciliana e quella pisana, al comando di Re ENZO, incrociavano nelle acque fra la Corsica e la Toscana per impedire il passaggio alle navi genovesi e, quando queste superando l'Elba furono giunte tra le isolette del Giglio e Montecristo, le assalirono, ne distrussero molte e ne sequestrarono ventidue, catturando quattromila prigionieri.
Caddero inoltre nelle mani dei Siciliani e dei Pisani, in questa battaglia combattuta il 3 maggio 1341, e impropriamente passata alla storia col nome di battaglia della Meloria, più di cento prelati, tra cui i due cardinali legati di Francia e d'Inghilterra, Gregorio cappellano del Papa, gli arcivescovi di Bordeaux e di Rouen e i vescovi di Pavia, di Tortona e di Asti, che, insieme a numerosi legati pontifici e agli altri prigionieri furono poi mandati nelle carceri di Napoli.
La vittoria riportata presso l'isola del Giglio, da Federico attribuita al favore della Provvidenza fu un grave colpo per i sostenitori del Pontefice e ovviamente fece rialzare la testa a tutti i Ghibellini e alle città imperiali. Così in Lombardia i Pavesi inflissero una grave sconfitta alle milizie di Milano; a Roma anche qui tornò alla ribalta la fazione ghibellina e questa volta con un autorevole alleato il cardinale COLONNA; in Germania il partito guelfo abbandonò l'idea di eleggere un antiré e cessarono pure le agitazioni promosse dagli ecclesiastici.

Per Federico, quello era il momento più favorevole per tentare una seconda volta l'impresa di Roma, e quindi non indugiò molto ad approfittarne. Ma la sua fortuna, andava e veniva, spesso divertendosi, ingegnandosi a cercargli nemici che venivano perfino da un mondo fino allora del tutto sconosciuto.

Seguito da un fortissimo esercito, marciò sulla capitale, ma giunto a Spoleto, fu raggiunto da un trafelato messaggero e fermato da una gravissima notizia: una marea immensa di barbari asiatici minacciava d'invadere la Germania e di distruggere con essa l'estremo baluardo della civiltà occidentale.

LA CALATA DEI MONGOLI

"Proprio nei giorni in cui la guerra dinastica tra Filippo di Svevia e Ottone IV prendeva finalmente una piega favorevole al primo, si era prodotto un grave sconvolgimento geopolitica nelle lontanissime steppe dei Mongoli, nel cuore dell'Asia. I Mongoli, in precedenza frazionati ed indeboliti da lotte interne ed esterne, erano stati uniti sotto un unico scettro dal potente TEMUCCIN-GENGIS KAN, che iniziò a trascinare le orde in continue spedizione di conquista, e simili ad un fiume in piena si rovesciavano sui paesi attraversati uno dopo l'altro.

Nell'arco di due decenni, l'interno dell'Asia, dai confini dell'India fino a quelli dell'impero bizantino, dall'altopiano persiano fino al cuore della Russia, tutto si era trasformato in un solo regno, la cui terribile forza d'espansione minacciava non solo l'Oriente ma l'occidente.
Sotto il nipote di Temuccin, BATU, che nella divisione dei grandi territori aveva ricevuto le regioni europee ed asiatiche del confine, al nord del mar Caspio, il diluvio delle popolazioni mongoliche si riversò sulle pianure dell'Europa orientale, travolgendo con una forza irresistibile chiunque tentava di porvi argine.
La Russia cadde in preda a schiavitù secolare; l'Ungheria fu inondata, nonostante una strenua difesa; schiacciato nella sanguinosa battaglia di Moki sul Saio, dalla superiorità numerica, il bellicoso popolo magiaro soccombette alle orde di Batu, ormai circondate dalla aureola dell'invincibilità; tutti i paesi fino al Danubio furono trasformati in un deserto, e perfino l'Illiria e la Dalmazia, ebbero a soffrire degli orrori dei predoni mongoli e delle loro scorrerie.
Re Bela, fuggiasco, ormai privo di patria, abbandonò il suo regno cercando riparo presso l'ardimentoso suo alleato, il duca FEDERICO d'Austria.
Ma per quanto coraggioso, e nemmeno insensibile alle lettere del Pontefice che aveva esortato anche lui a brandire le armi contro Federico, fu proprio lui a inviare i portatori delle brutte notizie all'Imperatore, implorando soccorsi, e dichiarandosi pronto a cedere a lui la sua corona e il regno come feudo.

Federico avrebbe voluto ascoltare le preghiere e le suppliche del re d'Ungheria, ma nella situazione in cui era, con la burrasca in corso, con la guerra scatenata dal Papa, ad onta del pericolo imminente dell'Europa e della civiltà cristiana, perdurava l'inimicizia del Pontefice, e gli era impedito di fare il suo dovere di imperatore e di protettore di tutti i cristiani. Quindi bisognava a quel punto rendere responsabile della potenziale critica situazione la curia romana.

Per quanto sarebbe stata spiacevole e pieno d'incognite l'accorrere in Germania, la situazione in Italia permetteva a Federico la possibilità di un rivolgimento fortunato.
Il terribile pericolo dal quale era minacciato l'occidente, essendo in gioco interessi così universali, non poteva mancare di impressionare anche l'animo di Gregorio IX, ed era lecito supporre che il Pontefice, per il bene generale, sarebbe giunto ad un giusto accordo con l'imperatore, per poter costui correre a nord-est per coprire la Germania e lo stesso regno italico.

Poteva Gregorio IX assumersi la responsabilità di avere con il suo contegno inconciliabile spianato la via alla calata dei Mongoli, fino nel cuore dell'Europa, e di avere così votato a sicura distruzione i centri dell'antica civiltà?

Le circostanze esercitavano una forte pressione sull'animo di Gregorio IX che non poteva, di fronte al pericolo rappresentato dai Mongoli, chiudere l'orecchio alle esortazioni pacifiche dell'imperatore (che fra l'altro, giunto a Spoleto, quasi vicino a Roma) che aveva deposto le armi e dichiarava di voler fare la pace.

Del resto anche Federico, curando i propri interessi conveniva una conciliazione, era da anni che cercava una via d'uscita, e questa era una di quelle. Gregorio però se n'accorse e davanti alle proposte di pace che gli giunsero da parte dell'imperatore, per quanto questa conciliazione l'esigessero la situazione dell'occidente e il grave pericolo della Germania, lui tentennava, non si faceva vivo, non rispondeva.

Un'altra volta l'accidentale fortuna di Federico, si trasformò in sfortuna.
Le nuove notizie che giungevano erano queste: il mongolo BATU, dopo aver sbaragliato gli Ungheresi sul fiume Saio, invece che a ovest si era diretto a nord in Polonia, e lasciando le rive delle Vistola, si era incamminato verso quelle dell'Odor. Qui affrontato il 9 aprile 1241 l'esercito della Silesia, capitanati dal duca ENRICO il PIO, a Liegnitz, lo aveva sconfitto. Nonostante la vittoria, BATU rimasto molto impressionato dall'eroica resistenza dei vinti, forse convinto di trovarne altri di quel calibro, o perché (e questa è una delle ragioni più valide) in patria era morto il khan OGODEI e subito dopo il figlio di Gengis Khan, decise di rinunciare ad altre conquiste sui territori germanici, per tornarsene verso le steppe dell'Asia (forse convinto il nipote di GENGIS KAN di succedere sul trono dello sterminato impero Mongolo)
Giunta questa "bella" notizia dello "scampato pericolo", l'ostinazione del Pontefice tornò ad essere dura e non volle più dare alcun ascolto alle parole concilianti dell'imperatore.
Non era certo un buon atteggiamento nei confronti di tutti i popoli cristiani in generale e ai Tedeschi in particolare, così gravemente minacciati dalle orde di un'invasione barbara, che forse avrebbe distrutto il lavoro di tante generazioni e le antiche sedi della civiltà europea.
Eppure i due rappresentanti della suprema autorità terrestre e con uno di loro che si definiva anche autorità spirituale, a vicenda si combattevano per una questione d'influenza temporale, mostrando di non avere nessun interesse dei cristiani occidentali, affidati alla loro protezione.

In un simile caso, ai due litiganti, di cui uno sordo, quale vantaggio poteva scaturire? A cosa serviva il Papato e l'Impero? Pontefice ed Imperatore, disconoscendo i propri doveri in una simile critica situazione, si spogliavano dei titoli, che fino allora erano stati loro accordati; scendevano da quel piedistallo di autorità nominale, al quale erano stati chiamati a salire per il bene dei Cristiani occidentali.

La battaglia di Liegnitz fu una lotta nazionale, decisiva al pari di quella data nei campi di Chàlons e di Poitiers, ove gli Unni, gli Arabi, anziché sconfitti, furono arrestati solo dall'energia della resistenza e indotti a rinunciare ai disegni di ulteriori conquiste.
ENRICO di SILESIA ed i valorosi suoi compagni, morendo da eroi sull'insanguinato teatro della loro prodezza, non erano riusciti a conquistare la vittoria, ma avevano tuttavia venduto cara la propria pelle davanti alla superiorità numerica dei nemici, fino al punto che questi non si sentirono la forza di superare un'altra resistenza di quel genere e volsero le spalle alle contrade germaniche.
Simultaneamente, l'esito della sanguinosa battaglia di Leignitz distrusse come per incanto, le antiquate idee dominanti del papato e dell'impero che fino allora aveva tenuto in soggezione il popolo germanico, e a questo fece prendere coscienza il valore di una difesa ottenuta con le proprie forze e lo spinse un passo più avanti verso una molto più salda costituzione nazionale.

Invece in Italia, tra i capi dello Stato e della Chiesa, nessuna influenza esercitarono i terribili eventi narrati su quella lotta titanica, rimasero entrambi sordi alla grave esortazione in essi contenuta.
Sotto l'impero dell'orrore sparso dovunque dai Mongoli, Federico II aveva fatto il pontefice proposte di pace; ma potevano le sue offerte essere sincere se contemporaneamente lui entrava in rapporti coi Romani scontenti, invitandoli a costringere, mediante una rivolta, Gregorio IX a concludere la pace?
Il suo modo di procedere, dunque differivano di poco da quelli del suo avversario, che nonostante tutti i cristiani la chiedevano, Gregorio IX faceva dipendere la pace dalla completa sottomissione dell'imperatore agli ordini della Chiesa.

Nessuna delle due parti può essere prosciolta da colpe e da gravi responsabilità. Al mondo non fu risparmiato lo spettacolo della civiltà europea minacciata dai mongoli, mentre continuava, intorno alle mura dell'eterna città, la lotta tra papa ed imperatore, e mentre nell'interna Roma era gia divampata tra i partigiani dell'uno e dell'altro un'orribile guerra civile, che aveva pure ridestato l'antica inimicizia tra gli ORSINI guelfi, ed i COLONNA ghibellini.

Imperterrito, né commosso da nessuno degli orrori, che da lontano e da vicino lo circondavano, sempre persuaso che faceva bene e adempiva al suo dovere verso la Chiesa ed i popoli affidati alla sua tutela, Gregorio IX dall'altezza del Laterano contemplava le truppe occupanti, vedeva devastare e saccheggiare la campagna romana.

MORTE DI GREGORIO IX

L'animo suo, induritosi in mezzo alle passioni della lotta, non accolse mai l'idea della pace e della riconciliazione, neppure quando gli giunse davanti la morte che, sotto l'influenza dell'aria estiva malsana, riuscì a spezzare la fibra così robusta del vegliardo sovraccarico di anni. Gregorio IX rese l'ultimo sospiro il 21 agosto 1241, in mezzo agli orrori e alla devastazione, da lui stesso scatenati contro l'Italia (Prutz)".

Fu per Federico un altro colpo di "fortuna" la morte di Gregorio IX ?
Proprio per nulla, anzi, con il successore (dopo l'insignificanta elezione di Celestino IV) inizia una vera e propria ostinata persecuzione, fino alla sua morte ed è il prossimo periodo che andiamo a narrare

periodo dal 1241 al 1250 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
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