ANNI 1313 - 1327

LE NUOVE SIGNORIE - LOTTE TRA GUELFI E GHIBELLINI

(vedi cartina delle "SIGNORIE" - attendere con pazienza il caricamento)

 
UGUCCIONE DELLA FAGGIUOLA SIGNORE DI PISA - I PISANI E ROBERTO D'ANGIÒ. - UGUCCIONE SI IMPADRONISCE DI LUCCA - GUERRA TRA FIRENZE ED UGUCCIONE - BATTAGLIA DI MONTECATINI - UGUCCIONE PERDE PISA E LUCCA - GADDO DELLA GHERARDESCA E CASTRUCCIO CASTRACANI - GUERRA TRA CANGRANDE DELLA SCALA E I PADOVANI. - GIACOMO DA CARRARA SIGNORE DI PADOVA - VICENDE DEL PIEMONTE E DELLA LOMBARDIA - POTENZA DI MATTEO VISCONTI - MORTE DI CLEMENTE V - VACANZA DELLA SANTA SEDE - SCISMA IN GERMANIA - ELEZIONE GIOVANNI XXII - SUA POLITICA E SUOI PRIMI INSUCCESSI - LE LOTTE INTESTINE IN GENOVA - GENOVA ASSEDIATA DA MARCO VISCONTI E SOCCORSA DA ROBERTO D'ANGIÒ - CONGRESSO GHIBELLINO DI SONCINO - FILIPPO DI VALOIS E IL CARDINALE BERTRAND DU POYET IN ITALIA - ENRICO D'AUSTRIA A BRESCIA - MORTE DI MATTEO VISCONTI E GIUDIZIO SULLA SUA PERSONALITÀ STORICA - GALEAZZE VISCONTI - RIBELLIONE DI PIACENZA - GALEAZZE PERDE E RIACQUISTA LA SIGNORIA DI MILANO - GUERRA TRA IL CARDINAL DU POYET E I VISCONTI - INTERVENTO DI LUDOVICO IL BAVARO IN FAVORE DEI VISCONTI - VITTORIA DI MARCO VISCONTI A VAPRIO - POTENZA DI CASTRUCCIO CASTRACANI - RIFORMA ELETTORALE IN FIRENZE - GUERRA TRA PISA E GLI ARAGONESI IN SARDEGNA - CASTRUCCIO S'IMPADRONISCE DI PISTOIA - BATTAGLIA DI ALTOPASCIO - SCONFITTA DEI BOLOGNESI A MONTEVEGLIO - ROBERTO D'ANGIÒ SIGNORE DI FIRENZE E BERTRAND DU POYET DI BOLOGNA

 

UGUCCIONE DELLA FAGGIUOLA SIGNORE DI PISA E LUCCA
GUERRA CON FIRENZE


Uguccione della Faggiuola entrò in Pisa il 2 settembre del 1313 e vi assunse la carica di podestà e capitano. A lui era riservato il compito di liberare la repubblica dalla pressione dei Guelfi toscani, imbaldanziti dopo la morte di Enrico VII, e a quest'opera egli sIaccinse con tutta la foga della sua natura impetuosa. La prima ad essere esposta ai colpi di Uguccione fu Lucca: approfittando dell'invasione di Roberto d'Angiò, che non sapeva approfittare del disorientamento dei Ghibellini dopo l'improvvisa fine dell' imperatore, il prode Uguccione entrò nel territorio lucchese, lo distrusse, occupò Bufi, saccheggiò Santa Maria e comparve minaccioso fin presso le mura di Lucca.

Questi successi delle loro armi però non facevano gioire tutti i cittadini di Pisa. Alcuni ve n'erano, e fra questi Banduccio Buonconti, i quali temevano che Roberto d'Angiò, nominato dal Pontefice vicario imperiale d'Italia, eletto senatore di Roma, fatto signore della Romagna, di Firenze Lucca, Ferrara, Pavia, Alessandria, e Bergamo e divenuto perciò potentissimo, non avrebbe tardato certamente a gettarsi su Pisa con tutte le sue forze. 
D'altro canto l'Angioino, mentre si preparava a portar la guerra in Sicilia, molto astutamente proponeva la pace ai Pisani forse più per eliminare Uguccione che per desiderio di stabilire accordi con la repubblica ghibellina. Conseguenza delle preoccupazioni pisane fu che i consoli del mare e gli anziani di Pisa mandarono ambasciatori in Napoli e stipularono un trattato di pace e di alleanza col quale la repubblica si obbligava di non aiutare Federico III, di dare all'Angioino cinque galee, dì pagargli cinquemila fiorini al mese per l' impresa di Sicilia, di concedere franchigie dalle gabelle i Fiorentini, di restituire a Lucca i castelli occupati e di richiamare tutti i fuorusciti guelfi. 

Contro questa pace, che non era davvero necessaria ed onorevole ai Pisani, insorse Uguccione della Faggiuola, il quale, chiamato il popolo alle armi e raccolte le sue bande mercenarie, affrontò questi fautori della pace, li sbaragliò, si impadronì di Banduccio e del figlio che fece decapitare sotto l'accusa di tradimento e, adunato il Consiglio, fece decretare che nessuno potesse essere eletto magistrato se non dopo aver provato di appartenere a famiglia ghibellina. 
Riconsolidata la sua posizione a Pisa, Uguccione riprese con maggior vigore la guerra contro Lucca e la costrinse, per ottener pace, e riammettere tutti i Ghibellini ed i Bianchi esuli. Tra i fuorusciti richiamati era Castruccio Castracani degli Interminelli, giovane di circa trent'anni, audace ed ambizioso, che nel 1300 era stato cacciato da Lucca ed aveva esercitato il mestiere delle armi sotto i più esperti capitani nella Lombardia, nel Veneto e nell'Istria. Rientrato in città, Castruccio si accordò segretamente con Uguccione e il 14 giugno del 1314 andò coi suoi ad rafforzarsi a Porta S. Frediano, dove qui venne assalito dai Guelfi. 

Mentre ferveva il combattimento tra le due fazioni Uguccione piombò con la sua cavalleria in Lucca e senza alcuna difficoltà se ne impadronì, la saccheggiò e, fattosene signore, vi lasciò a governarla il figlio Neri.
I Guelfi lucchesi, cacciati dalla loro città, si fortificarono in alcuni castelli della Val di Nievole e chiesero aiuto ai Fiorentini, i quali, preoccupati dai successi dei Pisani, si affrettarono a far pace con gli Aretini, radunarono genti con le armi e inviarono ambasciatori al re di Napoli perché mandasse soccorsi. Roberto mandò con trecento uomini d'arme Pietro, suo fratello minore, che giunse a Firenze il 18 agosto del 1314, ma era ben piccolo aiuto questo, insufficiente a procurare la vittoria ai Fiorentini contro un capitano prode ed audace qual era Uguccione della Faggiuola, il quale, occupate le più importanti terre di Val di Fievole e dopo aver danneggiati i territori di Pistola, S. Miniato e Volterra, si volgeva ora ad assediar Montecatini. 
Pertanto, trascorso qualche tempo e facendosi ancor più minaccioso il nemico, i fiorentini si rivolsero nuovamente a Roberto e alle città guelfe della Toscana e della Romagna. Da Bologna, da Siena, da Pistoia, da Prato, da Volterra, da Perugia, Gubbio, Città di Castello e parecchie altre terre ricevettero cavalli e fanti, dall'Angioino fu rinviato il maggiore dei fratelli del rè, Filippo principe di Taranto, che giunse in Firenze l' 11 luglio del 1315 col figlio Carlo e cinquecento uomini d'arme. 

Di fronte ai preparativi di Firenze, Uguccione non era rimasto inoperoso ed aveva, chiesto ed ottenuto notevoli soccorsi da Matteo Visconti e Cangrande della Scala, coi quali rimase vicino a Montecatini ad aspettare il nemico. Questo, che era partito da Firenze il 6 agosto non tardò a giungere sulla sponda opposta della Fievole, ma non osò passare a guado il piccolo fiume sotto gli occhi dell'esercito ghibellino e forse sia gli uni che gli altri sarebbero rimasti lungamente a guardarsi se i Guelfi della Val di Nievole corsi alle armi ed occupato Borgo a Buggiano, non avessero chiusa ad Uguccione la via dei rifornimenti. 

Costretto da questo fatto a levar l'assedio. Uguccione la notte dal 28 al 29 diede il segnale della ritirata, ma, vedendo, sul far dell'alba, di essere inseguito, si arrestò e con mossa fulminea assalì il nemico. Delle truppe che seguivano Filippo di Taranto soltanto i Fiorentini opposero accanita resistenza, ma questa non valse a mutare le sorti della battaglia, e dopo una mischia sanguinosa in cui caddero Pietro e Carlo d'Angiò e Francesco, figlio di Uguccione, i Guelfi furono sbaragliati e si volsero in fuga lasciando sul campo duemila morti e in mano ai Ghibellini mille e cinquecento prigionieri. Molti dei fuggiaschi, diretti a Fucecchio, perirono nel fiume e nei pantani vicini. 
Dopo la sconfitta delle armi guelfe, Montecatini e Monsummano si arresero al vincitore che se ne tornò a Pisa, dove fu trionfalmente ricevuto. « Ma le vittorie d'un padrone — osserva il Sismondi — non sono lunga pezza per il popolo un bastevole conforto della servitù. La nazione non tardò ad accorgersi che allorquando la gloria ed i vantaggi più non possono esser suoi, la vittoria del principe è la sconfitta dei cittadini ». 

Ben presto sia a Pisa che a Lucca il governo tirannico di Uguccione cominciò a far nascere un vivissimo malcontento che doveva riuscir fatale al principe. A Lucca Neri della Faggiuola, temendo Castruccio che di giorno in giorno cresceva sempre più nel favore del popolo, lo aveva fatto arrestare col pretesto di certe ribalderie da lui commesse, e poiché l'arresto aveva messo in grave fermento i Lucchesi, Neri aveva chiesto soccorso al padre. Questi il 10 aprile del 1316, uscì da Pisa con un nucleo di cavalleria. Ma si era allontanato di pochi chilometri dalla città quando i Pisani, corsi alle armi, assalirono il palazzo di Uguccione ed avuta ragione dei suoi difensori, li cacciarono. Nello stesso giorno i Lucchesi insorgevano, liberavano dal carcere Castruccio Castracani e cacciavano Neri della Faggiuola. Invano Uguccione tentò di rientrare con la forza a Lucca e a Pisa; ributtato dall'una ed all'altra, prima si rifugiò nella Lunigiana, presso i Marchesi Malaspina, poi a Verona alla corte di Cangrande, che lo nominò capitano generale. 

Pisa nominò suo signore Gaddo della Gherardesca, conte di Donoratico; i Lucchesi nominarono capitano Castruccio, che il 12 giugno di quello stesso anno assunse la carica. 
Caduto Uguccione, ch'era stato l'anima della riscossa Ghibellina in Toscana, non riuscì difficile a Roberto d'Angiò di pacificare la lega guelfa con Pisa e Lucca, malgrado l'opposizione dei Fiorentini che avrebbero voluto piuttosto vendicarsi della rotta di Montecatini. 
La pace venne conclusa nell'aprile del 1317. Ciascuna città rimase in possesso delle conquiste fatte durante la guerra; ai Fiorentini vennero concesse franchige nel porto di Pisa, questa si impegnò di fornire all'Angioino cinque galere tutte le volte che il re ne avesse bisogno. 

A ricordo della pace e in suffragio delle anime dei caduti a Montecatini venne dai Pisani eretta una chiesa a San Giorgio in Ponte.

 

GLI SCALIGERI E I VISCONTI
 MORTE DI CLEMENTE V ED ELEZIONE DI GIOVANNI XXII
ASSEDIO DI GENOVA


Mentre questi fatti avvenivano in Toscana, la guerra continuava tra Padova e Cangrande della Scala. Questa era scoppiata dopo che quest'ultimo aveva occupata Vicenza. Era una guerra fatta di scorrerie e di scaramucce, le cui conseguenze si facevano sentire specialmente sulle campagne e sulle popolazioni rurali. Ferreto Vicentino, che di tale guerra ci lasciò un particolareggiato racconto, scrive che quando scoppiarono le ostilità «gli abitanti delle campagne furono i primi a soffrirne; il primo segno della lotta fu la rapina delle loro greggi e delle loro misere cose. I contadini che in quei primi assalti non caddero prigionieri si affrettarono a portare in città e a salvare tutto quanta potevano. Si vedevano gli agricoltori guidare lunghe teorie di carri su cui erano state frettolosamente caricate rustiche suppellettili e botti piene di vino; e le madri con i loro figlioletti in braccio o sulle spalle ricoverarsi per riposare sotto gli atri delle nostre case. Questa maniera di fare la guerra, di uccidere e fare prigionieri i contadini, di saccheggiare i loro averi e di bruciare le case, veniva insegnata a noi dai mercenari stranieri che avevano sempre vissuto nei campi. Quante volte non abbiamo visto da queste feroci soldatesche, pagate a prezzo d'oro da Cane, i contadini padovani trascinati a schiere con le mani legate dietro la schiena! Questi prigionieri venivano custoditi in Vicenza ed erano crudelmente trattati perché si riscattassero; ne con maggiore umanità erano trattati i contadini vicentini dai mercenari di Padova ». 

Infieriva la guerra e con essa l'epidemia portava la desolazione nei campi e nelle due città quando, nel 1314, Nicola ed Obizzo della nobile e ricca famiglia dei da Carrara, per impadronirsi del governo della città, sollevarono a ribellione il popolo padovano, trucidarono due ricchi cittadini, Pietro d'Alticlinio e Ronco Agolanti, coi loro amici e familiari e ne saccheggiarono le case;  avrebbero ucciso anche lo storico Albertino Mussato se questi non fosse  fuggito in tempo a Vicodarzere. Fu da questa sedizione che ebbe inizio la fortuna dei da Carrara. 

Quattro mesi dopo, il 1° settembre del 1314, i Padovani, guidati dal loro podestà Ponzino Ponzoni e fiancheggiati da una grossa banda di mercenari agli ordini di Vanni Scornazzano, assalirono Vicenza e si impadronirono del sobborgo di San Pietro; ma, mentre erano intenti a saccheggiare le case e ad oltraggiare le donne, ecco piombare addosso a loro con un manipolo di un centinaio d'uomini, Congrande, accorso sollecitamente da Verona dove gli era giunta la notizia del colpo di mano. Colti di sorpresa e dal panico e datisi a fuga precipitosa, i Padovani furono inseguiti fino alle porte della loro città lasciando nelle mani dello Scaligero ben settecento soldati e una trentina di cavalieri tra cui Vanni Scornazzano, Giacomo e Marsilio da Carrara, e lo storico Albertino Mussato. 

Dopo questa disfatta, sebbene dall'una parte e dall'altra si facessero grandi preparativi e i Padovani chiamassero in aiuto Treviso, Bologna e Ferrara, e Cangrande chiedesse rinforzi ai Bonaccolsi di Mantova e al duca di Carinzia, non si venne subito alle armi, anzi furono iniziate trattative di pace per mezzo di Giacomo da Carrara, il quale, durante la sua prigionia aveva contratta amicizia con Cangrande, della cui opera voleva giovarsi per acquistare la signoria di Padova. 
La pace venne segnata il 20 ottobre del 1314, ma durò due anni e mezzo soltanto. Il 21 maggio del 1317 una schiera di Padovani avversi alla famiglia da Carrara, rinforzata da esuli di Vicenza, Verona e Mantova, tentò di impadronirsi di Vicenza. Assaliti vigorosamente da Cangrande, parte vennero uccisi o fatti prigionieri, parte si salvarono con la fuga. 

Rotta così la pace, furono riaperte le ostilità e lo Scaligero, sceso in campo, si rese padrone, nell'estate dello stesso anno, dei castèlli di Monselice, Montagnana e di Este. Il territorio di Padova fu per tutto l'inverno e la primavera seguente percorso e danneggiato dalle soldatesche di Cangrande e furono tali e tanti i danni subiti che i Padovani, stanchi, decisero di affidare il governo della loro città a chi, essendo amico dello Scaligero, poteva metter fine alla guerra e così, il 23 luglio del 1318, elessero loro signore Giacomo da Carrara. 

Mentre Cangrande estendeva la sua potenza nel Veneto, altri signori, piccoli e grandi, della Lombardia e del Piemonte usavano le armi per accrescere o affermare il proprio dominio. Libere città, insidiate da ambizioni dei vicini, rinunziavano alla propria libertà e affidavano il governo e la difesa a qualcuno capaci di difenderli. 
Cremona, ad esempio, assalita nel 1315 dalle milizie dello Scaligero e di Passerino Bonaccolsi, proclamava suo signore il marchese Giacomo Cavalcabò, che l'anno dopo doveva cedere la signoria a Giberto da Correggio. Nel Piemonte Teodoro di Monferrato occupava nel 1316 Casale, e Amedeo V di Savoia e Filippo d'Acaia acquistavano Ivrea, poi alleatisi con Manfredo di Saluzzo, cercavano di scalzare l'Angioino dai suoi domini piemontesi. Nella Lombardia primeggiava MATTEO VISCONTI, il quale per l'età, per l'abilità politica, per l'estensione dei suoi domini e per il valore dei suoi figli, era guardato e considerato come il capo dei Ghibellini d'Italia. Nel 1312 la morte lo aveva liberato di Guido della Torre, il suo maggiore nemico; Piacenza aveva eletto signore il figlio Galeazzo, che aveva fatto arrestare il temuto Alberto Scotto; Giberto da Correggio e Filippone Langosco, che erano accorsi ad assalire Piacenza, erano stati sbaragliati e quest'ultimo era caduto prigioniero; Tortona era stata occupata dalle armi viscontee, capitanate dal valorosissimo Marco, figlio di Matteo; le soldatesche di Ugo del Balzo e del delfino del Viennese, vicari angioini, erano state sconfitte; nell'ottobre del 1315 Pavia, invano difesa da Ricciardino Langosco, figlio di Filippone, che in una sanguinosa battaglia vi perdette la vita, era stata presa e saccheggiata da Stefano Visconti, terzogenito di Matteo, e poco dopo Alessandria, disdetta la signoria angioina, vi aveva sostituita la viscontea, accogliendo fra le sue mura Marco come vicario del padre. 

Per merito dei Visconti e di Cangrande trionfava in tutta l'Italia settentrionale il partito ghibellino, che, dopo la morte di Enrico VII, pareva destinato a soccombere. Causa di questo trionfo, oltre il valore di questi principi ghibellini, furono l' inettitudine di Roberto d'Angiò, l'assenza del Pontefice dalla penisola e la lunga vacanza della sede pontificia dopo la morte di Clemente V. 
Se fosse stato dotato di maggior senno politico e dell' indole guerriera dell'avo, Roberto avrebbe potuto rialzare le sorti del Guelfismo e rendersi padrone di gran parte d'Italia. Suo interesse era, dopo la morte a Buonconvento dell'imperatore, di sostenere con tutte le sue forze i Guelfi del centro e del nord della penisola; invece egli prima fu ambiguo nelle trattative di pace con Pisa, provocando — come si è visto — la reazione di Uguccione, poi si lasciò distrarre dalla guerra contro Federico III, la quale nell'agosto del 1314 lo trasse in una fallimentare spedizione contro Trapani.

 In mezzo a questa incerta politica e a sbagliate o modeste e fiacche azioni guerresche dell'Angioino, nell'aprile del 1314 cessò di vivere Clemente V, il Papa che aveva resa affarista di Filippo il Bello la Chiesa, che aveva proclamato la soppressione dell'Ordine dei Templari e aveva fatto correre rischio al Papato di vedere restaurata in Italia la sovranità imperiale. 

« Clemente V — scrive il Sismondi — aveva accumulate grandi ricchezze vendendo i benefici ecclesiastici e con altri scandalosi affari venali che lo resero abominevole ai suoi contemporanei. Oltre il denaro che teneva nei forzieri, aveva arricchito tutti i suoi congiunti e i familiari; ma le sue generosità non gli avevano procurato l'affetto di nessuno: appena morto, tutti quelli che abitavano nel suo palazzo si scagliarono sui suoi tesori, come su una preda legittima; e fra tanti non vi fu un solo fedele servitore che si prendesse cura del cadavere del padrone; tanto che, essendo caduti alcuni ceri accesi intorno al feretro, vi appiccarono il fuoco, il quale, divampando nell'appartamento, fece accorrere finalmente i rapinatori, che lo spensero; ma ormai il palazzo e ogni stanza erano stati talmente svaligiati che non vi si trovò altro che un logoro mantello per ricoprire il corpo mezzo abbrustolito del più ricco Papa che avesse governata la Chiesa ».

 Appena morto Clemente, i cardinali, in numero di ventitré, si riunirono in Carpentras per procedere all'elezione del nuovo Pontefice. Sei erano i porporati italiani, ma tutti fermamente decisi a dare i loro voti soltanto a chi avesse dichiarato di ricondurre la Curia a Roma. Il loro atteggiamento provocò una sedizione popolare; furono incendiate le case dei cardinali e di molti cortigiani e mercanti italiani, furono minacciati di morte i prelati che non fossero disposti ad eleggere un Pontefice guascone. Il tumulto si fece in breve tempo così minaccioso che  sei porporati si videro costretti a fuggire. 
Allora il conclave si sciolse e la Santa Sede rimase vacante per oltre due anni. 

Maggiori difficoltà ci furono, quello stesso anno, in Germania per dare un successore ad Enrico VII. Ne nacque uno scisma che provocò una lunga guerra civile. In due campi si divisero gli elettori tedeschi: gli uni, capitanati dall'arcivescovo di Colonia e dal conte palatino Rodolfo, elessero il 19 ottobre del 1314 a Sachsenhausen il duca FEDERICO D'AUSTRIA; gli altri, non potendo per la sua età innalzare al trono Giovanni di Boemia, figlio di Enrico VII, elessero il giorno dopo a Francoforte LUDOVICO IL BAVARO. 
Il 25 novembre entrambi ricevettero la corona, il primo a Bonn, il secondo ad Aqui sgrana. 

La vacanza della Santa Sede fu — come abbiamo detto — una delle cause dell'abbassamento del Guelfismo nell' Italia superiore. Preoccupato del pericolo che correva la fazione di cui era capo, Roberto d'Angiò spese tutta la sua influenza per far salire sul trono pontificio una sua creatura. E vi riuscì, il 7 agosto del 1316, i cardinali riuniti a Lione, dopo quaranta giorni di conclave, diedero i loro voti a Giacomo d' Euse nativo di Cahors, vescovo di Porto, il quale prese il nome di GIOVANNI XXII. 
 Il nuovo Pontefice si recò immediatamente ad Avignone mettemdo le sue stanze nel palazzo vescovile. Quale indirizzo egli intendesse dare alla politica papale in poco tempo lo rese noto: rialzare la sorte della Santa Sede, il cui prestigio dal suo predecessore era stato portato tanta in basso; riaffermare l'egemonia della Chiesa sul potere dei principi temporali e risollevare in Italia la fortuna del Guelfismo. Pertanto cominciò con il non riconoscere come  imperatore né Federico d'Austria né Ludovico il Bavaro, dichiarò vacante l'impero e considerò decaduti dai loro diritti, fin dalla morte di Enrico VII, tutti coloro che il defunto monarca aveva nominati suoi vicari, confermando nel titolo di vicaria imperiale Roberto d'Angiò. 

«Lo stesso Dio — diceva il Pontefice in una sua bolla — diede i diritti della potestà terrena e celeste al Papa e durante l' interregno tutti i diritti dell' imperatore sono devoluti alla Chiesa: e colui che, senza l'autorizzazione della Santa Sede continua ad esercitare l'ufficio ricevuto dall'imperatore, si fa empiamente reo offendendo la stessa divina Maestà ».

 CANGRANDE DELLA SCALA, che aveva riconosciuto per imperatore Federico d'Austria e da lui aveva accettato il titolo di vicario in Verona e Vicenza, non si curò delle mi-nacce papali e non rinunciò al suo titolo; MATTEO VISCONTI, invece, non volendo inimicarsi con la Chiesa, depose il titolo che Enrico VII gli aveva conferito, ma nello stesso tempo si fece proclamare dal popolo signore di Milano e continuò ad esercitare la sua autorità sulle terre soggette. 

Il contegno di Cangrande e di Matteo Visconti mostrava chiaramente come i Ghibellini d'Italia fossero fermamente decisi a mantenere le posizioni conquistate, e rappresentava uno scacco non lieve per la politica papale. Uno scacco maggiore questa la ricevette, nel medesimo anno 1317, a Ferrara, dove il popolo il 4 agosto, levatesi in armi, scacciò i Guaschi che il Pontefice e l'Angioino nel 1308 vi avevano mandato a governare, e richiamò, proclamandoli signori, i figli di FRANCESCO d' ESTE, Azzo e Bertoldo, e i nipoti Einaldo, Niccolo ed Obizzo, i quali entrarono nelle file del partito ghibellino. 
Un conforto all'amarezza prodottagli da questi scacchi lo ebbe Giovanni XXII dagli avvenimenti di Genova. Questa città era da alcuni anni dilaniata dalle discordie di quattro potenti famiglie, quelle ghibelline degli SPINOLA e dei DORIA e quelle guelfe dei GRIMALDI e dei FIESCHI. 
Sotto Enrico VII ed Uguccione della Faggiuola, le prime due avevano avuto il sopravvento sulle altre, che erano state cacciate; ma, sebbene appartenenti ad una medesima fazione, gelose l'una dell'altra, erano nel febbraio del 1314 venute alle armi e i Doria, richiamati i Guelfi, avevano costretto gli Spinola ad abbandonare la città. 

Fino al 1317 Doria, Fieschi e Grimaldi avevano insieme governata Genova, poi i primi, riconciliatisi con gli Spinola, usciti volontariamente dalla città, avevano chiamati a raccolta tutti i Ghibellini della Liguria, si erano impadroniti di Savona e di Albenga ed avevano chiamato in loro soccorso i Visconti e gli Scaligeri per togliere la città ai Guelfi. 

Genova caduta in potere dei Fieschi e dei Grimaldi costituiva per il Pontefice l'unico conforto agli insuccessi della sua politica. Ma fu conforto di breve durata: Marco Visconti, che allora si trovava in Alessandria, ricevuti ordini dal padre, marciava nel marzo del 1318 alla testa di un forte esercito contro Genova, occupava le valli del Bisagno e della Polcevera ed occupava i sobborghi di San Giovanni e di Sant'Agnese, mentre i fuorusciti con alcune navi allestite a Savona si presentavano davanti al porto e riuscivano ad impadronirsi della torre del Faro. 
Attaccati da forze sopraffacenti, i Fieschi ed i Grimaldi chiesero aiuto a Roberta d'Angiò e questi, per scongiurare la caduta di Genova che, in mano ai Ghibellini, avrebbe chiuse le comunicazioni tra il reame di Napoli e le città angioine del Piemonte, fu sollecito a correre in loro aiuto. Allestita una flotta di venticinque galee, Roberto, accompagnato dalla moglie e da due dei suoi fratelli, partì da Napoli il 10 luglio e sbarcò a Genova il 21 di agosto portandosi dietro anche mille e duecento cavalli. 
Disse di esser venuto a difendere la libertà dei Genovesi e questi, chieste le dimissioni di Carlo Fieschi e Gaspare Grimaldi dalla carica di capitani, diedero per dieci anni al Pontefice e all'Angioino la signoria della città e nelle mani del re giurarono obbedienza. 

L'arrivo di Roberto non è che fece rallentare le operazioni di assedio; anzi i Ghibellini raddoppiarono i loro sforzi e riuscirono ad impadronirsi della chiesa di Sant'Agnese che per mezzo di un ponte comunicava con le mura. 
A Genova erano rivolti gli sguardi di tutta l'Italia, come se lì dovessero decidersi le sorti delle fazioni guelfa e ghibellina e da ogni parte della penisola vi accorrevano milizie e capitani per offendere o difendere. Truppe mandarono al Visconti i Pisani e Federico di Sicilia; fanti e cavalli vi condussero il marchese di Monferrato e Castruccio Castracani; soldatesche in soccorso di Roberto le mandarono Bologna, Firenze e i Guelfi di Romagna. Ma di tante truppe, che intorno e dentro Genova si erano raccolte, solo la fanteria poteva venire impiegata per assalire o difendere le mura; i cavalli, che in quel tempo formavano il nerbo degli eserciti e la vera forza delle battaglie, data la regione montuosa del territorio cittadino, rimanevano inoperosi. Non potendosi perciò procedere ad una giornata campale e resistendo strenuamente i difensori, l'assedio continuò infruttuoso. 
Cercò Marco Visconti di porre fine alla guerra con un gesto che è  prova della sua anima cavalleresca. Infatti inviò la proposta a Roberto d'Angiò di una sfida a duello, ponendo come condizione che il vincitore sarebbe rimasto signore di Genova, ma l'imbelle Angioino si guardò bene di accettare la sfida. 

Durante l'assedio, Matteo Visconti per tenere raccolte le forze ghibelline convocò a Soncino sull'Oglio, i capi dei ghibellinismo italiano, i quali si strinsero in una  lega e, dietro proposta di Uguccione della Faggiuola, nominarono loro capo Cangrande della Scala (dicembre del 1318). Mentre questi si sforzava di impadronirsi di Padova e Treviso, validamente soccorse dal conte di Gorizia, Marco Visconti invano si affaticava sotto le mura di Genova e chi sa quanto tempo sarebbe durato l'assedio se a Roberto d'Angiò non fosse riuscito, il 5 febbraio del 1319, di sbarcare a Sestri Ponente un corpo di ottocento cavalli e quindicimila fanti. 
Minacciato alle spalle, il Visconti, dopo dieci mesi d'assedio, tolse il campo e con tutte le sue truppe si ritirò indisturbato. La partenza degli assedianti fu a Genova seguita da manifestazioni di gioia ma anche da atti deplorevoli di vandalismo. I palazzi appartenenti alle famiglie ghibelline furono saccheggiati e incendiati dalla plebaglia e la medesima sorte subirono le magnifiche ville che sorgevano nelle valli del Bisagno e della Polcevera. Dopo queste distruzioni, i cittadini con il e con il clero portarono in processione le reliquie di S. Giovanni Battista e furono rese grazie a Dio nelle chiese.
Dopo la liberazione della città, l'Angioino si trattenne a Genova per poco tempo. Lasciato in città un suo vicario, se ne partì il 29 di aprile, diretto in Provenza. Allontanatisi il re di Napoli, i Visconti ritornarono contro Genova. Le ostilità furono riprese nel maggio di quell'anno da alcune galee savonesi che, entrate nel porto di Genova, vi seminarono il panico; l'esercito di Marco Visconti giunse sotto le mura il 27 luglio e tornò ad impadronirsi dei sobborghi; alcuni giorni dopo Corrado Doria con ventotto galee bloccava la città dalla parte del mare. E così ricominciò l'assedio che doveva durare quattro anni e, senza portare a risultati decisivi, e tante perdite doveva costare all'una ed all'altra parte. 


DALLA DISCESA IN ITALIA DI FILIPPO DI VALOIS 
E BEETRAND DU POYET
 ALLA MORTE DI MATTEO VISCONTI


Recandosi ad Avignone, Roberto d'Angiò non aveva che uno scopo: quello di prendere accordi con il Pontefice per celebrare il trionfo sui Ghibellini d'Italia. Nelle conferenze seguite tra Giovanni XXII e l'Angioino si deliberò di spedire in Lombardia un esercito francese sotto il comando di Filippo di Valois, figlio di quel Carlo che Bonifacio VIII aveva mandato in Sicilia contro Federico e a Firenze contro i Bianchi, e di chiamare a raccolta tutti i Guelfi della Toscana e della Romagna.
 Per mostrare che la guerra veniva intrapresa sotto gli auspici papali e per incuter timore nei nemici e ispirare coraggio ed entusiasmo negli amici, venne inviato in Italia, come legato pontificio, il cardinal BERTRAND DU POYET, il quale, giunto ad Asti, si diede a predicar la crociata contro i Ghibellini e a raccoglier milizie. Poi il 3 settembre del 1320 scomunicava MATTEO VISCONTI — già una prima volta scomunicato dal Papa il 27 giugno — intimandogli di presentarsi entro due mesi alla corte pontificia; di rinunciare al governo di Milano; di richiamare gli esuli e di sottomettersi a re Roberto.

 Matteo Visconti non si spaventò agli anatemi né fu atterrito quando seppe che Filippo di Valois aveva valicate le Alpi. Questi era sceso in Italia con uno splendido seguito di sette conti, centoventi cavalieri banderali e seicento uomini d'arme. Ad Asti lo aspettavano mille e cinquecento cavalieri; altri mille mandati da Bologna e da Firenze gli venivano incontro, e intanto il padre e i re di Francia e di Napoli si preparavano a inviargli altre milizie. 
Filippo di Valois, invece di aspettare le truppe che dovevano giungere, alla testa di quelle che aveva pronte si spinse imprudentemente nel paese nemico ed andò a porre il suo campo a Mortara; ma qui si trovò quasi completamente circondato dall'esercito di Marco e Galeazzo Visconti superiore di numero. Mancando di vettovaglie, minacciato da ogni parte da forze soverchianti, Filippo entrò in trattative con il nemico e ottenne di potersene ritornare in Francia, lasciando alla mercé dei Visconti il suo esercito, e poterono facilmente sconfiggere in buona parte anche le altre milizie che gli erano state inviate; facendo così peggiorare la situazione dei Guelfi dell' Italia superiore, i quali nel 1321 perdettero Vercelli e nel gennaio dell'anno seguente anche Cremona. 

Partito il conte di Valois, le scampate milizie guelfe furono messe sotto il comando di Raimondo da Cardona, gentiluomo aragonese che si era distinto nell'assedio di Genova. Ma non con queste sole armi dei Guelfi d'Italia che si poteva abbattere la potenza viscontea così fortemente spalleggiata dagli altri Ghibellini. Il Pontefice che se ne accorse cercò un alleato in Germania e lo trovò nella persona di Federico d' Austria, uno dei due competitori, il quale, avendo dato in sposa al suo primogenito una sorella di Roberto d'Angiò, ovviamente simpatizzava per la fazione guelfa. 
Nel 1322 Federico mandò in Italia un piccolo esercito capitanato dal fratello Enrico, il quale l' 11 aprile entrò a Brescia e qui vide ingrossare le sue truppe dai fuoriusciti delle vicine città, dai Torriani e da circa duemila avventurieri. 

Enrico d'Austria costituiva un serio pericolo per i Visconti, stretti com'erano tra lui e le milizie di Raimondo da Cardona e Bertrand du Poyet; ma l'accorto Matteo Visconti seppe allontanarlo. Federico d'Austria, persuaso dal signore di Milano che aiutando i Guelfi andava contro i propri interessi, ordinò al fratello di ritirarsi e questi adducendo come pretesto il rifiuto del vicario angioino di Brescia di dargli il governo della città, il 18 maggio se ne partì e, passando da Verona, ricevette festose accoglienze da Cangrande. 

L'allontanarsi di Enrico rappresentava un altro e non lieve successo dei Visconti, dovuto specialmente a Matteo. "Matteo -osserva giustamente il Sismondi chiamato il grande, aggettivo di cui il secolo XIV fu largo a molti, può considerarsi come il modello più perfetto dei signori italiani. Prode, sebbene non in massimo grado, buon capitano, pur non superando in virtù guerresche i suoi contemporanei, egli si innalzò nondimeno più che ogni altro principe del suo tempo per mezzo dell'abilità politica;  una profonda conoscenza del cuore umano e degli interessi e delle passioni di tutti coloro che voleva volgere ai suoi intenti; per mezzo della franchezza d'animo fra le agitazioni; della prontezza nel decidere e della perseveranza nell'eseguire; dell'abilità nel fingere e, talvolta, nell'ingannare; di quella dote infine, che possedeva in sommo grado, di saper cioè piegare chi era di indole indeciso e chi aveva lo spirito irrequieto". 

MATTEO VISCONTI giunto quasi ai vertici all'inizio del secolo, si era lasciato imprudentemente dominare dall'orgoglio e, fidandosi troppo della sua potenza, aveva insospettiti i principi vicini e irritati i suoi sudditi; per cui la sua caduta nel 1302 era stata la giusta pena dei suoi errori; ma l'esilio e i nove anni di avvilimento avevano educato in lui tutte le qualità di un capo di parte e gli avevano insegnato l'arte della moderazione. Ripreso il governo dopo la discesa di Enrico VII, lo mantenne per undici anni, senza che le irrequiete popolazioni a lui soggette dessero segno di malcontento, pur essendo state tratte a rovinosa guerra, e senza che gli si ribellasse una sola delle città conquistate, senza che le scomuniche della Chiesa, da cui era stato frequentemente percosso, turbassero la coscienza di un solo dei suoi sostenitori, senza infine che fallisse lo scopo di una sola delle sue negoziazioni. 
Matteo Visconti non era un uomo virtuoso, ma la sua fama, di cui era molto geloso, non era macchiata da alcun delitto, da nessuna perfidia: non era sensibile né generoso, ma non lo si poteva nemmeno accusare di crudeltà. I suoi quattro figli, ottimi fra i capitani del loro tempo, erano parti di lui; gli ubbidivano come la mano al pensiero; e soltanto la sua morte fece conoscere quanto fossero intolleranti e indomabili coloro ch'egli aveva saputo piegare all'obbedienza. 

Ma questo successo doveva esser l'ultimo dell'attività politica del Visconti. Egli era carico di anni e non aveva più la forza prodigiosa che gli aveva fatto sfidare e vincere le gravi difficoltà della sua esistenza. Con gli anni erano sorti gli scrupoli e l'anima sua si era riempita di oscuri timori. Tre volte era stato scomunicato ed ora che la sua vita volgeva alla fine, egli pensava alle pene dell'altro mondo, aveva paura di presentarsi al Supremo Tribunale con l'anatema che gli pesava sul capo e cercava di rassicurare la sua coscienza con pratiche devote e di ottenere l'assoluzione. 
Deciso infine di rientrare nel grembo della Chiesa, Matteo scelse dodici ambasciatori tra i Milanesi più ben visti dalla Curia avignonese, e li mandò al cardinale Bertrand du Poyet per chiedere la pace. Il legato pontificio, cui forse era noto lo stato d'animo del Visconti, rispose che avrebbe assolto Matteo dalla scomunica se questi avesse rinunciato alla signoria e avesse richiamato a Milano tutti gli esuli, restituendo a loro tutti i beni confiscati. 
Accettare queste condizioni significava dare lo stato in mano ai Guelfi e distruggere la potenza viscontea, e Matteo avrebbe, senza dubbio, per tranquillizzare la sua coscienza, accettati i patti se dalla vicina Piacenza non fosse venuto Galeazze a salvare gli interessi della famiglia. 
Messo  nelle mani del figlio il governo, Matteo ad altro non pensò che alla salvezza dell'anima e fu visto dalla mattina alla sera inginocchiato davanti gli altari delle chiese, intento a recitare il credo. Verso la fine del giugno del 1322, essendosi recato a visitare la chiesa di Monza alla quale aveva restituiti i tesori da tempo impegnati, si ammalò e il 27 di quel mese cessò di vivere a Crescenzago. 


GALEAZZO VISCONTI E LA GUERRA 
CON BERTRAND DU POYET


Alla morte di Matteo successe il figlio Galeazzo Visconti, che assunse il titolo di capitan generale. La sua posizione parve rinforzata da una vittoria riportata il 6 luglio al ponte di Bassignana dal fratello Marco sopra le milizie di Raimondo da Cardona, e invece vicino c'era il crollo. 
Un nobile piacentino, VERGUZIO LANDI, cui Galeazzo aveva sedotta la moglie Bianchina, per vendicare l'ingiuria patita si era rivolto al legato pontificio e, ricevuti quattrocento cavalli, entrò il 9 ottobre in Piacenza e, sollevatela a ribellione ai Visconti, se ne impadronì in nome del Pontefice. Intanto a Milano sotto la calma apparente covava la ribellione fomentata dagli ambasciatori inviati da Matteo al cardinale du Poyet, da tutti coloro fra i nobili che erano insofferenti della signoria viscontea e da Lodrisio Visconti, congiunto di Galeazzo, ambizioso di potere. 

La ribellione scoppiò l' 8 novembre del 1322 al grido di: Pace! Pace! Viva la Chiesa! La cavalleria mercenaria tedesca, alla quale da alcuni mesi non era stato pagato il soldo, si unì ai sediziosi e Galeazzo, dopo di avere invano tentato di domare i ribelli con le poche truppe rimastegli fedeli, abbandonò Milano e riparò a Lodi. Riacquistata la libertà, la città però non si diede al Pontefice e si mantenne fedele al partito ghibellino. LODRISIO VISCONTI, che dal rivolgimento sperava di venire in possesso della signoria, ottenne soltanto di far parte del nuovo governo che fu costituito con un Consiglio di nobili e di capi mercenari. Insoddisfatto e pentito, Lodrisio, cominciò a corrompere con il denaro i mercenari tedeschi, inoltre ebbe un incontro segreto con Galeazzo, il quale a Lodi, radunava milizie per tentare la riscossa: il 12 dicembre Lodrisio gli aprì una porta della città.
Galeazzo penetrò in Milano con un forte gruppo di cavalleria, si fece acclamare signore e capitan generale e cacciò via i capi della ribellione, i quali cercarono asilo presso il legato pontificio. 

Aveva questi posto la sua sede in Piacenza di cui aveva fatto il centro del Guelfismo dell'Italia superiore e la base delle operazioni contro i Visconti, raccogliendo sotto le sue bandiere fuorusciti, mercenari tedeschi e truppe delle città guelfe. Da Piacenza il cardinale du Poyet mandò contro Milano un esercito poderoso che gli storici fanno ascendere ad ottomila cavalli e trentamila fanti. L'avanguardia era formata dai fuorusciti milanesi capitanati da Francesco da Garbagnate e Simone de' Crivelli. Al passaggio dell'Adda, presso Trezzo, si scontrò con le milizie dei Visconti comandate da Marco e fu fatta a pezzi: i due capi trovarono la morte sul campo (16 febbraio 1323).
Sopraggiungeva intanto il grosso dell'esercito guelfo, di gran lunga più numeroso del ghibellino, e Marco Visconti fu costretto a ripiegare su Milano. 

Non meno disastrose volgevano altrove le sorti delle armi ghibelline: il 26 aprile dell'anno precedente Federico di Montefeltro, capo dei Ghibellini di Romagna, era stato trucidato col figlio; Urbino, Osimo ed Assisi erano cadute in mano dei Guelfi e Recanati incendiata; il 17 febbraio del 1323 i Genovesi, con una improvvisa sortita, avevano inflitto agli assedianti una sanguinosa sconfitta ricacciandoli dai sobborghi. Nelle difficili condizioni in cui si trovavano, i Visconti non videro altra via di salvezza che nell'aiuto dell'imperatore ed a lui sirivolsero. 

Trionfava in Germania LUDOVICO il BAVARO, il quale presso Muhldorf, il 28 settembre del 1322, aveva sconfitto in una battaglia campale il suo rivale, facendo prigionieri Federico ed Enrico d'Austria. A Ludovico chiese soccorso Galeazzo e quegli, nell'aprile del 1323, spedì in Italia tre ambasciatori, i quali, presentatisi in Piacenza a Bertrand du Poyet, gli intimarono a nome del sovrano di non molestare i Visconti e lo stato milanese che dipendevano dall' impero. Il legato pontificio, sdegnato, rimproverò aspramente gli ambasciatori, dicendo loro che la Chiesa non doveva essere turbata nei suoi diritti e non dovevano esser difesi gli eretici Visconti. 

I tre ambasciatori, che avevano condotto con sé dalla Germania quattrocento cavalli, entrarono in Milano; poco dopo Cangrande, i Bonaccolsi di Mantova e gli Estensi mandarono in soccorso di Galeazzo cinquecento cavalieri, ed altrettanti mercenari tedeschi che erano al soldo di Bertrand, abbandonarono il legato pontificio e passarono dalla parte dei Visconti. I rinforzi ricevuti dal nemico, le diserzioni avvenute nel campo guelfo e le numerose vittime che in esso mietevano le epidemie consigliarono Raimondo di Cardona di levare l'assedio.  Questo fu tolto verso la fine del luglio e l'esercito, che aveva messo a mal partito la signoria dei Visconti, assottigliato e sfiduciato si ritirò a Monza. 

La notizia degli aiuti forniti da Ludovico il Bavaro ai Visconti provocò -come era naturale-  l'ira di Giovanni XXII, il quale affermando che solo la S. Sede era amministratrice dell'impero durante l'interregno e che nessuno poteva usare il titolo ed esercitare l'ufficio di imperatore senza l'approvazione papale, l' 8 ottobre del 1323 pubblicò una sentenza: sotto la minaccia della scomunica, ordinava a Ludovico di deporre entro tre mesi il titolo e l'ufficio e di non riprenderli se prima l'elezione non veniva confermata dalla Sede Apostolica e di annullare tutte le deliberazioni prese come imperatore, inoltre proibiva a tutti gli ecclesiastici, sotto pena di sospensione, e ai laici sotto pena di scomunica e di interdetto, di aiutare il Bavaro o di ubbidirgli in qualità di Re dei Romani. 

Ma non era con le armi spirituali che poteva essere risolta la guerra tra Guelfi e Ghibellini nell'Italia superiore ne con le vane minacce lanciate a Ludovico il Bavaro; la parola era alle armi e la sorte di queste ora favoriva i Visconti. Difatti essi si accinsero a riconquistare le terre perdute e cominciarono con l'assediare Monza da dove però dovettero ritirarsi per un'alta mortalità di un'epidemia scoppiata tra le truppe. Non per questo però cessarono le ostilità, anzi furono continuate altrove e, ovunque, con la vittoria dei Visconti. 
Questi, difatti, riconquistarono Cassano e Trezzo, chiusero al nemico i passi dell'Adda e muovevano su Vaprio quando a difendere questa posizione comparve Raimondo da Cardona con un esercito di cui facevano parte Enrico di Fiandra e Simone della Torre. 

Una sanguinosissima battaglia si combattè verso la fine di febbraio del 1324 e la vittoria arrise a Marco Visconti che comandava l'esercito milanese. Il condottiero delle truppe nemiche, Raimondo da Cardona, fu fatto prigioniero, Simone della Torre rimase ucciso, a stento si salvò con la fuga Enrico di Fiandra e un gran numero di soldati nel tentativo di salvarsi fuggendo perirono nelle acque dell'Adda. 
Dopo questa strepitosa vittoria, Galeazzo tornò ad assediare Monza, ma non gli riuscì di espugnarla. Stanco di lottare, Galeazzo, nella speranza che la sconfitta di Vaprio avesse abbassato l'orgoglio e scemata l'ostinazione del cardinale du Poyet, cercò di entrare con lui in trattative. Si offerse di condurle Raimondo di Cardona, il quale, dopo aver giurato che non avrebbe più ripreso le armi contro i Ghibellini, fu lasciato libero. Ma la sua missione presso il legato pontificio non ebbe alcun risultato;  il cardinale proponeva al Visconti di unirsi al Pontefice contro Ludovico il Bavaro. A questo punto le trattative furono rotte e Galeazzo Visconti riprendeva con maggior vigore l'assedio di Monza, che finalmente, il 10 dicembre del 1324, si arrendeva.


CASTRUCCIO CASTRACANI 
E LE SUE GUERRE CONTRO FIRENZE


Mentre nell' Italia superiore il Guelfismo, sostenuto dal Pontefice, cercava di abbattere la potenza dei Visconti e aiutato dal duca di Carinzia e da Ottone d'Austria salvava Padova dalla  minaccia di Cangrande (1324), il Guelfismo in Toscana sosteneva una irriducibile guerra contro un ambiziosissimo capitano che con non minor valore e fortuna seguiva le orme di Uguccione della Faggiuola. Era questi CASTRUCCIO CASTRACANI. 
Cacciato il Neri della Faggiuola da Lucca, era stato, per un anno, eletto capitano delle milizie, carica che poi gli era stata confermata per tre anni consecutivi; nel 1320, assicuratesi il favore popolare, aveva fatto esiliare le più ragguardevoli famiglie di parte guelfa ed aveva ottenuto la signoria della città.

 «La signoria di Lucca non era altro per Castruccio che un primo passo verso la grandezza cui aspirava. La sua alleanza coi Ghibellini di Lombardia e la grande amicizia che lo legava ai Visconti lo inducevano, a partecipare alla guerra che affliggeva l'Italia settentrionale; ed egli vedeva bene che soltanto per mezzo della guerra poteva salire a quell'alto grado di potenza per cui si sentiva nato.
 Lucca era città ricca e di molto traffico, sebbene minore di Firenze. Le gabelle delle porte procuravano considerevoli entrate alla città, e Castruccio le accrebbe gestendo bene l'economia. I cittadini, imbaldanziti per avere avuto parte alla vittoria di Montecatini, si erano affezionati alle armi e il Castracani nei tre anni che era stato capitano delle milizie aveva stabilito una buona disciplina e promosso gli addestramenti militari con premi ed onorificenze. Il contado era guidato da una robusta e coraggiosa razza di montanari, abile alle armi. I castelli degli Appennini, della Versilia e della Lunigiana appartenevano a gentiluomini che in gioventù si erano dedicati a ruberie per terra e per mare. Castruccio li chiamò a sé e radunò pure un gran numero di esuli e di avventurieri che andavano errando in cerca di battaglie e di diletti.
Il valore era per Castruccio la principale virtù ed egli la premiava con la gloria e con la licenza; ma nello stesso tempo aveva l'accortezza di educare alla disciplina coloro che scioglieva dalle leggi dell'onestà (Sismondi)».

 Al tempo della discesa in Italia di Filippo di Valois, il Castracani, considerando violazione della pace l' invio di aiuti al cardinale du Poyet da parte dei Guelfi toscani, invase il territorio fiorentino, s'impadronì di Cappiano, Montefalcone e Santa Maria a Monte e saccheggiò la Val d'Arno inferiore, poi, recandosi a sostenere i Ghibellini che assediavano Genova, si impadronì di parecchie terre della Garfagnana, della Lunigiana e della Riviera di Levante. 

Nel 1321 Castruccio, molestato dai Fiorentini che erano andati ad assediare un suo castello della Val di Nievole, rientrò in guerra contro Firenze, alleata del marchese Spinetta Malaspina, e riportò parecchi successi. L'anno dopo, fallito un tentativo di impadronirsi di Pisa, volse lo sguardo cupido verso Pistoia, governata dall'abate Ormanno dei Tedici e, aspettando l'occasione di farla sua, occupò tutto il territorio che si stende tra Pistoia, Lucca e Modena; nel 1323, alla testa di ottocento cavalli ed otto mila fanti, invase e devastò il territorio di Fucecchio, di Castelfranco, di Santa Croce, di S. Miniato, di Montopoli e parte della Val d' Elsa e si presentò minaccioso sotto le mura di Prato. 

A soccorrer la vicina città furono solleciti i Fiorentini. Raccolti mille e cinquecento cavalli e parecchie migliaia di fanti, essi marciarono al soccorso di Prato. Credendo l'esercito nemico più grosso di quello che in realtà era, i priori avevano fatto proclamare che sarebbe stata fatta grazia a tutti i fuorusciti che si fossero uniti alle milizie cittadine. Quattromila circa pertanto tra Ghibellini e Bianchi raggiunsero le truppe di Firenze.  Ma queste non poterono misurarsi con le milizie di Castruccio, il quale la notte avanti l'arrivo dei Fiorentini si era prudentemente ritirato a Serravalle.
Persuasi che il nemico fosse fuggito per paura, i Fiorentini volevano inseguirlo, invadere e saccheggiare il territorio lucchese, ma i nobili, che formavano la cavalleria, tentarono saggiamente di dissuaderli. Chieste istruzioni ai priori, questi si lasciarono sopraffare dalla volontà popolare e ordinarono a Guido Novello, che capitanava le milizie di condurle contro Lucca. L'esercito si mosse, ma non andò oltre Fucecchio per i dissensi tra popolani e nobili, ai quali si aggiunse il malcontento dei quattromila fuoriusciti, che staccatisi dal grosso, il 14 luglio si avviarono verso Firenze tentando di penetrarvi. Non vi riuscirono essendo state sollecitamente chiuse le porte; ma rimasero in armi nelle vicinanze sperando nell'aiuto dei nobili di dentro che erano favorevoli alla loro causa e reclamavano l'abolizione degli ordinamenti di giustizia. 

Molto critico era il momento che il comune democratico fiorentino attraversava: da un canto un nemico potente come Castruccio continuamente lo molestava, dall'altro i fuorusciti erano pronti a servirsi delle armi per rientrare in patria; infine i grandi si agitavano entro le stesse mura. In questo stato di cose c'era da temere che le elezioni, le quali venivano fatte ogni due mesi, dessero luogo a tumulti e sedizioni. Per evitarli si abolì il sistema, fino allora seguito, della libera elezione e fu adottato quello dell' imborsazione: si nominarono cioè in una sola volta tutti i priori che dovevano reggere la signoria per ventuno bimestri, chiudendone i nomi scritti in polizze in una borsa, dalla quale, ogni due mesi, si estraevano a sorte i magistrati del bimestre. 
Dopo questa riforma trascorse più d'un anno senza che Firenze ricevesse serie molestie da Castruccio. Questi, nel frattempo, teneva gli occhi addosso a Pisa e a Pistoia. La prima era allora in aspra guerra con Alfonso d'Aragona, il quale, accampando diritti sulla Sardegna per l'investitura che Bonifazio VIII aveva dato a Giacomo nel 1295, nella primavera del 1323, spalleggiato dal giudice d'Arborea, era sbarcato nell' isola, l'aveva conquistata in buona parte; aveva sconfitto il 25 febbraio del 1324 una flotta pisana; tre giorni dopo un esercito della repubblica tirrena; e da otto mesi teneva assediata Cagliari. 

Approfittando delle circostanze difficili  che Pisa si trovava per la guerra con l'Aragonese, tentò Castruccio d' impadronirsene col tradimento, ma non vi riuscì essendo stata in tempo scoperta una trama ordita da alcuni cittadini per consegnare la loro città al signore di Lucca. Gli riuscì invece d'impadronirsi di Pistola: tratto dalla sua Filippo de' Tedici, successo all'abate Ormanno, si fece da lui aprire le porte della città e il 13 maggio del 1325 vi penetrò con un forte nucleo di milizie.

 La caduta di Pistola non poteva lasciare insensibili i Fiorentini. Essi radunarono un forte esercito, che con gli aiuti mandati da Siena, Perugia, Bologna ed altre città guelfe, raggiunse la cifra di quattromila cavalli e circa ventimila pedoni, e diedero il comando di esso a Raimondo da Cardona, che il Pontefice aveva sciolto dal giuramento fatto ai Visconti di non combattere più contro i Ghibellini.
Raimondo, dopo avere invano provocato in battaglia Castruccio che si teneva chiuso a Pistola, si diede a distruggere al territorio: assalì Tizzana, si impadronì a viva forza dei castelli di Cappiano e di Montefalcone e il 3 agosto pose l'assedio al castello d'Altopascio. Castruccio non aveva forze sufficienti per contrastare il passo al nemico, sebbene aiuti gli avessero mandato il conte di Santa Fiora, Arezzo e i Ghibellini della Maremma e della Romagna e, uscito da Pistola, era andato ad accamparsi nella Val di Nievole, dove teneva d'occhio i Fiorentini ed aspettava che da S. Donnino, dietro compenso di diecimila fiorini, gli venisse in soccorso Azzo Visconti, figlio di Galeazze.

 Fu fortuna per Castruccio che Raimondo conducesse molto fiaccamente la guerra: il 29 agosto questi ebbe, per resa, il castello d'Altopascio, ma, invece di approfittare del successo e marciare contro il nemico, rimase ancora una settimana inoperoso sotto le mura del castello e quando, l'8 settembre, levò le tende, andò ad accamparsi presso la badia di Pozzevero. Il lungo soggiorno tra le paludi nel cuor dell'estate aveva causato molte vittime dentro l'esercito, l'inattività inoltre aveva stancato e fatto sì che non pochi cavalieri e mercanti avessero chiesto il congedo e l'avessero per mezzo di denari ottenuto. Quando Raimondo comprese che il temporeggiare era tutto a vantaggio del nemico, era troppo tardi. Tentò l' 11 di settembre di sloggiare il nemico da certe alture vicine, ma il tentativo  fallì procurandogli gravi perdite. Malgrado ciò egli si ostinò a rimanere nella Val di Nievole sperando di impadronirsi con segreti maneggi di alcuni castelli e invece diede tempo ad Azzo di giungere a Lucca il 22 settembre con un migliaio di cavalieri. 

Non avendo ora più il vantaggio del numero, sarebbe convenuto ai Fiorentini ritirarsi oltre la Gusciana. Il Cardona volle invece dar battaglia a Castruccio prima che da Lucca arrivasse il Visconti. Il combattimento ebbe inizio al mattino del 23 e si protrasse indeciso per alcune ore presso Altopascio, ma, sopraggiunto improvvisamente Azzo con i suoi cavalieri e sbarrato con abile mossa ai Fiorentini il ponte di Cappiano, l'esercito di Raimondo fu sanguinosamente sconfitto e lasciò nelle mani del vincitore un numero elevato di prigionieri, fra i quali lo stesso capitano.

 Dopo questa vittoria Castruccio passò all'offensiva: il 27 settembre assalì Carmignano, che si arrese subito; di là si trasferì a Signa, poi a Campi, Brezzi e Quarata e il 2 ottobre pose i suoi quartieri a Peretola, da dove mandava le sue schiere a saccheggiare la zona fin sotto le mura di Firenze, la quale, oltre il danno, si ebbe anche le beffe. Castruccio infatti giunse a tal grado di audacia da far correre il palio alle porte della città; e le corse, per iniziativa di Azzo Visconti, furono ripetute il 26 ottobre.

 Dopo aver saccheggiato tutto il territorio di Firenze, Castruccio lasciata a Signa una guarnigione, fece ritorno a Lucca tirandosi dietro moltissimi prigionieri e una ricchissima preda. Trionfale fu il suo ingresso in città: il carroccio fiorentino, catturato ad Altopascio, tratto da buoi adorni di ghirlande d'ulivo, attraversò le vie al suono della Martinella che pendeva dall'albero; dietro il carroccio sfilarono i prigionieri con alla testa Raimondo da Cardona e da ultimo vennero, galoppando, i cavalieri con le insegne, preceduti da Castruccio, cui le belle donne lucchesi offrirono copioso omaggio di acclamazioni. 

In quel tempo i Pisani stipularono un trattato di pace con gli Aragonesi nelle cui mani era caduta quasi tutta la Sardegna; ma ancora violentissima infuriava la guerra intorno a Bologna contro la quale i figli di Taddeo Popoli, morto in esilio, avevano chiamato Passerino Bonaccolsi, Cangrande della Scala, il marchese d' Este ed Azzo Visconti, reduce da Lucca. I bolognesi, forti di duemila e duecento cavalli e di circa trentamila pedoni, impazienti di vendicare la sconfitta guelfa di Altopascio, il 15 novembre diedero battaglia a Monteveglio ai Ghibellini, ma vennero sconfitti e perdettero cinquecento cavalieri e un numero triplo di fanti tra morti e prigionieri: fra questi ultimi fu Malatestino da Rimini, capitano e podestà di Bologna. Questa città, dopo la giornata di Monteveglio, venne cinta d'assedio, ma non disponendo di forze sufficienti per condurre a termine la difficile impresa, i Ghibellini poco tempo dopo si ritirarono. 

In questi ultimi anni di guerra tra Guelfi e Ghibellini dell' Italia centrale e settentrionale, solo Roberto d'Angiò siera tenuto in disparte. Egli era rimasto in Avignone fino alla primavera del 1324; nell'aprile dello stesso anno, era partito per Napoli con una flotta di quarantacinque galee; passando per Genova si era fatto confermare signore per altri sei anni; giunto nel suo regno, si era preparato a riprendere la guerra contro Federico III e nella primavera del 1325 aveva mandato contro la Sicilia suo figlio Carlo, duca di Calabria, con centotredici navi e un numero considerevole di truppe. 
Il duca, sbarcato presso Palermo, aveva cinto d'assedio la città e si era messo a devastare il territorio, poi, tolto il campo dalla capitale, aveva saccheggiato le coste dell' isola e infine fatto ritorno a Napoli.

 Era da poco tornato dalla infruttuosa spedizione siciliana; quando giunsero alla corte dell'Angioino ambasciatori fiorentini, i quali, prospettandogli i pericoli che correvano i Guelfi di Toscana, minacciati da Castruccio, gli ricordarono di essersi impegnato l'altra volta di soccorrere la lega guelfa. Roberto si scusò della suo non intervento col dire che la colpa non era sua, ma dei Fiorentini, i quali nel 1321 non gli avevano riconfermata la signoria, ed aggiunse che la sua condizione non gli permetteva di partecipare alla guerra se non come capo. 

Il comune fiorentino, in mezzo ai pericoli in cui si trovava, credette opportuno di piegarsi all'ambizione del monarca e accettò come signore il duca Carlo di Calabria. Secondo il trattato, che venne firmato il 13 gennaio del 1326, la signoria doveva avere la durata di dieci anni; la libertà della repubblica doveva rimanere intatta; il duca si impegnava di mantenere al suo soldo durante le operazioni di guerra mille mercenari e di lasciare nella città in tempo di pace un presidio di quattrocento uomini. A sua volta il comune era obbligato a corrispondergli in tempo di guerra come provvigione duecentomila fiorini, ma almeno centomila doveva versarle prima ancora che il suo esercito si muovesse.

Carlo di Calabria mandò subito in Toscana, come suo luogotenente, GUALTIERI di BRIENNE, duca di Atene che si recò in Firenze a prender possesso della signoria, seguito da quattrocento cavalieri francesi. Nel luglio di quello stesso anno Carlo si recò in Toscana; passando da Siena mise un po' di tregua alle rivalità delle due famiglie dei Tolomei e dei Salimbeni, poi il 30 di quel mese, fattosi nominare signore dai Senesi per cinque  anni, entrò in Firenze seguito da duecento cavalieri dello sperone d'oro e da mille cinquecento lance. 
Con tutte le forze di cui disponeva e con quelle che le città guelfe toscane gli avevano inviate Carlo di Calabria avrebbe potuto tentar qualche azione contro i Ghibellini; invece se ne stette inoperoso nei confronti del nemico e si rese odioso ai Fiorentini per i nuovi tributi di cui li gravò e per aver concentrato nelle sue mani il governo togliendolo ai priori. 

Anche Bologna, come Firenze, volle darsi un padrone e lo trovò nella persona del cardinale Bertrand du Poyet, che, oltre di Piacenza, si era insignorito di Parma, di Reggio e di Modena. 
Il legato pontificio nel febbraio del 1327 si trasferì a Bologna e l' 8 di quel mese ricevette la signoria della città e del territorio, riunendo in tal modo sotto la bandiera guelfa tutta l'Emilia. 


Queste erano le condizioni in cui si trovava l'Italia, quando
LUDOVICO il BAVARO, 
chiamato dai Ghibellini, scendeva in Italia per farsi incoronare imperatore.
Sono queste le vicende che nel prossimo capitolo seguiremo.
 
Dal 1327 fino al 1339 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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