ANNI 1327 - 1339

LUDOVICO IL BAVARO E GIOVANNI IN ITALIA
   LA FINE DELLA POTENZA DEGLI SCALIGERI 

GIOVANNI XXII E LUDOVICO IL BAVARO - LA DIETA DI TRENTO DEL 1327 - LUDOVICO IL BAVARO SCENDE IN ITALIA ED È INCORONATO A MILANO - ARRESTO DI GALEAZZE VISCONTI - LUDOVICO E CASTRUCCIO CASTRACANI - ASSEDIO E CAPITOLAZIONE DI PISA - II BAVARO A ROMA - SUA INCORONAZIONE IMPERIALE. - MORTE DI CASTRUCCIO E DI GALEAZZE VISCONTI. - SOGGIORNO ROMANO E POLITICA ANTIPAPALE DI LUDOVICO. - L'ANTIPAPA NICOLO V - II BAVARO LASCIA ROMA. - SUO RITORNO IN TOSCANA. - LA COMPAGNIA DEL CERUGLIO. - AZZE VISCONTI SIGNORE DI MILANO. --- LUDOVICO IL BAVARO RITOMA IN LOMBARDIA - MARCO VISCONTI SI INSIGNORISCE DI LUCCA. - VICENDE DELLA TOSCANA DOPO LA PARTENZA DI LUDOVICO - MORTE DI PASSERINO BONACCOLSI E INIZIO DELLA SIGNORIA DEI GONZAGA A MANTOVA - IL BAVARO CONTRO AZZO VISCONTI - TRAGICA FINE DI MARCO VISCONTI - PARTENZA DELL' IMPERATORE DALL' ITALIA - POTENZA E MORTE DI CANGRANDE DELLA SCALA - BRESCIA, ASSEDIATA DA MASTINO II, CHIEDE AIUTO AL RE GIOVANNI DI BOEMIA - DISCESA DI GIOVANNI IN ITALIA - LEGA ITALIANA CONTRO DI LUI - BERTRAND DU POYET PERDE BOLOGNA - MORTE DI GIOVANNI XXII ED ELEZIONE DI BENEDETTO XII - LEGA CONTRO GLI SCALIGERI - LODRISIO VISCONTI E LA COMPAGNIA DI SAN GIORGIO - BATTAGLIA DI PARABIAGO - MORTE DI AZZO VISCONTI
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DISCESA DI LUDOVICO IL BAVARO IN ITALIA 
  SUA INCORONAZIONE  
MORTE DI  C. CASTRACANI E DI G. VISCONTI


 
Da quando, nell'ottobre del 1323, Giovanni XXII aveva intimato a Ludovico il Bavaro di deporre il titolo e la funzione d'imperatore, erano stati rotti i rapporti tra il Pontefice e il monarca germanico. 

Alla presenza di testimoni e notai il Bavaro, a Norimberga, aveva confutato tutte le accuse contenute nella sentenza di Avignone, aveva rigirava sul Papa quella di eresia e si era appellato al giudizio di un concilio, chiedendone la convocazione. Non contento di tutto ciò, qualche tempo dopo, in un manifesto diffuso per tutta la Germania aveva dichiarato che, pur mantenendosi ligio alla Chiesa, egli non avrebbe mai tollerato che i diritti e l'onore dell' impero venissero menomati. 
Irritato, il Pontefice, nel marzo del 1324, aveva lanciato la scomunica su Ludovico, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà, e nel luglio, essendo scaduto il termine di tre mesi concessogli per presentare personalmente la discolpa, lo aveva dichiarato decaduto dal trono ed escluso per sempre dall'impero. 

Tornava a riaprirsi la contesa tra il Papato e l'Impero. Nella lotta che si iniziava il Bavaro aveva l'appoggio dei principi tedeschi, malcontenti dell'asservimento della Santa Sede alla Francia, e come alleato aveva l'ordine dei Minoriti, i quali sostenevano la dottrina dell'assoluta povertà di Cristo, gli stessi che il Papa li aveva dichiarati eretici. 
Naturalmente il campo dove la lotta doveva svolgersi era l'Italia, perché soltanto Roma poteva consacrarlo imperatore; tuttavia era  nella penisola che venivano a cozzare gli interessi del Papa e del sovrano, intorno ai quali si raggruppavano quelli dei Guelfi e dei Ghibellini. 

Pacificata la Germania, Ludovico il Bavaro rivolse lo sguardo all'Italia e poiché gli premeva di andare a Roma a cingere la corona e i Ghibellini lo sollecitavano a valicare le Alpi, nel febbraio del 1327 tenne una dieta a Trento, alla quale intervennero i capi del Ghibellinismo italiano. Vi si recarono personalmente Cangrando della Scala, Passerino Bonaccolsi, Obizzo d' Este e Guido Tarlati vescovo di Arezzo che era stato scomunicato dal Pontefice; vi mandarono rappresentanti Federico di Sicilia, i Pisani e Castauccio Castracani. Dei Visconti non intervenne Galeazzo, il quale si diceva che trattasse segretamente con la curia avignonese; vi andò invece il figlio Azzo, mandato dal padre quando seppe che vi andava il fratello Marco, amareggiato di non far parte nella signoria di Milano lui che con il suo valore l'aveva difesa e consolidata. 

Nella dieta di Trento il Bavaro rappacificò Cangrande e il duca di Carinzia, si dichiarò pronto a scendere in Italia per cingere a Roma la corona imperiale, ricevette promessa dai Ghibellini che per le spese della spedizione gli sarebbero state corrisposte centocinquantamila fiorini ed accennando al Pontefice, che egli per dispregio chiamava "quel prete Giovanni" lo tacciò di eretico e lo accusò di parecchie colpe fra cui quella di non amare la povertà di Cristo. 

Ludovico il Bavaro partì da Trento a 13 marzo conducendo soltanto seicento cavalieri e dando ordine che altre milizie lo raggiungessero in Italia. Passando per la Valtellina, si recò a Como e di là scese su Milano, dove entrò il 16 maggio. 
Il sovrano sospettava della fede di Galeazzo, di cui certo non gli aveva parlato bene Marco Visconti, ma, trovandosi senza truppe, finse di essergli grato delle accoglienze e lo nominò vicario imperiale. Sicuramente però sin da allora nell'animo del tedesco erano state prese le decisioni che di lì a pochi mesi doveva attuare. Il 31 di maggio, nella basilica di Sant'Ambrogio, dalle mani di tre vescovi scomunicati — Guido Tarlati di Arezzo, Federico dei Maggi di Brescia, e Arrigo di Trento — ricevette la corona ferrea. 

Ludovico  per parecchi mesi si trattenne a Milano, poi il 6 luglio, sotto il pretesto che non avevano ancora pagata la contribuzione per le spese della spedizione, fece arrestare Galeazzo Visconti, il figlio Azzo e i fratelli Luchino e Giovanni;  li fece chiudere nelle orribili prigioni di Monza che lo stesso Galeazzo aveva fatto costruire. 
Alla signoria viscontea il Bavaro sostituì un governo repubblicano con un consiglio di ventiquattro membri presieduto da un tedesco di sua fiducia, Guglielmo di Monforte. L'arresto di Galeazzo aveva prodotta una brutta impressione nei signori ghibellini: Ludovico volle cancellarla in una dieta convocata nel territorio bresciano, nella quale accusò Galeazzo di pratiche con la curia avignonese producendo documenti che provavano la colpevolezza del Visconti. 
Ottenuti subito dopo i sussidi di denaro e di armati, il sovrano si mosse verso l'Italia centrale, seguito da circa duemila cavalieri. 

Ammaestrato dall'esperienza di Enrico VII, non volle perdere il suo tempo e logorare le sue forze assediando delle città guelfe; il 23 agosto passò il Po e il 1° di settembre giunse a Pontremoli senza che Bertrand du Poyet, il quale nello stato di Parma disponeva di tremila cavalieri, gli contrastasse il passo degli Appennini. A Pontremoli il Bavaro ricevette ambasciatori di Castruccio Castracani con ricchi doni, poi mosse verso la Toscana consigliando, con il suo avvicinarsi, un esercito guelfo che si era già impadronito di Santa Maria a Monte e Artimino e di là minacciava i territori di Lucca e Pistola, a ritirarsi in Firenze. 
Durante la marcia gli venne incontro Castruccio che l'ospitò nel castello di Pietrasanta e di là lo accompagnò alla volta di Pisa. I Pisani non erano più i ferventi ghibellini di una volta. Spossati dalla guerra contro l'Aragonese, traditi e insidiati da Castruccio, grati al Pontefice che li aveva favoriti nelle trattative di pace con Alfonso, rappacificati con i Fiorentini, pur rimanendo fedeli al Ghibellinismo essi non desideravano correre avventure. 
Alla dieta di Trento avevano mandati ambasciatori, ma questi gli avevano offerto inutilmente sessantamila fiorini a condizione che nella sua spedizione non entrasse nella loro città. All'avvicinarsi di Ludovico, Pisa gli mandò a Riprafratta tre ambasciatori perché gli rinnovassero la preghiera e l'offerta; ma, su consiglio di Castruccio, i messi non vennero nemmeno ricevuti, anzi, mentre se ne tornavano, furono dal signore di Lucca fatti prigionieri. 

Indignato dal procedere di Castruccio, il vescovo aretino Guido Tarlati che aveva assicurato i Pisani che i loro ambasciatori sarebbero stati rispettati, dopo avere inutilmente chiesto al sovrano  la liberazione dei prigionieri, abbandonò il campo. 
Ludovico il Bavaro e Castruccio marciarono su Pisa ed avendo questa serrate le porte delle mura la strinsero d'assedio. Un mese rimase assediata la città ed forse avrebbe resistito a lungo se, nate delle discordie tra i cittadini, la signoria non fosse stato costretta a scendere a patti (10 ottobre). 
Ludovico entrò in Pisa e le impose una contribuzione di centocinquantamila fiorini, ma non diede la città a Castruccio come questi forse sperava; per ricompensarlo dei servigi ricevuti gli diede il titolo di duca di Lucca, Pistoia, Volterra e della Lunigiana. Verso la fine di dicembre il Bavaro, senza venir molestato dal duca di Calabria, lasciò Pisa e per la Maremma si diresse verso Roma, giungendo il 2 gennaio del 1328 a Viterbo, dove venne festosamente accolto da Silvestre de' Gatti. 

A Roma, dilaniata dalle fazioni che facevano capo ai SAVELLI, ghibellini, ai CORSINI, guelfi e alla famiglia COLONNA di cui Stefano seguiva la parte pontificia, mentre Sciarra quella imperiale. Per parecchi anni aveva avuto il sopravvento il partito di Roberto d'Angiò, che era stato creato senatore a vita della città. Nella primavera del 1327 però la fazione guelfa era stata sopraffatta, i partigiani dell'Angioino cacciati ed era stato istituito un governo democratico formato da un consiglio di cinquantadue popolani con alla testa Sciarra Colonna, il quale si oppose vivamente al tentativo degli Orsini e degli Angioini di rientrare in città. 
Saputo dell'arrivo di Ludovico il Bavaro a Viterbo, i Romani gli inviarono una deputazione e il sovrano, il 7 gennaio, entrò nella capitale dell'impero accolto dal popolo con manifestazioni di gioia. Il legato pontificio lanciò su Roma l'interdetto, ma questo non valse a impedire l'incoronazione imperiale che ebbe luogo il 17 gennaio. 
Un corteo imponente accompagnò da Santa Maria Maggiore alla basilica di San Pietro il sovrano attraverso vie addobbate con ricchissimi tappeti; Ludovico era preceduto dai capitani del popolo, dai consiglieri e dai baroni romani, che indossavano vesti ricamate di oro, ed era seguito dai quattromila cavalieri del suo esercito; Castruccio, che era stato creato cavaliere e conte palatino del Laterano, portava la spada imperiale. Il Bavaro fu ricevuto in San Pietro da Giacomo Alberti vescovo di Venezia e Gerardo Orlandini vescovo di Aleria, entrambi scomunicati, che lo consacrarono; poi Sciarra Colonna gli pose sul capo la corona e il Castracani gli cinse al fianco la spada. 

Ludovico fece leggere tre decreti coi quali prometteva di mantenere la purezza della fede cattolica, di rispettare il clero e di non menomare i diritti delle vedove e dei pupilli; quindi si ricompose il corteo e l' imperatore, eletto anche senatore di Roma, venne accompagnato al Campidoglio. 
Il giorno dopo, per premiarlo di quanto aveva fatto, il Bavaro passò la dignità senatoria a Castruccio, ma per breve tempo questi potè goderla. Pochi giorni dopo, il 28 gennaio, Pistoia cadeva nelle mani di Filippo da Sanguineto, luogotenente del duca di Calabria, e Castruccio, ricevutane notizia, volava con mille cavalli ed altrettanti arcieri in Toscana, si insignoriva di Pisa e verso la metà di maggio cingeva d'assedio Pistoia. A liberarla accorse un numeroso esercito fiorentino, ma questo, credendo di fare allontanare il nemico col devastargli il territorio lucchese, commise l'errore di lasciare alle prese con Castruccio Pistoia, che, priva di vettovaglie, dovette arrendersi (3 agosto). In quel mese cessava di vivere a Pescia Galeazzo Visconti. 
L' imperatore, per le vive istanze di Castruccio, lo aveva fatto rimettere in libertà con la famiglia nel marzo di quell'anno, ordinandogli di andare in Toscana, dove era entrato a servire nelle milizie del Castracani. Alla morte del Visconti doveva seguire, di lì a poco, quella dello stesso Castruccio. Ammalatosi all'assedio di Pistola per le gravissime fatiche sostenute, egli si spense a Lucca all'età di soli quarantassette anni, il 3 di settembre, lasciando la signoria del suo ducato al figlio Enrico.



LE ULTIME VICENDE DELLA SPEDIZIONE ITALIANA 
DI LUDOVICO IL BAVARO


Avrebbe dovuto Ludovico il Bavaro, subito dopo la sua incoronazione, rivolgere le sue armi contro il reame di Napoli e l'impresa, date le forze di cui disponeva e l'alleanza di Federico di Sicilia, gli sarebbe certamente riuscita; ma l'imperatore non capì l'importanza di questa spedizione e il vantaggio che gli sarebbe venuto da una vittoria sugli Angioini e quando se ne rese conto era troppo tardi. Roberto aveva avuto tutto il tempo di prepararsi e prevenire l'offesa e il Bavaro aveva perduto Castruccio che era il suo braccio destro. Mentre il signore di Lucca (prima che morisse) soggiornava  in Toscana pensando ai fatti suoi, l'imperatore perdeva il suo tempo a Roma impegnando contro il Papa una lotta dalla quale non poteva sperare di uscir vincitore. 

Giovanni XXII aveva — scrive il Bertolini — « bandito contro Ludovico una crociata (21 gennaio 1328), ed egli rispose alla provocazione invadendo le attribuzioni del potere spirituale. Costituì vicario ecclesiastico di Roma, Marsilio da Padova, il celebre autore del trattato Defensor pacis, in cui attaccava il temporale e anche il potere spirituale dei Papi; e davanti al popolo radunato a parlamento e plaudente, proclamò il Papa Giovanni "eretico e mistico Anticristo" (18 aprile). 
È facile comprendere come il plauso del popolo non fosse diretto contro l'eretico nel senso di Marsilio autore del decreto imperiale. Il popolo plaudiva perché si colpiva il Papa che si ostinava a vivere lontano da Roma, privando così la città delle sue legittime risorse. 
Vi era tanto poco sentimento religioso in quella levata di scudi popolare che, in quei stessi giorni di fermento generale, un cappellano del Papa, Jacopo Colonna, riuscì a entrare a Roma accompagnato da quattro uomini mascherati, leggere pubblicamente davanti alla chiesa di San Marcelle la bolla di scomunica pronunziata da Giovanni XXII contro Ludovico, e andarsene poi da Roma senza che alcuno molestasse né lui né i suoi compagni ! (22 aprile).

 L' imperatore, irritato oltremodo da questa provocazione, gridò vendetta pronunciando sentenza di morte contro Giovanni eretico oltre che reo di lesa maestà (28 aprile). 

Dopo tale decreto era soluzione logica e necessaria la creazione di un nuovo papa. Fu così eletto con voto popolare un monaco minorità per nome Pietro Rainalucci da Corbara; e, dopo l'elezione, l'imperatore stesso il 12 maggio pose la tiara sul capo dell'eletto, il quale si nominò NICCOLO V  (Bertolini)

Mentre Ludovico perdeva così il suo tempo e suscitava il malcontento di buona parte del suo seguito per l'elezione dell'antipapa al quale si univa quello dei Romani per le violenze che cominciavano a commettere i Tedeschi, il tempo utilmente lo impiegavano gli Angioini, i quali, incoraggiati dall'inazione dell' imperatore, passavano audacemente all'offensiva. Alcune galee di Napoli, infatti, assalirono il presidio tedesco di Ostia e lo sconfissero e contemporaneamente un corpo di milizie angioine, penetrato nel Lazio, si impadronì di parecchi castelli. Costretto da queste offese e sollecitato da Federico di Sicilia, il Bavaro deliberò di intraprendere la spedizione nel reame di Napoli e nei primi giorni di giugno si mosse verso il sud. Ma il suo esercito oramai non era più un forte strumento di guerra, gli mancava Castruccio con le sue schiere, e gli stessi Tedeschi, mal pagati, lo seguivano di mala voglia; di modo che Ludovico, dopo circa un mese di inutili e mal dirette sconclusionate azioni contro gli Angioini, fece ritorno, verso la fine di luglio, a Roma. 

Qui non si trattenne a lungo. Temendo una insurrezione popolare e l'avanzarsi minaccioso del nemico, Ludovico lasciò Roma il 4 agosto conducendo con sé l'antipapa.  Era una vera fuga che doveva produrre subito i suoi effetti. L'uccisione di alcuni tedeschi rimasti indietro faceva già capire quali fossero gli umori del popolo. Se ne accorsero i fautori dell'imperatore, Sciarra Colonna e Giacomo Savelli, i quali, il giorno dopo anche loro dovettero abbandonare precipitosamente la città. Lo sdegno dei Romani si sfogò sui Ghibellini, cui venne data la caccia per le strade, e sulle loro case; gli atti di Ludovico vennero cancellati, i suoi editti bruciati, ed entrato in città Gianni Orsini, legato pontificio, Roma tornò all'obbedienza dei Guelfi e riconobbe di nuovo come legittimo Pontefice Giovanni XXII.

Intanto Ludovico, alla testa di un esercito con duemila e cinquecento cavalli e cavalieri, era avanzato fino a Todi e di là si disponeva, sollecitato da Castruccio, a marciare, per la via di Arezzo su Firenze, quando seppe che una flotta siciliana, comandata da don Pietro, figlio di Federico III, il quale aveva con sé un migliaio di cavalieri, veleggiava lungo le coste del Lazio. Il Bavaro allora si recò a Corneto dove s'incontrò con Pietro. Tempestoso fu il colloquio: l'imperatore rimproverava il principe di esser venuto troppo tardi questi a sua volta si lagnava per avere abbandonato troppo presto l'impresa di Napoli. Alfine s'accordarono di riunire a Pisa tutte le loro forze di terra e di mare.
Separatisi, Ludovico si recò a Grosseto e qui, il 18 settembre, gli giunse la notizia della morte di Castruccio. Rimessosi in viaggio, giunse a Pisa tre giorni dopo e prese la signoria della città togliendola al figlio di Castruccio, che si ritirò a Lucca
Al Porto Pisano intanto era giunta la flotta siciliana. Questa però non ci rimase molto: accortosi che non avrebbe mai convinto l'imperatore alla spedizione contro gli Angiomi, Pietro fece levar le ancore e se ne tornò nell'isola. E infatti Ludovico non aveva né la voglia né la possibilità di muoversi da Pisa. Inoltre gli mancava il denaro e non sapeva come procurarselo. Le sue truppe, male o per niente pagate, non nascondevano il malcontento, mentre i Fiorentini, tornati liberi dopo la morte del duca di Calabria vvenuta a Napoli il 9 novembre del 1328, consapevoli delle strettezze in cui versava l'imperatore, spingevano la loro cavalleria nel territorio pisano fin sotto le mura della città.

 Conseguenza delle angustie finanziarie di Ludovico fu l'abbandono di una parte delle sue truppe. Ottocento cavalieri della Germania inferiore il 29 ottobre del 1328 seguiti da gran numero di fanti, lasciarono Pisa, assalirono senza alcun risultato Lucca  poi, saccheggiati i villaggi della Val di fievole, andarono..» stabilirsi sul Monte Ceruglio dove si trincerarono. 
La diserzione e l'atteggiamento ostile di questo nucleo di Tedeschi non potevano non preoccupare l'imperatore, il quale, temendo che l'esempio fosse imitato dal resto delle sue milizie e che quelli del Ceruglio passassero al soldo dei Guelfi, con maggiore accanimento si dava intorno a cercar denaro col quale indurre al ritorno i disertori. E poiché, Pisa era stata ormai dissanguata, si rivolse ai Visconti a Giovanni, terzogenito di Matteo, gli fece dall'antipapa Niccolo V dare la dignità cardinalizia, ad Azzo, figlio di Galeazzo, gli conferì la signoria di Milano e il titolo di vicario imperiale della Lombardia dietro compenso di centoventicinquemila fiorini. 

Di questi fatti Ludovico ed Azzo si affrettarono a mettere al corrente la compagnia del Ceruglio per mezzo di Marco Visconti, il quale doveva dire ai Tedeschi che nel più breve tempo avrebbero ricevuto le paghe. Però i disertori, diffidenti, trattennero al campo come ostaggio Marco.

 Mentre trattava con i Visconti, il Bavaro cercava di procurarsi denaro nei paesi che obbedivano ai figli di Castruccio. Il 16 marzo del 1329 col pretesto di difendere i figli del defunto capitano, insidiati dalle famiglie degli Onesti, dei Pozzinghi e dei Salamoncelli entrò con parte delle sue milizie a Lucca ma una volta padrone della città la vendette per ventiduemila fiorini a Francesco Castracani, congiunto, ma nemico dei figli di Castruccio, che così  persero Pistoia. 

 Intanto la situazione di Ludovico non migliorava, per cui egli deliberò di lasciare la Toscana. L' 11 aprile del 1329, affidata la custodia di Pisa a Tarlatino di Pietramala di Arezzo, lasciò loro seicento cavalli tedeschi, altri trecento a Francesco Ca stracani, col rimanente delle sue truppe l' imperatore si diresse verso la Lombardia. 
La partenza del Bavaro provocò in Toscana importanti mutamenti: per mezzo di negoziati condotti da Razzino de' Pazzi, Pistoia si pacificò con Firenze e strinse pure un trattato di alleanza, rinunziando al possesso di alcuni castelli ed obbligandosi di ricevere un capitano e un presidio fiorentino (24 maggio 1329); Poscia, Montecatini, Buggiano, Uzzano, Colle, Cozzile, Massa, Monsummano e Montevetturini imitarono Pistoia e si allearono con Firenze che mandò loro un capitano (21 giugno 1329); i Tedeschi del Ceruglio, conoscendo le virtù militari di Marco Visconti che tenevano in ostaggio, lo elessero loro capo. 

Appena ricevuto il comando di quella grossa banda di ventura, Marco Visconti iniziò trattative con Firenze, con Pisa e coi Tedeschi di presidio a Lucca. Il primo successo gli arrise a Lucca: il presidio tedesco gli aprì le porte il 15 aprile, i cittadini vennero disarmati e Marco proclamato signore della città. I Tedeschi però erano avidi più di denaro che di signoria e proposero ai Fiorentini di ceder loro Lucca al prezzo di ottantamila fiorini. L'offerta venne rifiutata. Pari successo ebbero le negoziazioni del Visconti con i Pisani. FAZIO della GRERARDASCA, capo della fazione popolana, col soccorso di un nerbo di cavalli fornitegli da Marco, cacciò nel giugno del 1329 Tarlatino di Pietramala. 
Così i Pisani tornarono indipendenti e, temendo che la vicina Lucca fosse venduta ai Fiorentini, si offrirono di comperarla per sessantamila fiorini, sborsandone come caparra tredicimila. I Tedeschi presero la caparra ma si rifiutarono di cedere la città. 
Allora i Pisani iniziarono trattative con Firenze, le quali condussero alla pace che venne firmata il 12 agosto. Fallito un nuovo tentativo di vender Lucca ai Fiorentini, i Tedeschi del Ceruglio si contentarono della somma di trentamila fiorini che un fuoruscito ghibellino di Genova, GHERARDINO SPINOLA, offriva loro e il 2 settembre gli cedettero la città. 

L'acquisto di Lucca mise di fronte lo Spinola e Firenze, che cercarono di sopraffarsi a vicenda; ma fu debole guerra e si può dire che la pace subentrò a tante vicende guerresche in quasi tutta la Toscana, dove la fazione guelfa riprese il sopravvento. 
La stessa Pisa, pacificatasi con il Pontefice, fu sciolta dall'interdetto e consegnò l'antipapa a Giovanni XXII che lo fece custodire ad Avignone. Dei suoi insuccessi nella Toscana Ludovico il Bavaro sperava di rifarsi nell' Emilia a spese dei Guelfi capeggiati dal Cardinale Bertrand du Poyet. 
Egli contava sui signori ghibellini dell' Italia superiore, ma durante la sua assenza qualcuno già lo aveva abbandonato, qualche altro era già morto, e qualche altro ancora oscillava tra l'impero e la Chiesa. 
Lo avevano abbandonato gli Estensi, i quali s'erano riconciliati col Pontefice riconoscendo Ferrara come feudo ecclesiastico. Era morto PASSERINO BONACCOLSI. Un figlio di lui, Francesco, credendosi tradito dalla sua amante con FILIPPINO GONZAGA, aveva giurato di vendicarsi disonorando la consorte di quest'ultimo, ma Filippino lo aveva prevenuto: ritiratesi in campagna con due fratelli, aveva chiesto aiuto a Cangrande; e con gli armati ricevuti dallo Scaligero e i suoi partigiani, la notte del 14 agosto del 1328 era riuscito a penetrare a Mantova e a sollevare il popolo; al rumore, Passerino era corso in piazza, ma era stato ucciso e un figlio suo, fatto prigioniero, aveva trovato la morte nel carcere. La signoria di Mantova era stata data a LUIGI GONZAGA, padre di Francesco. Oscillava nella fede Azzo Visconti, il quale non doveva tardare a dichiararsi nemico dell'imperatore. 

Giunto nell' Italia superiore, Ludovico il Bavaro riconobbe la signoria dei Gonzaga e convocò a Marcarla, presso Mantova, tutti i capi ghibellini della Lombardia. Si presentarono al convegno il Gonzaga, Cangrande, i signori di Como e di Cremona ed altri; non si presentò invece Azzo Visconti, che si fortificò a Milano e Monza, deciso a resistere alle armi imperiali. 
Nel convegno di Marcaria furono presi accordi per debellare il Visconti (21 aprile 1329). Ardua però era l'impresa alla quale Ludovico si accingeva per le poche forze di cui disponeva e per i preparativi fatti da Azzo, era perciò destinata a fallire. Il Bavaro assalì Monza ma senza successo, poi si volse ad assediare Milano. Non riuscendogli di espugnare la città, accettò le proposte di pace che Azzo gli fece e il 19 giugno fu firmato un trattato col quale l'imperatore confermava il Visconti nella carica di Vicario e questo s'impegnava di sborsare al sovrano diecimila fiorini ed altri mille il mese per tutto il tempo che Ludovico rimaneva in Italia. Così Azzo vedeva allontanare dai suoi domini il pericolo imperiale; ma un altro intanto e più grave gli se ne presentava. 

Verso la fine di luglio, reduce da Lucca, entrava in Milano Marco Visconti. Di lui c'era molto da temere: si conoscevano la sua grande ambizione, l'odio che aveva nutrito per Galeazzo, il suo spirito irrequieto, il suo grande valore militare; tutto ciò rappresentava per la signoria di Azzo un pericolo non lieve. Questi se ne accorse quando vide lo zio onorato ed ossequiato dalla cittadinanza, acclamato dagli abitanti del contado, accolto con gran gioia dalle milizie che egli aveva tante volte guidato alla vittoria. Allora deliberò di sopprimerlo. Ignoti ci sono i particolari della fine di Marco Visconti, ma non c'è dubbio che il delitto sia stato commesso per ordine del nipote. Fra le diverse versioni che corrono sulla morte del gran capitano ha sapore di romanzo la più accreditata, secondo la quale, dopo uno splendido banchetto offerto da Azzo, Marco fu attirato in una stanza, assalito a tradimento da alcuni sicari e precipitato da una finestra sulla piazza. 

Conclusa la pace col Visconti, l' imperatore rivolse le sue armi contro i Guelfi dell' Emilia e il cardinale du Poyet. L'inizio della nuova campagna fu a lui favorevole. Parma, offesa perché Orlando de' Rossi, uno dei suoi signori trattenuto in ostaggio da Bertrand, gli si levò contro ed aprì le porte al Bavaro; Pavia, Modena e Reggio la imitarono. Ma quando volle impadronirsi di Bologna cozzò contro una resistenza che le sue deboli forze non erano capaci di vincere. 
Deciso a spuntarla, nel dicembre del 1329 si recò a Trento per abboccarsi coi principi tedeschi allo scopo di ottenere milizie; ma trovandosi in quella città gli giunse notizia che Federico d'Austria era morto (13 gennaio 1330) e che i fratelli di lui, Alberto ed Ottone, radunavano truppe per assalire la Baviera. Allora Ludovico passò le Alpi e fece ritorno in Germania per non ridiscendere più in Italia.

 Come quella di Enrico VII così la spedizione del Bavaro terminava con un insuccesso, specie quest'ultima, la quale era stata compiuta senza il volere del Pontefice, anzi per abbassare in Italia il prestigio della S. Sede e del Guelfismo e rialzare quello dell' impero e del Ghibellinismo. Partendo dall' Italia invece Ludovico lasciava la fazione ghibellina in ben tristi condizioni. 
Roma era caduta completamente in mano della Chiesa alla quale non poche terre del Lazio erano state riconquistate dal cardinale Gianni degli Orsini; a Viterbo era stato ucciso il signore, Silvestre de' Gatti, dal figlio del Prefetto di Vico, creatura del Papa; nella Toscana, Pisa si era rappacificata con la Curia di Avignone e soltanto Arezzo e lo Spinola signore di Lucca tenevano pei Ghibellini; nelle Marche il Guelfismo si era affermato per opera di Berardo da Varano e nell' Emilia il prestigio di Bertrand du Poyet era cresciuto per l' insuccesso del Bavaro; nella Lombardia Azzo, tre mesi dopo la pace con l'imperatore, per mezzo degli Estensi suoi congiunti, si era riconciliato col Pontefice, che aveva dato un vescovado a Giovanni Visconti.
 
Dei Ghibellini solo Cangrande era rimasto forte, anzi aveva saputo accrescere i suoi domini. Padova il 10 settembre del 1328 gli aveva aperte le porte ed egli vi aveva messo come suo luogotenente Marsilio da Carrara. A lui obbedivano, oltre Padova, Verona, Peltro e Belluno. Nel luglio del 1329 era riuscito anche a sottomettere Treviso ricomponendo sotto la sua signoria lo stato su cui aveva dominato Ezzelino da Romano: ma quattro giorni dopo, colto da gravissima infermità, quel principe così valoroso e cosi savio protettore delle arti e delle scienze, che si era fatto amare dai sudditi ed aveva accolto alla sua corte illustri fuorusciti fra i quali Dante, era morto.

 E Ludovico tornando m Germania, dovette senza dubbio pensare, che scomparsi dalla scena Matteo e Marco Visconti, Castruccio e Cangrande, il Ghibellismo e l'impero avevano perduto le più salde colonne.


 GIOVANNI DI BOEMIA IN ITALIA


Qualche tempo dopo la morte di CANGRANDE della SCALA una nuova guerra si accendeva nell'Italia superiore. Uno dei due eredi dello Scaligero, MASTINO II DELLA SCALA (l'altro era ALBERTO II DELLA SCALA) poneva l'assedio alla guelfa Brescia. Il pencolo che correva questa città doveva essere ben serio se essa chiese aiuto ad un sovrano straniero anziché agli altri Guelfi d'Italia. 
E questo sovrano era GIOVANNI re di BOEMIA, figlio di Enrico VII e sposo di Elisabetta. Cavaliere valoroso, colto, generoso, Giovanni, affidato il governo del regno al conte ENRICO di LIPPE, non volendo vivere fra un popolo semibarbaro qual era il suo, ed era andato a risiedere nei suoi domini di Lussemburgo, da dove faceva frequenti viaggi alle corti straniere. Col suo valore aveva procurata a Ludovico il Bavaro, sul campo di Muhldorf, la vittoria contro Federico d'Austria, aveva molto contribuito a pacificare la Germania e perciò si era acquistata dovunque fama di principe accorto, disinteressato, privo di ambizione ed amante della pace.
Verso la fine del 1330 si trovava a Trento dove era andato per dare in sposa al figlio suo Carlo la figlia del duca di Carinzia e del Tirolo quando vennero a lui ambasciatori da Brescia che, in nome della loro patria, gli chiedevano protezione contro Mastino della Scala e gli offrivano la sovranità della citta assediata.
 
Giovanni di Boemia desideroso di acquistarsi riputazione anche in Italia, accettò; recatosi il 31 dicembre a Brescia, seppe conciliare le fazioni, richiamò i fuorusciti e persuase Mastino a togliere l'assedio. Sparsasi la fama della sua generosità e della sua abilità molte città italiane imitarono l'esempio di Brescia: Bergamo, Como, Pavia, Cremona, Vercelli, Novara lo nominarono loro signore, e lo stesso fece Azzo Visconti che si accontentò di esser suo vicario; più tardi i Rossi gli aprirono le porte di Parma; Modena e Reggio gli offrirono la signoria; e Gherardino Spinola, assediato dai Fiorentini, gli diede senza alcun compenso, la sovranità di Lucca. 
«Questa grande e rapida simpatia per il re Giovanni -scrive Pietro Orsi- produsse viva emozione in tutta Italia, e nel mondo politico si fecero mille commenti: alcuni volevano che  agisse per incarico dell'imperatore Ludovico, da lui precedentemente sostenuto in Germania; mentre altri invece dicevano che era venuto per invito del Papa.
 II 16 aprile 1331 sulle rive della Scultenna (tra Modena e Bologna) il re Giovanni ebbe un segret incontro con il legato pontificio Bertrand du Poyet. Così il figlio di quell'Arrigo VII, che era stato il campione delle idee ghibelline, si stringeva col rappresentante del Papa, capo naturale dei guelfi. 
Dunque si vedeva che  queste vecchie denominazioni non designavano più nulla di preciso".

Giovanni di Boemia non agiva né per conto del Papa né per conto di Ludovico il Bavaro. Sceso in Italia, accettò per puro desiderio di acquistarsi rinomanza, si era subito accorto che avrebbe potuto trarre  grande profitto dalla fama procacciatesi e, poiché la fortuna lo assecondava, si era proposto di formarsi un nuovo stato in Italia senza urtare contro gli interessi del du Poyet.

I disegni e i successi del Boemo non potevano non preoccupare quanti, in Italia e fuori, volevano che non fosse turbato l'equilibrio della penisola. I primi a lanciare il grido d'allarme furono i Fiorentini, che non vollero toglier l'assedio da Lucca, e il loro grido ebbe un eco immediata fra i Guelfi e i Ghibellini italiani, alla corte d'Avignone e a quelle di Germania e d' Ungheria. Si vide allora una cosa stranissima: tacquero gli odi di parte e una lega fu costituita contro Giovanni formata da Roberto d'Angiò, dagli Scaligeri, dai Visconti, dagli Estensi, dai Gonzaga e dai Fiorentini, mentre Ludovico si univa per lo stesso scopo coi duchi d'Austria, i margravi della Misnia e di Brandeburgo e i re di Polonia e di Ungheria. 

Quando seppe di queste alleanze costituitesi ai suoi danni, Giovanni di Boemia lasciò in Italia con ottocento cavalli suo figlio Carlo, e corse in Boemia. La sua presenza di là dalle Alpi riuscì a disarmare i nemici ultramontani. Riguadagnatasi l'amicizia dell' imperatore, Giovanni si recò in Francia, ad Avignone, per rinsaldare i legami di amicizia che lo univano al Pontefice e a Filippo di Valois. 
Intanto in Italia le cose non andavano bene per lui. L' inverno era trascorso in continue scaramucce e l'anno nuovo trovava i nemici del Boemo più stretti tra loro e più risoluti. Il 14 giugno del 1332 Mastino della Scala s' impadroniva di Brescia; Bergamo cadeva in mano di Azzo Visconti, che poco dopo riusciva ad insignorirsi di Vercelli e di Novara; Pavia cacciava il presidio del re e acclamava signori i Beccarla sotto la protezione dei Visconti. 
Gli Estensi però, attaccati da Carlo e dal cardinal du Poyet, avevano la peggio. 

Mentre questi fatti avvenivano nella penisola, Giovanni di Boemia cercava denari ed armati in Francia e si procurava l'appoggio di Filippo dando in moglie al figliuolo di lui la  figlia Gutha. Appoggi gli promise il Pontefice; Filippo di Francia fece di più: gli prestò centomila fiorini coi quali il Boemo raccolse un esercito e varcò le Alpi, giungendo nel gennaio del 1333 a Torino.

Incoraggiato dall'avvicinarsi del re, il legato pontificio penetrò nel territorio ferrarese e il 6 febbraio sconfisse e fece prigioniero il marchese Vicolo d' Este, poi pose l'assedio a Ferrara, ma qui la fortuna non arrise a Bertrand; gli Estensi, fatta una vigorosissima sortita il 14 aprile di quello stesso anno, gli inflissero una memorabile disfatta, facendo parecchie migliala di prigionieri tra i quali il conte d'Armagnac, molti gentiluomini francesi e alcuni signori di Romagna. La sconfitta del cardinale fu seguita dalla ribellione di alcune città della Romagna, irritate dall'avarizia del legato, il quale si era rifiutato di fornire aiuti pecuniari ai prigionieri per riscattarsi: Francesco degli Ordelaffi ribellò Forlì scacciandone la guarnigione; tre giorni dopo il Malatesta si rese padrone di Rimini; Cervia e Ravenna furono indotte a ribellarsi da Ostasio e Ramberto da Polenta. Giovanni di Boemia era nel frattempo sceso nell'Emilia e si era spinto fino a Lucca. Ma il suo prestigio era finito e per giunta egli era venuto in sospetto del cardinale. Comprendendo che non avrebbe potuto più sostenersi in Italia, egli deliberò di abbandonarla; ma volle prima trarre tutto il profitto che poteva dalle città che avevano accettato la sua signoria. 

L'avventura italiana del Boemo terminò peggio di quella del Bavaro, con la vendita cioè delle città che gli rimanevano: così Lucca e Parma furono per trantacinquemila fiorini acquistate dai Rossi, Reggio dai Fogliano, Modena dai Pii, Cremona da Ponzino Ronzoni. Riempitasi la borsa e raccolte le sue milizie, mandò a governar la Boemia suo figlio Carlo, ed egli il 15 ottobre del 1333 lasciò l'Italia diretto a Parigi.


LEGA DI FIRENZE E VENEZIA CONTRO MASTINO II DELLA SCALA 
BATTAGLIA DI PARABIAGO


Alla partenza di Giovanni di Boemia seguì, alcuni mesi dopo, la caduta del cardinal du Poyet, che ne era stato l'alleato. Ne furono autori i GOZZADINI e i BECCADELLI di Bologna i quali al principio del 1334 si accordarono col marchese d' Este per liberare la città. 
Il marchese, dopo  essersi impadronito del castello di Argenta mosse nel marzo contro Cento. Suo scopo era quello di attrarre fuori di Bologna le milizie del cardinale favorendo così i Bolognesi a togliergli la città. Vi riuscì. Il 17 di quel mese, infatti, appena le soldatesche di Bertrand uscirono per soccorrere Cento il  popolo, capeggiato dai Gozzadini e dai Beccadelli, corse alle armi, apri le porte al marchese d' Este ed assediò la fortezza in cui si era chiuso il legato pontificio. Questi sarebbe certamente caduto in mano dei sudditi ribelli se in suo soccorso Firenze non avesse mandato con trecento cavalieri quattro ambasciatori, che, persuasi i Bolognesi a lasciar libero il cardinale, lo scortarono in Toscana, da dove poi il du Poyet fece ritorno in Avignone. 

Dicono che il cardinale contasse sui legami di sangue che lo univano al Pontefice per indurlo a vendicarlo di quei Fiorentini che, se avevano provocata la levata di scudi contro il Boemo e il legato, pure avevano gli avevano salvato la vita. Ma Giovanni XXII non potè assecondare i disegni del nipote, morì in Avignone il 4 dicembre del 1334 lasciando - se si deve credere al Villani — un tesoro stimato di venticinque milioni di fiorini che aveva potuto accumulare con la riserva dei benefici vacanti, di cui percepiva  il reddito del primo anno.

 A Giovanni successe il cardinale Giacomo Fournier, che prese il nome di BENEDETTO XII. Amante della pace e alieno dalla politica, per cui si curò poco delle cose d'Italia, dove intanto la guerra scatenata dai Fiorentini contro il re di Boemia prendeva altri aspetti e sviluppi. Ora non si trattava più di scacciare il Boemo e Berrand, ma di trarre i maggiori vantaggi a danno delle città che avevano parteggiato per il sovrano. E i vantaggi maggiori li ebbero i Visconti e gli Scaligeri. I primi si impadronirono nel maggio del 1334 di Cremona, poi ebbero altre città lombarde e Piacenza; Mastino della Scala acquistò Parma ed alcuni castelli che erano stati dei Rossi; Reggio fu occupata dai Gonzaga e Modena dagli Estensi. Quelli che meno di tutti avevano guadagnato dalla guerra erano i Fiorentini, i quali aspiravano al possesso di Lucca. Questa città, invece, dai fratelli Rossi di Parma, che l'avevano comprata da Giovanni di Boemia, veniva venduta a Mastino della Scala, che vi mandava un corpo di milizie nel dicembre del 1334. 

Con l'acquisto di Lucca i domini degli Scaligeri venivano ad estendersi dalle Alpi alla Toscana e questa regione, dove il Guelfismo era predominante, non poteva non preoccuparsi della minaccia di un signore ghibellino così tanto potente che pareva volesse stringere alleanza con quelli d'Arezzo e metter lo zampino nelle cose di Pisa. 
In questa città infatti Mastino aveva tentato di rovesciare il partito democratico capeggiato dal conte FAZIO di DONORATICO, per mezzo della fazione dei nobili; ma non era riuscito: una furiosa mischia si era accesa per le vie, i nobili erano stati respinti e i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi ed altre primarie famiglie erano stati mandati in esilio. Ma se non era riuscito quel tentativo poteva riuscirne un altro. Firenze, che più di ogni altra città era preoccupata dalla minaccia ghibellina, cercò di scongiurare il pericolo proponendo a Mastino di comperare Lucca; trattative per raggiungere questo scopo furono avviate, ma queste, nel febbraio del 1336, vennero troncate e si diede così  mano alle armi. 

Firenze però non si sentiva in grado di competer da sola con un nemico così forte come lo Scaligero, che era signore di nove città da cui ricavava una entrata di settecentomila fiorini d'oro. D'altro canto Mastino aveva stretto alleanza con Pietro Saccone dei TARLATI, signore d'Arezzo e di parecchi castelli e città della Toscana, della Romagna e della Marca diAncona, e i Fiorentini si trovavano perciò stretti tra due nemici potentissimi. Pur tuttavia Firenze non si sbigottì.
 Trattandosi di una guerra difficile, che richiedeva molti denari e continuità di indirizzo politico, elesse un magistrato di finanza, il quale, aiutato dal patriottismo dei mercanti, in breve mise in grado il Comune di sostenere economicamente il peso delle operazioni, e creò inoltre una giunta di sei cittadini cui fu affidato per un anno il governo della guerra. 
Non potendo contare sugli aiuti di Siena, Bologna, Perugia e Roberto d'Angiò,  suoi vecchi alleati, Firenze si rivolse a Venezia. Questa repubblica aveva motivo di dolersi del contegno di Mastino della Scala, che costruiva in quel tempo una fortezza tra Padova e Chioggia per impedire ai Veneziani di far sale in quella costa, ed aveva sottoposto a gravi tributi le navi mercantili che risalivano il Po; perciò non esitò ad accettare l'alleanza offerta dai Fiorentini e a firmare un trattato (21 giugno del 1336), col quale Firenze s' impegnava di mantenere metà dell'esercito veneziano, di sostenere metà delle spese di guerra e di lasciare alla repubblica adriatica tutti i futuri acquisti, eccettuata Lucca. 

Stretta l'alleanza, si stabilì di mettere gli eserciti sotto un unico comando e questo fu dato al prode PIETRO dei ROSSI, che nell'ottobre del 1336 condusse l'esercito della lega nella Marca Trevigiana. Com'era naturale qui dovevano svolgersi le maggiori operazioni guerresche. Pietro de' Rossi che disponeva di truppe numericamente inferiori, evitò di impegnare battaglie campali contro gli Scaligeri e si limitò a saccheggiare le campagne di Padova e Treviso, trincerandosi poi fortemente a Bovolenta. Nel frattempo i Fiorentini attaccavano Lucca e combattevano contro le forze aretine, e come prima avevano creato il magistrato di finanza e la giunta di guerra, ora istituivano un nuovo magistrato, rivestito della podestà di giudice supremo con una guardia di cinquanta cavalieri e cento fanti. Ad occupare questa carica fu chiamato GIACOMO GABRIELLI da Gubbio, cui seguì ACCORRIMBENE  di TOLENTINO, ma sia l'uno che l'altro diedero cattiva prova, sicché i Fiorentini -nota il Sismondi- «abolita quella carica, si convinsero finalmente che la libertà non si mantiene mai con mezzi dispotici, e che il dare a qualsiasi magistrato una maestà superiore all'imperio delle leggi, quand'anche sia per la difesa di queste, è lo stesso che preparar la loro rovina ». 

Nel secondo anno di guerra (1337) la fortuna favorì molto Firenze. I progressi dei Fiorentini non furono, è vero, proprio grandi intorno a Lucca, dove le loro milizie non riuscirono che a saccheggiar Pescia, Buggiano e poche altre terre ma senza fare alcuna conquista; dalla parte d'Arezzo furono tali i saccheggi che Pietro Saccone, assalito vigorosamente da Firenze e Perugia e non soccorso da Mastino, si appigliò all'idea di vender la città per sessantamila fiorini. Così un temibile avversario fu eliminato e i Fiorentini, il 1° marzo, presero possesso di Arezzo dove ristabilirono il partito guelfo e fabbricarono due fortezze. Rimaneva però l'avversario più potente. Firenze riuscì a mettergli contro alcuni signori, Obizzo d' Este, Luigi Gonzaga, Azze Visconti e Carlo, figlio di Giovanni di Boemia e duca di Corinzia, i quali entrarono nella lega. Quest'ultimo, nel luglio di quell'anno, tolse a Mastino • Cividale e Feltre. Perdita più dolorosa l'ebbe nello stessoi tempo lo Scaligero. 

Reggeva Padova Alberto della Scala, uomo dedito all'ozio e ai piaceri, contro il quale Tibertino da Carrara e il  fratello Marsilio nutrivano grandissimo odio perché il signore aveva usato violenza alla moglie di Ubertino. Messisi d'accordo con Pietro dei Rossi, i due fratelli da Carrara una notte aprirono le porte della città al capitano dell'esercito della lega, il quale, entrato con la sua cavalleria e spalleggiato dai Padovani insorti, si impadronì di Alberto che venne mandato prigioniero a Venezia. 
I Carraresi entrarono nella lega e Marsilio venne proclamato signore di Padova. La gioia prodotta negli alleati da questo avvenimento fu di lì a poco convertita in lutto per la morte di Pietro dei Rossi, il quale, l' 8 agosto cessò di vivere per una ferita riportata il giorno prima all'assedio di Monselice, e sotto le stesse mura, assalito dalle febbri, si spense, una settimana dopo Marsilio. A Pietro, nel comando dell'esercito, successe il fratello Rolando.

Alla perdita di Padova si aggiunse quella di Brescia, che l' 8 ottobre cadde in potere dei Visconti. Mastino, stretto da ogni parte, non osò cimentarsi in una battaglia campale con il nemico, fece chiuder le sue milizie nelle città e nei castelli, sperando di stancare gli alleati e di ricevere aiuti da Ludovico il Bavaro al quale si era rivolto. Vane speranze: l'imperatore non riuscì a valicare le Alpi, contrastato da Giovanni Enrico, secondogenito del re di Boemia. Alcuni castelli degli Scaligeri, quali Soave, Montevecchio e Monselice, caddero in potere dei collegati, che ardirono di far correre il palio sotto le mura di Verona, e, nell'ottobre del 1338, Vicenza, assalita dal nemico, vide occupati i suoi sobborghi. Nelle difficilissime condizioni in cui la guerra lo aveva messo, Mastino avviò trattative con Venezia allo scopo di indurla a una pace separata. Le trattative furono coronate dal successo e fu  conclusa il 17 dicembre del 1338. I patti erano vantaggiosi per Venezia e per alcuni degli alleati. Padova rimaneva dei Carraresi con Castelbaldo e Bassano, i Rossi rientravano in possesso dei loro beni nel parmense; Brescia restava ai Visconti; alla repubblica veneziana venivano cedute Treviso, Castelfranco, Conegliano e Ceneda, e la navigazione liberaq del Po; agli Scaligeri erano lasciate Verona, Vicenza, Parma e Lucca, e Alberto veniva rimesso in Libertà senza riscatto.

 Firenze guadagnava Pescia ed altri castelli del lucchese che però aveva conquistato con le armi. Magro guadagno, in verità era quello di Firenze, reso amaro dal fatto che la pace era stata trattata da una sola delle parti e, a cose fatte, lei era stata invitata ad accettarla. Lucca, inoltre, il cui possesso era stato la causa principale della guerra, rimaneva agli Scaligeri, per la qual cosa Firenze restava nelle medesime condizioni, di fronte alla famiglia Della Scala, nelle quali si trovava prima d'iniziare le ostilità. Malgrado i patti fossero a lei sfavorevoli, Firenze li accettò: fu costretta a non rifiutarli dall'abbandono in cui l'avrebbero lasciata i suoi alleati, dall' impossibilità di continuar da sola la guerra, dalle finanze esauste (aveva contratto debiti per quattro-centocinquantamila fiorini impegnando le gabelle per sei anni) e, infine, dal fallimento di molti banchi commerciali in seguito alla sospensione dei pagamenti da parte delle case dei Bardi e dei Peruzzi dovuta alla guerra tra il re Odoardo III d'Inghilterra, loro debitore, e altrettanto il re di Francia. 

Nella guerra che s'era combattuta da Venezia e Firenze contro Mastino della Scala l'esercito della lega aveva avuto sotto le sue bandiere numerosi mercenari tedeschi, soldati di ventura che, discesi con Enrico VIII, Federico d'Austria, Ludovico il Bavaro, il duca di Carinzia e Giovanni di Boemia, erano rimasti in Italia, offrendo i loro servigi a questa o a quella città, a questo o a quel signore, ma vivendo anche in tempo di pace di rapina. Con questi Tedeschi si erano formate le prime compagnie di ventura. Oltre quella che si era messa al servizio di Uguccione della Faggiuola e quella del Ceruglio, un'altra se ne era costituita intorno a Piacenza nel 1337, detta dei Cavalieri della Colomba. 
Bande di ventura erano quelle soldatesche tedesche che avevano servito al soldo di Firenze e Venezia e proprio esse erano state ad occupare nel 1338 i sobborghi di Vicenza.

Conclusa la pace, e trovandosi ad un tratto disoccupate, queste milizie ricusarono di sgombrare i luoghi occupati, minacciarono di prendere le armi contro gli alleati e contro Mastino se non ricevevano da loro una certa somma. Lo Scaligero, che temeva più degli altri i mercenari avendoli sotto le mura di Vicenza, pensò di disfarsi di questi pericolosi vicini scagliandoli contro Azzo Visconti. Mastino era in pace col signore di Milano e, pur desiderando vendicarsi su di lui della perdita di Brescia, non poteva senza un pretesto muovergli guerra né, del resto, si credeva in grado di combatterlo con probabilità di successo. Volendo liberarsi dei Tedeschi e danneggiare ad un tempo i Visconti, Mastino si servì di Lodrisio Visconti che, esule da Milano, viveva alla corte di Verona e lo consigliò di mettersi alla testa di quelle bande e di assalire Azzo.

Provvisto di denaro fornitegli dallo Scaligero, LODRISIO andò a Vicenza e con i mercenari formò una grande compagnia detta di San Giorgio, forte di duemila e cinquecento cavalli e di parecchie migliaia di fanti; poi alla testa di essa, che durante il viaggio si andava ingrossando, ai primi di febbraio del 1339 entrò nel territorio milanese. Azzo Visconti, che allora era infermo di gotta, affidò il comando delle sue milizie allo zio LUCHINO VISCONTI, il quale il 15 febbraio con tremila cavalli e diecimila pedoni uscì da Milano muovendo contro il nemico che si trovava accampato a Legnano.
 L' esercito visconteo era diviso in due corpi: uno, comandato da Giovanni da Fieno e Giovannello Visconti andò a Parabiago, l'altro agli ordini dello stesso Luchino andò a porre il campo presso Nerviano. 

Questa divisione delle milizie poco mancò che non riuscisse fatale, perché Lodrisio, che sorvegliava attentamente le mosse nemiche, credendo di poter battere l' una dopo l'altra le colonne, la notte dal 19 al 20 febbraio, partito da Legnano, piombò improvvisamente sul corpo che stava a Parabiago e lo sconfisse completamente. Lasciati quindi sul campo di battaglia quattrocento cavalli a custodire il bottino e i prigionieri e dopo averne inviati settecento presso l'Olona per tagliare la ritirata ai fuggiaschi, lui col resto delle truppe mosse contro Luchino e, nello scontro che ne seguì, impegnò con lui un furioso combattimento che costò numerose perdite all'una e all'altra parte. 
Malgrado l'accanimento con cui combatterono i Milanesi, la vittoria rimase alla Compagnia di San Giorgio, superiore di numero ma anche perché spronata e resa audace dal desiderio del saccheggio di Milano che Lodrisio aveva promesso. 

Tutto pareva perduto quando improvvisamente sopraggiunse una schiera di settecento cavalieri, savoiardi, milanesi ed estensi, comandati dal bolognese ETTORE da PANIGO, i quali, passando per Parabiago avevano fatto a pezzi i quattrocento Tedeschi e, liberati i prigionieri, erano andati a sostener Luchino che, vinto, era caduto nelle mani dei nemici. Stanchi dal duplice combattimento e già disordinati, questi non ressero all' urto violentissimo della cavalleria di Ettore e subirono una terribile disfatta. Moltissimi i morti, numerosi i prigionieri tra cui lo stesso Lodrisio, il quale poco dopo, mentre veniva condotto verso Milano, vide attaccati e rotti i settecento cavalieri tedeschi che aveva mandati prima al passo dell'Olona. 

I cinque successivi combattimenti passarono alla storia col nome di battaglia di Parabiago e la vittoria riportata su Lodrisio salvò la signoria di Azzo. Questi era allora il signore più potente della penisola, dopo l'Angioino. Teneva sotto di sé dieci città, Milano, Pavia, Cremona, Piacenza, Lodi, Como, Brescia, Vigevano, Vercelli, Bergamo, e volgeva lo sguardo avido verso la Toscana. Una sua sorella uterina, Giovanna, che Beatrice d' Este, madre di lui, aveva avuto dal primo marito Nino di Gallura, morendo lasciava Azzo erede dei suoi beni in Pisa. Azzo ne aveva preso possesso, aveva ottenuto la cittadinanza pisana e disegnava di strappare agli Aragonesi i territori che erano stati del giudice Nino, quando la morte lo colse il 16 agosto del 1339 in età di trentasette anni.

« Questo personaggio — scrive il Bertolini — merita di essere noverato fra i principi più onorati che ebbe l'Italia nel secolo XIV. Non solo egli rifece il principato della sua casata e lo accrebbe fino a comprendervi il dominio su dieci città, ma lo costituì ancora indipendente sia dall'impero come dal Papato. I monumenti che vi  inalzò e gli statuti  che lui emanò in numero di centocinquanta porgono poi testimonianza dell'alto sentimento di civiltà di cui egli era dotato. Il primo monumento furono le nuove mura che cominciò a edificare nell'anno in cui fu nominato signore perpetuo e che poi condusse a compimento nel 1338. Altro monumento suo è il ponte a dieci arcate sull'Adda, là dove il il fiume esce dal lago di Como. Fra gli edifici eretti a Milano merita di essere ricordato il tempio di San Gottardo, munito di una torre che ancora sussiste e che aveva una specialità per quei tempi straordinaria; c'era affisso un orologio che batteva le ore.

Uno strumento simile non si era mai visto in Italia; l'orologio della torre di San Gottardo era simile a quello inglese inventato dal monaco benedettino Walingford, che era stato messo ad uso pubblico a Londra nel 1325. 
Azzo fu pure di animo mite e generoso. Ne è prova il trattamento da lui fatto al ribelle Lodrisio. Invece di mandarlo al supplizio o al patibolo come avrebbe meritato, lo tenne in esilio-prigione nel castello di San Colombano sul Lambro e lo fece ricongiungere ai figli, e i suoi soldati li rimise in libertà dietro giuramento che non sarebbero più comparsi nel territorio milanese.


Se nel nord Italia qualcosa si era messo a posto,
non così a Firenze, Pisa e a Genova.


Ci attende il periodo dal 1339 al 1343 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
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STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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