ANNI 1363 - 1374

UN DECENNIO DI GUERRE INTESTINE
E IN ALTA ITALIA E' GUERRA GENERALE

GENOVA SOTTO I DOGI - SIMONE BOCCANEGRA, GABRIELE ADORNO E DOMENICO DA CAMPOFREGOSO. - - GUERRA TRA FIRENZE E PISA - II CONDOTTIERO GIOVANNI ACUTO IN TOSCANA - GUERRA TRA VENEZIA E LUIGI D'UNGHERIA : ASSEDIO DI TREVISO ; I VENEZIANI PERDONO LA DALMAZIA - GUERRA DI CANDIA - SPEDIZIONE DEL CONTE VERDE IN ORIENTE - URBANO V IN ITALIA - LEGA CONTRO I VISCONTI - CARLO IV A ROMA E IN TOSCANA - GIOVANNI PALEOLOGO IN ITALIA - NUOVA LEGA CONTRO I VISCONTI - RITORNO DI URBANO V AD AVIGNONE E SUA MORTE - ELEZIONE DI GREGORIO XI - AMEDEO VI DI SAVOIA E FILIPPO D'ACAIA. - IL MONFERRATO E I VISCONTI - GUERRA GENERALE NELL'ALTA ITALIA

GENOVA, PISA E FIRENZE


Quando i Visconti e i collegati stavano stipulando la tregua che metteva termine a molti anni di guerra, Genova era retta dal doge Simone Boccanegra, che aveva composto un governo prettamente popolare (lui che non era né un popolare né un nobile). Poiché il suo potere traeva origine da una rivoluzione democratica, era naturale che i nobili lo avversassero. Prima si opposero a lui con le armi a Savona, a Ventimiglia e a Monaco; vinti in queste città si diedero a tramare nella stessa Genova per sopprimere il doge e rovesciare il governo popolare; ma la vigilanza era così rigorosa che tutte le congiure fallirono. 
Ebbe però buon esito una ordita nel 1363. Si trovava  allora in Europa Pietro I Lusignano, re di Cipro, il quale, dopo di aver combattuto con fortuna contro i Turchi in Anatolia, si era messo in giro per spingere le nazioni occidentali contro quel popolo asiatico che, impadronitesi di Adrianopoli (1360), rappresentava una gravissima minaccia anche per il continente europeo. 
Nel dicembre del 1361 Pietro era stato a Venezia, poi si era recato ad Avignone; ora era di passaggio a Genova. Qui gli furono fatte liete accoglienze e gli venne dato un ricco banchetto a Sturla, nella villa di Pietro Malocello. Simone Boecanegra, che era fra gli invitati, fu avvelenato.
I nobili però non ebbero il tempo d'impadronirsi del potere, perché il popolo, tumultuando, volle che si procedesse subito all'elezione di un nuovo doge che risultò il mercante GABRIELE ADORNO. Questi non seppe cattivarsi, come il Boccanegra, la simpatia popolare per le imposte di cui gravò la popolazione e per i vergognosi patti che nel 1367 stipulò con Ambrogio Visconti, figlio naturale di Bernabò, che, messosi alla testa d'una compagnia di ventura, era andato nella riviera di Levante e si allontanò solo quando il doge s'impegnò di pagargli un sussidio annuo di quattromila ducati. Un vero e proprio ricatto.

Anticipiamo subito come poi finì. Nel 1370 scoppiò a Genova un tumulto: il doge Adorno, rassegnò il potere e in sua vece venne eletto un altro mercante, DOMENICO di CAMPOFREGOSO. Nei primi anni del dogato del Boccanegra eccellenti furono le relazioni di Pisa con Genova, tesi invece i rapporti di Pisa con Firenze a causa del porto di Talamone che questa aveva scelto come sbocco del suo commercio. Mentre difendeva con le armi i suoi traffici al nuovo porto, Firenze con la forza o col denaro estendeva i suoi domini. 

La Guerra di Pisa era iniziata nel 1356 invidiosi dei traffici fiorentini che si svolgevano tramite il suo porto. Dimenticando che davano molto lavoro alla città, impose dei dazi. Firenze reagì spostando il porto sulla senese Talomone che ben presto attrezzarono e poi si diedero da fare per allargare il proprio territorio.
 Il 6 gennaio del 1360 occupava, dopo cinque mesi di assedio, Bibbiena; quasi nello stesso tempo comprava i castelli di San Nicola e di Soci e vendeva Pieve S. Stefano, Montecchio e Chiusi acquistati da Arezzo, strappava il castello di Serra ai Tarlati e quelli di Vivagni e Carelli a Tacco degli Alberti e per denari s'impossessava al finire di quell'anno dei castelli di Gemoli e Coloreto. Nell'ottobre del 1361 Firenze s'impadronì di Volterra. La conquista di questa città, al cui possesso aspiravano i Pisani, produsse un'ulteriore rottura tra Firenze e Pisa. Questa, per tutta risposta, occupò Pietrabuona, vicino a Pescia e i Fiorentini nel maggio del 1361 dichiararono guerra ai Pisani, mettendo in campo un esercito di seicento corazzieri, millecinquecento arcieri e tremilacinquecento fanti al comando di Bonifazio Lupo di Parma, che fu molto zelante, saccheggiando prima la Val d' Elsa poi espugnò anche Ghiazzano. Al Lupo successe nel comando RIDOLFO di VARANO, che si spinse fino a Pisa, sotto le cui mura -a mo' di sberleffo- per ben tre  volte fece correre il palio; poi saccheggiò Cascina ed espugnò il castello di Peccioli. Altre perdite avrebbe senza dubbio Ridolfo inflitto ai Pisani se una sedizione scoppiata nell'esercito non avesse consigliato il capitano di sospendere le ostilità e condurre e stanziando le truppe a San Miniato, dove i sediziosi, congedati, formarono una compagnia di ventura detta del CAPPELLETTO che si trasferì nel territorio di Arezzo.

 Non soltanto per terra fu combattuta questa guerra. Profittando dell'estrema debolezza in cui Pisa si trovava come potenza marinara, Firenze volle molestar la sua rivale anche dalla parte del mare. Assoldate alcune galee genovesi fece infestare le coste pisane da FERINO GRIMALDI cui era stato affidato il comando della piccolissima flotta. Questi nei primi di ottobre del 1362 si impadronì dell'isola del Giglio, poi assali Porto Pisano e dopo una fiera battaglia espugnò le due torri erette a difesa del porto. La catena di ferro che ne chiudeva l'ingresso venne mandata come trofeo a Firenze per le cui vie fu trascinata fra i lazzi della plebaglia, poi fu appesa alle colonne di porfido del battistero e qui rimase fino a quando, nel 1848, venne restituita a Pisa e collocata nel celebre camposanto dove tuttora si trova. 

Con più accanimento si combattè dall'una e dall'altra parte nel 1363. I Pisani, comandati da RENIERI dei BASCHI, assalirono Barga e si impadronirono di Gello nel volterrano, ma nel maggio, scontratisi a San Pietro, presso Bagno alla Vena, con i Fiorentini capitanati dal prode PIETRO FARNESE, furono gravemente sconfitti, lasciando nelle mani del nemico lo stesso comandante. 
Questa disfatta e l'audacia del Farnese che, morto nel giugno di peste, fu sostituito dal fratello Ranuccio, costrinsero i Pisani a chiamare al loro servizio la Compagnia Bianca, forte di duemilacinquecento cavalli ed altrettanti pedoni, i quali, uniti agli ottocento corazzieri ed ottomila fanti che militavano sotto le insegne di Pisa, formarono un esercito ragguardevole, di cui prese il comando GHISELLO degli UBALDINI. 
Tutte queste milizie per le campagne lucchesi e pistoiesi penetrarono nel territorio fiorentino e, accampate  tra Peretola e Campi, fecero correre il palio sotto le mura di Firenze e per ischerno impiccarono tre asini ognuno dei quali portava un cartello col nome d'un magistrato fiorentino. Dopo queste inutili bravate, danneggiato il contado di Prato, le Lastre, la Val di Pesa e parte della Val d'Arno, ritornarono a Pisa. 

Negli ultimi mesi del 1363 Firenze subì parecchi rovesci e corse il rischio di cadere sotto il giogo di un tiranno. Era capitano dei Fiorentini PANDOLFO MALATESTA, il quale, volendo trarre profitto dalla guerra, aveva disegnato di farsi signore della città. Per accrescere lo sgomento del popolo, causato dalla comparsa della Compagnia Bianca e dei Pisani, ed ottenere anche il potere civile, fece in modo che le milizie fiorentine fossero sconfitte all'Ancisa, promise che il nemico saccheggiasse Ripoli e da ultimo, fatti uscire incontro ai Pisani numerosi armati, ordinò che venissero chiuse le porte per impedire che potessero ritirarsi in città se fossero stati sopraffatti dal nemico.
 Ma i malvagi disegni del Malatesta furono scoperti a tempo e l'infido capitano venne licenziato.

 L'anno seguente i Pisani accrebbero il numero dei loro mercenari assoldando la compagnia di ventura di Annichino, composta di tremila barbute. Il comando del loro esercito fu dato ad un valorosissimo condottiero inglese, GIOVANNI HAWKWOOD, che dagli Italiani fu comunemente chiamato l'ACUTO. Questi in aprile, traversata la Valdinievole, saccheggiò le campagne di Prato, Pistola e Firenze e si spinse fino nel Mugello. Di ritorno, fece alcune scaramucce alle porte di Firenze, poi passò in Val d'Arno, scorrazzò nel territorio d'Arezzo, di Cortona e di Siena e per la Val d' Elsa rientrò a Pisa carico di bottino. 
Dopo queste scorrerie i Fiorentini cercarono di proseguir la guerra con forze maggiori e riuscirono a far passare al proprio soldo la maggior parte dei mercenari che militavano sotto le bandiere di Pisa. Soltanto Giovanni Acuto con mille corazzieri inglesi rimase al soldo dei Pisani, ma questi rappresentavano ben poca forza: difatti di lì a poco, nel luglio del 1364, i Pisani subirono una grande sconfitta a Cascina e si affrettarono ad iniziar trattative di pace coi Fiorentini. I negoziati ebbero luogo a Pescia nel mese di agosto. Nello stesso mese un ricco mercante pisano, GIOVANNI d'AGNELLO, aiutato da Bernabò Visconti, assumeva la signoria di Pisa col titolo di doge. 
La pace tra le due città venne conclusa il 17 di agosto: i Pisani cedettero ai Fiorentini il castello di Pietrabuona, accordarono loro tutte le franchigie che godevano nel territorio di Pisa prima della guerra e si impegnarono di pagare ratealmente in dieci anni a titolo d'indennità la somma di centomila fiorini d'oro.


GUERRA TRA VENEZIA E LUIGI D' UNGHERIA
 RIVOLTA DI CANDIA - SPEDIZIONE DEL CONTE VERDE IN ORIENTE.


Aveva da poco Venezia conclusa la pace con Genova quando una nuova guerra dovette sostenere contro il re LUIGI d' UNGHERIA. Pretesto alla guerra furono alcune molestie recate a sudditi del re da alcune navi siciliane nel golfo di Venezia; ma i veri motivi che spingevano l'Ungheria contro la repubblica adriatica si debbono ricercare nel suo desiderio di impossessarsi di Zara e delle altre città della Dalmazia, poste sotto la sovranità dei Veneziani.
Nel 1356 re Luigi, alleatesi coi conti di Gorizia Alberto e Mainardo, col patriarca. d'Aquileia e col signore di Padova Francesco da CARRARA, entrò in Italia, occupò Conegliano, Asolo e Ceneda e strinse d'assedio Treviso. Venezia non poteva competere per terra con un nemico che disponeva di un esercito di oltre cinquantamila uomini,  tuttavia sostenne la guerra per circa un anno e mezzo; e per tutto questo tempo Treviso oppose una meravigliosa resistenza al nemico; ma Traù, Spalato ed altre città dalmatiche si diedero spontaneamente al sovrano, e Zara nel 1357 cadde per tradimento nelle mani del re d' Ungheria. Queste perdite consigliarono Venezia a chieder la pace e questa venne conclusa il 18 febbraio del 1358 con patti assai duri per i Veneziani, i quali, se tornarono in possesso delle terre perdute nel trevigiano, dovettero rinunziare a tutta la Dalmazia e impegnarsi a non recare alcuna molestia agli alleati dell' Ungherese. 

« Finita così nel 1358 con la pace di Zara -scrive Battistella- la guerra con l'Ungheria, serviva per necessità fare buon viso a cattivo gioco anche nei riguardi del da Carrara, essendo quale aderente del re, compreso fra coloro che non dovevano essere molestati; perciò anche quando di lì a qualche mese e di nuovo poi nel 1362-63 nacquero contestazioni con lui per l'erezione di certi fortini sulle frontiere e per l'occupazione di qualche piccolo territorio la Repubblica stimò opportuno venire prudentemente a un pacifico aggiusta mento. Ma se era costretta a inghiottire amaro, non dimenticava però l'indegna condotta da lui tenuta durante la passata guerra: e il rancore represso allora e diventati cattivi poi per ripetute offese che i Carraresi slealmente, più tardi, le recarono doveva essere la causa principale della tragica fine di questa principesca famiglia quando non la proteggesse la grande ombra del suo potente alleato d'Ungheria (Battistella) ».


VENEZIA E LA GUERRA DI CANDIA


 Dopo la guerra contro il re ungherese, seguirono per Venezia alcuni anni di pace, ma nel 1363 la repubblica dovette riprendere le armi per sedare una grave ribellione che era scoppiata a Candia. Non era la prima volta che quest' isola si ribellava a Venezia: si era ribellata nel 1216, sobillata dai Genovesi; nel 1229 su eccitamento del despota di Nicea Giovanni Vatace; nel 1273 per istigazione dell' imperatore Michele Paleologo; ed infine nel 1326 e nel 1341. Ora tornava a ribellarsi perché una nuova imposta era stata messa agli abitanti di Candia per la restaurazione, del porto e anche perché Venezia aveva opposto un reciso rifiuto alla richiesta degli isolani di partecipare con venti membri al Maggior Consiglio. 
La rivolta scoppiò terribile in tutta l'isola: le navi che si trovavano nei porti vennero assalite e saccheggiate, i magistrati imprigionati; il governatore Leonardo Dandolo costretto a salvarsi con la tuga; abbassati i vessilli di San Marco e organizzato un nuovo governo sotto Marco Gradenigo. Dapprima Venezia cercò di ricondurre con le buone i ribelli — coloni ed indigeni — all'obbedienza; falliti i tentativi pacifici, assoldò seimila uomini tra pedoni e fanti e con una flotta di quarantun galee, nel maggio del 1364, li mandò contro l'isola, al comando del famoso condottiero veronese LUCHINO DAL VERME. Questi espugnò facilmente la città di Candia e la notizia di questo successo produsse tanta gioia a Venezia che il doge Lorenzo Celso ordinò di celebrar la vittoria con grandi feste. Il Petrarca, che era allora a Venezia, descrive in una lettera l'ingresso della nave che portò l'annunzio, la messa in San Marco, la processione, le giostre, i tornei; e fra le altre cose scrive:
«La grande piazza, la chiesa, la torre, i tetti, i portici, le finestre, tutto era, non dico pieno, ma zeppo di gente. Di fianco alla chiesa era stato eretto un magnifico palco per le matrone veneziane, che in numero di quattrocento rendevano più gaia la festa ». 

Ma la guerra non finì con l'occupazione della città di Candia, essa durò per ben , tre anni nell'isola, dove i ribelli si difesero accanitamente; ma, condotta spietatamente dai Veneziani, finì con la completa sottomissione nell'estate del 1367: molti beni privati vennero confiscati, le mura di parecchie terre abbattute, i presidi di altre rinforzati, abbattuti i castelli feudali ed esiliati o mandati a morte parecchi capi ribelli fra i quali TIFO VENIER e i fratelli Giovanni e Giorgio CALERGI.

A causa della guerra di Candia, Venezia non aveva potuto porgere orecchio all' invito del Pontefice di partecipare ad una crociata contro i Turchi, sollecitata — come s' è detto — dal re Pietro di Cipro. Questa impresa sembrava abbandonata, quando si offrì di compierla AMEDEO VI di SAVOIA, detto il CONTE VERDE, desideroso di soccorrere il cugino Paleologo imperatore di Costantinopoli. Ricevuto l'assenso del Papa e la promessa di aiuti dal re d' Ungheria, Amedeo salpò da Venezia nell'estate del 1366 e, costeggiando la Dalmazia, per Patrasso e Corone, giunse a Negroponte. 
La prima impresa del Conte Verde fu la conquista di Gallipoli, che, assediata da GASPARE di MONMAGGIORE, dopo breve resistenza capitolò. 
Occupata Gallipoli, Amedeo VI si recò con la flotta a Costantinopoli, dove una brutta notizia lo aspettava: l' imperatore Giovanni Paleologo, di ritorno da Buda, dove si era recato per chiedere aiuti al re d'Ungheria, passando da Viddino era stato fatto prigioniero da STRATIMIRO, figlio del re Alessandro di Bulgaria. Il Conte Verde allora mosse contro Mesembria (presso Odessa), che era la principale città dei Bulgari, e la espugnò, poi trasse in suo potere LASSILLO e LEMONA ed andò ad assediare Varna, costringendo Alessandro alla pace. 
Queste venne conclusa il 21 dicembre del 1366, il Paleologo fu rimesso in Libertà e Mesembria passò a far parte dell' impero bizantino. L'anno seguente il Conte Verde riprese la guerra contro i Turchi, cui tolse Eveacossia e Calovegro,  ma, rimasto privo di mezzi e non potendo perciò rinnovare la ferma delle milizie assoldate, dovette nel giugno del 1367 ripartire per l'Italia.


VICENDE D' ITALIA DURANTE IL SOGGIORNO
 DI URBANO V NELLA PENISOLA


Prima ancora che Amedeo VI partisse per l'Oriente, URBANO V aveva deciso di fare ritorno a Roma, consigliato dalle condizioni della Francia, dal malcontento europeo per l'esilio dei Papi, dalle insistenze del Petrarca, dalla tranquillità che regnava in Roma e spinto soprattutto dall'avvenuta restaurazione dello Stato pontificio. 
Accordatesi con Carlo IV, il quale desiderava non poco di ridiscendere in Italia, il Pontefice ordinò al cardinale d'Albornoz di preparargli il palazzo di Viterbo e di fargli mettere in ordine quello di Roma,
Il 30 aprile del 1367 lasciò Avignone diretto a Marsiglia, dove Genova, Venezia, Napoli e Pisa avevano mandato navi. 
Urbano V s'imbarcò a Marsiglia il 13 maggio; il 25 giunse a Genova dove si trattenne alcuni giorni, poi si rimise in mare e, passando per Portovenere e Porto Pisano, il 4 giugno giunse a Corneto. Qui fu ricevuto dal cardinale d'Albornoz e da numerosi prelati dello Stato pontificio; ricevette da alcuni ambasciatori romani le chiavi di Castel Sant'Angelo; il 3 giugno entrò solennemente a Viterbo, dove vennero ad ossequiarlo ambasciatori da ogni parte d'Italia. 

A Viterbo fu organizzata una lega cui parteciparono tutti i nemici dei Visconti: oltre il Pontefice vi entrarono Carlo IV, il re d' Ungheria, i Carraresi, gli Estensi, i Gonzaga e la regina Giovanna I di Napoli, la quale, essendole morto il marito nel maggio del 1362, era passata a terze nozze col figlio del re di Maiorca, GIACOMO d'ARAGONA. 
Questa lega fu opera dell'Albornoz; ma non erano trascorsi venti giorni da che era stata conclusa quando il cardinale, al quale Urbano V doveva la restaurazione dello stato della Chiesa, cessò di vivere (24 agosto del 1367). A Viterbo il Pontefice si trattenne fino alla metà di ottobre: giunti il marchese Nicolo II d' Este e Amedeo VI di Savoia reduce dalla Grecia, in compagnia di loro due parti per Roma. La mattina del 16 ottobre Urbano V fece il suo solenne ingresso nella capitale della Cristianità, in festa per il ritorno, dopo tanti anni di assenza del suo Capo. 
Ridolfo Varano di Camerino recava il gonfalone; più di duemila ecclesiastici d'ogni grado seguivano il Pontefice, che, tra le entusiastiche acclamazioni del popolo, si recò alla basilica di S. Pietro.

Era questo un avvenimento importantissimo, che giustamente fu esaltato dal Petrarca, il quale, in una lettera al Pontefice, così fra le altre cose scriveva: «Come hai ridotta la Chiesa alla sua antica sede, così riconducila agli antichi costumi sì che essa torni a mostrarsi irreprensibile e veneranda agli occhi, del mondo intero, qual'era un giorno e quale — sia detto in pace di quelli che vi ebbero colpa — non è stata purtroppo per lungo tempo ». 

Urbano V ebbe la signoria della città e subito ne cambiò il governo, abolendo i sette riformatori e i banderesi (capi delle compagnie dei balestrieri) e mettendo in loro vece, a fianco del senatore, tre conservatori delle camera urbana. Il Pontefice si trattenne a ERoma fino alla primavera dell'anno seguente. Nel marzo del 1368 ricevette la regina Giovanna di Napoli alla quale assegnò la rosa d'oro; ricevette anche il rè di Cipro, venuto a tentare, ma invano, di organizzare una crociata contro i Turchi; nel maggio di quell'anno Urbano V si ritirò a Montefiascone ad aspettare che l'imperatore Carlo IV scendesse in Italia come gli aveva promesso. 
L'imperatore varcava proprio in quel momento l'Italia, seguito da un esercito che i cronisti dell'epoca dicono di cinquantamila uomini e che era destinato alla guerra contro i Visconti. I quali, consapevoli della lega di Viterbo, si erano uniti a Cansignorio della Scala e assoldate numerose milizie, fra cui la compagnia di Giovanni Acuto, erano entrati nel Mantovano ed avevano occupato Borgoforte. 

Carlo IV giunse a Conegliano il 5 maggio; il 17 entrò a Padova e di là si recò nei domini degli Estensi, dove intanto si radunavano le truppe dei confederati, i quali speravano con questo sforzo di abbattere per sempre la potenza dei Visconti. Ma l'avidità dell' imperatore deluse le loro speranze: comprato dall'oro di Bernabò e Galeazzo, Carlo IV fece stipulare una tregua tra i Visconti e i Gonzaga (24 agosto) che riebbero Borgoforte e, licenziate gran parte delle sue milizie, col rimanente si avviò verso la Toscana. 

Giovanni d'Agnello, che desiderava esser confermato nella sua dignità ducale, gli andò incontro nel territorio di Lucca e per ingraziarsi il sovrano, sapendo quanto gli stesse a cuore questa città glie ne offri la signoria. Carlo l'accettò, nominò il d'Agnello cavaliere e il 4 settembre entrò con lui a Lucca. Un infortunio capitato qui al doge fu causa della sua rovina. Doveva egli quel giorno stesso esser nominato vicario imperiale di Pisa e la cerimonia doveva aver luogo nella piazza di San Michele dove erano stati innalzati dei palchi in cui dovevano prender posto l'imperatore e il suo seguito. Uno di questi palchi, dove si trovava il doge, si ruppe e Giovanni D'Agnello si spezzò una gamba. Saputa a Pisa la notizia, il popolo si levò a tumulto, scacciò la guardia ducale, saccheggiò il Palazzo e ripristinò l'antico governo, riammettendo in città gli esuli.

Da Lucca Carlo IV si recò a Pisa, poi andò a Siena, dove una recentissima lotta tra nobili e popolani aveva diviso la città in due campi. L'imperatore prese per sé la signoria di Siena, e, lasciatevi come vicario Ungaro Malatesta, parti per Viterbo, dove, il 17 ottobre, s'incontrò col Pontefice. 
Roma aspettava la venuta del Papa e dell' Imperatore; questi però non vi andarono insieme. Vi giunse prima Carlo IV, che il 21 ottobre andò ad aspettare Urbano V a porta Angelica e, appena lo vide arrivare con un seguito di duemila cavalieri, gli andò incontro, prese le briglie ed accompagnò il Pontefice fino a San Pietro, dove il 1° novembre celebrò la Messa ed assistette all' incoronazione dell'Imperatore. Carlo IV non si trattenne a lungo a Roma. Il 22 dicembre era nuovamente a Siena, che tornava ancora ad essere agitata dalle tre fazioni dei Nove, dei Dodici e dei Riformatori, cui si aggiungevano le ostilità della nobile famiglia dei SALIMBENI che aspirava alla signoria; e l'imprudente politica di UNGARO MALATESTA. 

L'Imperatore si schierò a favore dei Dodici e dei Salimbeni; ma il popolo si levò a tumulto e si venne, il 18 gennaio del 1369, alle armi. Ungaro Malatesta che stava con ottocento uomini d'arme sulla piazza delle Fontane fu affrontato e costretto a riparare nelle case dei Malavolti; Carlo IV, che con alcune migliaia di cavalieri si muoveva per impadronirsi del palazzo della Signoria, assalito dalle compagnie del popolo, dovette, dopo aver subito gravissime perdite, asserragliarsi nelle case dei Tolomei, dove venne assediato e costretto a venire a patti. Con cinquemila fiorini regalatigli dai Senesi, l'Imperatore lasciò la città un mese dopo che vi era entrato. Sarebbe stato suo desiderio andare a Pisa, ma la città era in tumulto per gli odi tra i Bergolini e i Raspanti, e temendo di esservi accolto male, se ne andò a Lucca. Durante il soggiorno in questa città, che si protrasse fino ai  primi di luglio, egli non pensò ad altro se non a estorcere denari dalle città toscane: da Pisa si fece dare cinquantamila fiorini, dopo di che riconobbe i nuovi magistrati da essa eletti; altrettanti ne ottenne con minacce dai Fiorentini; a Lucca concesse la libertà con decreto del 6 aprile riconfermato il 6 giugno, ma pretese da essa duecentomila fiorini. Infine, il 5 luglio, se ne partì e, per Pescia, Pistoia, Bologna, Ferrara, Udine, se ne tornò in Germania.  Un buon incasso l'aveva fatto!


GIOVANNI PALEOLOGO A ROMA


Mentre Carlo IV si allontanava dall'Italia, un altro imperatore vi giungeva: era questi GIOVANNI PALEOLOGO, il quale, di fronte alla minaccia turca che metteva in serio pericolo il rimanente del suo impero, si era deciso a venire in Occidente per implorare l'aiuto dei principi cristiani. A Roma giunse nell'ottobre del 1369, si inginocchiò davanti ad Urbano V ed abiurò lo scisma. Ottenne promessa dI aiuti e l'assicurazione che il Pontefice avrebbe persuaso il rE di Francia a partecipare ad una crociata; ma in quel tempo una nuova guerra scoppiava tra la Francia e l'Inghilterra e il disegno di una spedizione in Oriente sfumò. Giovanni Paleologo, andato a Venezia per imbarcarsi, non potendo pagare alcuni debiti che con questa città aveva contratti, dai veneziani senza tanti riguardi, fu trattenuto in ostaggio, e solo quando il secondogenito Emmanuele soddisfece i creditori, poté essere rilasciato e tornarsene senza speranza di aiuti a Costantinopoli. 

Sfumata la crociata, rimaneva al Pontefice la magra soddisfazione di aver visto l'umiliazione del Paleologo; questa soddisfazione però era annullata dal contegno che aveva tenuto Carlo IV, il quale, venendo meno agli impegni assunti prima di scendere in Italia, non solo non aveva tentato nulla contro i Visconti, ma aveva fatto scoprire il gioco del Papa, esponendolo alle rappresaglie dei signori di Milano. 
Questi non tardarono a dar prova del loro risentimento verso Urbano V. Essendosi i Perugini rifiutati di sottomettersi alla Santa Sede, i Visconti, fingendo di licenziare Giovanni Acuto, mandarono il celebre condottiero con la sua compagnia di ventura a devastare il territorio ecclesiastico fin sotto Viterbo, dove allora risiedeva il Pontefice. Il quale si sarebbe trovato in cattive acque se in quel tempo Firenze, cui Bernabò ostacolava il riacquisto della ribelle San Miniato, non avesse promossa una lega contro di lui. Questa lega, che venne stipulata il 31 ottobre del 1369 a Viterbo e alla quale parteciparono il Papa, gli Estensi, i Carraresi, Lucca e Pisa, ebbe per effetto il richiamo dell'Acuto nella Toscana, la sottomissione di Francesco, figlio di Giovanni da Vico, alleato dei Perugini, e infine quella della stessa Perugia, i cui priori vennero nominati vicari della Santa Sede. 

Questi erano senza dubbio successi del Pontefice; tuttavia Urbano V, anziché mostrarsene contento, sospirava di tornarsene ad Avignone, spinto anche dalle insistenti preghiere dei cardinali in gran parte francesi. Il 17 aprile uscì da Roma per andare a Viterbo ma si sparse la notizia che il papa stava abbandonando l'Italia. 


IL PAPA RITORNA AD AVIGNONE


«Alle prime voci - scrive l'Orsi- corsero delle sollecitazioni che venivano fatte al Papa, perché non tornasse in Francia, il Petrarca gli scrisse per persuaderlo a rimanere in Italia. Una pia principessa svedese che da vent'anni soggiornava a Roma, Santa Brigida, venne a Montefiascone a manifestare al Papa una rivelazione avuta dalla Vergine, secondo la quale gravi disgrazie lo attendevano se tornava nel luogo dov'era stato eletto..
I Romani gli inviarono un'ambasceria a supplicarlo di rimanere a Roma; ma Urbano non si lasciò smuovere dalla decisione presa, ed il 5 settembre 1370 in quello stesso porto di Corneto, dov'era approdato tre anni prima, si imbarcò con tutta la sua corte sulle navi inviategli dai re di Francia e d'Aragona, dalla regina di Napoli e di Pisa. Il 16 dello stesso mese sbarcò a Marsiglia ed il 24 settembre fece il suo solenne ingresso in Avignone. Ma nemmeno due mesi dopo cadde ammalato ed il 19 dicembre dello stesso anno (1370) morì; sembrava veramente che la profezia di Santa Brigida si fosse avverata, e che il cielo punisse questo nuovo abbandono di Roma (Orsi) ». 

I cardinali, radunati in Avignone, elessero il 31 dicembre del 1370 Pontefice un nipote di Clemente VI, Pietro Roger, conte di Belfort e cardinale diacono di Santa Maria Nuova, il quale prese il nome di GREGORIO XI.

 AMEDEO VI DI SAVOIA E FILIPPO D'ACAIA
IL MONFERRATO E I VISCONTI 
GUERRA GENERALE NELL'ALTA ITALIA


 Parecchi mesi prima che Carlo IV scendesse a Roma, se ne era allontanato Amedeo VI, chiamato in Piemonte dalla ribellione di Filippo d'Acaia. Questi, primogenito del principe Giacomo, avendo saputo che il padre intendeva istituire suo erede il figlio Amedeo natogli in seconde nozze, gli si era ribellato impadronendosi facilmente di tutti i domini paterni. Il CONTE VERDE, di cui la famiglia d'Acaia era vassalla, tornato in Piemonte alla fine del 1367, in una dieta tenuta a Pinerolo rese noto il testamento di Giacomo — ch'era morto nel maggio di quell'anno — ed ordinò che la volontà del defunto principe venisse rispettata; Filippo però si rifiutò di cedere le terre di cui era venuto in possesso e per difenderle assoldò alcune compagnie di ventura che sparsero il terrore in tutta la regione. 

Sceso in campo per domare il ribelle, Amedeo VI riuscì a togliergli gran parte delle milizie mercenarie e nell'agosto del 1368 lo assediò a Possano. Quel mese stesso Filippo venne a patti e il Conte Verde gli avrebbe concesso il perdono se la matrigna non avesse insistito perché fosse processato. Della sorte del ribelle poco si conosce: si sa che venne chiuso nella fortezza di Avignone e che il 13 ottobre venne interrogato dai giudici, ma si ignorano la sentenza e la fine del principe. Il Gabotto, che studiò con molta diligenza questo periodo di storia piemontese, crede che Filippo sia stato annegato nel lago di Avigliana nel dicembre del 1368. Dei domini di Giacomo rimase padrone Amedeo di Acaia, il quale, essendo ancor fanciullo, fu posto sotto la tutela del Conte Verde. 

Intanto la morte di un altro principe suscitava in Piemonte un'altra guerra. Era questi Lionello di Clarence, figlio di Edoardo III d'Inghilterra, che nel giugno del 1368 aveva sposato a Pavia, Violante, figlia di Galeazze Visconti, ricevendone in dote duecentomila fiorini e le città e i territori di Alba, Bra, Cherasco, Mondovì e Cuneo. Lionello cessò di vivere nello stesso anno e Galeazzo chiese la restituzione delle città; ma ODOARDO DESPENSER, capitano di ventura, che in nome del defunto principe ne teneva il governo, si rifiutò di consegnarle e dopo aver tentato di difenderle, privo di mezzi com'era, nell'ottobre del 1369 le vendette al marchese Giovanni di Monferrato. E così la guerra iniziata contro il Despenser continuò contro il marchese. 

Non era questa la sola guerra che in quel tempo sostenevano i Visconti. Essi erano anche in lotta contro Como, che si era ribellata; e contro quella lega che Pisa, Lucca, Firenze, il Pontefice, gli Estensi e i Carraresi avevano stipulato a Viterbo. Nel Piemonte le operazioni di guerra furono favorevoli ai Visconti, che strapparono al marchese di Monferrato Valenza e Casale; favorevole in Lombardia dove Como presto venne sottomessa; ma in Toscana non ebbero esito felice: qui Giovanni Acuto non riuscì a difendere efficacemente San Miniato, che il 3 gennaio del 1370 cadde in potere dei Fiorentini, ne riuscì a impadronirsi di Lucca e a espugnare di sorpresa Pisa, che nella notte dal 20 al 21 maggio di quell'anno lo respinse con gravi perdite nonostante il valore di Pietro Gambacorti che allora fu nominato capitan generale. 
Subiti questi scacchi, l'Acuto passò a saccheggiar la Maremma, mise a sacco il castello di Livorno, poi, per Pietrasanta a Sarzana, si ritirò in Lombardia. Malgrado questi insuccessi del nemico, i confederati, sbigottiti all'annunzio del ritorno ad Avignone di Urbano V, accettarono le proposte dei Visconti e con loro stipularono la pace nel novembre del 1370. 

Ma fu una pace di breve durata, che gli avvenimenti di Reggio fecero rompere di lì a pochi mesi. Era questa città governata da FELTRINO GONZAGA, fratello di quel Luigi (II) che nel 1362 aveva assassinato il fratello Ugolino e nel 1369 l'altro fratello Francesco, ed ora teneva la signoria di Mantova. Nell'aprile del 1371, Feltrino, che aveva col suo malgoverno suscitato vivo malcontento negli abitanti, si vide assalito da Niccolo II d' Este, signore di Ferrara e di Modena, e non potendo opporre lunga resistenza cedette per cinquantamila fiorini d'oro Reggio ai Visconti. 
Questo fatto causò la riapertura delle ostilità tra gli Estensi e i Visconti, i quali ebbero un valido condottiero per le loro truppe in Ambrogio Visconti, che penetrò nel Modenese e nel Ferrarese. Mentre Bernabò riportava successi contro gli Estensi, le armi del fratello Galeazzo avanzavano vittoriose nei territori del marchese di Monferrato. Questi progressi delle milizie viscontee consigliarono parecchi stati ad unirsi in lega. Anche questa volta il Pontefice si schierò contro i Visconti ed ebbe al suo fianco, oltre gli Estensi, Firenze e la regina Giovanna di Napoli; nel Piemonte il duca di Brunswick — ch'era stato nominato tutore di Ottone II, successo nel marzo del 1372 al marchese Giovanni del Monferrato suo padre — si alleò con Amedeo VI di Savoia; questi anzi ebbe il comando supremo delle milizie piemontési contro Galeazze che aveva posto l'assedio ad Asti. 

Con i Visconti invece si era schierato il marchese Federico di Saluzzo, cui Bernabò aveva mandato soccorsi di milizie. Il Conte Verde andò contro queste soldatesche e ne ebbe ragione, poi mosse a liberare Asti dall'assedio. L'impresa forse non sarebbe riuscita se i Visconti avessero mantenuta al loro soldo la Compagnia Bianca di Giovanni Acuto; ma questo valoroso condottiero fu imprudentemente licenziato e, per vendicarsi, passò al soldo della lega, le cui sorti subito si rialzarono, mentre rovesci subirono le armi viscontee che furono rotte al Panaro e non poterono impedire che l'Inglese occupasse alcune terre nel Piacentino. 

Il passaggio dell'Acuto al campo nemico costrinse Galeazze a togliere l'assedio da Asti. Ne approfittò Amedeo VI per passare risolutamente all'offensiva penetrando nei domini dei Visconti; le sue milizie entrarono nei territori di Vercelli e Novara, si accamparono a Vimercate, saccheggiando intorno le campagne di Milano e di Pavia, poi, passato l'Adda a Brivio, penetrarono nel Bergamasco per congiungersi con le truppe dell'Acuto che si dirigevano verso quel territorio. 
Grave era la minaccia che veniva rivolta ai Visconti, mentre anche  Brescia e Bergamo correvano serio pericolo. Galeazze cercò di scongiurarlo impedendo la congiunzione del Conte Verde con l'Acuto per mezzo d'un esercito comandato dal figlio Gian Galeazzo, che nel 1360 aveva sposato la figlia del re di Francia dalla quale aveva ricevuto in dote la contea di Virtù (Champagne). 
L' 8 maggio del 1373 sul Chiese, presso Montichiari, Gian Galeazzo, che aveva con sé le bande di Annichino, impegnò una furiosa battaglia con la Compagnia Bianca. Il combattimento era finito con la vittoria dei Visconti, le cui truppe si erano già date a saccheggiare il campo, quando l'Acuto, riordinati i suoi dopo la rotta, piombò improvvisamente sul nemico sconfiggendolo. 
Gian Galeazze, gettato a terra durante la zuffa sarebbe caduto in mano degli Inglesi se con l'aiuto di alcuni suoi soldati che gli procurarono un altro cavallo non fosse riuscito a fuggire. Malgrado questa vittoria Giovanni Acuto non continuò l'offensiva e si ritirò nel territorio di Bologna, ne conseguì che anche il Conte Verde lasciò il Bergamasco e passò in Piemonte. Ma le armi non si posarono: alcune terre presso Bergamo si ribellarono ai Visconti, che vi mandarono un corpo di milizie capitanate da Ambrogio, il quale, assalito improvvisamente il 17 agosto, fu dai contadini della valle di San Martino sconfitto, catturato e ucciso; anche Vercelli, nel 1374, si ribellò, e il marchese d'Este imperversò distruggendo le campagne di Parma e Piacenza. 

Non importanti fatti d'armi ebbero luogo nel 1374; ma era una guerriglia estenuante, che unita alle inondazioni primaverili, alla peste e alla carestia, faceva sentire vivo in tutti i belligeranti il desiderio della pace. Il 6 giugno di quell'anno pertanto, con soddisfazione di tutti, fu concluso un armistizio, che purtroppo non doveva durare a lungo. Otto mesi prima era stata conclusa la pace tra Venezia e Francesco da Carrara, signore di Padova, dopo una guerra che con varie vicende si trascinava dal 1372. 
Il Carrarese, minacciato dal duca Leopoldo d'Austria e dalla Repubblica Veneziana, aveva ceduto al primo Feltre e Belluno e contro Venezia aveva richiesto gli aiuti del re d' Ungheria; ma il 1° luglio del 1373 le milizie ungheresi e quelle del signore di Padova erano state gravemente sconfitte e Francesco era stato costretto a concludere una pace svantaggiosa (23 settembre), obbligandosi a pagare un'indennità di guerra di trecentomila ducati e a chiedere anche scusa a Venezia.

Ma se con il 1374 terminava la guerra di dieci anni,
ne iniziava un'altra drammatica di Firenze con la Chiesa.
Mentre la stessa Chiesa era nelle spire dello Scisma.

proseguiamo dunque con il periodo che va dal 1374 al 1379 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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