ANNI 1374 - 1379

FIRENZE, E MEZZA ITALIA IN GUERRA CON LA CHIESA
MA E' GUERRA ANCHE FRA PAPI: LO SCISMA D'OCCIDENTE

GUERRA TRA FIRENZE E IL PAPATO - GLI OTTO SANTI - LA RIBELLIONE D'ITALIA AI PAPI - ECCIDIO DI FAENZA - GREGORIO XI LANCIA L' INTERDETTO SU FIRENZE - LA COMPAGNIA DEI BRETTONI - ROBERTO DI GINEVRA CONTRO BOLOGNA - LA PRIMA DISFIDA TRA ITALIANI E STRANIERI - DEFINITIVO RITORNO DEI PAPI IN ITALIA - LA STRAGE DI CESENA - CONFERENZA DI SARZANA - MORTE DI GREEORIO XI - II GRANDE SCISMA D'OCCIDENTE - ELEZIONE DI URBANO VI - I CARDINALI FRANCESI CONTRO IL PONTEFICE - PACE TRA LA CHIESA E FIRENZE - ELEZIONE DELL'ANTIPAPA CLEMENTE VII - ALBERICO DA BARBERINO E LA COMPAGNIA DI SAN GIORGIO - VITTORIA DELLE ARMI ITALIANE SUI BRETTONI - CLEMENTE VII AD AVIGNONE

 

 GUERRA TRA FIRENZE E LA CHIESA
 LA RIBELLIONE D' ITALIA AI PAPI 
IL RITORNO DEI PAPI IN ITALIA


Nel 1374 Firenze era una città desolata per la carestia e per la peste, che dal marzo all'ottobre aveva cagionato la morte di ben settemila persone. Davanti a sé c'era un inverno drammatico.
Scarseggiando soprattutto il grano, Firenze si rivolse per averne — come in simili circostanze era solita fare — in Romagna, ma con sua grande meraviglia sentì che il cardinale GUGLIELMO di NOELLET, legato pontificio di Bologna, aveva proibito l'esportazione del frumento. 

I Fiorentini interpretarono questo divieto come un tentativo del cardinale di affamare la loro città per potersene rendere poi padrone, e si mostrarono molto irritati. 
L'irritazione crebbe a dismisura quando nel giugno del 1375 GIOVANNI ACUTO con la sua compagnia entrò nel territorio fiorentino. Sebbene il legato avesse scritto alla signoria di Firenze che il condottiero inglese era stato congedato dalla Chiesa dopo la tregua conclusa con i Visconti, i Fiorentini si ostinarono a credere che l'Acuto fosse stato indotto dal cardinale a scendere in Toscana, dove intanto pareva che GHERARDO DUPUY, legato di Perugia, intrigasse coi Salimbeni contro Siena. 
I Fiorentini allontanarono l'Acuto pagandogli centotrentamila fiorini, ma deliberarono di vendicarsi, levandosi in armi contro la Santa Sede e facendole ribellare le popolazioni soggette. Animati da questi propositi, si unirono in lega coi Visconti, con Siena, Lucca, Arezzo e Pisa (quest'ultima vi entrò alla fine del gennaio 1376) e crearono una magistratura speciale detta degli Otto della guerra che risultò composta da Alessandro Bardi, Giovanni Dini, Giovanni Magalotti, Andrea Salviati, Guccio Gucci, Tommaso Strozzi, Matteo Soldi e Giovanni Moni. A capo delle loro milizie chiamarono un tedesco, CORRADO di SVEVIA, e gli affidarono il gonfalone del comune e uno stendardo rosso che portava scritta in bianco la parola libertas
 Questo motto era la prova delle intenzioni che avevano i Fiorentini di muovere a ribellione tutte le terre che prestavano obbedienza alla Chiesa. Né questa era impresa difficile, dato l'odio che le popolazioni soggette ai Papi nutrivano per i legati pontifici. 

«Dopo che la Santa Sede era stata trasferita oltr'Alpe, ad Avignone — scrive Lionardo Aretino — tutte le contrade sottomesse alla Chiesa erano governate da legati francesi. Insopportabile era la loro alterigia nel comandare; essi tentavano di estendere la loro autorità sulle città libere, ed i loro ufficiali e cortigiani non erano uomini di pace, ma di guerra; essi riempivano l'Italia di stranieri, in tutte le città costruivano fortezze con grandissime spese e mostravano con ciò quanto fosse misera e forzata la servitù di queste popolazioni cui avevano tolto la libertà, giustificando l'odio dei sudditi e la diffidenza  dei vicini.
Le istigazioni di Firenze non solo trovarono il terreno propizio nel malcontento dei popoli, ma anche nel desiderio che avevano quasi tutti i signori di ricuperare il potere perduto. Il 18 novembre Francesco da Vico riuscì a portare a ribellione Viterbo; il 3 dicembre gli abitanti di Città di Castello, prese le armi, costrinsero la guarnigione pontificia a chiudersi nella rocca, che pochi giorni dopo capitolò. Il legato apostolico di Perugia, alla notizia di questi avvenimenti, mandò l'Acuto, che subito aveva assoldato, con parte delle sue milizie a riconquistare queste città; ma, appena partito il condottiero, i Perugini si sollevarono, assediarono il legato nella fortezza e il 1° gennaio del 1376 lo costrinsero a capitolare e a sgombrare dalla città col resto delle truppe"

 Dietro l'esempio di Viterbo, Città di Castello e Perugia, la rivolta si propagò rapidamente in quasi tutte le città dello stato pontificio. Montefiascone, Foligno, Spoleto, Gubbio, Narni, Todi, Assisi, Chiusi, Orvieto, Orte, Toscanella, Radicofàni, Sarteano, Camerino, Fermo, Ascoli,  molte altre insorsero e si resero libere; parecchie si offrirono di passare sotto il dominio di Firenze, ma questa mandò loro lo stendardo della libertà; intanto i Montefeltro ritornavano a Urbino e a Forlì Sinibaldo degli Ordelaffi, figlio di Francesco che era morto a Venezia nel 1373.
Però Galeotto Malatesta si mantenne fedele alla Santa Sede, e Rimini e le altre terre che un giorno costituivano la sua signoria rimasero alla Chiesa.  

Firenze, che era l'anima di questo movimento insurrezionale, non si stancava di inviare aiuti e incitamenti. Anche a Roma inviò lettere, vergate dal celebre umanista COLUCCIO SALUTATI, cancelliere della repubblica, nelle quali si esortavano i Romani a sollevarsi, a scacciare la tirannide, a difendere la libertà, a non credere alle promesse dei Papi e a seguire la sentenza di Catone: Nolumus tam liberi esse quam cum liberis vivere.
Ma Roma, che già da qualche tempo guardava con gelosia l'ingrandirsi di Firenze, non prestò ascolto alle calde parole del Salutati che la invitava ad entrar nella lega. 
 Bologna invece non rimase insensibile alle esortazioni dei Fiorentini. La notte dal 19 al 20 marzo del 1376 il popolo bolognese, capitanato da TADDEO degli AZZOGUIDI e da ROBERTO SALICETTI, circondò la fortezza e costrinse il legato a consegnare le chiavi; il gonfalone del comune venne issato al sommo della torre e il giorno dopo fu nominato il Consiglio degli Anziani e concesso il perdono a tutti i fuorusciti, eccettuati soltanto i Pepoli. 

Alla rivolta di Bologna seguì l'eccidio di Faenza: il 29 marzo, Giovanni Acuto, che si trovava a Granarolo, temendo che anche questa città si ribellasse, vi entrò con la sua compagnia e fece scempio degli abitanti. Molti riuscirono a rifugiarsi a Imola e a Forlì, ma quattromila perirono sotto il ferro dei mercenari, che sfogarono pure la loro libidine sulle donne e turpemente violentarono le vergini dei monasteri. 
Gregorio XI sapeva che istigatori delle ribellioni erano i Fiorentini e fin dal 3 di febbraio li aveva citati a comparire davanti al suo tribunale, ma avuta notizia della ribellione di Bologna e dell'aiuto che i fiorentini le avevano mandato: grosse somme, duemila cavalli e cinquecento fanti, il 31 marzo del 1376 lanciò su Firenze l'interdetto, dando facoltà ai fedeli di confiscare le merci dei Fiorentini, d'impadronirsi dei loro beni e di imprigionarli e venderli come schiavi.
Un vero e proprio invito alla rapina.

 I primi su cui fu applicata la sentenza furono i mercanti fiorentini residenti in Avignone, i quali in numero di seicento vennero cacciati dalla città confiscandogli beni e merci.
Ma i Fiorentini non si lasciarono atterrire né della sentenza né dalla scomunica, anzi continuarono nella loro ostilità al Pontefice e cominciarono a chiamare gli otto santi i magistrati preposti agli affari della guerra. La quale da Gregorio XI non era soltanto fatta con le armi spirituali.
 
Egli non si fidava più di Giovanni Acuto che teneva al proprio soldo. Questo condottiero, infatti, aveva ottenuto per sé la signoria di Bagnacavallo e di Cotignola e, dopo la strage di Faenza, aveva venduta questa città, come se fosse cosa sua, al marchese Alberto d' Este. Non credendo di poter contare sull'Inglese, il Pontefice assoldò la COMPAGNIA dei BRETTONI, forte di seimila cavalli e quattromila fanti, di cui era capo GIOVANNI di MALESTROIT, e, messala al comando del cardinale Roberto di Ginevra destinato a governare la Romagna e le Marche, nel maggio del 1376 la fece scendere in Italia.
 Questi Brettoni avevano fama di essere i più feroci venturieri di allora. Certo erano i più spavaldi, come ne fanno fede le parole dette al Papa dal Malestroit, il quale, chiesto se i suoi soldati erano capaci di entrare a Firenze, rispose: se v'entra il sole, vi entreremo anche noi ed aggiunse che entro un mese la città sarebbe stata occupata. 

ROBERTO  di GINEVRA scese in Italia e per Asti, Alessandria e Tortona, avendo ottenuto libero passaggio da Galeazzo Visconti, mosse verso il Bolognese. Intanto Bernabò mandava a Bologna cinquecento lance capitanate da Lucio Lando; i Fiorentini fortificavano e presidiavano i passi dell'Appennino e spedivano in soccorso della città minacciata un piccolo esercito di duemila lance e seimila cavalli al comando di RIDOLFO VARANO di CAMERINO. Questi non credeva opportuno di affidare le sorti della guerra ad una battaglia campale e invece di andare incontro alla Compagnia dei Brettoni, la quale, entrata nel Bolognese, espugnava parecchie terre passando a fil di spada gli abitanti, si chiuse a Bologna, dove non tardò ad essere stretto dal nemico. 
Roberto di Ginevra cercava in tutti i modi di incitare Ridolfo per farlo uscire a battaglia e si narra che, avendogli fatto chiedere perché si tenesse chiuso nella città, l'altro gli rispose  perché non c'entrino gli altri


LA DISFIDA : ITALIANI-BRETTONI


Durante questa specie d'assedio, due cavalieri brettoni ottenuto il salvacondotto, si presentarono a Bologna e lanciarono una superba sfida a due italiani che avessero voluto misurarsi ad armi eguali con loro. Accolsero la sfida due toscani, BETTO BIFFOLI, fiorentino, e GUIDO D'ASCIANO, senese, i quali si scontrarono, in un giorno convenuto, presso il campo del legato pontificio. 

Lionardo Bruni così racconta l'episodio nella sua Historia Fiorentina : «La zuffa fu a cavallo, e giostrarono l'uno con l'altro: e avendo più volte corso, in ultimo la virtù del Biffolo si dimostrò innanzi a ogni altro, e ferito il Brettone colla lancia lo scaraventò a terra, e andandogli addosso per ammazzarlo, il legato corse e pregarlo che gli perdonasse la vita e di conservarlo in prigione. Il Biffolo sentendo questa cosa, domandò a tutti i presenti se lui che era il vincitore se era vero che nelle sue mani c'era  la vita o la morte di quell'uomo; sentendo in coro un sì, fu contento a quel consenso, e benignamente consegnò l'uomo al legato. Restava l'altra battaglia degli altri due fatta con grande sforzo da entrambe le parti. Ma andando l'uno contro all'altro colle lance a un tratto caddero feriti in terra tutti e due. Ma l'Italiano fu il primo a rialzarsi, mentre il Brettone in terra quasi mezzo morto alla fine fu come l'altro messo in prigione. Grandi feste e grandi onori per i due vincitori, poi tornarono dentro nella città assediata"

BETTO BIFFOLI e GUIDO D'ASCIANO iniziavano valorosamente la lunga serie di duelli tra italiani e stranieri; a questi ultimi, in questo e nei secoli seguenti, i primi dovevano mostrare quanto valga una lama di spada impugnata da una mano italiana quando questa sia mossa da amor di patria e tenda ad abbassar l'alterigia dei forestieri baldanzosi.

Mentre Roberto di Ginevra stava accampato presso Bologna, trattative correvano tra il Pontefice e i Fiorentini. Santa Caterina da Siena nel giugno del 1376 si recava ad Avignone e intercedeva presso il Papa in favore della pace esortandolo nello stesso tempo a fare ritorno in Italia. Gregorio XI desiderava vivamente di riconciliarsi con Firenze, che era stata sempre sostenitrice della causa della Chiesa, ma era sdegnato contro gli Otto (della guerra) e ne voleva la deposizione. Non avendola ottenuta, la guerra continuò con nessun vantaggio però delle milizie del Pontefice, il quale, convinto che solo la sua presenza avrebbe potuto estinguere l'incendio della rivolta, deliberò di scendere in Italia dove lo chiamava l'appassionata voce della Santa di Siena. 
Partì da Avignone il 13 settembre del 1376, diretto a Marsiglia, dove lo attendevano ventidue galee comandate dal Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Si mise in mare il 2 ottobre. Il viaggio fu lento a causa dei venti contrari e delle soste. Undici giorni si fermò a Genova, parecchi altri a Porto Pisano e solo il 5 dicembre toccò Corneto, dove era sbarcato nove anni prima Urbano V. 

Ma il suo viaggio non era ancora finito. Non potendo egli recarsi a Roma per via terra per la ribellione di Viterbo e di Civitavecchia, tornò ad imbarcarsi e si recò ad Ostia, da dove risalì il Tevere e il 17 gennaio del 1377 e fece il suo ingresso trionfale da Porta Capena, accolto entusiasticamente dalla popolazione di Roma, che dopo circa settant'anni tornava ad essere la sede del Papato.


LA STRAGE DI CESENA


Al ritorno del Pontefice furono ripresi i negoziati con Firenze, ma questi non ebbero alcun successo, la guerra continuò e un'altra città che fino allora si era mantenuta fedele alla Chiesa, Bolsena, si ribellò. Sopravveniva intanto la strage di Cesena che doveva esacerbare di più gli animi. 
 Gilberto di Ginevra aveva tolto l'assedio da Bologna e si era ritirato coi suoi Brettoni a Cesena per passarvi l'inverno. Questa città era rimasta fedele alla Santa Sede, ciò nonostante i mercenari la trattarono come terra conquistata esercitandovi violenze e rapine e si resero così odiosi che il 1° febbraio la popolazione prese le armi, si scagliò contro le milizie di ventura, massacrò alcune centinaia di uomini e costrinse il resto a rifugiarsi nella Murata, la cittadella dove vent'anni prima Marzia degli Ordelaffi si era eroicamente difesa. Nella Murata si trovava chiuso anche Roberto di Ginevra. 
Questi finse di mostrarsi sdegnato coi Brettoni e per mezzo di Galeotto Malatesta persuase i Cesenati di deporre le armi promettendo un generale perdono, ma il 3 febbraio, avendo fatto venire la compagnia dell'Acuto da Faenza, scagliò questa e quella dei Brettoni contro la popolazione inerme.

 Orribile fu la strage: a parecchie migliaia i cronisti del tempo fanno ascendere il numero delle vittime; non furono risparmiate né donne né bambini e tutti gli abitanti avrebbero trovata la morte se molti di essi non si fossero già prima dati alla fuga riparando in altre terre di Romagna.

 Malgrado lo sdegno suscitato dall'eccidio di Cesena, ovunque era sentito il bisogno di pace. Nel marzo del 1377 Bologna entrò in trattative col legato e stipulò una tregua di due mesi. I Fiorentini, che avevano tentato di persuadere i Bolognesi a non trattare col nemico, temendo che l'esempio di Bologna potesse trovare imitatori, deliberarono di condurre più vigorosamente le operazioni guerresche e con invitanti patti riuscirono a chiamare al loro servizio la compagnia dell'Acuto (aprile 1377). Essi acquistarono così una forza non indifferente, ma nel medesimo tempo persero l'amicizia di Ridolfo di Varano, il quale, vedendosi rifiutata la signoria di Camerino e Fabriano, passò dalla parte del Pontefice che gli affidò il comando dei Brettoni. La defezione di Ridolfo fu però più di danno a lui stesso che alla lega; difatti, assalito presso Camerino dalle milizie del conte Lucio Lando, venne sconfitto, ebbe duecento soldati morti e mille prigionieri e fu costretto a fuggire a Tolentino.

Altri tentativi furono fatti dal Pontefice per riconciliarsi con Firenze; ma neppure questi riuscirono. La signoria fiorentina si mostrò sostenitrice degli Otto contro cui per la maggior parte era rivolta l'azione di Gregorio XI, e colpì con gravi tasse il clero fiorentino, poi nell'ottobre del 1377 stabilì di non obbedire all'interdetto, di riaprire le chiese ed obbligare, sotto minaccia di gravi sanzioni i sacerdoti a celebrare gli uffici.

 Malgrado tutto, la popolazione fiorentina era stanca della guerra che non aveva dato concreti risultati, anzi svuotava le borse e danneggiava il traffico delle merci. Si aggiunga l'apostolato di Santa Caterina, che era andata a Firenze, per favorire la pace e la riconciliazione con la Chiesa.

 L'intransigenza degli Otto fu vinta ed essendosi interposto come mediatore Bernabò Visconti fu indetta una conferenza a Sarzana. Il Pontefice vi mandò come suoi legati il cardinale d'Amiens e l'arcivescovo di Narbona; le città della lega vi inviarono i loro deputati ed anche il re di Francia vi spedì ambasciatori. 
Il congresso, presieduto dal Visconti, si aprì il 12 marzo del 1378, ma pochi giorni dopo, il 27, giunse notizia che GREGORIO XI era morto e la conferenza si sciolse.

Le trattative però furono riprese col nuovo Pontefice e il 28 luglio di quello stesso anno fu firmata a Tivoli la pace. Firenze s'impegnò di pagare un' indennità di guerra di duecentocinquantamila fiorini — di cui solo un quinto effettivamente sborsò — e il Pontefice tolse l'interdetto dalla città.


IL GRANDE SCISMA D'OCCIDENTE


Morto il 27 marzo Gregorio XI, la sera del 7 aprile del 1378 si riunì in Vaticano il conclave per procedere all'elezione del nuovo Pontefice. La piazza di S. Pietro era gremita di popolo tumultuante, che al passaggio dei cardinali gridava: Romano lo volemo od almanco italiano. Dei ventitré cardinali che formavano il sacro collegio sei erano rimasti ad Avignone ed uno si trovava al congresso di Sarzana; sedici soltanto partecipavano quindi al Conclave e di questi solo quattro erano italiani, i romani Francesco Tebaldeschi e Giacomo Orsini, il fiorentino Pietro Corsini e il milanese Simone da Brossano. 
Tutti gli altri erano francesi. Giustificata era pertanto l'eccitazione del popolo, il quale temeva che fosse eletto uno straniero e la sede papale venisse trasferita nuovamente fuori d'Italia. Né il popolo si limitò ad esprimere i suoi desideri con le alte grida. Si precipitò dentro il palazzo, vi tumultuò per circa un'ora; poi una quarantina di persone volle visitare ogni angolo per assicurarsi che non vi fossero nascosti armati destinati a far violenza ai porporati; infine due banderali, presentatisi ai cardinali, esposero il desiderio della cittadinanza romana, che reclamava un Pontefice italiano e voleva che a Roma rimanesse la sede del Papato. 
Impressionato dal tumulto, il sacro collegio fu concorde nell'elezione di un italiano; ma non voleva far cadere la scelta sui due romani sia perché il Tebaldeschi era troppo vecchio e l'Orsini troppo giovane, sia per non mostrare di aver ceduto alle imposizioni del popolo, né voleva eleggere il Corsini o il Da Brossano perché l'uno era di una città in guerra con la Chiesa, l'altro suddito dei Visconti, nemici del Papato. 

Non restava che scegliere una persona estranea al sacro collegio. Fu fatto il nome dei napoletano Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, vicecancelliere della Chiesa, che per esser suddito degli Angioini poteva riuscire accetto agli Italiani e ai Francesi e il giorno dopo (8 aprile) fu eletto con quindici voti. 
Il popolo tumultuava ancora nella piazza. Quando seppe che l'elezione era avvenuta, credendo che il nuovo Pontefice fosse un romano, sfondò le porte per andare ad adorarlo, i cardinali impauriti, credendo quella la rivolta dei romani,  vestirono in fretta con il manto e la mitra il Tebaldeschi e lo fecero sul soglio, poi fuggirono. 

Quando si seppe che il cardinal Tebaldeschi non era il vero Papa il popolo ricominciò a tumultuare, ma poiché il Pontefice era un italiano non  fu difficile far tornare la calma negli animi. Avuta dal sacro collegio la conferma della sua elezione, l'arcivescovo di Bari accettò la dignità pontificia e, prese il nome di papa  URBANO VI. Fu con grande solennità consacrato il 18 aprile, giorno di Pasqua. 

Scrive l'Orsi: «Per disgrazia della Chiesa Urbano VI era l'uomo meno adatto per governare in mezzo a tante tensione di animi ed a tante discordie, il suo carattere orgoglioso, i suoi modi duri ed alteri non tardarono ad alienargli quasi tutta la corte. Fin dal suo primo concistoro rimproverò aspramente i cardinali dicendo che da essi doveva cominciare la riforma della Chiesa; ordinò loro di diminuire la pompa nelle loro comparse e di abbandonare il lusso, che sfoggiavano, per ritornare alla semplicità di vita dei  primi tempi apostolici. Meritati erano questi rimproveri,  ed Urbano VI poteva farli, poiché dava esempio di austerità; ma nel modo come lo faceva, invece di riuscire a correggere i cardinali, serviva solo ad inasprirli contro di lui. Ed egli, irritato per l'opposizione che incontrava diventava ancora di più intollerabile: un giorno poi si lasciò sfuggire di bocca che aveva intenzione di creare molti nuovi cardinali italiani in modo che il loro numero oltrepassasse quello dei francesi; e questo aumentò il fermento dei cardinali francesi" (Orsi)

Questi, trascorsa la primavera, si trovarono ad Anagni, dove, secondo le disposizioni di Gregorio XI, avevano preparato gli alloggi per passarvi l'estate, e qui strinsero rapporti con il conte Onorato Caetani di Fondi, il quale, essendo nemico di Urbano V perché gli aveva negato il rimborso di mille fiorini prestati al precedente Papa e destituito dalla carica di rettore della Campagna per darla a Tommaso di Sansevermo,  istigò i cardinali contro il pontefice.

Gli incitamenti del Caetani erano quasi superflui, perché i cardinali francesi pensavano già al modo di disfarsi di Urbano VI e quando furono invitati a stabilirsi a Tivoli dove il Papa si era recato a villeggiare con tre cardinali italiani (il Tebaldeschi, infermo, era rimasto a Roma) si rifiutarono preparandosi alla lotta.

 Infatti si assicurarono la fedeltà del comandante di Castel Sant'Angelo, che era un francese, si procurarono l'alleanza di Francesco da Vico, ed assoldarono e fecero venire ad Anagni la Compagnia dei Brettoni (i reduci della strage di Cesena potevano essere utili!)

Ai questi cardinali dissidenti non poteva naturalmente mancare il favore del re di Francia; ma non mancò neppure, quello della regina Giovanna di Napoli. Questa rimasta vedova una terza volta, aveva nel 1376 sposato Ottone di Brunswich sperando di avere da questo quarto matrimonio un erede cui lasciare il trono che diversamente sarebbe toccato a Carlo di Durazzo, nipote dell'omonimo duca perito al convento del Murrone nel 1348. 
Urbano VI che favoriva i Durazzo si era attirato l'odio di Ottone e della regina Giovanna.

Forti per tanti appoggi e specialmente per la famigerata Compagnia di ventura al loro soldo, i cardinali francesi partirono in aperta lotta il 20 luglio del 1378 scrivendo ai cardinali italiani una lettera in cui contestavano la validità dell'elezione di Urbano, avvenuta a loro dire, sotto la pressione del popolo, e invitandoli a recarsi ad Anagni per prendere decisioni.

Di fronte a quell'attacco, il Pontefice affrettò la pace con i Fiorentini, che venne conclusa come si è detto, otto giorni dopo quella lettera, e, dichiaratosi pronto a sottomettere al giudizio di un concilio la legittimità della sua elezione, mandò i tre cardinali italiani a trattare con i francesi. Questi però si rifiutarono di venire ad un accordo e il 9 agosto dichiararono nulla l'elezione di Urbano, imposero a questo di deporre la tiara e proclamarono vacante la sede papale; poi si trasferirono a Fondi dove invitarono i cardinali italiani ad un conclave per l'elezione del nuovo Pontefice.

In quei giorni cessava di vivere il cardinale Tebaldeschi, l'unico dei quattro cardinali italiani rimasto fedele al Pontefice; gli altri tre lasciarono Roma e se ne andarono prima a Vicovaro, poi a Subiaco e sul finire di agosto a Sezze. Abbandonato da tutti, Urbano VI, nel settembre di quell'anno creò ventinove cardinali tutti italiani. Questo fatto inasprì maggiormente i cardinali francesi, che, il 21 di quel mese, riunitisi in conclave a Fondi, elessero Pontefice il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di CLEMENTE VII. I tre cardinali italiani, che erano stati invitati con la promessa che fra loro sarebbe stato scelto il Papa, assisterono al conclave, ma non presero parte alla votazione, dopo la quale si ritirarono a Tagliacozzo. Invano Santa Caterina li pregò di tornare all'ubbidienza di Urbano VI; essi preferirono rimaner neutrali; ma morto, l'anno dopo, il cardinale Orsini, gli altri due passarono dalla parte di Clemente. 

Lo scisma divideva la Cristianità in due campi: per Clemente VII si schierarono la regina di Napoli, la Francia e la Savoia e più tardi i regni di Castiglia, d'Aragona e di Scozia; per Urbano VI le altre parti d'Italia, il Portogallo, l' Ungheria,  l'Inghilterra e la Germania. Carlo IV lo riconobbe per primo fra gli altri sovrani e, morto lui il 29 novembre del 1378, il figlio Vinceslao, che gli successe, continuò nell'obbedienza di Urbano. Il quale, lanciata la scomunica al suo antagonista, convinto che le armi spirituali a nulla avrebbero giovato, assoldò una compagnia di ventura. 

Era, questa, chiamata di SAN GIORGIO ed era composta tutta di Italiani. La comandava un romagnolo: ALBERICO da BARBIANO che aveva militato con Roberto di Ginevra e sotto i Visconti; giovane audace e valoroso, che aveva riunito sotto la sua bandiera molti di quegli Italiani, i quali allettati dai guadagni dei soldati di ventura o costretti a vivere in esilio, lontani dalle loro città, avevano abbracciato la carriera delle armi. 

Lo scisma pertanto assumeva carattere nazionale in Italia, dove il francese Clemente VII affidava se stesso all'aiuto di mercenari stranieri, mentre l' italiano Urbano VI chiamava a sostenere la propria causa un italiano condottiero di Italiani. 
La Compagnia di San Giorgio iniziò la sua vita guerresca con un trionfo clamoroso che rappresentò la prima pagina della storia delle compagnie di ventura italiane: il 28 aprile del 1379, a Marino, nelle vicinanze di Roma, dopo una furiosa battaglia durata cinque ore, Alberico da Barbiano sconfisse sanguinosamente la Compagnia dei Brettoni. Dopo la vittoria egli entrò trionfalmente a Roma fra il tripudio della popolazione e ricevette in dono dal Papa una bandiera col motto Italia liberata dai barbari. 

Quel giorno stesso il governatore francese di Castel Sant'Angelo consegnò la fortezza ad Urbano, e i Romani si sfogarono sulla Mole Adriana danneggiandola gravemente. La lotta contro l'antipapa, così felicemente iniziata, proseguì con grande slancio e in pochi giorni tutto il Lazio cadde in potere di Urbano VI. 

Clemente VII riparò a Napoli il 28 maggio e ricevette festose accoglienze dalla corte angioina; ma i napoletani, che fiancheggiavano per l'altro Pontefice loro concittadino, tumultuarono e Clemente, atterrito, fuggì a Gaeta dove poi s'imbarcò per la Francia. Il 10 giugno egli giunse a Marsiglia e di là si recò ad Avignone, che, abbandonata trentatre mesi prima dai Pontefici, ora diventava la sede degli antipapi.

Se le guerre di signori e di papi erano finite,
ora iniziavano i tumulti di popolo in due grandi città.
A Firenze (quella dei Ciompi) e a Venezia (la guerra con Chioggia)...


ci attende infatti il periodo dal 1378 al 1384 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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