ANNI 1378 - 1384

FIRENZE: TUMULTO DEI CIOMPI - VENEZIA: GUERRA DI CHIOGGIA

 LE FAZIONI A FIRENZE: GLI ALBIZZI E I RICCI - II GONFALONIERATO DI SILVESTRO DE' MEDICI - PRIMI TUMULTI - GLI OTTANTA - I CIOMPI - LE GIORNATE DEI TUMULTI, LANDO, E LA SCONFITTA - PREVALENZA DELLA GROSSA BORGHESIA - LA BALIA DEI CENTOTRÈ - ESILIO DI MICHELE DI LANDO - ORIGINI DELLA GUERRA DI CHIOGGIA: VENEZIANI E GENOVESI A CIPRO, LA QUESTIONE DI TENEDO - LE ALLEANZE - BATTAGLIA DEL CAPO D'ANZIO - DEPOSIZIONE DI DOMENICO DA CAMPOFREGOSO ED ELEZIONE DI NICCOLO' DA GUARCO - BATTAGLIA NAVALE DI POLA E CONDANNA DI VETTOR PISANI - LA GUERRA SULLA TERRAFERMA - ASSEDIO E PRESA DI CHIOGGIA - PIETRO DORIA RIFIUTA LA PACE AI VENEZIANI - LIBERAZIONE DI VETTOR PISANI - VENEZIA PREPARA LA RISCOSSA - BLOCCO DEI GENOVESI A CHIOGGIA - RESA DI CHIOGGIA. - ULTIME VICENDE DELLA GUERRA - PACE DI TORINO - FRANCESCO DA CARRARA CONTRO IL DUCA D'AUSTRIA

 

FIRENZE: LA RIVOLTA DEI CIOMPI

La guerre che abbiamo visto nel precedente capitolo, soprattutto quella di Firenze contro il Papa aveva fatto sopire le discordie che travagliavano i Fiorentini. 
Due fazioni esistevano allora nella grande città toscana: quella degli ALBIZZI, composta della nobiltà e dalla grassa borghesia, spalleggiata dal magistrato di parte guelfa e capitanata da Pietro degli Albizzi, Lapo di Castiglionchio e CARLO STROZZI, e quella dei RICCI composta dalla media borghesia e da alcune famiglie di grassi popolani quali i RICCI, gli ALBERTI e i MEDICI. Di questa seconda fazione era stato capo UGUCCIONE dei RICCI; morto costui, ne avevano preso il comando Giorgio Scali e Tommaso Strozzi. 
La fazione dei Ricci era diminuita molto nel 1372, quando molti suoi membri, con una legge del 1347 (inasprita nel 1358) detta dell' ammonire, erano stati esclusi dagli uffici e appunto ammoniti sotto l'accusa di ghibellinismo; ma durante la guerra contro la Chiesa si era rialzata, esprimendo dal suo seno gli Otto; ma negli ultimi tempi della guerra e precisamente dopo la morte di Gregorio XI, era molto diminuita la stessa potenza degli Otto e in cambio era talmente cresciuta la prepotenza dei capitani di parte guelfa da dar luogo all' inasprimento degli animi e a un ritorno violento delle discordie. 

I primi segni della tempesta che si addensava su Firenze si videro il 18 giugno del 1378. Quel giorno, SILVESTRO dei MEDICI, gonfaloniere di giustizia, del partito dei Ricci, d'accordo con altri capi della sua fazione, Benedetto Alberti, Tommaso Strozzi e Giorgio Scali, convocò in due sale del Palazzo il Collegio delle compagnie e il Consiglio del popolo e alla prima di queste due assemblee propose una legge con la quale si rimettevano in vigore per un anno gli ordinamenti di giustizia contro i grandi, si diminuiva l'autorità dei capitani di parte guelfa e si dava modo agli ammoniti di essere ammessi agli uffici. 

Essendo stata accolta sfavorevolmente la proposta di legge, Salvestro de' Medici si presentò al Consiglio del popolo e, dichiarando che per l'opposizione della signoria non poteva con opportune e savie leggi essere di giovamento alla cittadinanza, disse di voler dare le dimissioni dalla carica di gonfaloniere. Le dichiarazioni di Silvestro de' Medici misero il Consiglio a rumore; accorsero i priori e il Collegio delle compagnie per calmare gli animi, ma questi si eccitarono ancora di più, parecchi del partito degli Albizzi furono minacciati di morte, e Benedetto Alberti, affacciatesi alla finestra, chiamò i cittadini alle armi gridando: Viva il popolo ! 

Le botteghe in breve tempo si chiusero, la piazza si riempì di gente armata e fu tale lo spavento di coloro che avevano respinta la proposta del  gonfaloniere che la legge venne approvata. 
La vittoria della fazione democratica anziché calmare gli animi, fece nascere il desiderio di altre vittorie e produsse altri fermenti. I motivi non mancavano: da una parte c'era la rivalità tra le arti maggiori e le  arti minori, dall'altro il malcontento di una  numerosa classe di artigiani non riuniti in corporazione e che dipendevano dalle arti, da cui non di rado dovevano subire dei torti. 
Il 20 giugno ebbero luogo adunanze delle corporazioni in cui si procedette alle elezioni dei sindaci e si fecero discussioni animate per due giorni; le corporazioni, con armi e bandiere, si radunarono in piazza della Signoria e ottennero che fosse nominata una balìa di 80 cittadini con facoltà di fare delle riforme. Mentre si procedeva alla scelta dei membri della balìa, i più scalmanati delle arti minori uniti al popolaccio corsero alla casa di Lapo da Castiglionchio, la saccheggiarono, la incendiarono, poi misero a sacco e a fuoco le case degli Albizzi, dei Bondelmonti, dei Pazzi, di Cario Strozzi, di Migliore Guadagni e di altre famiglie. 

II 21 giugno, la balìa, sotto l'impressione del tumulto del giorno precedente, deliberò di contentare il popolo con importanti concessioni: dichiarò ribelli Lapo da Castiglionchio e parecchi suoi compagni, annullò parecchie disposizioni che tanta autorità davano ai capitani di parte e fece una legge con la quale si accordava amnistia agli ammoniti, escludendoli solo per tre anni dai pubblici uffici.
 
Un po' di calma regnò allora nella città, e senza alcun incidente si riuscì a procedere all'elezione dei nuovi priori e alla nomina del nuovo gonfaloniere che risultò LUIGI GUICCIARDINI. La signoria entrò in carica il 1° di luglio, ordinò ai cittadini di deporre le armi, fece allontanare i contadini che erano entrati in città minacciosi nei giorni della turbolenza e diede disposizioni perché fosse tutelata la sicurezza. E in verità l'ordine pubblico non venne turbato per una diecina di giorni; ma gli animi non si erano calmati né disarmati; gli ammoniti, specialmente, trovavano insufficiente l'amnistia ottenuta, limitata com'era da quell'interdizione di tre anni, e soffiavano nel fuoco. 
A loro istigazione le corporazioni tornarono a riunirsi l'11'luglio e chiesero ed ottennero che tutti quelli i quali dopo il 1320 avevano ricoperta una delle principali cariche non potessero essere ammoniti e, se già lo fossero, venissero reintegrati nei loro diritti; che il capitanato di parte guelfa fosse tolto alla fazione che lo teneva; e infine che si procedesse all' imborsazione dei nuovi nomi dei futuri capitani.

 Chi non aveva nulla ottenuto era il popolo, la plebe. Cessati i tumulti e i saccheggi, essa temeva di esser punita dei precedenti disordini, e non nascondeva a suo malcontento e i suoi timori, che venivano accresciuti ad arte da tutti coloro che avevano interesse di tener desta l'eccitazione. 
Questi popolani erano comunemente chiamati ciompi dall'alterazione — si crede — del nome compère con cui i soldati francesi del duca d'Atene chiamavano i plebei di Firenze. 
Preoccupati dalle possibili conseguenze  dei saccheggi cui avevano partecipato ed eccitati dai più arditi tra loro, un Simoncino Bugigatti, un Pagolo della Bodda, un Lorenzo Riccomanni, cominciarono a tener segrete riunioni e ad organizzarsi e stabilirono di difendersi con le armi da ogni castigo della Signoria. Ma avendo questa saputo di questi complotti, arrestò e fece mettere alla tortura il Bugigatti e altri due plebei e provocò con ciò la rivolta dei Ciompi. 

Il 20 luglio del 1378, al suono delle campane delle chiese, prese le armi, i Ciompi bruciarono la casa del gonfaloniere di giustizia, si impadronirono del gonfalone; poi reclamarono ed ottennero la liberazione dei tre arrestati e trascorsero il resto della giornata sfogando il loro furore contro alcune case di grandi. Il giorno dopo, mentre i priori si preparavano a difendere il palazzo della Signoria, i Ciompi assalirono e presero il palazzo del podestà, da dove mandarono a dire alla Signoria: a) che si abolisse il giudice straniero dell'arte della lana; b) che fossero create tre nuove corporazioni dei mestieri fino allora dipendenti dalle altre arti; c) che al popolo minuto fosse data la quarta parte delle cariche pubbliche compreso il gonfalonierato di giustizia; d) che per due anni venissero sospesi i giudizi per debiti inferiori ai cinquanta fiorini; e) che si escludessero per un decennio dal governo tutti quei cittadini  le cui case erano state distrutte; f) che si limitasse il potere dei capitani di parte, ed altre  cose ancora. 

Non era il caso di discutere sulle petizioni dei sediziosi: la Signoria le accettò e il consiglio del popolo, riunitesi, le approvò. Mancava solo l'approvazione del consiglio del comune che, per legge, non poteva essere convocato che il giorno dopo; e i Ciompi si mostrarono disposti ad aspettare ma vollero che le chiavi delle porte della città fossero consegnate ai sindaci delle arti e che i priori rimandassero indietro le milizie chiamate in soccorso  che erano già giunte a Poggio a Caiano. 
Il 22 luglio, mentre il consiglio del comune era riunito per pronunciarsi sulle petizioni presentate dai Ciompi, questi, che gremivano la piazza, cominciarono a tumultuare, gridando alla Signoria di abbandonare il palazzo. E, poiché essa tentennava, furono mandati Tommaso Strozzi e Benedetto Alberti ad intimare ai priori di allontanarsi con la minaccia che, se non ubbidivano prontamente, sarebbero state bruciate le loro case e trucidate le loro famiglie. Allora i priori consegnarono le chiavi del palazzo ed uscirono. 

La rivoluzione trionfava. Tra la folla urlante un giovane cardatore di lana agitava  il gonfalone di giustizia; era MICHELE DI LANDO, che alla testa del popolino aveva preso parte ai tumulti dei giorni precedenti ed ora, seguito dalla plebe, varcava la soglia del palazzo. I Ciompi lo acclamarono gonfaloniere e lo incaricarono di riformare la Signoria. Michele di Lando, se fosse stato ambizioso come Cola di Rienzo, avrebbe potuto, col favore del popolo minuto, farsi signore di Firenze; invece con molta saggezza e guidato dal suo patriottismo, accettò solo la carica di gonfaloniere, proibì ogni violenza, creò tre nuove arti, quella dell' Agnolo, dei Cardatori e dei Farsettai, e fece eleggere la nuova Signoria in cui il popolino ebbe la metà dei posti. 

"II 24 luglio i nuovi priori presero possesso del loro ufficio, e — scrive il Bertolini — fu una gara sia da parte del governo che da parte della balìa, composta dei sindaci delle arti e del popolo, di assicurare alla città la pace e la tranquillità, togliendo di mezzo perfino le scissioni esistite fra quelle classi alle quali erano dovuti i passati disordini. Da queste nobili intenzioni di pace fu inspirata anche la deliberazione di richiamo degli esuli e degli sbandati, e anche di condono della pena per i fatti avvenuti fino al 24 luglio. Lo stesso sentimento di riconciliazione governò le nuove imborsazioni del Comune ordinate dalla Balìa in osservanza della volontà popolare. 

Con questo nuovi orientamenti, gli uffici furono divisi in parti uguali fra le arti, le due antiche dette maggiori e minori, e la novissima dei Ciompi. E questo fu il maggiore risultato della rivolta dei Ciompi. I quali, come era avvenuto della romana plebe per opera della costituzione di Servio Tullio, cessarono ora, di essere una moltitudine inorganica dello Stato, e divennero cittadini attivi, come gli altri. In luogo dell'ufficiale estraneo ai loro problemi e che li angariava, ebbero ora dei magistrati  scelti dal proprio gruppo, che tutelavano i loro interessi e diritti e sedevano nei consigli della Repubblica. La pacificazione delle classi ebbe il suo coronamento nella cessazione dell' interdetto ecclesiastico. Il giorno 3 agosto fu celebrata in San Giovanni, con l'intervento della Signoria, la messa della pace».(Bertolini )

 Ma non era una pace che poteva durare a lungo. I Ciompi che credevano, dopo aver fatta la rivoluzione, di migliorar le proprie condizioni economiche, alle quali tenevano forse più che alle politiche, si vedevano senza lavoro essendo state chiuse le fabbriche a causa dei tumulti; e la disoccupazione -si sa- è il maggior nemico della pace, specie se si verifica in un periodo di turbolenze. Il 27 agosto i Ciompi si levarono nuovamente a tumulto e prima si radunarono in piazza San Marco, poi in Santa Maria Novella dove si elessero i capi; infine si recarono davanti a Palazzo reclamando pei loro rappresentanti la partecipazione al governo. La Signoria, pur vedendo quanto fossero ingiuste le pretese dei Ciompi, rispose che i nuovi priori che dovevano entrare in carica il 1° di settembre avrebbero esaminate le domande.

 Era questo un pretesto per acquistar tempo di fronte all'arroganza dei Ciompi che aveva perfino disgustato Michele di Lando. Il 31 agosto i Ciompi rinnovarono le loro domande alla Signoria per mezzo di due delegati, i quali, rinfacciata al gonfaloniere la sua ingratitudine verso il popolo, in nome di questo gli intimarono di deporre la carica minacciandolo, nel caso che avesse disubbidito, un severissimo castigo.

Michele di Lando, irritato dall'insolenza dei due delegati, sguainata la spada, li cacciò dalla sala e, avvertite le guardie, li fece arrestare; poi, preso il gonfalone, scese in piazza e, raccolta al grido di libertà una schiera di armati, assalì i Ciompi e li scompigliò disperdendoli. Sconfitti per opera, del loro stesso campione, i Ciompi persero quasi tutto ciò che con la loro rivolta avevano conseguito.
 Il giorno dopo (1° settembre), insediatasi la nuova Signoria, furono esclusi i due membri del popolo minuto dal governo e delle tre nuove arti formate nel luglio una venne disciolta. 
Tuttavia la vittoria  non andò a beneficio dei nobili, ma rimase alla borghesia mezzana capeggiata da SILVESTRO de' MEDICI, BENEDETTO  ALBERTI, GIORGIO SCALI e TOMMASO STROZZI e furono vani 4 tentativi fatti dai Ciompi e da alcuni grandi esiliati nel successivo dicembre e nell'aprile e nel dicembre del 1379 di rientrare a Firenze. 

La pace era ben lontana da regnare a Firenze dopo tanti rivolgimenti: i nobili e i grassi popolani tramavano dentro e fuori la città per impadronirsi del potere; d'altro canto le prepotenze dello Scali e dello Strozzi tenevano in continua agitazione la cittadinanza. Nel gennaio del 1382 avvenne un fatto che doveva produrre un altro mutamento nel governo. Essendo stato arrestato un consorte di Giorgio Scali, questi insieme con lo Strozzi assalì con una manipolo di armati il palazzo del capitano del popolo, lo saccheggiò e liberò il prigioniero (15 gennaio). 
La Signoria non lasciò impunita questa violenza: Tommaso Strozzi riuscì a fuggire a Mantova, ma lo Scali fu preso e decapitato due giorni dopo. 

La fine dello Scali segnò l'ininfluenza della media borghesia: il 21 gennaio i nobili, i grassi popolani e tutti quelli che appartenevano alla fazione degli Albizzi, occupata con le armi la piazza crearono una balìa di centotrè cittadini cui fu dato l' incarico di riformare il governo. 
Le riforme naturalmente furono animate dallo spirito di reazione: si cancellò ogni traccia della rivoluzione dei Ciompi sopprimendo le due arti superstiti; si stabilì che dal 1° marzo il gonfaloniere di giustizia sarebbe stato scelto fra le arti maggiori, per fornire quattro membri degli otto alla Signoria; si annullarono le sentenze di ammonizione; furono richiamati gli esuli; infine si iniziò una fiera persecuzione degli avversai! 
Non pochi furono i condannati alla pena capitale, numerosi gli esiliati: fra questi ultimi Salvestro de' Medici e Michele di Lando, dei quali il primo venne confinato a Modena per cinque anni, il secondo a Chioggia, poi a Padova con l'obbligo di non avvicinarsi a Firenze oltre le duecento miglia.

 Essendosi l'ex-gonfaloniere stabilito a Lucca (novembre del 1383) fu in contumacia condannato alla decapitazione e alla confisca dei beni.

VENEZIA-GENOVA: LA GUERRA DI CHIOGGIA


Nel 1369 era morto, vittima d'una congiura di palazzo, il re Pietro I di Cipro e dopo una breve ma agitata reggenza gli era successo il giovanissimo figlio Pietro II. 
Nell'ottobre del 1372, nella cerimonia dell' incoronazione, per ragioni di precedenza vennero a diverbio PAGANINO DORIA, console genovese, e MARINO MALIPIERO, bailo veneziano; la disputa si fece così aspra che, al levar delle mense, i veneziani, passati dalle parole ai fatti, con l'aiuto di alcuni nobili del luogo, sopraffecero i genovesi e più tardi, estesosi il tumulto nella città di Famagosta e in tutto il resto dell' isola, i sudditi genovesi, che vi avevano estesi possedimenti, furono fatti segno all'ira dei Ciprioti, che sostenevano i veneziani, e subirono gravissimi danni: non pochi rimasero uccisi, altri furono imprigionati, le loro case saccheggiate e distrutte. 

Avuta notizia dei fatti di Cipro, Genova si affrettò a trame vendetta e mandò una flotta di quarantadue galee con quattordicimila uomini da sbarco al comando di Pietro da Campofregoso contro Cipro, la quale, priva degli aiuti di Venezia, allora impegnata in una guerra contro Francesco da Carrara, cadde in potere dei Genovesi, che occuparono Nicosia ed altre città e infine, nell'ottobre del 1373, la capitale Famagosta. 
L'isola fu poi restituita a re Pietro II, ma questi fu obbligato a pagare a Genova un tributo annuo di quarantamila fiorini ed una indennità di oltre due milioni di fiorini d'oro. Venezia protestò per le violenze subite dai suoi concittadini durante l'occupazione; ma la sua vera irritazione era a causa dell'egemonia che i Genovesi si erano procacciata a Cipro.
 
A render più tesi i rapporti tra le due repubbliche marinare sopraggiunse la questione dell'isola di Tenedo.  Scrive il Battistella: "Sorgente di faccia alla Troade, quasi all' imboccatura dell' Ellesponto, notissima per fama e per ricchezze finché durò l'antico regno di Priamo, stazione malsicura alle navi, ma commercialmente importante perché serviva di scalo per il traffico del Bosforo e del Mar nero, questa piccola isola era desiderata con pari cupidigia da Venezia e da Genova.
 
Nel 1352 GIOVANNI PALEOLOGO l'aveva data in pegno al provveditore veneto MARIN FALIERO per un prestito di 30.000 ducati fattogli dalla repubblica nel 1343, e molti anni dopo al termine della guerra Veneto-Genovese il pegno era stato restituito. Ma senza gli interessi. Fu  rimborsato il prestito ima non gli interessi accumulati e non pagati, che al 1364 era salito  fino a portare la somma  a 79.589 ducati. Perciò l'imperatore, a saldo d'ogni debito, s'era alla fine indotto a rilasciarle il rescritto della cessione dell' isola, allorché nel 1376 una delle solite congiure di palazzo, favorite dai Genovesi che spiavano l' istante per annullare quella transazione, rovesciava il Paleologo dal trono e vi poneva in sua vece il figlio ANDRONICO il quale, in compenso del soccorso prestategli dai genovesi, cedeva Tenedo ai suoi sostenitori ( Battistella) ».

 Però il governatore dell' isola, fedele al vecchio imperatore prigioniero, non volle consegnarla ai Genovesi, la cedette invece a MARCO GIUSTINIAN, che reduce dalla Tana con una squadra veneziana, si trovava in quelle acque. Irritati da questo fatto, i Genovesi indussero Andronico ad atti ostili contro Venezia: una nave di questa repubblica fu sequestrata, vennero arrestati il balio e i mercanti veneziani che risiedevano a Costantinopoli e confiscate le loro merci. 
Malgrado questo atto sfrontato, neppure allora si venne alle armi e si tentò di comporre i dissidi pacificamente, ma quando, al principiò del 1378, Giovanni  Paleologo, aiutato dai Turchi riuscì a fuggire dal carcere e a rioccupare il trono e fece ai Veneziani speciali concessioni, le trattative furono rotte e la guerra venne dichiarata.

Come nella guerra precedente le due repubbliche si procurarono alleanze: Venezia si alleò con Pietro II di Cipro desideroso di sottrarsi alla dipendenza dei Genovesi, e con  i Visconti che volevano ritornare in possesso di Genova; questa trovò anche alleati nel re Luigi d' Ungheria; in Francesco da Carrara, acerrimo nemico dei Veneziani da cui alcuni anni prima era stato umiliato; nel patriarca Macquardo d'Aquileia; nel duca d'Austria; nella città d'Ancona; e nella regina Giovanna di Napoli. 

Il primo scontro tra Genovesi e Veneziani avvenne nel maggio del 1378: il 30 di questo mese VETTOR PISANI, ammiraglio veneziano, incontrava con quattordici galee a Capo d'Anzio, presso le foci del Tevere, una squadra genovese, e l'attaccava malgrado sul Tirreno infuriasse una tempesta, la sconfiggeva e faceva prigioniero Luigi del Fiesco, capitano delle navi nemiche; poi volgeva le prore verso l'Oriente col proposito di liberar Famagosta dal  presidio genovese. La notizia della sconfitta produsse grande agitazione in Genova; doge DOMENICO da CAMPOFREGOSO fu deposto e sostituito con NICCOLO da GUARCO; intanto una nuova flotta genovese, comandata da LUCIANO DORIA, entrava nell'Adriatico per sostenere dal mare le operazioni in Dalmazia delle milizie del Patriarca d'Aquileia e quelle di Francesco da Carrara, che sostenuto da truppe ungheresi, avanzava da terra verso la laguna. 
Ma l'anno finì senza altri fatti notevoli: il Doria si ritirò su Zara e Vettor Pisani, tentato invano di sloggiare la guarnigione Genovese da Famagosta bruciate Focea e i sobborghi di Chio e Mitilene e prese Cattaro e Sebenico, e  per passarci l'inverno si ritirò a Pola.

 Si trovava qui la flotta veneziana per esservi rimessa in ordine, quando il 7 maggio del 1379 si presentò davanti al porto Luciano Doria con diciotto galee, dopo aver gia messo a ferro e a fuoco Caorle e Grado e dopo aver lasciato indietro, in agguato, sei navi destinate a piombare sulle navi nemiche se queste avessero accettata la battaglia. 
Vettor Pisani, che sapeva di essere inferiore al nemico, non voleva raccogliere la sfida, ma i capitani dei suoi legni, non sopportando l'audace sfrontatezza dei Genovesi, con le loro insistenza indussero l'ammiraglio ad accettare il combattimento e, usciti disordinatamente dal porto, mossero contro la flotta avversaria. 
La battaglia, subito diventata accesa, parve sulle prime che volgesse favorevole ai Veneziani, che con furioso impeto si impadronirono della nave capitana nemica uccidendo Luciano Doria; ma il successo si arrestò lì: infiammati dal desiderio di vendicare la morte del loro ammiraglio, il cui fratello Ambrogio aveva preso il comando della flotta, i Genovesi continuarono il combattimento con estremo vigore e dopo un'ora e mezzo di sanguinosa lotta sbaragliarono i nemici. 

I Veneziani ebbero settecento morti; duemila quattrocento di essi con quindici galee rimasero in mano dei Genovesi, che si sfogarono sugli uomini della ciurma trucidandone ottocento. Solo sette navi malconce riuscirono a porsi in salvo e tornarono a Venezia con il Pisani,  il quale venne messo sotto processo e condannato a sei mesi di prigione e all'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici.

 Mentre si combatteva sul mare, sulla terra ferma con varie conclusioni venivano condotte dagli alleati le operazioni di guerra terrestre; le compagnie di Giovanni Acuto e di Lucio Lando, che erano al soldo dei Visconti, minacciavano il territorio di Padova; la Compagnia della Stella, al servizio anche questa di Bernabò, spintasi fino a Sampierdarena minacciava da vicino Genova, che si sarebbe trovata a malpartito se non fosse riuscita con grosse somme ad allontanare i mercenari; dall'altro lato Francesco da Carrara faceva scorrerie sui territori della laguna e frustrava i tentativi dei Veneziani di staccare Luigi d' Ungheria dai suoi alleati. 
Grave intanto era la situazione di Venezia, minacciata da vicino da tanti nemici imbaldanziti dalla vittoria navale di Pola. Ma la gloriosa repubblica non si era persa d'animo: mentre si svolgeva il processo a carico di Vettor Pisani, una nuova flotta veniva armata e si metteva al comando di TADDEO GIUSTINIAN; si spedivano ordini a CARLO ZENO, che comandava l'armata d'Oriente, affinchè venisse a soccorrere la patria; si apprestavano le difese della laguna, chiudendola con triplice catena le bocche e difendendole con zattere e pontoni armati. 
Mentre brulicavano in ogni punto tutti questi preparativi,  Genova aveva mandato nell'Adriatico il 19 maggio una flotta di quarantasette galee comandata da Pietro Doria. Veleggiando minaccioso sull'alto Adriticao, bruciava Umago, Grado, Caorle e Pellestrina, assaliva, benché senza successo, Malamocco, e muoveva su Chioggia, contro la quale contemporaneamente dal Trevigiano, dopo  essersi impadronito di parecchi castelli, marciava Francesco da Carrara per dare man forte dalla parte di terra ai Genovesi. 

II Doria si presentò davanti a Chioggia il 6 di agosto; coadiuvato dalle milizie  del signore di Padova si impadronì della città piccola e pose l'assedio alla grande, difesa dal podestà EMO PIETRO con più di tremila uomini. Pur non sperando di ricevere aiuti da Venezia, il presidio di Chioggia tenne duro per ben undici giorni contro gli assedianti, il cui numero era otto volte superiore; infine, scemati dalle frequenti sortite, martoriati dalle macchine guerresche che lanciavano grossi sassi, scarseggiando le vettovaglie, i difensori furono sopraffatti dal nemico, che il 16 agosto penetrò nella città. 

La perdita di Chioggia fu un gravissimo colpo per Venezia che veniva ora esposta alle minacce del nemico, cui era libera l'entrata nella laguna. Difatti poco dopo i Genovesi e i Padovani occupavano Malamocco, Loreo, Poveglia e S. Erasmo e stringevano sempre più la città chiudendo dal mare le vie d'approvvigionamento, mentre quelle della terraferma erano chiuse dagli Ungheresi che avevano cinta d'assedio Treviso dopo averne occupato quasi tutto il territorio. 
I successi degli alleati riempivano di gioia Padova perché con la presa di Chioggia che, stando ai  patti, era stata ceduta a Francesco da Carrara, veniva ad ottenere l'ambito sbocco nell'Adriatico ed anche perché credeva prossima la caduta della stessa odiata Venezia. La quale era in grande costernazione per la sorte a cui non sperava di potere sfuggire; ogni calle risuonava delle preghiere al Cielo del popolo, ma che implorava anche  il doge ANDREA CONTARINI di chiedere la pace! E pace il doge chiese. 

Tre ambasciatori si recarono a Chioggia e ai vincitori presentarono un foglio bianco perché vi fossero scritte le condizioni. Tutti i patti Venezia li avrebbe accettati purché le fosse lasciata la libertà. Francesco da Carrara era dell'avviso di concedere "questa" pace, ma Pietro Doria, che voleva abbattere una volta per sempre la rivale della sua patria, rifiutò di trattare e rispose che non avrebbe concesso pace ai Veneziani se prima non avessero imbrigliato i cavalli di bronzo di piazza San Marco. 

L'altezzosa risposta suonò oltraggio ai Veneziani, i quali abbandonarono l' idea della pace e non pensarono che a difendere la propria patria. 
Mentre tutto pareva che intorno alla gloriosa repubblica rovinasse, mentre giungevano notizie della resa di altre  terre, mentre sotto Treviso compariva un nuovo esercito Ungherese guidato da Carlo  di Durazzo, l'anima dei Veneziani nel momento del più grande pericolo fiammeggiava  di patriottismo e si apprestava all'estrema difesa. 
Ma l'idolo del popolo, colui in cui era riposta tutta la speranza dei marinai, VETTOR PISANI, scontava una colpa forse non tutta sua nelle prigioni dogali.
Il popolo voleva lui come duce delle future battaglie e, radunatosi sotto il palazzo, ne reclamava la scarcerazione gridando: Viva Vettor Pisani! Narra Marin Sanudo che a quelle voci il prigioniero, da dietro le sbarre del carcere, gridasse: O Venesiani, uno solo al dev'esser il grido: Viva San Marco!

 II Pisani, sia per contentare l'opinione pubblica, sia forse perché il Senato voleva (cancellare una sentenza pronunciata troppo in fretta e sotto l'emotività della sconfitta, venne liberato e subito si pensò alla difesa e alla riscossa. Fu fatto un prestito forzoso interno, furono rafforzati gli sbocchi della laguna, furono poste cocche armate intorno alla città; vennero  armate quaranta galee che si trovavano nell'arsenale e parecchie altre ne furono allestite dai privati cittadini; il governo promise di accogliere nel Maggior Consiglio trenta fra le famiglie popolane che avessero maggiormente contribuito alla difesa; privilegi furono promessi ai più benemeriti cittadini e vi fu una nobilissima gara tra gente di ogni ceto nell'offrire lavoro, servizi personali, denaro ed oggetti preziosi.  
Insomma la mobilitazione fu generale, ognuno dava la sua parte, dai bambini ai vecchi di 80 anni (e che 80enni!! Uno di questi era il capo!)

Quando tutto fu pronto e le ciurme addestrate, VETTOR PISANI guidò la flotta su Chioggia. Grande era l' entusiasmo dei marinai, smaniosi di prendersi la rivincita; e a mantenerla desta questa passione e questo accanimento contribuì molto la presenza del doge ANDREA CONTARINI, che, sebbene ottuagenario, volle di persona  accompagnare la spedizione.
 La notte del 23 dicembre del 1379 la flotta veneziana, rinforzata da cocche, da barche e da chiatte, si presentò davanti a Chioggia  e mise a terra un corpo di cinquemila uomini che tentarono d'impadronirsi della città piccola. Fallito il colpo, Vettor Pisani -da quello stratega che era- chiuse tutti gli sbocchi della laguna di Chioggia, facendo affondare nei canali navi cariche di sassi e così la potente flotta genovese rimase completamente in trappola.
I Genovesi non passano un Natale tranquillo, ma il resto doveva ancora venire!

Era, questo di Pisani, un successo clamoroso e non indifferente che accrebbe la fiducia dei Veneziani nel trionfo finale. I Genovesi da lì non si potevano più muovere!
Il 1° gennaio del 1380 ad aumentar la flotta di Venezia e a rialzare ancor di più il morale dei combattenti giunse dai mari di Levante Carlo Zeno con diciotto galee. Allora si tentò qualche azione offensiva: il 6 di gennaio si attaccò e ruppe uno schieramento di Genovesi sulla punta della Leva; pochi giorni dopo si terminò di costruire un ridotto alla estremità del Fossone e qui furono poste due grosse bombarde, delle quali una lanciava palle di pietra del peso di centonovantacinque libbre, l'altra di centoquaranta.
 Micidiale fu il tiro di queste artiglierie, che da qualche tempo erano state adottate dagli eserciti, e i colpi furono concentrati sul convento di Brondolo che costituiva uno dei capisaldi della difesa genovese. Il 22 gennaio un colpo di bombarda colpì in pieno una muraglia del convento, la quale, crollando, seppellì sotto le macerie PIETRO DORIA.
 
Morto Doria, prese il comando dei Genovesi NAPOLEONE GRIMALDI, il quale tentò di aprirsi un varco a Brondolo, ma l'impresa non gli riuscì, anzi diede occasione ai Veneziani di riportare una splendida vittoria e di scardinare da quel lato le difese nemiche: il 19 febbraio, infatti, Vettor Pisani assalì con energia Brondolo con la sua flotta, mentre Carlo Zeno con un corpo di sbarco di seimila uomini diede l'assalto a Chioggia Piccola; circa diecimila Genovesi, usciti incontro ai Veneziani, furono completamente sbaragliati, Brondolo fu conquistata e la città grande fu stretta d'assedio da vicino. 
A capitanar l'esercito chiuso a Chioggia, Genova mandò per la via di terra GASPARE SPINOLA; nello stesso tempo inviò una flotta comandata da MATTEO MARUFFO, che sulle coste di Puglia catturò alcune navi da guerra veneziane al comando di Taddeo Giustiniani e nei primi di luglio comparve nelle acque di Chioggia. Ma né il nuovo comandante dell'esercito né il nuovo ammiraglio riuscirono a forzare il blocco. Invano Francesco da Carrara e il Patriarca d'Aquileia tentarono di vettovagliare la città, invano gli assediati cercarono di aprirsi un varco con piccole barche, invano il Maruffo sfidò a battaglia il nemico: i Veneziani con rigorosissima sorveglianza fecero riuscir vani tutti i tentativi di colpi di mano e di approvvigionamento e si guardarono bene dal raccogliere la sfida dell'ammiraglio genovese, non volendo rischiare con un incerto combattimento i vantaggi conseguiti con l'opera assidua e paziente di parecchi mesi. Loro erano in trappola perchè rischiare?

Decimati dagli assalti e dai tiri delle bombarde, sicuri di non poter ricevere soccorsi, tormentati dalla fame, dopo avere inutilmente tentato di venire a patti, il 24 giugno del 1380 i Genovesi si arresero a discrezione, lasciando nelle mani del nemico circa cinquemila prigionieri e diciannove galee. 

Dopo la presa di Chioggia la guerra continuò. Matteo Maruffo, avvicinatesi all'Istria, fece con la sua presenza ribellar Trieste che si diede al Patriarca d'Aquileia (26 giugno) poi occupò Capodistria (1° luglio) ed Arbe (8 agosto). Vettor Pisani uscì da Venezia, riprese Capodistria e inseguì il nemico; ma erano quelle le sue ultime imprese: trovandosi il 13 agosto a Manfredonia, cessò di vivere. La sua salma venne trasportata a Venezia e tumulata nella Chiesa di S. Antonio di Castello, donde nel 1807, essendo il tempio stato demolito, le ceneri furono trasportate a Montagnana. 

Se sul mare la guerra volgeva in favore di Venezia, sul continente le sue armi non potevano sperar di competere con quelle di tanti ed ostinati nemici: Castelfranco, Asolo e Noale cadevano nelle mani di Francesco da Carrara, le cui milizie stringevano sempre d'assedio Treviso. Oramai questa città era ridotta agli estremi, e Venezia, non potendola soccorrere, anziché vederla cadere nelle mani dell'odiato Carrarese, la cedette, con riserva dei propri diritti, al duca Leopoldo d'Austria che il 9 maggio del 1381 andò ad occuparla. 
Con la cessione di Treviso le operazioni di terra terminarono; continuarono quelle navali, ma erano semplici scorrerie nell'Adriatico e nel Tirreno con catture di navi mercantili e spavento delle popolazioni rivierasche. Le due rivali erano ormai stanche della lunga guerra e sentivano bisogno di pace. 

Già fin dal marzo del 1380 Urbano VI e i Fiorentini avevano cercato di metter fine alla guerra e a Cittadella avevano avuto luogo conferenze tra gli ambasciatori dei belligeranti e dei mediatori; ma non si era concluso nulla. Nell'estate del 1381 offerse la sua autorevole mediazione Amedeo VI di Savoia, che tutti accettarono. 
I rappresentanti di Genova, di Venezia, del rè d'Ungheria, di  Aquileia e dei Carraresi si riunirono a Torino e qui l'8 agosto fu conclusa la pace dalla quale venne escluso il re di Cipro che non aveva mandato i suoi plenipotenziari. 
Secondo i capitoli del trattato Venezia riconfermava al re d' Ungheria la cessione della Dalmazia, compresa Cattaro occupata durante la guerra, e si impegnava di pagargli settemila ducati annui ottenendo in cambio da lui la rinunzia alla navigazione del Golfo fino a Rimini; confermava inoltre la cessione di Treviso al duca d'Austria; riconosceva l'indipendenza di Trieste e cedeva al Conte Verde l'isola di Tenedo il cui castello doveva esser demolito e gli abitanti trasferiti a Candia e a Negroponte; Genovesi e Veneziani si obbligavano di non navigare per due anni alla Tana e di riconciliare Giovanni Paleologo col figlio Andronico; Cipro infine non doveva essere soccorsa da Venezia nella sua guerra con Genova. 

Quanto a Francesco di Carrara, il trattato gli imponeva di restituire le terre occupate ai Veneziani, di modo che, tornando i confini quali erano nel 1373, egli dalla guerra non ci guadagnava nulla. Fu per questo che, posate da tutti le armi, fu solo lui a tenerle  impugnate nell'ostinarsi su Treviso e fu tale la sua caparbietà che Leopoldo d'Austria, stanco alfine di quella lotta, nel febbraio del 1384, glie la cedette per centomila fiorini d'oro insieme con Ceneda, Feltro e Belluno.

 « In tal modo — scrive il Battistelli — finiva, almeno nella sua fase più violenta e rovinosa, il cruento conflitto tra le due più grandi repubbliche marittime d'Italia, duello che cominciato con la prima crociata si era venuto inasprendo man mano che la loro potenza cresceva. Non le separava odio di razza, non questioni di diretto dominio,  né antagonismo nato dal dissenso o da incompatibilità di tendenze politiche: unica e  immanente causa delle loro ostilità era la gelosia reciproca e fu combattuta con le armi, bensì, ma più ancora con la forza capziosa delle influenze politiche, con le sottili arti diplomatiche e gli  intrighi insidiosi per procurarsi la prevalenza presso i dispensatori di privilegi e di concessioni quali gli imperatori greci, i re di Cipro, i Sultani di Siria e d' Egitto, con tutti quei mezzi di tariffe, di dazi protettori, di noli di trasporto, di franchigie doganali e via di seguito che di solito  i frequentatori di questi  mercati mirano e lottano. 

«Rigogliose di giovinezza e di forze, nei primi anni della loro esistenza le due operose città avevano allargata la propria operosità in campi diversi e l'una dall'altra lontane.
Venezia, per le sue intime relazioni, con l'impero bizantino, ma anche per ragioni della sua stessa esistenza, si era volta all'Oriente.
Genova, invece, al Mediterraneo occidentale, dove anch'essa era legata da necessità storiche di difesa, contro i Saraceni di Frassineto, contro i Fatimiti d'Africa, contro i signori delle coste franco-catalane e più tardi dalla gelosia contro Pisa  per i possessi della Sardegna e della Corsica. 

Appena qualche nave di privati armatori nell' XI secolo osava arrivare fino al porto di Giaffa e solo qualche ardito mercante recarsi nelle terre del Calvario. 
« Accesosi il sacro ardore delle crociate ed apertasi la via a paesi molto più estesi ed a scali di mercanzie più preziose e rimuneratrici, anche il commercio genovese mutò direzione e si volse verso i mari di levante dove fatalmente doveva prima incontrarsi e poi - come abbiamo visto sopra- scontrarsi con Venezia. 
Quelle spedizioni che sotto l'egida della Croce dovevano unire in una fraterna unione i vari popoli cristiani per il glorioso riscatto del Santo Sepolcro, finivano così con l'offrire occasione e materia a violente rivalità destinate a tener ostilmente divise per circa tre secoli le due repubbliche marinare e a trascinarle ad una lotta da cui entrambe uscirono affrante e indebolite in modo da risentirne per tutta la rimanente vita le conseguenze: tristi e immediate per Genova per il suo stato di interna instabilità e debolezza; più tarde e più lievi per Venezia dove il tranquillo e ordinato ordinamento dogale e inedite contingenze politiche, procacciandosi nuovi domini poterono in qualche maniera nasconderle e temperarle quelle conseguenze; ma molto più tardi, purtroppo non riuscì ad evitarle ». (Battistelli)

Terminata o quasi le dispute nel nord Italia, nello stesso anno sono già in gestazione quelle al Centro e al Sud d'Italia. E' il periodo di papa... 
URBANO VI, del Regno di Napoli  e nuovamente dei Visconti nel settentrione.

Passiamo infatti al periodo che va dal 1380 al 1395 > > >


Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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