ANNI 1380 - 1395

PAPA URBANO VI  E IL REGNO DI NAPOLI
IL DOMINIO DI GIAN GALEAZZO VISCONTI

URBANO VI, SCOMUNICA GIOVANNA DI NAPOLI - SPEDIZIONE DI CARLO DI DURAZZO NEL REAME DI NAPOLI - RESA DELLA REGINA GIOVANNA: SUA PRIGIONIA E MORTE. - DISCESA DI LUIGI D'ANGIÒ IN ITALIA - MORTE DI AMEDEO VI DI SAVOIA - ENGUERRANDO DE COUCY IN TOSCANA - MORTE DI LUIGI D'ANGIÒ - NAPOLI E L'INTERDETTO - ASSEDIO DI NOCERA - SCONTRO DI LADISLAO E LUIGI II PER NAPOLI - MORTE DI URBANO VI - PRIGIONIA E MORTE DI BERNABÒ VISCONTI - GIAN GALEAZZO UNICO SIGNORE DI MILANO - CARRARESI E SCALIGERI: BATTAGLIA DELLE BRENTELLE E DI CASTAGNARO- GIAN GALEAZZO A VERONA E VICENZA - LEGA CONTRO I CARRARESI - DOMINI DEI CARRARESI DIVISI TRA VENEZIA E GIAN GALEAZZO - II CONTE ROSSO ACQUISTA NIZZA - GUERRA TRA FIRENZE E I VISCONTI - NOVELLO A PADOVA.- SCONFITTA DEL CONTE D'ARMAGNAC - LA RITIRATA DI GIOVANNI ACUTO - PACE DI GENOVA DEL 1392 - GIACOMO D'APPIANO SIGNORE DI PISA - GIAN GALEAZZO DUCA DI MILANO

PAPA URBANO VI

Urbano VI non aveva dimenticato che la regina Giovanna aveva ospitato in Napoli Clemente VII e lo aveva riconosciuto come papa legittimo, e meditava di punire questa sovrana che, vassalla della Chiesa, aveva osato schierarsi contro il vero capo di essa. Il 21 aprile del 1380, mentre era in corso la guerra di Chioggia, il Pontefice, dichiarata Giovanna I scismatica ed eretica, la deponeva dal trono, scioglieva i sudditi di lei dal giuramento di fedeltà e le bandiva contro la crociata. 
Urbano VI però sapeva che a nulla valevano le armi spirituali e non potendo muovere direttamente contro Napoli per la situazione in cui lo stato pontificio si trovava dopo la rivolta, tentò di spingere contro la regina un potente nemico. Era questi Carlo di Durazzo, ultimo dei discendenti di Carlo d'Angiò, educato nella corte di re Luigi d'Ungheria all'odio contro Giovanna I, giovane audace ed ambizioso, cui non pareva vero di cingere la corona di quel regno alla quale aveva diritto. 

Il Papa riuscì nel suo intento, agevolato dalla stessa regina di Napoli, che il 29 giugno del 1380, per procurarsi un valido aiuto contro la Santa Sede e il nipote, adottò come suo successore il duca Luigi d'Angiò, fratello del re Carlo V di Francia, invitandolo a scendere in Italia e facendo confermare l'adozione da Clemente VII. 
Carlo di Durazzo si trovava allora presso Treviso con un esercito di Ungheresi. Invitato dai fuorusciti fiorentini ad aiutarli a rientrare in Firenze, mandò a Bologna con un mezzo migliaia di lance un suo capitano, Giovannuzzo da Salerno, il quale, assoldata la Compagnia di San Giorgio di Alberico da Barbiano, passò in Toscana, poi,  egli stesso, nell'agosto, con un corpo di cinquemila Ungheresi andò a Rimini e  raggiunse le milizie che lo avevano preceduto, riuscendo ad insignorirsi di Arezzo (14 settembre) e suscitando col suo contegno minaccioso gravi preoccupazioni nei Fiorentini, i quali poterono, sia con la presenza dell'Acuto al loro soldo, sia con un donativo di quarantamila fiorini d'oro (7 ottobre) distoglierlo dal proposito di aiutare i fuorusciti.

Lasciata la Toscana, Carlo di Durazzo si pose in cammino alla volta di Roma, dove, vi giunse nel novembre. Il Papa gli fece lietissime accoglienze, lo creò senatore e gonfaloniere della Chiesa e si fece promettere che al proprio nipote Francesco Frignano, detto Butillo, avrebbe concesso i feudi di Capua, Amalfi, Nocera ed altre terre dal Napoletano. 

Carlo si trattenne a Roma circa sette mesi e solo nei primi di giugno del 1381 si decise a marciare verso il reame di Napoli, approfittando della morte di Carlo V di Francia, che tratteneva oltre le Alpi Luigi d'Angiò rimasto tutore del dodicenne nipote Carlo VI. L'impresa a cui s'era accinto non presentava gravi difficoltà: gran parte della popolazione parteggiava per lui; le casse dell'erario esauste non permettevano alla regina di assoldar mercenari e la difesa del regno era affidata a poche truppe sotto il comando del quarto marito di Giovanna, Ottone di Brunswich, che non poteva costituire un serio  ostacolo.  

Ottone tentò di sbarrare il passo al nemico a San Germano, ma non vi riuscì e fu costretto a ritirarsi ad Aversa, donde sperava di poter coprire la capitale; invece Carlo di Durazzo, per altra via, senza adoperare le armi, il 16 luglio entrò in Napoli.
Giovanna I, all'avvicinarsi del nemico, si era chiusa in Castel dell' Ovo e qui rimase assediata per oltre un mese sperando di esser liberata dal marito. Il quale tentò il 24 agosto di scacciare da Napoli l'usurpatore, ma non ebbe fortuna: le sue truppe vennero sbaragliate, il marchese del Monferrato, suo pupillo, che gli combatteva al fianco, ucciso ed egli stesso fatto prigioniero. Quel giorno medesimo la regina capitolò e fu mandata nel castello di Muro in Basilicata; Carlo di Durazzo, rimasto padrone del reame, fece venire in Napoli i figli e la moglie Margherita. 
Ma i successi di Carlo di Durazzo non lasciarono indifferente Luigi d'Angiò. Stimolato da Clemente VII, che gli fornì denari, lo nominò capitano della Chiesa e al principio del 1382 lo incoronò ad Avignone re di Napoli. Si preparò a scacciare il rivale dal reame e cominciò col sottomettere al suo dominio i possessi angioini della Provenza, mentre il Durazzese, avuta notizia della spedizione che si stava approntando in Francia, nel maggio di quell'anno, faceva assassinare la regina Giovanna.
 
Luigi d'Angiò passò le Alpi alla testa d'un esercito che alcuni fanno ascendere a quarantamila cavalieri. In Piemonte si unì a lui Amedeo VI di Savoia, partigiano dell'antipapa, che aveva accresciuti i suoi domini con i territori di San Germano, Santhià e Biella, ed ora veniva in possesso di Cuneo e riceveva da Luigi la cessione dei suoi di-ritti sulle terre angioine di qua dalle Alpi. In Lombardia ebbe aiuti e libero passaggio da Bernabò Visconti che con lui aveva iniziato trattative per combinare un matrimonio tra la figlia Lucia e Luigi Il, figlio del duca. Di là l’Angioino proseguì per le Romagne e le Marche e il 13 luglio del 1382 entrò in Aquila, dove vennero a fargli atto d’omaggio i rappresentanti di alcune nobili famiglie del reame napoletano quali quelle dei Sanseverino e dei conti di Tricarico, di Matera, di Conversano e di Caserta.
Carlo di Durazzo, che, avendo al suo soldo le compagnie di Alberico da Barbiano e dell’Acuto, disponeva di circa quattordicimila cavalieri,, coi quali era in grado di contendere tendere il passo al rivale, anziché decidere le sorti del suo regno con una battaglia campale stabilì di difendere le terre fortificate e di lasciar che il clima, le malattie, la penuria delle vettovaglie e il tempo decimassero e stancassero il nemico. Così Luigi riuscì senza gravi difficoltà a spingersi nella Terra di Lavoro e nelle Puglie, ma vide a poco a poco il suo esercito logorato da una noiosa guerriglia, da sfibranti assedi di piccoli castelli e da un’epidemia che doveva troncar la vita ad uno dei suoi più illustri sostenitori: il Conte Verde.

Amedeo VI morì a Santo Stefano di Puglia nel marzo del 1383. Aveva soli quarantanove anni; godeva meritata fama di uomo serio e generoso; prode nelle armi, aveva con successo combattuto contro i Turchi, contro i Bulgari e i Visconti; dotato di larghe vedute, aveva opportunamente abbandonato le mire sui territori transalpini dedicando la sua attività a ingrandire i suoi domini in Piemonte e dando così un chiaro indirizzo alla politica della sua Casa; pur rivolgendo i suoi maggiori sforzi ad estendere i suoi possessi, si era curato di difendere il trono dei Paleologhi suoi congiunti e di metter pace tra Genova e Venezia ed ora seguiva Luigi d’Angiò in una  impresa che poteva procurargli vantaggi e sognava pure nelle arse terre di Puglia, fare poi una spedizione in Terrasanta, quando l’epidemia che mieteva numerose vittime nell’esercito angioino venne a troncargli la vita.. La sua salma fu portata in Savoia e sepolta con pompa nel mausoleo di famiglia dell’Abbazia di Altacomba.

Morto il Conte Verde, le schiere ch’egli aveva condotte nell’ Italia meridionale se ne tornarono in Piemonte e Luigi d’Angiò si vide costretto a rivolgersi per aiuti al nipote CARLO VI di Francia che fece allestire un esercito mettendolo sotto il comando del famoso condottiero ENGUERRANDO di COUCY. Questi mosse verso l'Italia l’anno dopo. Nel settembre del 1384, giunto in Toscana, penetrò a viva forza ad Arezzo che si era data come si è visto a Carlo di Durazzo, e si disponeva a scendere verso il reame di Napoli quando gli giunse la notizia che LUIGI d’ANGIÒ era morto a Bisceglie, presso Bari. Allora Enguerrando vendette Arezzo a Firenze e se ne ritornò in Francia.

La morte del suo rivale rialzò le sorti di Carlo di Durazzo; ma già da un anno un altro nemico si era levato contro di lui: lo stesso Pontefice. URBANO VI non era per nulla contento di Carlo perchè indugiava a dare a Francesco PRIGNANO i territori promessi, e nella primavera del 1383 era, partito da Roma alla volta di Napoli e, irritato di essere stato guardato a vista dai soldati del sovrano, approfittando dell’assenza di Carlo, recatosi in Puglia, si era trasferito al castello di Nocera, che dal re a quel tempo era stato finalmente ceduto al nipote del Pontefice.

Dopo la morte di Luigi d’Angiò i rapporti tra Urbano e Carlo divennero ancor più tesi: si narra che, invitato a stabilirsi a Napoli, il Papa rispondesse "non dovere i Pontefici recarsi alla corte dei re, ma semmai questi dovevano ad inginocchiarsi ai piedi dei Papi".
 Urbano VI rimase a Nocera, sospettoso della condotta del sovrano e dei suoi stessi cardinali. Egli temeva che Carlo avesse segrete pratiche con alcuni suoi cardinali per abbatterlo. Ne ebbe la certezza nel gennaio del 1385 quando, ne fece arrestare sei, e ottenne con la tortura da uno di essi la confessione della congiura. Allora scomunicò Carlo, la regina Margherita e i figli, che dichiarò decaduti dal trono, e lanciò l’interdetto su Napoli.

Per tutta risposta Carlo di Durazzo proibì che si osservasse l' interdetto e mandò ALBERICO da BARBIANO, che aveva creato gran contestabile del regno, ad assediare il papa a Nocera. Ogni giorno secondo quello che narrano le cronache del tempo il Pontefice si affacciava tre o quattro volte ad una finestra del castello e anche al lume di un cero al suono d’una campanella scomunicava gli assedianti, che aspettavano di fargli la festa visto che sul suo capo era stata  messo una taglia di diecimila fiorini d’oro.

Sei mesi durò l’assedio e quando la città fu presa, Urbano VI continuò a resistere nel castello. A liberarlo andarono REMONDELLO ORSINI e TOMMASO di SANSEVERINO, fautori del defunto Luigi d’Angiò ed ora, in odio a Carlo, erano diventati partigiani del Papa. I due con tremila cavalieri, e avanzi dell’esercito angioino, diedero l’assalto agli assedianti e li costrinsero ad allontanarsi da Nocera, poi fecero uscire il Pontefice, che a sua volta condusse con sé i sei cardinali prigionieri suoi però. Urbano VI, non fidandosi delle schiere francesi che lo avevano liberato, le licenziò; trattenne solo un certo numero di mercenari italiani e tedeschi con la scorta e con questa andò a Benevento; di là passò nella Puglia ed essendo su queste coste giunte dieci galee genovesi mandategli dal doge Antoniotto Adorno, fece vela per Messina e poi per Corneto e infine per Genova dove giunse il 23 settembre del 1385 e dimorò fino al dicembre dell’anno seguente. Durante il suo soggiorno genovese cinque dei cardinali prigionieri, avendo tentato la fuga, furono messi a morte; il sesto, salvatosi per intercessione del re d’Inghilterra, passò ad Avignone presso l’antipapa.

Mentre Urbano VI sbarcava a Genova, Carlo di Durazzo, lasciato il governo alla moglie Margherita, si imbarcava a Manfredonia diretto in Ungheria. Qui, l'11 settembre del 1382, dopo quarant’anni di regno era morto il re Luigi e la corona era stata data alla giovane figlia Maria sotto la tutela della madre Elisabetta; ma, essendo il governo di queste due donne divenuto odioso, era stato chiamato Carlo di Durazzo, che in Ungheria godeva molto favore per esservi cresciuto e per aver più volte capitanati gli eserciti del regno.

Giunto in Ungheria, Carlo fu riunita una dieta ad Albareale, e proclamato re. Le due regine finsero di rassegnarsi alla volontà della nazione, ma decisero di ricuperare il trono e di sopprimere colui che consideravano usurpatore. Il 7 febbraio dal 1386 Carlo, invitato dalle due donne, si recò senza sospettare di nulla nel loro palazzo, dove fu assalito da alcuni sicari e gravemente ferito. Condotto in una prigione di Visgrado, morì avvelenato quattro mesi dopo, il 3 giugno del 1386.

Carlo di Durazzo lasciava due figli: Giovanna e Ladislao. Quest’ultimo fu proclamato re e, poiché era appena decenne, fu messo sotto la reggenza della madre Margherita. Ma questa non era dotata di quell’energia che occorreva per governare saldamente un reame in cui forte era il partito del ramo angioino di Francia; molti i malcontenti, non pochi quelli che desideravano un rivolgimento politico per poter pescare nel torbido. All’ordine subentrò l’anarchia; Napoli elesse magistrati propri (Consiglio degli Otto del buon governo) che subito vennero a conflitto con l’autorità regia. 
Il partito angioino, capitanato da Tommaso di Sanseverino ed Ottone di Brunswich, proclamò re LUIGI II d’ANGIÒ, figlio del morto duca, sotto la reggenza della madre Maria; la capitale venne occupata nel 1387 dai fiancheggiatori degli Angioini e la regina Margherita, che con i suoi familiari si era chiusa dentro Castel dell’ Ovo, fu costretta a riparare a Gaeta.

Urbano VI aveva lasciato Genova nel dicembre del 1386 ed era andato a Lucca. Non si era pronunciato in favore di nessuno dei due competitori e voleva trarre profitto dall’anarchia del reame di Napoli, in cui due re fanciulli sotto la reggenza di due donne si facevano la guerra; che gli era utile, questo avrebbe permesso di dare la corona a suo nipote FRANCESCO PRIGNANO. 
Per nove mesi Urbano VI si trattenne a Lucca, poi quando seppe che Francesco da Vico era stato ucciso dai Viterbesi, i quali erano tornati all’obbedienza della Chiesa, andò a Perugia, che, dilaniata dalle lotte delle fazioni dei RASPANTI e dei MICHELOTTI, anche questa città si diede al Pontefice.

Tutto invaso dall’idea di impadronirsi del reame di Napoli, Urbano credeva di potere sfruttare per i suoi disegni l’anormale situazione della Sicilia. FEDERICO III era morto fin dal 1377, lasciando sul trono la figlia MARIA sotto la reggenza di ARTALO d’ARAGONA; ma questa era rimasta nell’isola solo cinque anni: andato a monte, per opera del re Pietro IV d’Aragona il matrimonio che era stato progettato tra lei a GALEAZZO VISCONTI; la donna era stata condotta in Sardegna e di là in Catalogna, dove, nel 1390, doveva sposare Martino II. 
La Sicilia era rimasta in balia dei suoi baroni. Il Pontefice la reclamò come feudo della Chiesa, ma poi mitigò le sue pretese -anche perché non poteva pretender nulla con la forza, non avendola- e si limitò a chiedere aiuti ai feudatari per la sua impresa nel Napoletano.

Nell’agosto del 1388 Urbano VI si mosse da Perugia alla testa di quattromila lance; ma la spedizione fu troncata già sul principio da un grave accidente occorsogli: a Narni per una caduta da cavallo si ruppe una gamba e dovette abbandonare l’impresa e tornare a Roma dove giunse nel principio dell’ottobre. Qui tolse il governo ai banderesi
e ristabilì la sua autorità. In compenso della sottratta libertà, il Pontefice promise ai Romani che il Giubileo, anzichè nel 1400, sarebbe stato celebrato dieci anni prima, cioè nel 1390; ma egli non riuscì a vederlo: morì il 15 ottobre del 1389. 

La morte di Urbano VI non fece cessare lo scisma; anzi subito i cardinali si affrettarono a dargli un successore nella persona del napoletano Pietro Tomacelli che prese il nome di BONIFACIO IX, il quale — poiché il suo antagonista Clemente VII proteggeva Luigi Il — si dichiarò senza indugio per Venceslao che nel 1390 mandò ad incoronare a Gaeta.

MORTE DI BERNABÒ VISCONTI
SIGNORIA DI GIAN GALEAZZO
FINE DEL DOMINIO DEGLI SCALIGERI 
VICENDE DEI CARRARESI 
GUERRA TRA FIRENZE E I VISCONTI


 Nell’ottobre del 1375 moriva a Verona CONSIGNORIO della SCALA, lasciando la signoria ai suoi due figli naturali Antonio e Bartolomeo. Bernabò Visconti, che aveva in moglie Beatrice Regina, sorella di Cansignorio, bramoso di accrescere i suoi domini, dichiarò che la successione spettava a Beatrice e nella primavera del 1378, approfittando, della guerra di Chioggia che teneva impegnato Francesco da Carrara, assalì gli Scaligeri ma non potendoli abbattere si contentò di far assegnare alla moglie un’annua pensione, riconoscendo in cambio Antonio e Bartolomeo signori di Verona e Vicenza. 

Nello stesso anno 1378 (4 agosto) cessava di vivere a Pavia il fratello di BERNABÒ, Galeazzo II, il quale lasciava un figlio, GIAN GALEAZZO, in età di venticinque anni e fin dal 1372 vedovo di Isabella di Valois. Forse fin dalla morte del fratello l’avido Bernabò accarezzò il disegno di venire in possesso dei domini del nipote. Per meglio riuscirvi, il 15 ottobre del 1380 diede in moglie a Gian Galeazzo la propria figlia Caterina e l’anno dopo fece sposare il figlio Ludovico a Violante, sorella del nipote, già vedova di Lionello di Clarence e del marchese Secondotto di Monferrato. 
Le mire dello zio non erano ignote a Gian Galeazzo, il quale, essendo ambiziosissimo, meditava a sua volta di spodestare Bernabò e, per riuscire nei suoi disegni, con raffinata astuzia, si fingeva timido, debole e tutto dedito alle pratiche religiose. Nello stesso tempo però si curava di cattivarsi le simpatie dei sudditi governandoli con mitezza, mentre lo zio con la sua efferatezza si rendeva sempre più odioso. 

Il suo disegno, a lungo e con grande accortezza preparato, fu messo in attuazione nel maggio del 1385. Gian Galeazzo mandò a dire a Bernabò che voleva recarsi in pellegrinaggio alla Madonna del Monte, presso Varese, che durante il viaggio si sarebbe fermato al suo castello di Porta Giovia a Milano e che in quell’occasione avrebbe avuto piacere di veder lo zio. Il 5 maggio parti da Pavia con una scorta di cinquecento armati e andò a pernottare a Binasco. Quel forte drappello di soldati fece sospettare a qualcuno che il viaggio di Gian Galeazzo avesse tutt’altro scopo che la visita a un santuario. Bernabò ne fu avvertito, ma non se ne curò più di tanto, sicuro che il nipote solo per paura si facesse accompagnare da una schiera tanto numerosa di soldati; anzi gli mandò incontro i figli Ludovico e Rodolfo, che la mattina del 6 maggio si unirono al cognato accompagnandolo verso Milano. Sul mezzodì, presso porta Ticinese, Gian Galeazzo vide venirgli incontro Bernabò, che, non sospettando di nulla, salutò con simulata cordialità il genero e nipote; ma subito dopo, a, un cenno del signore di Pavia, Bernabò e i figli furono circondati, presi, disarmati e chiusi nel castello di porta Giovia. 

I Milanesi, che mal sopportavano la tirannide di Bernabò, accolsero lietamente Gian Galeazzo; le città della Lombardia si affrettarono a riconoscerlo come signore e gli altri figli dello spodestato tiranno, che erano riusciti a fuggire da Milano e si erano barricati in alcuni loro castelli, furono costretti a lasciarli e darsi alla fuga.

 Per dar parvenza di legalità al suo atto infame Gian Galeazzo istituì un processo contro Bernabò accusandolo di numerosi delitti, poi lo fece chiudere nel castello di Trezzo, dove il 13 dicembre morì di veleno. In quel medesimo castello più tardi cessarono di vivere Ludovico e Rodolfo.

Scrive l’Orsi — « tutti i domini dei Visconti si trovarono raccolti sotto il governo di Gian Galeazzo; principe anche lui crudele e senza scrupoli ma non per il semplice gusto del sangue, come lo zio, ma  per meditate arti di governo, ogni qualvolta stimasse che lo spargimento di sangue potesse tornargli di qualche utilità. Del resto desideroso di introdurre miglioramenti nei suoi stati, di promuovervi commerci ed industrie, di farvi progredire l’agricoltura, lasciò il suo nome unito alla costruzione di quel Naviglio, che rappresenta una della grandi ricchezze della Lombardia; mentre d’altra parte facendosi splendido interprete del sentimento popolare dei Milanesi gettava le fondamenta di quel meraviglioso Duomo, monumento insigne della grandezza dello stato e del senso artistico dei tempi (1386) ». 

Ma l’unificazione dei domini viscontei sotto il suo scettro non era lo scopo ultimo della politica di Gian Galeazzo. Egli guardava al Piemonte, guardava alla Toscana e guardava specialmente ad Oriente, ai possessi cioè degli Scaligeri. Da questo lato egli non faceva che riprendere la politica di Bernabò e dei suoi predecessori, e sorvegliava la situazione degli stati vicini che era delicatissima, e c'erano tanti validi motivi per intervenire. C’era Venezia che odiava i CARRARESI; i rapporti di questi ultimi con gli SCALIGERI erano tesi da quando (1381) Antonio della Scala aveva fatto assassinare il fratello Bartolomeo; da ultimo Francesco da Carrara era in lotta con Udine che non voleva riconoscere FILIPPO d’ALENCON come amministratore del patriarcato d’Aquileia. 

La conseguenza di questa situazione non poteva essere che una guerra e questa scoppiò nel 1386 tra il Carrarese da una parte e gli Scaligeri ed Udine, eccitati e sussidiati dai Veneziani dall'altra:
Il 5 aprile di quell’anno Antonio della Scala fece invadere il territorio padovano da un esercito comandato da CORTESIA SAREGO. Contro costui Francesco da Carrara mandò numerose milizie comandate da GIOVANNI d’AZZO degli Ubaldini. Si combatté il 25 giugno alle Brentelle e gli Scaligeri vennero rovinosamente sconfitti lasciando morti sul terreno ottocento uomini e nelle mani dei vincitori ottomila soldati compreso il Sarego. 

Nel 1387 la guerra fu continuata con maggiori forze dall’una parte e dall’altra. Le milizie degli Scaligeri erano comandate da Giovanni degli ORDELAFFI e da OSTASIO da POLENTA, quelle dei Carraresi da GIOVANNI ACUTO e da FRANCESCO NOVELLO, figlio del signore di Padova. 
Una grande battaglia ebbe luogo 1' 11 marzo a Castagnaro di Castelbaldo e gli Scaligeri vennero una seconda volta sconfitti lasciando prigionieri quattromilaseicento uomini e gli stessi capitani. 
Malgrado i successi dei Carraresi la guerra non accennava a finire anche perché Venezia continuava a fornire aiuti finanziari ad Antonio della Scala. Ma era certo che se un terzo belligerante si fosse schierato in favore di uno dei due contendenti quest’ultimo avrebbe avuto il sopravvento. 
Gian Galeazzo, che aspettava il momento opportuno di sfruttare questa guerra, intervenne in favore del Carrarese. Insieme a lui avrebbe facilmente abbattuto lo Scaligero; in seguito avrebbe potuto dar la mano ai Veneziani per debellare Francesco da Carrara. 

Col signore di Padova stipulò un trattato di alleanza il 19 aprile del 1387. Secondo i patti il Visconti, a guerra finita, avrebbe avuto Verona, il da Carrara Vicenza. Contro due nemici così potenti lo Scaligero non poteva sperare di resistere a lungo. Alla sua debolezza si aggiunsero gli intrighi di alcuni Veronesi, i quali all’avvicinarsi dell’esercito visconteo provocarono un tumulto popolare. Antonio della Scala si chiuse nel Castello, poi, imbarcatosi sull’Adige, fuggì con tutta la famiglia a Venezia. Verona aprì le porte, il 18 ottobre, al Visconti, che si impadronì in breve anche del resto del territorio; Vicenza seguì le sorti di Verona: si diede cioè a Gian Galeazzo, il quale, invece di farla occupare in nome del Carrarese, la tenne per sè, accampando diritti quale marito di Caterina, che era figlia di Beatrice della Scala. 

Così, dopo centoventotto anni di dominio, la casa degli Scaligeri perdeva tutti i suoi possedimenti. Francesco da Carrara, impegnato com’era nella guerra contro Udine, stimò prudente reprimere il suo sdegno per la violazione dei patti, anzi cercò di pacificarsi con Venezia, chiedendo la mediazione del marchese d’Este. 
Ma i suoi tentativi non riuscirono per l'intervento di Gian Galeazzo, il quale il 29 marzo del 1388 si alleò coi Veneziani contro il Carrarese alla condizione che Treviso e il suo territorio andassero alla repubblica, e Padova al signore di Milano. A quest’alleanza aderirono Udine, il marchese ALBERTO d’ESTE, succeduto al fratello Niccolò Il, e FRANCESCO GONZAGA che nel 1382 era successo al padre Luigi Il nella signoria di Mantova.

Di fronte a una tale coalizione, il vecchio Francesco da Carrara cercò l’aiuto del duca d’Austria e del duca di Baviera, i quali glielo promisero l'aiuto a patto che lui sostenesse le spese di guerra. Fu una promessa fuori luogo, dopo tante lotte le casse del Carrarese erano vuote. Pensò allora di disarmare i suoi nemici cedendo la signoria di Padova al figlio Francesco Novello e riservandosi solo quella di Treviso. 
La cessione ebbe luogo il 29 giugno del 1388, ma la guerra continuò: favorite dalle popolazioni del contado, le milizie veneziane avanzarono lungo la Brenta e l’Adige e quelle viscontee, capitanate da GIACOMO Dal VERME, entrarono nel territorio padovano. 
Impotente a resistere, anche per gli umori dei Padovani che temevano le vendette del nemico, Francesco Novello accettò il consigliò che da più parti gli veniva dato, quello di affidarsi alla generosità del Visconti. Il 13 novembre, mandata la famiglia a Ferrara ed ottenuto un salvacondotto da Giacomo Dal Verme, cedette a quest’ultimo Padova e andò a mettersi nelle mani di Gian Galeazzo che gli assegnò un castello dell’Astigiano ed una cospicua pensione. 
Anche il padre, non potendosi più sostenere a Treviso, imitò il figlio e ceduta la città ai Veneziani, si affidò al Visconti che lo mandò a Cremona. 

Dopo quella degli Scaligeri finiva così, a breve distanza di tempo, anche quella dei Carraresi, le cui proprietà, secondo i patti, andarono divise fra i vincitori. Venezia ebbe Treviso, Ceneda, Feltre, Belluno, Conegliano ed altre terre; gli Estensi tornarono in possesso di Este, e Padova entrò a far parte dello stato visconteo. 
Con la fine della signoria dei Della Scala e dei Da Carrara, i cui possessi erano quasi tutti passati in mano di Gian Galeazzo, questi diventava in Italia un signore potentissimo. Da nessuno aveva da temere; non dai Veneziani e dal duca d’Austria, non dallo Stato Pontificio quasi distrutto, non dall’inetto imperatore Vinceslao, non dal re di Francia, con quest’ultimo anzi era in eccellenti rapporti per le nozze che nel giugno del 1389 erano state celebrate a Milano tra Valentina, figlia di Gian Galeazzo, e Luigi d’Orléans, fratello di Carlo VI, che aveva ricevuto in dote quattrocentomila fiorini d’oro, la contea di Vertus in Francia e la città di Asti con le sue dipendenze. 
Nè aveva da temere molestie dalla parte del Piemonte, dal momento che il principe più forte di questa regione, AMEDEO VII di SAVOIA, detto il Conte Rosso, dopo una guerra con Federico di Saluzzo, aveva rivolto la sua attività nella Provenza dove nel 1388 acquistava per spontanea dedizione Nizza, ed ora in una sua contesa col marchese di Monferrato accettava la mediazione del Visconti, di cui era alleato (1389). 

Sicuro di non ricevere molestie dai suoi immediati vicini, Gian Galeazzo cominciò a rivolgere le sue mire alla Toscana. Ma qui doveva trovarsi di fronte alla repubblica di Firenze, la quale non poteva tollerare che il Visconti si mischiasse negli affari della Toscana. Si giunse perciò ad una guerra tra i Fiorentini e Gian Galeazzo, che scoppiò nel 1390. 
Il Visconti trovò alleati in Siena e in tutte le altre terre toscane nemiche di Firenze, negli Estensi, nei Gonzaga, nei Malatesta e nei signori di Urbino. I suoi principali condottieri erano Giacomo Dal Verme, Ugolotto Biancardi, Giovanni d’Azzo degli Ubaldini, Paolo Savelli, Galeazzo Porro e Facino Cane.
 i Fiorentini si allearono coi Bolognesi, presero al soldo Giovanni Acuto e Giovanni da Barbiano; sollevarono contro il loro nemico i figli di Antonio Della Scala, che era morto in Romagna nel 1388; Carlo figlio di Bernabò Visconti e Francesco Novello da Carrara. Questi, fuggito nel 1389 dall’Astigiano, dopo un avventuroso viaggio, aveva trovato asilo a Firenze e nella lotta contro il Visconti si era procurato l’aiuto del duca Stefano di Baviera, genero di Bernabò, e del conte Ottemburgo di Carinzia. 
Francesco Novello, animato da un terribile odio contro Gian Galeazzo, che aveva fatto chiudere il vecchio da Carrara nel castello di Como,  bramoso di ricuperare la Signoria perduta, nel giugno del 1390 mosse con soli seicento uomini dal Friuli e, ingrossata per via la sua schiera con gente raccolta nel Padovano, dove la popolazione era malcontenta del governo visconteo, si presentò il 18 di quel mese davanti a Padova e il giorno dopo, entrato arditamente in città e favorito dagli abitanti che si erano levati in armi, costrinse la guarnigione nemica a chiudersi in una fortezza.
 Di lì a qualche giorno Castelbaldo, Montagnana, Monselice, Pieve di Sacco, Bovolenta, Castel Carro, San Martino, Cittadella, Limina e Camposampiero alzarono la bandiera dei Carraresi. 

I Veronesi, avuta notizia che Padova era tornata in potere di Francesco Novello, insorsero contro il presidio visconteo che si chiuse nel castello (25 giugno); ma, privi d’un capo e non essendo concordi, — volevano alcuni dar la signoria a CANFRANCESCO figlio di Antonio della Scala, altri volevano istituire un governo repubblicano — diedero tempo ad Ugolotto Biancardi di piombare con un plotone di milizie sulla città e di domare sanguinosamente la rivolta.

Il Biancardi tentò subito dopo di riprendere Padova al Carrarese, ma gli riuscì solo a penetrare nel castello e a unirsi al presidio che vi stava chiuso. E intanto giungevano soccorsi a Francesco Novello: il 27 giugno seicento cavalli bavaresi, altri seimila il 1° luglio guidati dal duca STEFANO  di BAVIERA,  e duemila corazzieri il 5 agosto mandati dai Fiorentini. Assediato da forze tanto numerose, il castello si arrese il 17 agosto. 
Il 1390 si chiudeva con svantaggio del Visconti: aveva perso Padova; aveva con la sua ambizione allarmato Venezia che di nascosto aiutava il Carrarese ed apertamente ospitava Canfrancesco della Scala; aveva perduto uno dei suoi più valorosi condottieri, Giovanni d’Azzo degli Tibaldini, morto a Siena nel giugno, e infine, nell’ottobre, era stato abbandonato da Alberto d’Este, il quale, minacciato da Francesco Novello, si era pacificato con lui.

Più minaccioso per il Visconti fu poi il 1391. I collegati avevano dovuto congedare il duca di Baviera per il suo contegno sospetto, ma avevano sollecitato l’intervento di un amico ancor più potente: era questi il conte GIOVANNI d’ARMAGNAC, cognato di Carlo Visconti, figlio di Bernabò, che, essendosi i Fiorentini impegnati di rimborsargli le spese, aveva promesso di scendere in Italia nell’estate con un esercito di quindicimila cavalli e di assalire Gian Galeazzo dal Piemonte mentre Giovanni Acuto avrebbe attaccato dalla parte opposta. 

Il 15 maggio l’Acuto, alla testa di seimila e seicento cavalli, mille e duecento arcieri e parecchie migliaia di fanti, mosse da Padova e per il territorio di Vicenza entrò in quello di Brescia. Verso la fine di giugno si trovava alle rive dell’Adda ed aspettava, per muovere contro Milano, l’arrivo del conte d’Armagnac. Questi giunse nei primi di luglio nel territorio di Alessandria, presidiata da seimila cavalli e quattromila fanti sotto il comando di Giacomo Dal Verme, e invece di evitare il nemico, com’era stato stabilito, e di operar la congiunzione con l’Acuto, il 25 di quel mese, lasciato il grosso a quattro miglia dalla città, con un corpo dei suoi migliori cavalieri andò a sfidare il Dal Verme. 
Questi accettò battaglia e dopo avere assalito con un'abile manovra da due parti i Francesi, li sconfisse totalmente dopo due ore di durissimo combattimento. Lo stesso conte d’Armagnac ebbe gravi ferite da morirne pochi giorni dopo. Imbaldanzito dal primo successo Giacomo Dal Verme andò ad attaccare il grosso ed anche contro di esso riportò vittoria. Molti furono fatti a pezzi, i superstiti si arresero e, disarmati, furono rimandati in Francia. 

La disfatta del conte d’Armagnac non solo troncava l’offensiva dei collegati, ma metteva in serio pericolo l’Acuto, che non avendo forze sufficienti per opporsi all’esercito visconteo, guidato dal Dal Verme, era costretto a ritirarsi. E difficilissima era la ritirata con tre fiumi alle spalle da attraversare sotto l’incalzare dei nemico vittorioso che non dava tregua. Tuttavia l’Acuto la eseguì con tanta abilità da meravigliare i contemporanei e confermare la fama che aveva di grande capitano. 
Dalla Ghiara d’Adda si portò prima a Paterno, nel Cremonese; qui, fingendo paura si trincerò nel suo campo e vi rimase chiuso quattro giorni senza rispondere agli insulti dei drappelli nemici che andavano a provocarlo fin sotto gli steccati; ma il quinto giorno quando giunse presso il campo nemico un grande reparto di milizie viscontee, l’Acuto sortì fuori all'improvviso e di sorpresa piombò su di esso - che non era pronto a combattere-  lo sbaragliò e catturò più di milleduecento cavalli.
 
Questo insuccesso rese più cauti i nemici e Giovanni Acuto riuscì a ripartire e indisturbato passare il Mincio; ma, giunto all’Adige, si vide da tre parti circondato dalle acque, con le quali i nemici, rotti gli argini del fiume, avevano inondata la campagna. Giacomo Dal Verme era così certo di far prigioniero tutto l’esercito nemico che chiese a Gian Galeazzo che patti avrebbe fatto con i nemici. E per farsi beffe dell’Acuto gli mandò una gabbia con una volpe dentro. 
A quanto si narra, il celebre condottiero fece rispondere che la volpe non dà mai segni di sconforto perché sa sempre da quale porta deve uscire. E l’Acuto di certo non era uomo da lasciarsi prendere in trappola. Lasciate ritte le tende e piantati gli stendardi sull’altura dove si era accampato, nottetempo si mise con l’esercito dentro la campagna allagata e procedendo nella notte attraverso l’acqua e la melma, giunse, fino a Castelbaido, poi raggiunse Padova, e infine si avviò alla volta di Firenze.

 Giacono Dal Verme, vistosi sfuggire l’Acuto, cercò di giungere prima di lui in Toscana. Traversato il Po e il Piacentino, scese per gli Appennini in Vai di Magra e attraverso le campagne di Lucca, Pisa e Volterra avanzò fino a Siena. 
Ma l’Acuto, unite le sue milizie con quelle di Giovanni da Barbiano e di Luigi di Capua, condottieri dei Fiorentini, sorvegliò così bene da vicino i nemici da impedir loro di saccheggiar le campagne e si fece tanto minaccioso che il comandante dell’esercito visconteo, temendo di esser accerchiato, traversata la Val d’Elsa, il Pistoiese e la Valdinievole, se ne tornò precipitosamente in Lombardia. 

A far cessare la guerra si erano adoperati i governi degli stati vicini; ma nessuno era riuscito a metter pace; riuscì ad ANTONIOTTO ADORNO, doge della repubblica genovese, che, riuniti a Genova i plenipotenziari dei belligeranti, fece concludere il 28 gennaio del 1392 la pace nella quale furono compresi da una parte i Fiorentini, il Carra rese, i Bolognesi e il marchese d’ Este, dall’altra il Visconti, Siena e il Gonzaga. Francesco Novello rimase padrone di Padova e del suo territorio, tranne Bassano, e si obbligò a pagare al signore di Milano cinquecentomila fiorini in cinquant’anni; gli altri si impegnarono a restituirsi reciprocamente le terre occupate durante la guerra; Gian Galeazzo e i Fiorentini promisero di non ingerirsi negli affari di Toscana l’uno, in quelli della Lombardia gli altri. La pace di Genova se poneva fine alle operazioni guerresche lasciava dietro di sé strascichi di odio, preoccupazioni, sospetti, propositi di vendette. Francesco Novello, non sentendosi tranquillo, si riconciliò con Venezia sotto la cui protezione si mise, poi cercò di riscattare il padre, ma erano ancora in corso le trattative quando il vecchio Carrarese morì (6 ottobre 1393).
Francesco Gonzaga che era stato alleato di Gian Galeazzo, inimicatosi con lui per oscuri motivi familiari, costituì a Mantova, 1’ 8 settembre del 1392 una lega di stati che aveva lo scopo di difendersi dalle mire ambiziose del Visconti.
Ad essa aderirono Firenze, Bologna, Padova, Ferrara, Ravenna, Faenza ed Imola. 

A sua volta Gian Galeazzo non tralasciava di sorvegliare gli stati vicini e di mescolarsi nelle loro faccende per trarne profitto. Oggetto delle sue mire era sempre  la Toscana e a Pisa trovò chi lo iniziò ad aiutarlo nei suoi disegni. Vedendo malvolentieri che Pietro Gambacorti godeva l’amicizia di Firenze, il Visconti gli suscitò contro Jacopo d’Appiano in cui il Gambacorti riponeva tutta la sua fiducia. 
Procacciatisi molti aderenti, l’Appiano il 21 ottobre del 1329 assalì Pietro Gambacorti, che rimase ucciso; e i suoi figli fatti prigionieri furono pochi giorni dopo avvelenati, poi il traditore il 25 di quello stesso mese si fece proclamare signore di Pisa. 
L’anno seguente, essendo morto il marchese Alberto d’Este, Gian Galeazzo suscitò contro il successore il non ancora decenne Niccolò III, un suo parente, AZZO, provocando in quel marchesato una lunga e travagliata guerra civile. 
Non pago di aver messa Pisa nella sua sfera d’influenza e di aver suscitato un nemico contro il figlio di quel marchese che nel 1389 lo aveva abbandonato, Gian Galeazzo cercò di vendicarsi di Francesco Gonzaga facendo deviare il corso del Mincio da Mantova, ma una violenta piena abbattè la diga che aveva fatto costruire con grandi spese. 
Il Gonzaga, più tardi, desideroso di abbattere il Visconti, propose alla lega di chiamare in Italia contro il signore di Milano l' imperatore Venceslao. Si opposero però gli alleati e più degli altri i Fiorentini. Venceslao, offeso di questo atteggiamento, ricevuti in dono da Gian Galeazzo centomila fiorini d’oro, eresse Milano da signoria a ducato, legittimando in tal modo la signoria viscontea. 
Gian Galeazzo vestì le insegne ducali il 5 settembre del 1395, celebrando la nuova dignità con splendide feste, alle quali assistettero gli ambasciatori di tutti gli stati d’Italia.
In quell’occasione egli condonò al Carrarese il tributo che gli spettava in virtù del trattato di Genova.

Dobbiamo ora fare un passo indietro: l'Italia all'inizio del XIV sec. 
e l'apogeo della potenza dei Visconti

cioè il periodo dal 1383 al 1402 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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