ANNI 1481 - 1492

LA GUERRA DI FERRARA - LORENZO IL MAGNIFICO
NAPOLI: LA CONGIURA DEI BARONI

ALLEANZA TRA SISTO IV E LA REPUBBLICA DI VENEZIA - GIROLAMO RIARIO ACQUISTA LA SIGNORIA DI FORLÌ - RELAZIONI TRA ERCOLE I DI FERRARA E I VENEZIANI - LA GUERRA DI FERRARA: LE ALLEANZE - VICENDE DELLA GUERRA: BATTAGLIA DI CAMPO PORTA - MORTE DI ROBERTO MALATESTA E FEDERICO D' URBINO - PACE TRA IL PONTEFICE E IL RE DI NAPOLI - VENEZIA CONTINUA LA GUERRA - PACE DI BAGNOLO - MORTE DI SISTO IV E L'OPERA SUA - TUMULTI ROMANI - LA CAPITOLAZIONE ELETTORALE DEL 1494 - ELEZIONE DI INNOCENZO VIII - GUERRA TRA FIRENZE E GENOVA - DISGUSTI TRA IL PONTEFICE E IL RE DI NAPOLI - RIVOLTA DI AQUILA - LA CONGIURA DEI BARONI NAPOLETANI - GUERRA TRA IL PAPA E FERDINANDO I - PACE DELL' 11 AGOSTO 1486 - I FIORENTINI OCCUPANO SARZANA - GENOVA TORNA SOTTO GLI SFORZA -GUERRA TRA VENEZIA E L'ARCIDUCA - VENEZIA E CIPRO; RITORNO IN PATRIA DELLA REGINA CORNARO - AMICIZIA TRA LORENZO DE' MEDICI E INNOCENZO VIII - UCCISIONE DI GIROLAMO RIARIO- ASSASSINIO DI GALEOTTO MANFREDI - APOGEO DELLA POTENZA DI LORENZO IL MAGNIFICO - LA POLITICA DELL'EQUILIBRIO - MORTE DI LORENZO DE' MEDICI

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LA GUERRA DI FERRARA 
 LA CONGIURA DEI BARONI NAPOLETANI 
 ULTIMI ANNI DI LORENZO IL MAGNIFICO

La pace del 1480 tra Lorenzo de' Medici e Ferdinando aveva prodotto - come si è detto - un vivissimo malcontento nel Pontefice e nei Veneziani. Questi ultimi, pur potendo con la loro flotta, che si trovava nelle vicinanze, impedire ai Turchi lo sbarco presso Otranto, non si erano mossi, animati com'erano da gelosia e da odio verso il re di Napoli, anzi qualcuno crede che siano stati proprio loro a indurre il sultano a questa spedizione; il Papa, invece, che temeva il Turco, aveva finito con l'adattarsi a quella pace e se n'era giovato per combattere gli Ottomani. Ma quando il pericolo fu allontanato, egli si lasciò nuovamente guidare dal desiderio di accrescere la potenza della sua famiglia e orientò maggiormente la sua politica verso Venezia con la quale nel maggio del 1480 aveva stretto alleanza. 

Istigatore di questa nuova politica papale era GIROLAMO RIARIO, che nel settembre del 1480, dopo la morte di PINO degli ORDELAFFI, si era impadronito di Forlì e ne aveva ricevuta l'investitura dal Pontefice. Con tale acquisto il Riario aveva considerevolmente accresciuto i suoi possedimenti; ma non era ancora contento ed aspirava al possesso di Ferrara. Per conseguire il suo scopo si recò a Venezia e, a nome del Papa, propose alla repubblica di muovere guerra agli Estensi.
Da tempo Venezia guardava di mal occhio ERCOLE I perchè sposo di ELEONORA, figlia del re di Napoli. 
Durante la guerra precedente Venezia aveva cercato di dissuadere i Fiorentini dall'assumere come comandante supremo il duca, che, come genero dell'Aragonese, non aveva interesse di procurare la vittoria ai nemici del suocero. I fatti avevano dato ragione ai Veneziani, e Firenze, disgustata dalla fiacchezza con la quale l' Estense aveva condotte le operazioni belliche, lo aveva alla fine licenziato. Venezia inoltre aveva altri motivi che la spingevano a non veder di buon occhio Ercole I: controversie per i confini e sui dazi delle merci, l' industria del sale che i Ferraresi, contro i patti stipulati con la vicina repubblica, avevano cominciato a raccogliere presso Comacchio; e infine era irritata per l'adesione che il duca aveva dato all'alleanza che recentemente era stata stretta tra Firenze, Napoli e Milano.

Per tutto quanto sopra i Veneziani, negoziatore il Riario, si accordarono con SISTO IV per un'azione contro Ercole e venne stabilito che, cacciati gli Estensi, Ferrara sarebbe stata ceduta a GIROLAMO (suo nipote), Reggio e Modena sarebbero state di Venezia. I rapporti tra i Veneziani e il duca Ercole s'inasprirono improvvisamente nel 1481. La repubblica di Venezia teneva in Ferrara un proprio magistrato col titolo di visdomino, per proteggere gli interessi dei sudditi veneziani residenti negli stati estensi. Avvenne che il visdomino nel 1481, abusando del suo potere, fece arrestare per debiti un prete e, scomunicato dal vicario del vescovo, abbandonò la città. Questo incidente non fu che l'ultimo pretesto d'una guerra, che invano il duca cercò di scongiurare.

La guerra scoppiò nel maggio del 1482. Due gruppi di stati si trovarono l'uno contro l'altro: da una parte la Santa Sede, la repubblica di Venezia, Girolamo Riario, signore d' Imola e Forli, i Genovesi, il Marchese di Monferrato e Pier Maria de' Rossi, conte di S. Secondo nel Parmense; e dall'altra, Ercole I di Ferrara, Ferdinando di Napoli, Ludovico il Moro, il marchese Gonzaga di Mantova, Giovanni Bentivoglio di Bologna e la casa Colonna che allora si trovava in urto con il Pontefice.

Così la penisola fu divisa in due campi e si cominciò a combattere nel centro e nel settentrione con accanimento. Nello stato della Chiesa i Colonnesi uscivano dalle loro fortezze e saccheggiavano le campagne spingendosi fin presso le mura di Roma, spalleggiati dai Savelli ed osteggiati dagli Orsini, mentre Lorenzo Giustini, rivale di Niccolò Vitelli, devastava il territorio di Città di Castello. In Romagna stavano uno di fronte all'altro il Bentivoglio e il Riario; Ibletto dei Fieschi sconvolgeva i confini del ducato di Milano e Pier Maria de' Rossi dava filo da torcere alle milizie di Ludovico il Moro nel Parmense.

Mala guerra principale si svolgeva ai confini del Ferrarese. Aveva il comando delle forze veneziane ROBERTO da SANSEVERINO, il quale al principio di quell'anno si era disgustato con Ludovico il Moro. Egli confermò in quella guerra le sue belle qualità di condottiero, sebbene la natura del terreno in cui doveva operare, intersecato da fiumi, da canali e da stagni, non gli permettesse né rapide mosse né battaglie campali. Validamente coadiuvato dai suoi capitani, tra cui si distingueva Damiano Moro, egli riuscì a impadronirsi di Adria, che venne barbaramente saccheggiata, di Comacchio, di parecchie altre terre e di tre ridotte che l' Estense aveva costruite alla Pelosella.

L'esercito della lega nemica era comandato da FEDERICO d' URBINO; però, malgrado la perizia del comandante, fu sempre tenuto in scacco dal Sanseverino e fu molto molestato dall'aria malsana, che, naturalmente, non risparmiò i Veneziani. 
Questi il 29 giugno, dopo cinquanta giorni d'assedio, presero Figarolo, nel luglio occuparono Lendinara e Badia e il 17 agosto ridussero nelle loro mani Rovigo.

In questo mentre il duca ALFONSO di CALABRIA con un esercito napoletano era entrato nello stato della Chiesa. Contro di lui Sisto IV mandò il prode ROBERTO MALATESTA che, il 21 agosto, costrinse il duca ad accettare battaglia a Campo Morto, presso Velletri. Violento fu il combattimento; alla fine i Napoletani vennero messi in fuga ed Alfonso dovette la sua salvezza ad alcune compagnie di Turchi, che dopo la resa di Otranto erano passate al suo soldo. 
Dopo la giornata di Campo Morto alcuni castelli dei Colonna caddero in mano delle milizie pontificie. Questi progressi però venivano annullati dopo pochi giorni dalla morte del Malatesta, avvenuta a Roma il 10 settembre.

Malatesta lasciava un figliuolo naturale a nome PANDOLFO, istituendolo suo erede e raccomandandolo a Federico d' Urbino di cui aveva sposata la figlia; ma Federico, in quel tempo, cessava di vivere a Ferrara raccomandando a sua volta al genero la propria famiglia e in modo speciale il figlio Guido Ubaldo. Nel medesimo giorno la vedova di Roberto apprese la notizia della morte del padre e del marito e se ebbe il piacere di sentire che allo sposo veniva innalzata a Roma una statua di bronzo, ebbe in pari tempo la sgradita sorpresa di vedere il Riario volgersi contro Rimini per impadronirsene. Contro l'ingordo nipote del Pontefice però essa fu validamente difesa dai Fiorentini.

La guerra intanto nel Ferrarese volgeva a favore dei Veneziani, il cui capitano, passato il Po, nel novembre del 1482 si spingeva fin sotto le mura di Ferrara; ma questi progressi dei suoi alleati preoccupavano il Pontefice, il quale, temendo che la potenza della repubblica riuscisse di danno ai possessi della Santa Sede, deliberò di porre fine da parte sua alla guerra e il 28 novembre del 1482 stipulò con il re di Napoli una tregua, alla quale il 12 dicembre seguì una pace.
Col trattato, nel quale erano comprese Firenze e Milano, si garantiva l' integrità del ducato di Ferrara, si stabiliva la restituzione di tutte le conquiste fatte durante la guerra e si deliberava un'alleanza di vent'anni tra le parti contraenti, alla quale potevano venire ammessi i Veneziani se entro un mese vi acconsentivano.

Conclusa la pace, Sisto IV scrisse alla repubblica di Venezia, elencando i danni prodotti dalla guerra ed esortandola a posare le armi. Venezia però che tanti sacrifici aveva fatto per quella guerra, alla quale era stata indotta proprio dal Papa, e che stava per raccogliere i frutti delle sue vittorie, si mostrò sdegnata sia della pace che delle esortazioni papali e si rifiutò recisamente di desistere dall'impresa di Ferrara. Sisto IV la minacciò di scomunica, ma queste minacce non fecero che inasprire maggiormente i Veneziani, i quali richiamarono da Roma il loro ambasciatore Francesco Diedo e dichiararono che non avrebbero cessato le ostilità contro gli Estensi a costo anche di dover da soli sostenere il peso d'una guerra contro tutta l' Italia.

E sola difatti si trovò Venezia contro il re di Napoli, il Pontefice, Firenze, Milano e Ferrara, ma non si perse d'animo. Non la spaventarono neppure le censure ecclesiastiche. Sisto IV, verso la fine del maggio del 1483 lanciò l' interdetto su Venezia ingiungendo al clero di abbandonare la città scomunicata; a sua volta il governo della repubblica richiamò da Roma tutti i preti veneziani, ordinò al suo clero di continuare a celebrare gli uffizi sacri, dichiarò di appellarsi a un futuro concilio e iniziò pratiche presso l' imperatore e i re di Francia e d'Inghilterra perché lo convocassero.

Intanto le operazioni militari continuavano. Il duca Alfonso di Calabria, ottenuto il libero passaggio attraverso lo stato della Chiesa, condusse il suo esercito a Ferrara in aiuto del cognato; i Fiorentini vi mandarono milizie sotto il comando del conte Nicola da Pitigliano e il Pontefice inviò alcune schiere guidate da Virgilio Orsini. L'arrivo di tutte queste truppe rialzò le sorti di Ercole I, che sotto la loro protezione riusci ad accrescere le fortificazioni delle città, intorno alla quale ebbero luogo parecchi scontri. In uno di questi fu fatto prigioniero il provveditore veneziano Antonio Giustiniani.
Allora i Veneziani tentarono una diversione e ordinarono a Roberto da Sanseverino di invadere il ducato di Milano. Al comando delle truppe che rimanevano ad operare nel territorio di Ferrara fu messo il duca RENATO II di LORENA, che poteva, quale nipote di Renato d'Angiò, creare fastidi al re di Napoli; ma il Lorenese rimase poco in Italia; saputa la morte di Luigi XI (30 agosto 1483) che era venuto in possesso dei feudi della Provenza e d'Angiò, sopra cui vantava diritti, fece ritorno in Francia per tentare di ricuperare quelle contee durante la minorità di Carlo VIII.

Roberto da Sanseverino passò l'Adda ed entrò nel Milanese dicendo di voler difendere contro LUDOVICO il MORO la causa di Bona e del giovane Duca GIAN  GALEAZZO, ma velocemente fu costretto a tornare indietro da Alfonso di Calabria che dal Ferrarese era andato nei territori di Brescia, Bergamo e Verona saccheggiandoli. 
Fallita questa diversione, il governo di Venezia tentò di intimorire Ferdinando di Napoli e Ludovico il Moro, invitando il piccolo Carlo VIII, nuovo re di Francia, a scendere nel Napoletano e il duca d'Orléans, erede di Valentina Visconti, a invadere il ducato di Milano; ma neppure questo spauracchio valse a far posare le armi ai suoi nemici, come non giovò a far distaccare dalla lega nemica il re di Napoli la presa di Gallipoli da parte di una flotta veneziana verso la fine di maggio del 1484.

La guerra però procedeva pigramente, perché tutti erano stanchi, specie i Fiorentini e i Ferraresi, e la lega non era più compatta come al principio delle ostilità. Reciproci sospetti avevano raffreddate le relazioni tra Ludovico il Moro e Alfonso di Calabria; il primo temeva che l'Aragonese volesse sostenere i diritti di Gian Galeazzo, cui da tempo aveva fidanzato la figlia Isabella, il secondo dal canto suo sospettava, e non a torto, che il Moro volesse usurpare il ducato al nipote.

Venezia volle trarre profitto da questi sospetti e per mezzo del Sanseverino iniziò trattative con Ludovico il Moro, che portarono alla pace. Questa fu stipulata a Bagnolo (presso Brescia) il 7 agosto del 1484. I confini dei due stati dovevano esser quelli stabiliti nel trattato di Lodi del 1454, Venezia doveva tenere per sé Rovigo e il Polesine e tornare a godere tutte quelle prerogative che aveva prima della guerra nello stato estense; gli altri stati infine dovevano restituirsi reciprocamente le terre occupate. Inoltre tutti i contraenti dovevano obbligarsi e stringere un'alleanza difensiva e nominare capitano generale della lega Roberto da Sanseverino con un soldo annuo di cento quarantamila ducati.

« I principi e gli stati minori d' Italia - scrive il Sismondi - ebbero da questo trattato tutto il danno, mentre i più potenti tutto l'utile. Il duca di Ferrara doveva rinunciare alle province che erano un tempo l'antico patrimonio della famiglia d' Este e sulle quali i Veneziani non avevano mai avuto alcun diritto; per cui di mala voglia si sottomise a queste dure condizioni. I Rossi, conti di San Secondo nel Parmense, che erano stati indotti dai Veneziani a prendere le armi contro il duca di Milano, si trovarono spogliati di tutti i loro feudi. 

II marchese di Mantova non aveva preso parte alla lega se non per recuperare Asola e gli altri castelli che gli erano stati tolti dai Veneziani; ma, dopo essersene impadronito, era costretto a restituirli. Nè in questo trattato di pace i Fiorentini erano meglio trattati di quel che fossero stati durante la guerra. Nulla vi fu pattuito a loro favore, neppure la restituzione di Sarzana. 
Tuttavia il più indispettito di tutti i confederati era il Papa; egli aveva lungamente sperato di arricchire il nipote o con le spoglie del duca di Ferrara o con quelle dei Veneziani; ma, venute meno in parte le sue speranze, sperava almeno di assicurargli i piccoli principati della Romagna, anzi nemmeno dubitava che non gli fossero concessi; specialmente era sicuro che Girolamo Riario avrebbe ottenuto il grado, che invece fu dato al Sanseverino, di capitano della lega, grado che, unito allo stipendio, doveva risarcirlo delle pretese cui era stato costretto a rinunziare ».

SISTO IV chiamò la pace di Bagnolo vergognosa e ignominiosa, e vogliono gli storici che il Pontefice ne provasse tanto dispetto da morirne. Cessò infatti di vivere cinque giorni dopo, il 12 agosto del 1484.
Benevolo non fu il giudizio che di lui diede la storia. Fu più un sovrano temporale che il capo della cristianità e si curò più degli interessi del suo stato e della sua famiglia che di quelli della Chiesa. Fra le sue opere, attinenti al ministero ecclesiastico..... 

...citiamo il Bertolini: « ....i privilegi strepitosi da lui concessi all'ordine dei Francescani, a cui egli era iscritto; l'ardore con il quale egli sostenne il principio della papale teocrazia onde i Concilii non erano per lui che meri strumenti della sovranità del Pontefice ed esecutori della sua volontà: il tribunale dell' inquisizione, istituito in Spagna con pieni poteri largiti a quei sovrani (breve del 1° novembre 1418), affinchè l'intento di reprimere le apostasie fosse meglio raggiunto: e dal breve di Sisto IV data l' inizio dei terribili supplizi, i quali resero infame nel mondo l' inquisizione spagnola, e fissarono l' irreparabile decadimento di quella nazione; la creazione di cardinali indegni quali suo nipote Pietro Riario e Ascanio Maria Sforza, l'autore dell'elezione papale di Rodrigo Borgia.
 
E a proposito dei nipoti di Sisto, non può certo tornargli a lode il fatto di avere egli conferito la porpora a sei di quei parenti: cioè il nominato Pietro Riario, Giuliano della Rovere il futuro papa Giulio II, Cristoforo e Girolamo Basso della Rovere, Raffaele Sansoni Riario e Domenico della Rovere. Di fronte a questi fatti biasimevoli, non può meritare gran valore il culto della Vergine da lui professato con grande ardore, così da innalzare in onore di Essa due templi, quello di Santa Maria del Popolo e di Santa Maria della Pace, che egli visitava con ostentata frequenza; e nemmeno può essere citata a titolo di compensazione delle sue colpe, la istituzione dei Cantori della Cappella Sistina eretti in corporazione speciale, perché il beneficio conseguitone dall'arte implicasse poi una offesa inumana recata alla legge naturale.

Ma se nei campi della politica e della religione le opere di Sisto IV meritano più biasimo che lode, in quelli che riguardano la cultura e l'edilizia di Roma, egli merita pieno plauso. Prima opera ammirevole è il riordinamento e l'incremento della biblioteca vaticana, la quale, per mezzo di Sisto IV, ebbe triplicato il patrimonio librario lasciatole da Niccolò V; onde i codici da essa posseduti oltrepassarono, sotto il suo pontificato, la cifra di tremila e cinquecento. L'importanza nuova acquistata dalla biblioteca vaticana ebbe il suo coronamento nella nomina dello storico dei Papi Bartolomeo Platina a bibliotecario.

Per ciò che riguarda l'edilizia romana, non si esagera dicendo che Sisto trasformò la città medioevale di Roma in una città moderna. Per le sue costruzioni egli si servì di diversi architetti; ma quelli a cui affidò le opere principali fu il fiorentino BACCIO PONTELLI, uno dei precursori del Bramante. Le costruzioni di Sisto IV ebbero per scopo più l' igiene che l'arte. In luogo di nuovi monumenti egli diede pertanto a Roma vie larghe e ben lastricate, un nuovo ponte (Ponte Sisto) che agevolasse le comunicazioni con Trastevere, e un grande ospedale, che fece risorgere ampliato e rinnovato quello eretto da Innocenzo III col nome di Santo Spirito. 
Per queste opere Sisto IV vive anche oggi e vivrà, finché il mondo duri, nella memoria dei Romani ricordato come un "sovrano" che si occupò della salute fisica dei loro antenati; ma per altre opere più copiose e ben più importanti la memoria di lui non potrà dissociarsi da quella del decadimento morale del Papato, onde egli segnò l'inizio ». (Bertolini)

INNOCENZO VIII
GUERRA TRA LA CHIESA E IL REGNO DI NAPOLI
LA CONGIURA DEI BARONI NAPOLETANI
GENOVA TORNA SOTTO LA SIGNORIA DEGLI SFORZA


Dopo la morte di Sisto IV gravi tumulti ebbero luogo in Roma, provocati dall'odio che il defunto Pontefice aveva fatto risorgere tra gli ORSINI e i COLONNA e dalle persecuzioni che , insieme con i Riario, aveva fatto patire ai Colonnesi. Furono tali i tumulti che soltanto dopo sei giorni si poterono fare le esequie e dopo tredici si riuscì a riunire il conclave. 
Caterina Sforza si chiuse in Castel Sant'Angelo e solo quando (25 agosto) a suo marito Girolamo Riario furono pagati ottomila ducati e i Colonna e gli Orsini, concluso un armistizio, lasciarono Roma, essa consegnò la fortezza ritirandosi nei suoi possessi d'Imola e Forlì.

I Cardinali prima di procedere all'elezione, compilarono una capitolato nel quale stabilirono delle condizioni che il futuro Pontefice doveva rigorosamente osservare. Le entrate dei cardinali - secondo tale capitolato - dovevano essere accresciute; nessun cardinale poteva esser colpito da censure ecclesiastiche o da reati criminali senza l'approvazione di due terzi del Sacro Collegio; il numero dei cardinali non poteva esser superiore ai ventiquattro; solo chi avesse compiuto i trent'anni e fosse dottore in teologia o in diritto poteva ricevere il cappello cardinalizio, eccettuati i figli o i nipoti dei re purché forniti di dottrina; il Pontefice non poteva nominare che un solo cardinale tra i membri della propria famiglia; infine il Papa doveva governare insieme con i cardinali e nelle faccende di grande importanza le sue decisioni non potevano esser valide se non avevano il consenso di sedici cardinali.

Impegnatisi per giuramento di osservare il capitolato, i cardinali procedettero all'elezione. Venne eletto, per le larghe promesse di uffici e di rendite, il cardinale genovese GIAMBATTISTA CIBO (29 agosto del 1484), che prese il nome di INNOCENZO VIII. 
Il nuovo Pontefice era di  indole molto mite e di ingegno non certo superiore. Irreprensibili non erano i suoi costumi: sette figli naturali aveva avuti prima di prendere gli ordini sacri e li riconobbe pubblicamente anche dopo che ottenne la tiara. Non era quindi il Papa che potesse opporsi alle irregolarità del clero e infatti la corruzione ecclesiastica fece, durante il suo pontificato, notevoli progressi.

Come uomo politico si mostrò incline alla pace, ma le circostanze furono più forti della sua volontà di mantenere in Italia quella pace che il trattato di Bagnolo aveva fatto concludere. Due soli stati italiani erano allora in lotta: le repubbliche di Genova e di Firenze. Causa della guerra erano Sarzana e Pietrasanta, tenute dal banco genovese di San Giorgio, il cui possesso era rivendicato dai Fiorentini, che nel settembre del 1484 mandarono un esercito comandato da Antonio Marciano e Ranuccio Farnese per sottrarre quelle due terre ai Genovesi. 
L' 8 novembre Pietrasanta si arrese, ma i Fiorentini che credevano di avere il passo libero verso Sarzana videro sorgere nuovi ostacoli: Siena e Lucca; la prima preoccupata dai progressi di Firenze, la seconda perché reclamava Pietrasanta, suo antico possedimento. Innocenzo VIII tentò di spegnere quel fuoco che minacciava di suscitare un incendio più vasto e si impegnò per metter la pace tra Firenze e Genova, ma non vi riuscì, né, del resto, egli insistette, poiché avvenimenti di maggiore importanza lo inducevano a rivolger lo sguardo sul Reame di Napoli.

Innocenzo VIII, il quale voleva ristabilire nel Napoletano quei diritti di sovranità della Chiesa, che Sisto IV aveva trascurati, domandò a Ferdinando il tributo in denaro che il regno doveva alla Santa Sede; ma il sovrano, avvalendosi della concessione ricevuta dal precedente Pontefice, nel giorno di San Pietro del 1485 gli mandò (questi furono allora i patiti) in segno di vassallaggio una chinea riccamente bardata, che Innocenzo sdegnosamente rifiutò.
La vigilia di quello stesso giorno un grave fatto accadeva ad Aquila. Questa città riconosceva la sovranità del re di Napoli, ma manteneva tutti i privilegi di una repubblica, eleggendosi i magistrati, imponendo e riscuotendo le imposte, stipulando trattati ed alleanze e rimanendo priva di presidio regio. In quel tempo esercitava ad Aquila grandissima autorità la famiglia dei conti Lalli di Montorio. Il duca di Calabria, volendo spogliare gli Aquilani di tutti i loro privilegi, credette bene di privarli anzitutto del loro cittadino più potente. 
Trovandosi a Chieti con l'esercito che aveva ricondotto dalla guerra di Ferrara, invitò a un abboccamento il conte Pietro di Montorio, che senza alcun sospetto si recò presso il duca. Ma  appena giunto a Chieti fu arrestato (28 giugno) e mandato a Napoli. Dopo questo fatto Alfonso mandò ad occupare improvvisamente la città l'Aquila.

I magistrati di Aquila pregarono ripetutamente il duca di Calabria di ritirare le truppe e rispettare i privilegi; non avendo nulla ottenuto, il 28 ottobre di quello stesso anno i cittadini si levarono in armi, assalirono i soldati napoletani, parte ne uccisero, il resto li misero in fuga, quindi dichiaratisi liberi dal dominio di Ferdinando, mandarono ambasciatori al Pontefice pregandolo che li accogliesse sotto la sua protezione e li aiutasse contro il sovrano di Napoli.

LA RIVOLTA DEI BARONI DI NAPOLI


Innocenzo, i cui rapporti con Ferdinando erano già tesi per l'affare del tributo, accettò le preghiere degli Aquilani e per le terre dei Colonna, che aveva iniziato a proteggere, mandò alcune schiere ad Aquila. Quest'atto equivaleva ad una dichiarazione di guerra. Non ci si deve meravigliare se il Pontefice, di animo così mite ed incline alla pace, prendesse una decisione così grave e iniziasse così le ostilità contro un potente monarca. Egli sapeva che la posizione del re non era troppo salda nel regno e voleva approfittarne. Ferdinando infatti per il suo assolutismo, per la sua avidità e per la superbia e crudeltà come primogenito, si era fatto molti nemici fra i baroni del Napoletano e questi, capitanati da ANTONELLO PETRUCCI e FRANCESCO CAPPOLA conte di Sarno, ministri del re, e dal principe di SALERNO ANTONELLO da Sanseverino, ammiraglio del reame, da parecchio tempo tramavano contro di lui.

Questi baroni non potevano essere che alleati del Pontefice, ed Innocenzo presto cominciò a trattare con loro che già preparavano la rivolta. Ferdinando, sperando forse di calmare e togliere al Papa il pretesto di intervenire, liberò dalla prigione il conte di Montorio quindi tentò di acquietare i baroni e li invitò a Napoli. Soltanto tre, il conte di Fondi, il duca d'Amalfi e il principe di Taranto, vi si recarono gli altri, temendo di cadere nelle mani del re, si radunarono a Melfi.
A questa adunanza intervennero il Petrucci, il Coppola, il Sanseverino, Pietro del Balzo principe d'Altamura, Pietro di Guevara marchese del Vasto, Girolamo di Bisignano, Andrea, Matteo Acquaviva duca d'Atri, i duchi di Melfi e di Nardo, i conti di Lauria di Melito e di Nola e parecchi altri. Il duca di Calabria sicuro che il convegno di Melfi avrebbe deliberato la rivolta, cercò di anticiparla e assalì ed occupò tutte le fortezze del conte di Nola e ne mandò prigionieri a Napoli la moglie e due figli. Si preparava a far lo stesso con gli altri baroni quando la rivolta, affrettata dall'agire del duca, scoppiò in tutto il regno e consigliò Alfonso alla prudenza.

Prima di muovere contro il Pontefice e i baroni ribelli, Ferdinando voleva esser sicuro dell'aiuto dei suoi alleati, Fiorentini e Milanesi. Mandò quindi ambasciatori a Lorenzo de' Medici e a Ludovico il Moro ed ottenne che nell'autunno assoldassero e mandassero nello stato della Chiesa il conte di Pitigliano, il signore di Piombino e parecchi capitani di casa Orsini. A sua volta il Pontefice cercò di trarre dalla sua parte  la repubblica di Venezia e Renato II di Lorena. 
Per ingraziarsi Venezia rimosse l'interdetto dalla città; ma i Veneziani, appena usciti dalla guerra di Ferrara, non volevano prendere nuovamente le armi e si limitarono che il loro condottiero Roberto da Sanseverino passasse agli stipendi del Papa. Le speranze che questi aveva riposte nell' intervento del Lorenese sfumarono perché Renato II, intento a reclamare l'annullamento presso la corte di Francia del testamento dell'avo che l'aveva escluso dall'eredità, non volle tentare un' impresa di dubbio esito e declinò l'offerta dell'investitura del reame napoletano. Nel medesimo tempo Ferdinando avviava trattative con i baroni ribelli. Per meglio indurli a ritornare all'obbedienza egli mandò come ambasciatore presso di loro il suo secondogenito Federico, che per il suo carattere mite, la bontà dell'animo e l'alto intelletto, era amato da tutti. I baroni, temendo che il re volesse ingannarli, proposero a Federico di ribellarsi al padre e gli offrirono la corona; ma, Federico nobilmente rifiutò e fu dai baroni trattenuto in ostaggio.

Le ostilità cominciarono nel novembre del 1485. Ferdinando divise tutte le sue forze in due corpi; uno l'affidò al nipote dello stesso nome con l' incarico di sorvegliare e fronteggiare i baroni ribelli, l'altro lo diede al duca Alfonso di Calabria perché penetrasse nello stato pontificio e si unisse alle milizie mandate da Firenze e da Milano. Contemporaneamente i Fiorentini avviavano approcci con i Baglioni perché sollevassero Perugia; con i Vitelli perché si impadronissero di Città di Castello; con Giovanni dei Gatti affinché togliesse al Pontefice Viterbo. Ma questi contatti non diedero seri risultati.
Né risultati importanti diedero le azioni belliche. Solo nel maggio del 1486 ci fu presso Montorio una battaglia di qualche rilievo tra l'esercito papale comandato da Roberto di Sanseverino e quello del duca di Calabria rinforzato dai Milanesi e dai Fiorentini, gli uni capitanati dal Trivulzio, gli altri diretti dal commissario Pier Capponi. Dopo questa battaglia, incruenta e di esito incerto, Alfonso e gli Orsini si diedero a danneggiare la campagna romana.

Il Pontefice aveva creduto che la guerra dovesse facilmente riuscirgli vittoriosa; aveva sperato molto sul duca di Lorena, sui Veneziani, sulla ribellione dei baroni e sulla perizia del Sanseverino. E invece tutto andava diversamente da quel che aveva creduto e sperato: Renato II non si era mosso; i Veneziani non lo avevano aiutato, i baroni non preoccupavano molto il re di Napoli e il Sanseverino non solo non aveva saputo o potuto tenere in rispetto il duca di Calabria, ma si credeva che si preparasse a passare al nemico. Inoltre la guerra, portata dentro i territori dello stato della Chiesa, danneggiava la campagna romana e teneva costernata la popolazione di Roma.

Tutto ciò non poteva non influire sull'animo del Papa, incline alla pace per indole, né il concludere la pace poteva considerarsi difficile dato che la desideravano i cardinali, Firenze, Milano, il re di Napoli, che temeva un intervento della Francia e voleva ricondurre all'obbedienza i baroni, e infine la volevano il re d'Aragona e di Castiglia, il quale, essendo re di Sicilia, temeva una incursione dei Turchi in quell'isola e una discesa dei Francesi nel mezzogiorno d'Italia.
Ambasciatori vennero dall'Aragona, nella penisola: il vescovo d'Oviedo, Francesco di Regas e il conte Inigo Mendoza; ambasciatori mandò il re di Napoli a Roma, fra cui il celebre Pontano; e l'11 agosto del 1486 fu concluso un trattato di pace in cui Ferdinando promise di pagare il tributo alla Santa Sede, di perdonare ai baroni ribelli e di lasciar libera Aquila di rimaner sotto il dominio della Chiesa.

"Ma non tutte le clausole, di questo trattato dovevano essere rispettate. Infatti due giorni dopo la firma, il re di Napoli fece arrestare Francesco Cappola conte di Sarno, i conti di Carinola e di Policastro ed Antonio Petrucci e fece confiscare i loro beni che ammontavano a trecentomila ducati. Gli arrestati, dopo alcuni giorni, perirono fra i più atroci supplizi. Il principe di Salerno riuscì a fuggire in Francia, gli altri baroni si ritirarono nei loro castelli e per qualche tempo non furono molestati. 
Nel settembre del 1486 il re mandò in Aquila il conte Pietro di Montorio che cacciò le milizie pontificie e sottomise la città. L'anno seguente i baroni che erano sfuggiti all'ira del re, quali i principi d'Altamura e di Bisignano, i duchi di Melfi e di Nardo, i Conti di Lauria, di Melito e di Nola e parecchi altri vennero arrestati e, secondo le dicerie, furono chiusi in sacchi e gettati in mare. 
Anche i loro beni vennero confiscati. Con le ricchezze tolte, ai baroni ribelli Ferdinando riuscì più tardi a prendere al suo soldo i più illustri capitani, Virginio Orsini, il conte di Pitigliano, Prospero e Fabrizio Colonna e Gian Giacomo Trivulzio.
Innocenzo VIII fu, naturalmente, sdegnato dall'agire di Ferdinando, che aveva sfrontatamente violati i patti della pace, ma ritenne opportuno non protestare per allora. Egli voleva prima ridurre all'obbedienza Osimo, che, durante la guerra, era caduta nelle mani di Boccolino Gozzoni. Costui, non sperando di potere resistere alle armi pontificie, ricorse a chiedere aiuto al sultano Bajazet e sostenne vigorosamente gli assalti di Giuliano della Rovere mandato dal Papa ad assediarlo, ma il 2 agosto del 1487 da Lorenzo de' Medici si lasciò indurre a cedere Osimo a Innocenzo VIII per la somma di settemila ducati".

"Due mesi prima circa, il 22 maggio, i Fiorentini avevano occupata Sarzana. Alcuni anni avanti forse non sarebbe stato possibile a Lorenzo dei Medici di costringere alla capitolazione questa città. Lo favorirono le interne condizioni di Genova, nella quale erano sorti dissidi serissimi tra il Consiglio dei Dieci e il doge Paolo Fregoso, che li aveva esasperati stringendo rapporti con Ludovico il Moro. Questi dissidi non soltanto produssero la perdita di Sarzana, che venne lasciata priva di aiuti, ma privarono della libertà  Genova. 
Nell'agosto del 1488, i nemici del doge, capitanati dai Fieschi, dagli Adorni e da Battista di Campofregoso, s'impadronirono della città costringendo Paolo Fregoso a chiudersi nella rocca. Questi si rivolse per aiuto a Lodovico il Moro però per non disgustarsi con la Francia dichiarò a Carlo VIII di voler tenere la signoria di Genova come un feudo francese, mentre d'altra parte desiderando di continuare le sue buone relazioni con Lorenzo dei Medici non solo non trasse le armi per ricuperare Sarzana, ma ingiunse ai Genovesi di tenersi in pace con lui" (Orsi).

GLI  ULTIMI ANNI DI LORENZO IL MAGNIFICO


Lorenzo de' Medici in quel tempo vedeva crescere sempre più la sua autorità non solo a Firenze ma in Italia. I suoi rapporti con Ludovico il Moro erano eccellenti, ottimi quelli con il re di Napoli. Non altrettanto poteva dirsi delle relazioni tra lui e i Veneziani; ma se diffidenze esistevano tra Firenze e Venezia, queste non erano tali da provocare rotture tra le due repubbliche.
Venezia, del resto, essendosi mantenuta estranea agli ultimi avvenimenti italiani, non dava ombra a Firenze e tanto meno ne dava ora che rivolgeva tutta la sua attenzione al Trentino e a Cipro.
Nel Trentino, anzi, essa si trovò impegnata in una guerra con SIGISMONDO, arciduca d'Austria e principe del Tirolo, nello stesso anno in cui i Fiorentini costringevano Sarzana alla resa. 
Causa di questa guerra furono controversie di confine e pretesi diritti dell'arciduca sulle miniere cadorine di ferro e d'argento. 
Nella primavera del 1487 Sigismondo fece arrestare i mercanti veneziani che si erano recati alla fiera di Bolzano, si impadronì delle miniere di Primiero e Valsugana e mandò un esercito contro Rovereto che, sebbene efficacemente difeso dal governatore veneziano Niccolò Priuli, dovette arrendersi (maggio).

Venezia mandò contro Sigismondo, Giulio Cesare di Varano prima, Roberto di Sanseverino poi. Il SANSEVERINO riprese, nel luglio, ai Tedeschi Rovereto, ma il 10 agosto caduto in una imboscata presso Calliano, vi fu ucciso. La guerra ebbe termine prima che cominciasse l' inverno: il 14 novembre di quel medesimo anno fu stipulata la pace, vennero risolte le controversie pei confini e furono restituiti dall'una e dall'altra parte i luoghi conquistati.

In Cipro regnava sempre Caterina Cornaro, ma il potere era effettivamente in mano ai Veneziani. Temendo questi che la bella regina tornasse a sposarsi ed essendosi anzi sparsa la voce che Federico, secondogenito del re di Napoli, l'avesse chiesta in sposa, sotto il pretesto di assicurar l' isola contro una possibile invasione turca, decisero d'innalzarvi la bandiera di San Marco. 
Nel febbraio Venezia mandò a Cipro una flotta di ventisette galee, comandate da FRANCESCO PRIULI. A bordo di una nave era il patrizio GIORGIO CORNARO fratello della regina, il quale, giunto a Famagosta, persuase la sorella a rinunziare al regno e a tornarsene nella sua patria. 
Caterina lasciò Cipro il 15 febbraio e giunse in Venezia il 6 giugno, accolta con onori regali. La repubblica le assegnò la terra di Asolo con un appannaggio di ottomila ducati annui. Ivi la regina condusse la sua piccola corte, la cui vita e le cui magnificenze furono ritratte dal cardinale PIETRO BEMBO nel suo famoso trattato degli Asolani.

Ma ancora più eccellenti si erano fatte le relazioni di Lorenzo dei Medici con Innocenzo VIII. Nel tempo di cui ci occupiamo, la politica papale è guidata completamente da Lorenzo, il quale rinsalda con un matrimonio l'amicizia che lo lega al Pontefice: difatti, FRANCESCHETTO CIBO, figlio di Innocenzo, sposa Maddalena, terzogenita dei Medici. 
A queste nozze seguì un altro matrimonio, quello di Piero dei Medici con una donna di Casa Orsini. Questa famiglia, già nemica di Innocenzo, per opera della politica medicea, si riconcilia col Papa e acquista a Roma una grande influenza che non può non giovare grandemente al signore di Firenze. Uno dei primi e più importanti effetti della politica di amicizie e di parentele di Lorenzo è la promozione del primogenito de' Medici al cardinalato, avvenuta nel marzo del 1489. La consacrazione, data la giovanissima età del nuovo porporato, che contava quattordici anni, ebbe luogo però al principio del 1492.

Mentre si teneva in ottimi rapporti con il re di Napoli, con Ludovico il Moro e con Innocenzo VIII, Lorenzo de' Medici sorvegliava attentamente la situazione della vicina Romagna e specialmente di Faenza, d'Imola e di Forlì. Di queste due ultime terre era signore il conte Riario, l'unico superstite dei principali autori della congiura dei Pazzi e nemico acerrimo di Lorenzo.
Il Riario, morto Sisto IV, si era ritirato nei suoi possessi di Imola e Forlì, indisturbato perché protetto dallo Sforza e dal potente cardinale Giuliano della Rovere; ma, non potendo più disporre come prima del tesoro papale, ripristinò dazi ed imposte, suscitando nei sudditi grande malcontento ed agitazioni. Un nobile forlivese, capitano della guardia del Riario, di nome CECCO degli ORSI, credendo far cosa grata a Lorenzo e al Pontefice, decise di toglier di mezzo il suo signore con l'aiuto di due soldati, Giacomo Ronchi e Ludovico Pansechi. Il 14 aprile del 1488, i tre congiurati, sotto pretesto di voler conferire con lui affari di stato, entrarono nel palazzo, lo trucidarono a pugnalate, e dalla finestra gettarono il cadavere in strada.

Il popolo, avuta notizia del fatto, si levò a rumore, accorse e trionfante trascinò il corpo del Riario per tutte le vie della città; la vedova Caterina Sforza e i figli vennero imprigionati, ma la fortezza, di cui aveva il comando un fedele del morto, rifiutò di arrendersi se non dietro l'ordine di Caterina. 
Questa mostrò allora tutto il suo coraggio e l'accortezza di cui era dotata. Disse che avrebbe indotto il comandante alla resa se l'avessero lasciata entrare nella fortezza; ma, appena fu dentro, vi si chiuse e dichiarò di volere resistere fino all'ultimo. I ribelli la minacciarono di uccidere i figli rimasti nelle loro mani ma furono vane minacce: 
Caterina, affacciatasi ai merli, rispose fieramente che portava in seno un altro figlio, il quale a suo tempo avrebbe fatto vendetta, e che inoltre aveva modo di crearne degli altri. Questa risposta fu accompagnata da un gesto impudico e molto eloquente, di cui ci dà notizia Baldassarre Bonifacio con le seguenti parole: "illa magno et virili animo sublata veste nudatoque ventre: en, inquit, quo possim liberos iterum procreare".
I congiurati speravano nei soccorsi di Lorenzo e del Papa; videro invece giungere milizie di Ludovico il Moro prontamente spedite in aiuto della nipote, che costrinsero gli assassini a riparare in Siena, liberarono Caterina e proclamarono signore della città Ottaviano Riario, figlio primogenito di Girolamo.

Un'altra tragedia, poco più d'un mese dopo, aveva luogo a Faenza. Era signore di questa città GALEOTTO MANFREDI. La moglie di lui, Francesca, figlia di Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna, spinta dalla gelosia e forse dal padre, il quale mirava a insignorirsi di Faenza, decise di sbarazzarsi del marito. Assoldati quattro sicari, il 31 maggio del 1488 fece assalire Galeotto ed essa stessa aiutò gli assassini a compiere il delitto.
Il Bentivoglio, saputo l'accaduto mentre si trovava a Forlì con le milizie sforzesche, accorse con le sue truppe a Faenza, ma i Faentini, sospettando di lui, lo assalirono e lo fecero prigioniero, quindi chiesero la protezione di Lorenzo de' Medici, che, avendo pronto un esercito a Sarzana, lo mandò in Romagna sotto il comando del conte di Pitigliano e di Ranuccio Farnese. 
I cittadini di Faenza proclamarono signore il figlio di Galeotto, Astorre Manfredi, che, essendo ancora fanciullo, fu messo sotto la tutela di un consiglio di sedici Faentini. Il Bentivoglio fu consegnato a Lorenzo, che, poco dopo, lo rimise in libertà.

Le due rivolte di Forll e Faenza accrebbero l'autorità di Lorenzo dei Medici nella Romagna, il quale venne a trovarsi protettore di Faenza e, con la morte del Riario, si liberò di un accanito nemico. Più tardi egli riuscì a fare sposare alla vedova del Riario un Giovanni de' Medici, figlio di Cosimo e padre di quel capitano che doveva rendersi così celebre come comandante delle Bande Nere. Per tal modo - osserva il Sismondi - «Forlì ed Imola si trovarono sotto la signoria di un Medici, e Caterina Sforza si uni in parentela con quella stessa famiglia che il suo primo marito aveva tentato di cancellare ».

Mai come in questi tempi, da quando, nel principio della primavera del 1480, era tornato da Napoli a Firenze accolto come un trionfatore, Lorenzo de' Medici era stato così potente a Firenze e così rispettato e ascoltato negli stati vicini, i quali, senza distinzione, riconoscevano in lui il più saggio uomo politico d' Italia. E saggio lo era veramente se come base della sua politica estera poneva il mantenimento dell'equilibrio dei vari stati della penisola, al quale era affidata la pace d'Italia.

Semi di discordia veramente non mancavano: ISABELLA, figlia del duca Alfonso di Calabria, che nel febbraio del 1489 era andata sposa di GIAN GALEAZZO SFORZA, sollecitava il padre affinché intervenisse in favore del marito, che, sebbene ventunenne, non osava riprendere il potere dalle mani di Ludovico il Moro; il Pontefice non sapeva tollerare la violazione della pace del 1486 da parte del re di Napoli e nell'estate del 1489 dichiarava Ferdinando decaduto dal trono. 
Erano semi questi che avrebbero potuto provocare una conflagrazione pericolosa: una guerra tra Milano e Napoli, tra lo stato della Chiesa e Ferdinando, con ripercussioni a Genova, a Ferrara (Ludovico il Moro era marito di Beatrice, figlia di Ercole I), in Romagna e con la minaccia di un intervento di Carlo VIII, vivamente sollecitato dal Papa. 
Lorenzo de' Medici scongiurò il pericolo interponendo i suoi buoni uffici, e così nel dicembre del 1491 si riuscì a concludere un trattato di pace tra Roma e Napoli.

Questo fu l'ultimo successo di politica estera conseguito da Lorenzo dei Medici. La sua vita si avvicinava alla fine, quella vita che egli aveva speso nel mantenere l'equilibrio politico d'Italia e nel rassodare la potenza della propria casa in Firenze. Per conseguire quest'ultimo scopo mise in opera tutta la sua abilità e qualche volta non esitò a servirsi di mezzi spregiudicati, come quando con i denari della repubblica egli si rifece delle grandissime perdite subite nei suoi commerci.

Lorenzo de' Medici  diede anche l'ultimo colpo alla libertà repubblicana della sua patria. Firenze -osserva il Villari - « si chiamava. ancora una repubblica, i nomi delle antiche istituzioni duravano ancora, ma tutto ciò sembrava ed era solo una  ironia. Lorenzo padrone assoluto di tutto, si poteva veramente dire un tiranno; circondato di staffieri e di cortigiani, che spesso ricompensava con l'affidare a loro l'amministrazione delle opere pie; scandaloso per i suoi amori, teneva uno spionaggio generale e continuo, ingerendosi anche negli affari privati »..

Ma la sua tirannide non parve odiosa, forse perché seppe addormentare il popolo abbagliandolo con lo splendore delle feste, forse anche per la munifica protezione accordata ad artisti e letterati; ed è per questo che passò ai posteri con il soprannome di LORENZO IL MAGNIFICO. 

Letterato anche lui, e non degli ultimi del suo tempo, egli fece del mecenatismo uno strumento efficace della sua politica interna, perché gli giovava a procurarsi amicizie tra gli uomini d'ingegno e inoltre questi ultimi lo allontanavano dagli affari di stato. Lorenzo aveva ereditato dalla famiglia l'abilità e la finezza d'ingegno, ma aveva ereditato anche la gotta. 
Aggravatosi il male, egli si ritirò, nel principio del 1492, nella sua villa di Careggi da dove non si mosse più.
 Sentendosi prossimo alla fine, fece chiamare al suo capezzale un frate che allora faceva parlare molto di sé in Firenze, il ferrarese fra GIROLAMO SAVONAROLA, dell'ordine dei Domenicani. 
Nessuno fu presente al colloquio tra il principe e il nemico dei tiranni; più tardi però si disse che il Savonarola invitò Lorenzo a restituire a Firenze la libertà e, avendogli l'altro voltate le spalle, non volle dargli l'assoluzione. 
Lorenzo il Magnifico si spense, in età di quaranta anni, l' 8 aprile del 1492.

Giunte q uasi al termine le guerre interne,
ricominciano quelle degli stranieri in Italia, ed è il periodo
 di CARLO VIII in Italia, e anche di un papa straniero: il BORGIA


ci attende il periodo che va dal 1492 al 1495 > > >


Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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