SOTTOMISSIONE DEI GALLI - GUERRA MACEDONIA -GRECIA LIBERA

RIVOLTE DEI GALLI - PIACENZA E CREMONA MINACCIATE - C. AURELIO COTTA SCONFIGGE I GALLI - GLI INSUBRI SCONFITTI DA CORNELIO CETEGO - OCCUPAZIONE DI FELSINA - GUERRE CONTRO I LIGURI - DISFATTA DEI BOI - COLONIE DI MUTINA, PARMA ED AQUILEIA - ROMA E IL MEDITERRANEO ORIENTALE - SIRIA, EGITTO E MACEDONIA - FILIPPO IL "MACEDONE E I ROMANI - LA PRIMA GUERRA MACEDONICA - TITO QUINZIO FLAMININO - BATTAGLIA DI AOO - RITIRATA DI FILIPPO - BATTAGLIA DEI CINOCEFALI - FINE DELLA PRIMA GUERRA MACEDONE - LA PACE TRA FILIPPO E ROMA - IL CONSOLE FLAMININO PROCLAMA LA LIBERTÀ DELLA GRECIA
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RIVOLTE DEI GALLI

Quando nell'anno 202, ebbe termine la seconda guerra punica, l'Italia settentrionale era ormai perduta per i Romani già da un pezzo.
Sobillate prima da Annibale, da Asdrubale e da Magone, incoraggiate poi dai disastri degli eserciti di Roma (li abbiamo letti nei precedenti capitoli, prima e durante la seconda guerra punica) le popolazioni della Gallia Cisalpina si erano apertamente schierate contro la Repubblica e avevano proclamato la loro indipendenza.
Perfino i Cenomani (tribù celtica- tribù degli ailerici- che intorno al 400 a.C. si stabilì nell'odierno territorio della Francia centrale, mentre in Italia si era stanziata nei dintorni a sud del lago di Garda - odierno bresciano-veronese) che erano stati sempre fedeli amici di Roma e sovente le erano stati d'aiuto contro gli altri popoli della loro medesima stirpe, avevano rotto l'antica amicizia e si erano uniti agli altri Galli.
Anima della rivolta gallica era un prode ufficiale cartaginese di nome AMILCARE, giunto in Italia secondo alcuni con Asdrubale, secondo altri con Magone, poi rimasto nella Cisalpina.
Ribellati i Boi, i Sali, gl'Ilveti, i Cenomani, gl'Insubri e alcuni popoli liguri, con un esercito di quarantamila uomini marciò contro Piacenza che costrinse alla resa, poi la saccheggiò e la incendiò.
Dei coloni piacentini solo duemila riuscirono a salvarsi rifugiandosi a Cremona, la quale sarebbe andata incontro alla medesima sorte della consorella se, avvertita dai profughi del pericolo che correva, non avesse chiuso le porte, organizzata la difesa e inviati messaggi al pretore LUCIO FURIO PORPURIONE che campeggiava con scarse milizie intorno ad Arimino (Rimini).
Questi, ricevuto un esercito dal console C. Aurelio Cotta che era in Etruria, si portò rapidamente in aiuto di Cremona che resisteva validamente agli assedianti e, affrontati i Galli inflisse loro una sanguinosissima sconfitta.
Seimila nemici soltanto riuscirono a salvarsi fuggendo; tutti gli altri rimasero uccisi o prigionieri: Amilcare perdette la vita combattendo. Furono presi duecento carri armati, settanta insegne militari e ricchissime prede e liberati duemila prigionieri piacentini; a Roma la vittoria fu celebrata con tre giorni di festa e al pretore Lucio Furio Purpurione concesso il trionfo.
Correva l'anno 200 a.C. -altri 198 a.C.)

Quantunque vinti, i ribelli non disarmarono, anzi, l'anno dopo, radunate nuove forze, riuscirono a trarre in un agguato l'esercito del pretore GNEO BEBIO TANFILO e a causargli la perdita di seimila e seicento soldati.

Accorse in suo aiuto il proconsole LUCIO CORNELIO LENTULO, ma dopo avere destituito il pretore, non intraprese contro i nemici nessuna azione. Né la sconfitta di Bebio fu vendicata da ELIO PETO, (era console nell'anno 198, e dal pretore CAJO ELVIO, ai quali si deve la riedificazione di Piacenza.
Solo nel 196 il Senato stabilì che la guerra contro i Galli bisognava intensificarla.
Erano consoli GNEO CORNELIO CETEGO e QUINTO MINUCIO RUFO che partirono da Roma con due eserciti. Il secondo, costeggiando la marina tirrenica, giunse in Liguria, conquistò Clastidio e Litubio e il territorio dei Celelati e dei Cerdiciaci, poi marciò verso il paese dei Boi; mentre il primo con un altro esercito, passato il Po, si accampò nelle vicinanze del Mincio.
Avendo saputo che il console MINUCIO RUFO con le legioni dava il sacco al loro territorio, i Boi che si trovavano nella Transpadana con gl'Insubri e i Cenomani pregarono i loro alleati di passare il Po e correre in difesa della regione invasa, ma questi ultimi che erano minacciati da vicino dalle truppe del secondo console rifiutarono di allontanarsi dal loro paese. Ne conseguì che i Boi si staccarono dai loro confederati e ritornarono nel proprio territorio dove però non osarono affrontare l'esercito di Rufo.

Insubri e Cenomani, dopo la defezione dei Boi, posero il campo sul Mincio alla distanza di cinque miglia dall'accampamento del console CORNELIO CETEGO. Questi, avuti dei segreti colloqui con i capi dei Cenomani ed essendosi lagnato, che avevano rotto l'amicizia che da qualche tempo li legava al popolo romano, riuscì a farsi promettere che nulla avrebbero fatto contro le armi della Repubblica.
I Cenomani mantennero la promessa anzi fecero di più e di meglio. Trovandosi alla retroguardia il giorno in cui gl'Insubri ingaggiarono il combattimento contro i Romani, assalirono improvvisamente i loro connazionali, i quali non riuscirono a resistere al duplice attacco e furono disfatti, lasciando sul campo trentacinquemila morti e in mano delle truppe consolari cinquemilasettecento prigionieri, centotrenta insegne e duemila carri armati.
Conseguenza di questa vittoria fu la resa di molte città galliche e liguri della Gallia Cispadana e Traspadana, non la sottomissione completa dei ribelli, contro i quali alcuni mesi dopo dovettero marciare i consoli (lo erano nel 196) MARCO CLAUDIO MARCELLO, figlio del vincitore di Siracusa, e LUCIO FURIO PURPURIONE.
Il primo, essendo con l'esercito stanco dal lungo cammino in procinto di accamparsi sopra un'altura nel territorio dei Boi, fu improvvisamente assalito da una gran moltitudine di Galli capeggiata da COROLAMO e perdette nel primo scontro quasi tremila soldati e molti ufficiali fra cui Tito Sempronio Gracco, Marco Giunio Sillano, Aulo Ogulnio e Publio Claudio.
A dispetto degli ostinati ritorni offensivi dei nemici, il campo fu difeso valorosamente. Poco tempo dopo, Marcello rimosso il campo, passò il Po e invase il territorio di Como e qui incontrato un numeroso esercito di Insubri, iniziò la battaglia, riportando una strepitosa vittoria.
Como e ventiotto castelli furono costretti alla resa e - secondo quel che scrive VALERIO ANZIATE - in quella battaglia i nemici persero circa quarantamila uomini, cinquecentosette insegne militari, quattrocentotrentadue carri armati e moltissime collane d'oro con le quali fu fabbricata una pesante catena che fu poi appesa in Campidoglio nel tempio di Giove.

L'altro console, fatta una scorreria nel territorio dei Boi, unì le sue forze a quelle del collega e insieme marciarono su Felsina (Bologna) che fu da loro occupata, poi, incontrato un esercito di Galli ai confini della Liguria, lo annientarono. Narra TITO LIVIO che quel giorno i "Romani combatterono con tanto accanimento e desiderio di strage che dei nemici a stento si salvò chi doveva portare ai suoi concittadini l'annuncio della disfatta".
Tutte queste sconfitte non valsero a domare i Galli, che per diversi anni difesero strenuamente la loro indipendenza, obbligando la Repubblica a mantenere nella Cisalpina forti eserciti.

Nell'anno 195, ripresero le operazioni di guerra in Gallia il console L. VALERIO FLACCO, il quale, venuto a battaglia con i Boi presso la Selva Litana, uccise ottomila nemici e costrinse il resto a rifugiarsi nei loro villaggi; nel 194, lo stesso Valerio, con il titolo di proconsole, essendo i Boi sotto il comando di Dorulaco passati nella Transpadana per sollevarvi gl'Insubri, li assalì presso Mediolano (od. Milano) e li sconfisse causando loro la perdita di diecimila uomini; nel medesimo anno e nel tempo in cui Valerio batteva gl'Insubri, il console TIBERIO SEMPRONIO LONGO doveva sostenere un sanguinosissimo combattimento con un poderoso esercito di Boi, capitanati da Bojorige.
Cinquemila Romani caddero in questa battaglia e il loro campo corse rischio di essere espugnato dai barbari; questi infine, perduti undicimila uomini, furono respinti e ricacciati nei loro alloggiamenti.

Più accanita fu la guerra nell'anno seguente (193). Tutta la Liguria si era sollevata in armi; quarantamila Liguri, dopo aver saccheggiato il territorio di Piacenza e di Luni (Lunigiana) avevano posto l'assedio a Pisa, mentre i Galli Boi minacciavano le terre della Valpadana sottomesse ai Romani.
Contro i primi da Arezzo corse il console MINUCIO, ma disponendo di poche truppe e per giunta impreparate si mantenne sulla difensiva; contro i Boi andò il suo collega, il console LUCIO CORNELIO MERULA, il quale presso Mutina (Modena) costrinse i nemici a battaglia e dopo un lungo ed accanito combattimento, in cui i Romani perdettero cinquemila uomini, ventitre centurioni, quattro prefetti e un tribuno militare, inflisse ai barbari una memorabile sconfitta che costò loro quattordicimila morti.

Nella Cisalpina la guerra durò altri due anni ancora. Mentre il proconsole MINUCIO, liberata Pisa, con discreto successo marciava contro i Liguri, e l'anno dopo nel 191 il console PUBLIO CORNELIO SCIPIONE NASICA affrontava i Boi e li sconfiggeva definitivamente.
Secondo Valerio Anziate i Galli uccisi in quella battaglia furono ventottomila, i prigionieri tremila e quattrocento, le insegne conquistate centoventiquattro, i cavalli milleduecentotrenta. Vantandosi di questa vittoria, il console ebbe a dire che "dei Boi non sono rimasti che i vecchi e i fanciulli".

A Scipione il Senato decretò il trionfo, nel quale il vincitore, secondo la narrazione di Livio, "portò sui carri nemici armi, insegne, statue e spoglie d'ogni sorta e vasi di rame alla foggia gallica e molti nobili prigionieri e moltissimi cavalli; portò inoltre millequattrocentosettanta catene e collane d'oro, duecentoquarantacinque libbre d'oro, duemilatrecentoquaranta libbre d'argento".
Dopo quella sconfitta i Boi si sottomisero, ma dovettero cedere alla Repubblica metà del loro territorio, di cui Roma si servì per le nuove colonie. La prima colonia fondata nella Gallia Cispadana fu BONONIA (189 a.C.) con tremila famiglie; i fanti ebbero cinquanta jugeri di terra ciascuno, i cavalieri settanta.

Nel 187 furono fondate le colonie di Mutina e Parma e quella d'Aquileia.
Nel medesimo tempo per rendere più facili e rapide le comunicazioni tra le colonie e la madre patria furono costruite nuove strade e migliorate o prolungate le vecchie. E così nel 567 Piacenza era completamente congiunta a Rimini da una comodissima strada che dal console MARCO EMILIO LEPIDO prese il nome di "via Emilia" e Bononia era congiunta ad Arezzo per opera del console Cajo Flaminio con una prolungamento della via Cassia.
Il nuovo confine del territorio italico fu portato al Po ed alle popolazioni galliche residenti di là dal fiume, Roma lasciò la loro autonomia, volendo, prima di assoggettarle, guadagnarsi la simpatia e l'amicizia e non stimando opportuno iniziare altre conquiste che avrebbero richiesto non pochi sforzi mentre le sue legioni erano impegnate in Oriente in una guerra lunga e difficile.


ROMA E IL MEDITERRANEO ORIENTALE

Fra gli Stati del bacino orientale del Mediterraneo tre erano quelli che nella prima metà del sesto secolo di Roma si contendevano il primato: la Macedonia della quale era re FILIPPO V, la Siria sulla quale regnava ANTIOCO III e l'Egitto il cui sovrano era il fanciullo TOLOMEO V Epifane.
Avidi di dominio, questi sovrani, anziché dedicarsi a consolidare e far prosperare i loro regni, pensavano solo ad ingrandire i confini dei loro Stati a spese delle nazioni vicine, mentre l'Egitto e la Siria si contendevano il possesso della Fenicia, che nel 216 a.C., in seguito alla battaglia di Raffia, cadde in mano del primo, la Macedonia aspirava ad assoggettare le città della Grecia, la Tracia e l'Illiria.
Pur fra questi pensieri, ad Antioco e a Filippo non era sfuggito al pericolo di una minaccia dalla parte di Roma. Filippo sapeva che Roma, conquistando l'Illiria e procurandosi la simpatia delle città greche, mirava ad assicurarsi l'egemonia sulla penisola balcanica; dal canto suo Antioco conosceva che i Romani erano in buoni rapporti con l'Egitto, con Pergamo e Rodi e quest'amicizia dei tre Stati vicini con la potente Roma lo preoccupava.
Su Pergamo, che si era reso indipendente nel 281 a.C., regnava fin dal 241 ATTALO I, famoso per avere sconfitto i Galati e amato dal suo popolo per la giustizia con cui governava e per il culto delle arti organizzando un importante centro culturale. Oltre a questo farà del regno una notevole forza politica e militare.
Rodi era una minuscola repubblica, fiera della propria libertà e florida per i commerci, sulla quale si appuntavano le brame della vicina Siria.
Da qualche tempo non correvano buoni rapporti tra Roma e FILIPPO il Macedone.
Quest'ultimo, uomo ambizioso, guerriero valoroso ed esperto, ma privo di saggezza politica, geloso delle fortune di Roma, si era con ogni mezzo reso odiato alla potente repubblica occidentale. Aveva dato rifugio nella sua corte a Demetrio di Faro, avevi guerreggiato contro gli Etoli, alleati di Roma, suscitando l'intervento di questa, avevi assalite le città dell'Epiro tributarie dei Romani, aveva stretto alleanza con Annibale fin dal secondo anno che questi si trovava in Italia e da ultimo, malgrado la pace conclusa con Roma, aveva inviato in Africa in aiuto dei Cartaginesi, SOPATRO con quattromila Macedoni.
Se a tutto questo, aggiungano gli atti ostili commessi da Filippo contro il regno di Pergamo, Rodi ed Atene e il tentativo in Egitto, di spodestare, con Antioco, Tolomeo, si comprenderà facilmente come Roma rivolgendo il pensiero ad una guerra contro il Macedone non fosse mossa solo dal desiderio di espansione territoriale, ma dalla necessità di colpire la tracotanza di un nemico pericoloso e di non menomare il suo prestigio di grande potenza lasciando alla mercé di Filippo i propri amici e rimanendo sorda alle loro richieste d'aiuti.

Correva l'anno 201 a.C., e Scipione a Roma aveva celebrato il suo trionfo in Africa; i fasti furono grandiosi, ma il popolo romano era stanco della lunga guerra che aveva dovuto sostenere contro Cartagine e non voleva intraprenderne altre, per questo motivo, quando si propose di muover guerra a Filippo, i comizi si opposero.
Però il console GALBA seppe così ben convincere il popolo della necessità di quella guerra, mostrando i pericoli che avrebbe corso Roma se non si fosse prontamente fronteggiato il Macedone, che la guerra fu decisa ed al medesimo PUBLIO SULPICIO GALBA si affidò il comando delle operazioni.

LA PRIMA GUERRA MACEDONICA

Nell'autunno del 200 il console SULPICIO GALBA con una numerosa flotta, due legioni, mille cavalieri di Numidia inviati da Massinissa e gli elefanti presi a Cartagine, approdò ad Apollonia nell'Epiro.
FILIPPO il Macedone proprio in quel tempo aveva espugnato Abido sull'Ellesponto, città alleata di Rodi e del re Attalo di Pergamo, aveva stretto alleanza con Antioco re di Siria e cercava di tirare dalla sua parte gli Etoli riluttanti, quando gli giunse la notizia che i Romani erano sbarcati nelle coste. epirote. Senza perder tempo Filippo si portò in Tessaglia.
Avvicinandosi l'inverno 200-199, Sulpicio rimase inoperoso, ma, sopravvenuta la primavera, riconfermato in carica in qualità di proconsole, cominciò a molestare Filippo; corse in aiuto di Atene minacciata dalle navi del Macedone, poi con un colpo audace s'impadronì di Calcide nell'Eubea, passò per le armi il presidio macedone e saccheggiò la città.

Saputo questo, Filippo si recò velocemente in Calcide, ma non trovò più i Romani che, compiuta l'impresa, si erano già allontanati. Per vendicarsi marciò su Atene, ma fu respinto dalle milizie cittadine aiutate da alcune schiere romane e di Pergamo. Tentò allora di ingraziarsi gli Achei, ma non essendo riuscito nel suo intento si ridusse a fare varie scorrerie nel paese.
Nel 198 fu mandato in sostituzione di Galba il console TITO QUINZIO FLAMININO, giovane di trent'anni, animoso ed accorto, saggio capitano e furbo diplomatico, amante delle lettere e conoscitore perfetto dei costumi, della civiltà e della lingua dei Greci.
Sbarcato con ottomila veterani delle guerre di Spagna e d'Africa, Flaminino marciò verso i luoghi dove il re di Macedonia si teneva accampato. Stava Filippo nella stretta valle dove scorre il fiume Aoo (Vojussa), posizione da cui era difficile per un esercito sloggiare i difensori e davanti i quali Flaminino rimase quaranta giorni non riuscendogli a scacciarne il nemico. Ma quel che con il valore delle sue milizie gli era stato impossibile di fare, fece con l'astuzia. Avendogli un pastore epirota di nome CAROPO indicato certi sentieri nascosti per i quali si poteva giungere sulle cime dei monti che sovrastavano il campo macedone, Flaminino vi inviò quattromila fanti e quattrocento cavalieri e, quando fu avvertito da certe fumate ch'erano giunti, con il resto del suo esercito assalì il campo nemico.
Le truppe di Filippo si difesero valorosamente per un po' di tempo, favorite dalle posizioni occupate, ma ecco improvvisamente scendere dalle alture i Romani che presero i nemici alle spalle. Temendo di essere circondato nella valle, il re Macedone cercò scampo nella fuga e, lasciati sul terreno duemila morti, si ritirò velocemente nella valle di Tempe in Tessaglia, distruggendo ville e paesi al suo passaggio.
Con questa vittoria Flaminino si impadronì dell'Epiro e, da politico accorto qual'era, anziché trattare le popolazioni di queste regioni come nemiche, usò con loro grande clemenza e, con modi cortesi acquistatasi la loro fiducia e la loro simpatia, li convinse a staccarsi da Filippo e a favorire la causa di Roma.

BATTAGLIA DEI CINOCEFALI (197 a.C.)

Resi amici le popolazioni dell'Epiro, il console Flaminino passò in Tessaglia, prese con la forza Faloria, difesa da duemila Macedoni, e la rase al suolo, poi assalì con violenza Atrace, ma, non essendogli riuscito a costringerla alla resa, e non volendo perder tempo assediandola, passò oltre, espugnò Fanotea, Anticira, Ambriso, Iampoli, Daulisia, alcuni castelli della Focide e la città di Elazia. Ma più che la conquista di queste terre giovò al console l'alleanza con gli Achei. Costoro si erano uniti in lega nell'anno 281, allo scopo di tutelare meglio la propria indipendenza, ma insidiati e minacciati da Sparta si erano messi sotto la protezione di Filippo e così per evitare di cadere in una servitù erano caduti sotto il dominio di un altro tiranno.
Flaminino riuscì a convincere i rappresentanti della Lega Achea che se volevano viver liberi dovevano abbandonare il Macedone e stringere amicizia con Roma della quale sarebbero stati dei confederati e non sudditi. Gli Achei, persuasi dalla convincente eloquenza del console e dai successi da lui riportati, abbandonarono Filippo.
Soltanto Argo e Corinto rimasero fedeli, ma non passò molto tempo che anche quest'ultima seguì l'esempio delle altre città della Lega.
In Grecia, oltre Corinto e gli Acarnani, alleati di Filippo non rimanevano che i Beoti e Nabide, tiranno di Sparta, uomo senza coscienza, avido di danaro, violatore di donne e protettore di pirati, al quale il Macedone per legarlo di più a sé aveva concessa la città di Argo.

Ma sia NABIDE che i Beoti furono convinti da FLAMININO a rompere l'alleanza con Filippo. Con Nabide il console non dovette faticare né mettere in opera le sue arti perché fu il tiranno a proporre per primo un'alleanza con i Romani, che ben presto fu conclusa; con i Beoti invece Flaminino giocò d'astuzia.
Trovandosi egli accampato a cinque miglia da Tebe, capitale della Beozia, gli riuscì a penetrare in città per partecipare ad un'assemblea di rappresentanti della Lega, ma non visti con il console erano penetrati duemila legionari ed ai Beoti non restò altro partito che quello di staccarsi da Filippo e stringere amicizia coi Romani.
Trovandosi in difficoltà, Filippo cercò di concludere una pace onorevole e vantaggiosa, ma le trattative essendo fallite, decise di fare un ultimo sforzo affidando la decisione della guerra alle sorti delle armi.
Chiamati sotto le armi i vecchi ancora validi e i giovani di sedici anni, mise insieme un esercito di circa ventiseimila uomini e si accampò presso Fere in Tessaglia.
Ricevuto dagli Etoli un aiuto di duemila fanti e quattrocento cavalli, rinforzato poi da mille Atamani e da ottocento guerrieri di Creta e di Apollonia, il console Flaminino, si mise in movimento contro il re, nell'estate dell'anno 197.

FILIPPO, venuto a conoscenza dell'avvicinarsi del nemico, levò il campo e marciò in direzione di Scotussa; ma verso questa città marciò pure Flaminino.
I due eserciti camminarono per due giorni nella stessa direzione, divisi solo da una bassa catena di colli chiamati Cinocefali; la sera del primo giorno si accamparono i Macedoni lungo il fiume Onchesto, i Romani ad Eretria; la sera del secondo Filippo a Melambio e il console a Tetideo.

II terzo giorno, dopo una pioggia dirotta, una densa nebbia calò sui colli e sul piano. FLAMININO, temendo di cadere in qualche imboscata, non si mosse, FILIPPO invece riprese la marcia ed andò ad accamparsi all'estremità della catena, dove più tardi, fu raggiunto dagli esploratori romani.
Qui avvennero alcune scaramucce tra reparti di cavalleria che ben presto per il sopraggiungere delle opposte fanterie si mutarono in una battaglia campale.
In un primo tempo la fortuna arrise ai Macedoni che riuscirono a scacciare da un colle l'ala sinistra dei Romani; ma Flaminino, fatti entrare in azione gli elefanti, sbaragliò la sinistra macedone, quindi con rapidissima mossa corse alle spalle dell'ala destra annientandola del tutto.
Ottomila Macedoni rimasero quel giorno sul campo di battaglia e cinquemila furono fatti prigionieri; dei Romani perirono solamente settecento uomini.

Filippo, fuggito da Cinocefali, si rifugiò nella valle di Tempe e, raccolti i pochi resti del suo esercito, si ritirò nella Macedonia, sperando forse di poter presto tornare alla riscossa. Invece gli giunse la notizia che gli Achei, alleati dei Romani, si erano impadroniti di Corinto, uccidendo i duemila Macedoni che vi erano di presidio e che Leucade era stata espugnata da LUCIO QUINZIO fratello del console.
A quel punto FILIPPO chiese la pace a FLAMININO e questi gliela concesse contro il desiderio degli Etoli i quali volevano che la guerra fosse continuata fino alla distruzione del regno macedone e non capivano che la Macedonia rappresentava per la Grecia l'unica difesa dai barbari del Settentrione. Fu prima accordata una tregua dietro il pagamento di quattrocento talenti e la garanzia di ostaggi fra cui Demetrio, figlio di Filippo. Giunto poi in Grecia il consenso del Senato di Roma, furono stabilite le condizioni di pace.
Filippo si obbligò di, lasciar libere tutte le città greche d'Europa e d'Asia che erano sotto la sua signoria; di consegnare ai Romani tutte le navi; di tenere sotto le armi soltanto cinquemila soldati; di restituire i prigionieri e i disertori; di non muover guerra e stringere alleanza senza il permesso di Roma; infine di sborsare mille talenti di cui la metà subito e il resto in dieci anni.
Conclusa la pace, Filippo domandò ed ottenne di essere alleato di Roma.
Conseguenza della guerra romano-macedone fu la liberazione della Grecia dalla tirannide.

FLAMININO avrebbe potuto mantenere nelle principali città greche presidi romani ma non volle esser considerato un conquistatore né togliere la libertà alla Grecia della cui storia e civiltà lui era un sincero ammiratore. Né del resto stimò opportuno che Roma -in quel periodo- sopportasse il peso della conquista di un paese così turbolento come la Grecia; era invece una buona politica rimanere vigile protettrice.
Per festeggiare la vittoria e la ricuperata libertà a Corinto furono celebrati con straordinaria solennità i giuochi istmici (anno 196) durante i quali Flaminino rese noto per mezzo di un pubblico banditore il famoso decreto: "Il Senato romano e TITO QUINZIO FLAMININO proconsole, avendo vinto il re Filippo ed i Macedoni, vogliono e comandano che i Corinti, i Focesi, i Locresi, gli Eubei, i Magnesi, i Tessali, i Perrebi, i Ftioti e gli Achei siano liberi e vivano con le proprie leggi".
Chi scrive queste note, assistendo agli scavi a Dio, in Tessaglia, ai piedi del dominante Monte Olimpo, ha visto - con una particolare emozione- venire alla luce, una lapide che riportava il decreto sopraddetto. Dio, (Dion in Greco), allora era una città enorme, forse più grande di Atene. E' veramente curioso che pochi storici e libri accennano a questa stupenda città; gli scavi - con uno stuolo di archeologi di tutto il mondo- tuttora sono molto intensi; vie, templi, teatri, mura ciclopiche, sono già emersi da una coltre di quel terreno della Magnesia, più fine della sabbia, che sembra borotalco.
Ma queste scoperte, sono ancora off-limit per i turisti. Nè si sa perchè scomparve.
(ne riparleremo ancora - e con alcune immagini dell'autore- nel capitolo anni 149-129 a.C.)

Ma l'opera di Flaminino non era ancora finita. Gli Achei, rivali degli Spartani, si lamentavano che Argo fosse restata in potere del tiranno NABIDE e, trovate giuste le lamentele, il proconsole invitò il re di Sparta a rendere la libertà a quella città. Nabide però si rifiutò, sperando nella discordia dei vari Stati greci e dell'arrivo, che si annunziava prossimo, di ANTIOCO di Siria.

Flaminino allora dichiarò guerra a Nabide e con le sue legioni ed un esercito di cinquantamila uomini fornito dalle città greche mosse contro Sparta e costrinse il re a cedere Argo e varie città della costa laconica, a consegnare la flotta e le prede, a fornire ostaggi e pagare un tributo (anno 195).

Si oppose invece alle richieste degli Achei che avrebbero voluto Nabide rimosso dal trono in modo che la lega achea non acquistasse ulteriore potenza.
Nella primavera del 194 il proconsole convocò in Corinto i rappresentanti di tutte le città greche per esortarli alla concordia e consigliarli a sapere servirsi della libertà, che avevano da lui riottenuta. Per sé non chiese nulla, ma volendo essere utile ai suoi connazionali, domandò che senza riscatto sarebbero stati liberati gl'Italici fatti prigionieri da Annibale e venduti come schiavi in Grecia. Assommavano questi a mille e duecento e a tutti fu restituita subito la libertà.
Fatte tutte queste cose, TITO QUINZIO FLAMININO rimosse le guarnigioni romane dalle città di Corinto, di Calcide e di Demedriade e ritornò a Roma, che in premio delle sue imprese gli tributò il trionfo.
A Sparta, l'anno dopo, entrato in conflitto contro la Lega Achea, vinto da FILOPEMENE, nel 192 Nabide fu ucciso, e la città entrò nella Lega Achea, perdendo la sua indipendenza.

Se per i Romani, le cose andarono abbastanza bene in Grecia, dopo un paio d'anni, non andarono invece bene in Oriente: in Siria.

Di questa guerra "Asiatica", con protagonisti i Romani e coo-protagonista ancora una volta lo sconfitto Annibale, che lasciata l'Italia, si era rifugiato in Siria, cercando di convincere quel re ad attaccare Roma.

Sono gli anni del periodo dal 194 al 183 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

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