CARTAGINE - 1a GUERRA PUNICA - DA CARTAGINE ALLE EGADI
- LA GUERRA IN SICILIA - LE BATTAGLIE

CARTAGINE - SUE IMPRESE NEL MEDITERRANEO OCCIDENTALE - I MAMERTINI - BATTAGLIA SUL LONGANO - I MAMERTINI CHIEDONO AIUTO A ROMA - ROMA E CARTAGINE; LORO RAPPORTI - INTERVENTO DI ROMA - CONDIZIONI POLITICHE, ECONOMICHE, MILITARI DI ROMA E CARTAGINE - ANNONE - APPIO CLAUDIO CAUDICE MUOVE VERSO LA SICILIA - ARRESTO E CROCIFISSIONE DI ANNONE - BATTAGLIA DI MESSANA - II SECONDO ANNO DELLA GUERRA PUNICA; ALLEANZA FRA GERONE E ROMA - IL TERZO ANNO DI GUERRA; ASSEDIO E BATTAGLIA DI AGRIGENTO - CADUTA DI AGRIGENTO - LA FLOTTA ROMANA. - I "CORVI" - BATTAGLIA NAVALE DI MYLAE - TRIONFO DI CAJO DUILIO. - LA GUERRA IN SICILIA. - EROISMO DI CEDICIO. - BATTAGLIA DI ECNOMO - ATTILIO REGOLO IN AFRICA - BATTAGLIA DI TUNISI - BATTAGLIA DI ERMEO - FLOTTE ROMANE DISTRUTTE DALLA TEMPESTA - ASDRUBALE - BATTAGLIA DI PANORMO - AMBASCERIA DI ATTILIO REGOLO - FINE DI ATTILIO REGOLO - ASSEDIO DI LILIBEO - BATTAGLIA DI DREPANO - AMILCARE BARCA - BATTAGLIA DELLE ISOLE EGADI - PACE CON CARTAGINE - FINE DELLA PRIMA GUERRA PUNICA
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CARTAGINE

La prima guerra fra Roma e Cartagine scoppiò dopo l'unificazione della penisola italiana.
"Qart Chadascht", dai Greci chiamata "Karchedon" e dai Romani "Charthago", era una colonia fenicia dell'Africa settentrionale. Popoli eminentemente commerciali, i Fenici, fin dai tempi remotissimi (quindici secoli a. C.), avevano fondato città e colonie in moltissimi punti delle coste mediterranee: quelli di Sidone nel bacino orientale, quelli di Tiro nell'occidentale.
Nel Mediterraneo occidentale, non poche, erano le colonie commerciali e fra queste primeggiavano Utica (nell'Africa Zengitana) e Gades (nella Spagna) quando, forse nel XII secolo, fu fondata Cartagine.
Secondo la tradizione, i fondatori di Cartagine furono nobili di Tiro, ai quali il partito democratico aveva tolto di mano il potere, guidati da DIDONE, sorella del re e moglie di SICHEO, gran sacerdote del dio Melkart, che era stato ucciso dal cognato.

Ma, al contrario di Utica e di Gades, Cartagine non fu nei primi secoli della sua fondazione una colonia commerciale. I fondatori prima, i loro discendenti poi, uomini d'armi anziché mercanti, esplicarono la loro attività in guerre fortunate sul continente africano, poi ingrandirono il territorio della città tra i confini della Numidia e il mare della "Sirtis minor" (Golfo di Gabes).
Fu solo nel sesto secolo che, giunti da Tiro numerosi emigrati, in prevalenza commercianti e industriali, Cartagine da stato prettamente militare diventò una repubblica commerciale e sorse come antagonista dei Greci, i quali, padroni già del bacino orientale, stavano acquistando, anche loro per mezzo delle colonie, l'egemonia assoluta sul bacino occidentale del Mediterraneo.

Allo scopo di abbattere la supremazia greca sul mare, Cartagine si alleò con gli Etruschi, rivali dei Greci nel Tirreno, sconfisse la flotta di Massilia (Marsiglia, colonia focese) presso la Corsica, s'impadronì di Alalia in Corsica e ridusse in suo potere tutti gli insediamenti che i Focesi avevano fondato sulle coste della penisola iberica.
Con la successiva conquista della Sardegna e delle isole Baleari, Cartagine conseguì l'incontrastata egemonia sul Mediterraneo occidentale e rivolse le sue mire alla Sicilia, la quale, per esser dominata dai Greci, rappresentava una permanente minaccia alla potenza marittima della repubblica africana.

Abbiamo qua e là, nel corso di questa storia, accennato alle vicende della lunga lotta tra Cartaginesi e Greci dell'isola. Alleatasi con Reggio, Cartagine cinge, nel 274 (480 a. C.) di assedio Imera, ma è sconfitta duramente dagli eserciti di GERONE di Siracusa e TERONE di Agrigento; ritenta la prova nel 344 (410 a. C.) chiamata da Segesta, e, distrutte Selinunte ed Imera, s'impadronisce di buona parte della Sicilia; e solamente Agatocle e Pirro più tardi riescono a scacciarla (questi ultimi fatti li abbiamo letti nel precedente capitolo).

Partito Pirro, si rialzano le sorti dei Cartaginesi in Sicilia e l'isola ritorna quasi tutta in potere della forte repubblica.

I MAMERTINI

Solo due città rimanevano libere: Siracusa e Messana (od. Messina). Nella prima, dalle truppe, in gran parte formate da soldataglia, era stato acclamato capo GERONE (nulla a che vedere con l'antico omonimo) un giovane di oscuri natali, ma di animo nobile, il quale, impadronitosi della città con l'aiuto di questi soldati, aveva restaurato l'ordine e riorganizzato l'esercito, mirando a rialzare le sorti di Siracusa e a farle riacquistare l'antica potenza.

A Messana spadroneggiavano i Mamertini. Erano questi mercenari campani, assoldati a suo tempo dal tiranno Agatocle per le sue guerre contro i Cartaginesi. Morto Agatocle erano rimasti ospiti scomodi a Siracusa; erano più elementi del disordine che di aiuto alla città, e i siracusani avevano tentato più volte di disfarsene, senza riuscirci.

Finalmente i Mamertini (cioè figli di Marte; in dialetto campano Mamers corrisponde al Mars latino) si erano decisi a partire da Siracusa, ma nel loro viaggio di ritorno in patria, fermandosi a Messana (Messina), si erano a tradimento impadroniti della città, commettendo violenze ed eccidi, e vi erano rimasti, poi spalleggiati dalla legione campana della vicina Reggio (ribelli, di cui abbiamo già parlato, e che si erano impossessata della città, non rispondendo più a Roma) avevano sottomesso molte altre città vicine.

Per essersi schierati contro Pirro in favore dei Cartaginesi e perché facevano continue scorrerie nei territori vicini, erano odiati dai Greci dell'isola e costituivano una continua minaccia per lo stato di Siracusa che comprendeva le città di Acri, Leontini, Megara, Tauromenio, Elori e Neeto. I Mamertini se n'erano andati, ma non molto distanti, e già si stavano allargandosi nel circondario.

Contro di loro si mosse GERONE nel 488 (266 a.C.) e, affrontati sulle rive del fiume Longano presso Milae (Milazzo), inflisse loro una durissima sconfitta e li costrinse a ritirarsi a Messana.
Dopo questa disfatta la posizione dei Mamertini divenne insostenibile. Stretti dall'esercito siracusano e nell'impossibilità di resistere, cominciarono ad avviare trattative con Gerone per la cessione della città, ma, essendo, in quel frattempo, giunta nelle acque di Messana una flotta cartaginese al comando di ANNONE, chiesero aiuti agli alleati di una volta e ricevettero un presidio di soldati cartaginesi nella loro cittadella.
Subito però i Mamertini si accorsero di aver fatto male a mettersi sotto la protezione di Cartagine, la quale non avrebbe tardato a farsi da protettrice a padrona di Messana e, poiché il pericolo di Gerone era per il momento scongiurato, cercarono di liberarsi della presenza degli incomodi amici africani invocando l'aiuto di Roma.

ROMA E CARTAGINE

I rapporti delle due potenze erano stati fino allora apparentemente amichevoli. Datavano questi rapporti forse dal tempo dei Tarquini, certo dal primo anno della repubblica romana (245 A. di R. - 509 a.C.) nel quale era stato tra Roma e Cartagine stipulato un trattato di navigazione.
Con questo trattato si proibiva ai Romani ed ai loro alleati di navigare al di là dal Bel promontorio (Promontorium pulcrum, Capo Bon) dalla parte di levante, a meno che essi non vi fossero spinti dalle tempeste o dal nemico, nel qual caso non potevano trattenersi presso la costa più di cinque giorni.
Ma si permetteva ai Romani di commerciare liberamente ad occidente del promontorio e cioè in Africa, in Sardegna e nella Sicilia cartaginese.
Da parte sua Cartagine s'impegnava a non razziare né a danneggiare le città della costa laziale soggette a Roma, fra cui Ardea, Anzio, Laurento, Circejo e Terracina, e di cedere a Roma quelle città latine non ancora soggette che fossero cadute per caso in suo potere.

A questo trattato erano state apportate importantissime modifiche nel 406 e nel 448 (348 e 306 a.C.) con le quali si revocava il permesso già accordato ai Romani di commerciare in Sardegna e nelle coste d'Africa.
Amicizia dunque sospettosa era quella che correva tra Cartagine e Roma e ipocriti complimenti più che dimostrazione di gioia erano le congratulazioni inviate dai Cartaginesi al Senato romano e la corona d'oro, da appendersi nel tempio di Giove Capitolino, dopo la conquista del Sannio.
Che i loro rapporti non fossero di sincera amicizia e che l'una sospettasse dell'altra lo provano da una parte l'aiuto rifiutato da Roma durante la guerra contro Pirro e dall'altra l'offerta di soccorsi fatta dai Romani ai Cartaginesi impegnati in Sicilia contro il re dell'Epiro e da loro non accettati.

Nonostante i sospetti, questi rapporti erano continuati perché ad entrambe le repubbliche conveniva non compromettere l'amicizia, avendo entrambi nemici più vicini da combattere. Ma se i rapporti non si erano rovinati, erano senza dubbi molto tesi, quando nel 482 (272 a.C.) la flotta cartaginese inviata a Taranto per impadronirsene era stata costretta dal console romano PAPIRIO ad allontanarsi.

Ma ora che Roma (dopo aver stroncata nel sangue la ribellione della sua legione) era giunta fino a Reggio, davanti alla Sicilia dove i Cartaginesi si trovavano e della quale intendevano essere incontrastati padroni; ed era impossibile che potessero continuare a sussistere rapporti cordiali, i quali, del resto, erano stati contratti non per confermare e sviluppare reciproci sentimenti d'amicizia, ma per evitare possibili ragioni di dissidio e tutelare i propri interessi in contrasto. Inoltre, cosa molto importante; Cartagine possedeva da un millennio una flotta di navi; Roma non aveva neppure un naviglio da guerra.
Ammesso che potesse sbarcare in Sicilia, se i cartaginesi con le loro navi bloccavano lo stretto, per i Romani non ci sarebbe stato scampo.

I due stati stavano ormai di fronte e solo un braccio di mare li separava. Fiaccata la potenza delle colonie greche, non era più l'ellenismo della Sicilia e dell'Italia meridionale il grande rivale di Cartagine; era invece Roma, la temuta nuova potenza, da qualche tempo rivale, e che a quelle colonie si era sostituita.
A sua volta anche Roma, che ora, erede della Magna Grecia, aveva bisogno di espandere sul mare il suo commercio, Cartagine era una barriera che bisognava infrangere; era quella stessa barriera che nel 245 dalla sua fondazione, le aveva proibito di oltrepassare con le navi il capo Bon verso levante e un secolo dopo aveva vietato a Roma di trafficare con l'Africa e la Sardegna.
Anche se la richiesta dei Mamertini non avesse messo le due repubbliche l'una di fronte all'altra per ineluttabilità di cose il dissidio sarebbe scoppiato lo stesso.

INTERVENTO DI ROMA IN SICILIA

I Mamertini, invocando in loro favore l'intervento di Roma, giustificavano la richiesta d'aiuti ritenendosi della stessa nazionalità
Questi, infatti, dicevano di essere Italioti e perciò alleati di Roma. E questo era verissimo, però i Mamertini avevano sempre agito senza il permesso della repubblica e per giunta si erano macchiati di orribili delitti. Questi semmai meritavano una punizione esemplare anziché protezioni e aiuti; e molti nel Senato questo lo pensavano.
Grave e imbarazzante era la decisione che i senatori erano chiamati a prendere. Sì trattava di prendere le difese dei Mamertini o di abbandonarli al loro destino. Nel primo caso, aiutando un'accozzaglia di banditi, si sarebbe commessa un'azione indegna dell'onore romano; nel secondo si sarebbe lasciata Messana alla mercè dei Cartaginesi.

Doveva prevalere la ragione morale o l'interesse politico?
Il Senato non volle pronunziarsi ed assumere una così grave responsabilità e preferì che fosse il popolo a prendere una deliberazione tanto importante.
E il popolo - affermano certi storici - agì saggiamente, mostrando di essere pienamente consapevole della missione di Roma, e della via che doveva scegliere, e, deliberando che si dovesse intervenire in favore dei Mamertini, ebbe soltanto presente - e fece bene - i vitali interessi della repubblica.

La soluzione della questione era molto complessa. E gli storici ci hanno lasciato ben poco. Polibio ad esempio, non dice quale assemblea approvò l'alleanza con i "briganti"; afferma solo che il popolo, fu convinto dai capi militari che rappresentarono la guarnigione punica nello stretto come un grave pericolo, e illustrarono i vantaggi che sarebbero derivati ai cittadini romani l'alleanza con i Momentini e una guerra in Sicilia. Fra questi vantaggi il grano della ricca isola da portare a Roma a guerra vinta.
A parte questi demagogici motivi, i militari forse erano gli unici a rendersi conto della grande importanza strategica; quella di bloccare l'avanzata cartaginese, sicuri che prima o poi, i cartaginesi, da quella testa di ponte, avrebbero scatenato una guerra.
Se l'opinione dei senatori era divisa, lo si deve anche ad una certa avversione della vecchia aristocrazia, che non vedeva di buon occhi l'espansione romana; per due motivi: la politica delle conquiste aveva rafforzato l'assemblea democratica; e le stesse guerre aveva innalzato al senato e al consolato un gran numero di eroi di guerra. Dalle "Forche caudine" in poi, l'assemblea democratica riusciva ad esercitare il decisivo diritto di ratifica alle dichiarazioni di guerra o di pace; e con la successiva "lex Ortensia" dava perfino all'assemblea popolare il potere di assumere l'iniziativa e di decidere su qualsiasi questione di stato senza tener conto del senato.
Se poi andiamo a vedere pure l'aspetto economico; l'aristocrazia senatoriale che aveva in mano i terreni e il commercio, l'espansione rappresentava un gravissimo danno; con le acquisizioni i terreni valevano sempre meno, e in quanto al grano, già costava poco, ma con un'eventuale annessione della Sicilia -conosciuto come il granaio per eccellenza- il prezzo sarebbe crollato e addio lauti guadagni.
L'argomento moralistico sui Mamertini, era solo un ipocrito pretesto; anche perché Gerone, pure lui era arrivato al potere con un'azione non meno discutibile. Fino al punto che qualcuno disse, che in fin dei conti, se i Mamertini erano dei briganti, lo erano stati quando Roma non dominava ancora fino a Reggio, e che quindi era stata una questione interna della Sicilia; e che bisognava essere "pragmatici" (questo vocabolo lo usò poi Polibio, per giustificare l'intervento- anticipando così Machiavelli, che se non proprio copiò, tuttavia s'ispirò allo storico greco diventato poi romano, e che oltre che essere uno storico, era un consumato politico).


Tuttavia il Senato per tergiversare il suo intervento, prima che la decisione popolare fosse conosciuta, mise davanti una ragione, che doveva giustificare la sua condotta; mandò cioé ambasciatori a Cartagine perché chiedessero conto dell'invio da parte dei Cartaginesi di una flotta a Taranto nel 482, sette anni prima! (qui sembrano patetici, si ricordano di farlo dopo tanto tempo).
Il Senato cartaginese rispose negando che Cartagine, con l'invio della flotta avesse allora avuto l'intenzione di impadronirsi di Taranto.

Ma se la richiesta di Roma era solo un pretesto per rompere i rapporti e giustificare una prossima dichiarazione di guerra, la risposta di Cartagine non rispondeva alla verità dei fatti ed era dettata dalla prudenza e - perché non dirlo? - pure loro avevano il timore di una guerra con Roma.
Cartagine avrebbe volentieri evitato un conflitto armato con la sua alleata della penisola, conoscendo perfettamente le condizioni in cui Roma e lei stessa si
trovavano.
I Romani erano un popolo disciplinato, pieno di grandi energie, che disponeva di poderose forze armate. Roma non era un insieme di popoli soggetti ad una città, pronti a ribellarsi, ma una nazione i cui vari elementi erano legati da vitali interessi. Era inoltre uno stato militarmente potente, fornito di eserciti non mercenari che combattevano per la propria patria, rotti a tutte le fatiche, abituati a battersi e a vincere.

Inoltre il teatro dove si sarebbero svolte le operazioni di guerra era a due passi dalla penisola e questa vicinanza costituiva un vantaggio grandissimo per gli eserciti romani.
L'esercito cartaginese invece era un'accozzaglia di mercenari libici, di Numidi, di Greci, di Ispani, di Galli, che aveva poca disciplina, metodi diversi di combattere ed erano gli uomini spinti a far la guerra solo dall'amore della paga e del bottino, non dal desiderio della gloria e dall'affetto per Cartagine.

Soltanto la cavalleria era composta esclusivamente di Cartaginesi, quasi tutti nobili, e una legione che era chiamata sacra. Inoltre queste truppe erano sfiduciate da una lunga serie di sconfitte.
Non meno liete di quelle del suo esercito erano le condizioni dell'impero cartaginese. Questo mancava di quella compattezza geografica e politica che invece Roma aveva. I domini erano estesi, ma disgregati, né Cartagine aveva saputo fonderli o cementarli, stringerli fra loro con legami d'interessi e legarli a se stessa. Cartagine non pensava che a sé, era la dominatrice superba, tirannica, egoistica e la sfruttatrice odiosa dei suoi sudditi, i quali guardavano alla capitale come ad una nemica che li opprimeva. Come nessuna simpatia, nessuna fiducia, Cartagine aveva saputo ispirare alle varie parti del suo impero, allo stesso modo nessun amore aveva saputo il governo della città ispirare agli abitanti di Cartagine.

Un insanabile dissidio esisteva tra democrazia ed aristocrazia, che ostacolava ogni azione. Il potere era in mano a due Suffeti (magistrati annuali), ad un Senato di trenta membri e ad un collegio detto dei Centoquattro, ma mentre il Senato era prevalentemente democratico, i Centoquattro erano aristocratici che esercitavano una sorveglianza occulta sui senatori ed i suffeti.
Se tutto questo metteva Cartagine in una posizione d'inferiorità rispetto a Roma, non le mancavano però i vantaggi sulla rivale.
Solide erano le sue finanze e tali da permetterle qualsiasi sforzo. Si aggiungano alle ricchezze una potentissima flotta, che neutralizzava in parte il vantaggio che Roma aveva per la vicinanza della Sicilia alle sue basi; e aveva marinai abilissimi ed esperti ufficiali di marina, che tramandandosi da padre in figlio conoscevano l'arte della navigazione, e ogni angolo del Mediterraneo.

Ma questi vantaggi non erano tali da assicurare la superiorità su Roma a Cartagine; erano anzi scarsi in confronto di quelli che militavano in favore della rivale, ed alla consapevolezza di questo stato di cose bisogna, come abbiamo già detto, attribuire il desiderio di Cartagine di non rompere i rapporti con Roma.

GAJO CLAUDIO

ANNONE, che era giunto con la sua flotta a Messena, dovette avere istruzioni precise dal governo cartaginese: evitare con un'accorta politica la guerra e togliere qualsiasi pretesto ai Romani.
La condotta diplomatica dell'ammiraglio fu molto abile; e poiché a chiedere l'intervento di Roma erano stati i Mamertini e la radice prima del conflitto era nella guerra tra questi e Gerone, Annone riuscì a pacificare Mamertini e Siracusani e persuadendo Gerone a togliere l'assedio.

Dopo quest'abile negoziato, ogni motivo d'intervento romano cadeva, ma Roma non volle tener conto del fatto nuovo ed ordinò ugualmente al console APPIO CLAUDIO CAUDICE di recarsi, con l'esercito che era già stato allestito, in Sicilia, a Messena.
Locri, Neapolis, Taranto ed altre città greche fornirono le navi per il passaggio dello stretto e il console incaricò GAJO CLAUDIO, suo luogotenente, di presiedere alle operazioni d'imbarco e sbarco. Era stata a Reggio imbarcata una parte delle truppe romane quando un'improvvisa tempesta scompigliò la flotta. Alcune navi, sbatacchiate dal vento, caddero in mano dei Cartaginesi.
ANNONE che doveva evitare che nascesse un casus belli, rimandò libere le navi, ma Claudio non fu commosso da quest'atto leale dell'ammiraglio, rifiutò i navigli catturati e rinnovate le operazioni le condusse a termine felicemente.

Sbarcato in Sicilia Claudio entrò a Messana alla testa di numerose schiere e convocò il popolo in assemblea, esponendo il proposito di risolvere pacificamente la vertenza. All'adunanza fu invitato l'ammiraglio cartaginese e questi, per nulla sospettoso, anzi desideroso di contribuire all'opera di pacificazione, non mancò d'intervenire.
Male però glie ne incolse, perché Claudio lo fece subito arrestare e condurre in prigione e lo costrinse ad impartire ordini ai Cartaginesi di sgombrare la cittadella.

Solo quando il presidio punico fu uscito da Messana, Claudio lasciò libero l'ammiraglio, il quale fu lui a pagare con la vita la slealtà di Claudio.
Richiamato infatti, a Cartagine, accusato di avere ritirato la guarnigione e di essere ingenuamente caduto nelle mani dei Romani, Annone fu crocifisso.


BATTAGLIA DI MESSANA (Messina)

Riuscito inutile ogni tentativo amichevole di composizione, giunti a questo punto di non ritorno, entrambe le due potenze, iniziarono a far parlare le armi.
Cartagine armò un esercito e con una flotta comandata da un ammiraglio, che aveva lo stesso nome del precedente: Annone; lo inviò in Sicilia alla volta di Messana, poi convinse i Siracusani a formare una lega contro Roma.
Due eserciti nemici in breve tempo comparvero presso la città contesa: i Cartaginesi e i Greci; i primi si accamparono a nord, gli altri a sud di Messana.
Il console APPIO CLAUDIO non perse tempo; sbarcato con il resto delle sue truppe che raggiungevano la cifra di ventimila uomini, deciso a dar battaglia separatamente ai due nemici, prima si mosse contro GERONE sconfiggendolo e mettendolo in fuga; poi affrontò i Cartaginesi.

Questi erano in una forte posizione, solidamente trincerata. Impetuoso fu l'assalto sferrato dai Romani contro il campo nemico, ma i Cartaginesi resistettero magnificamente, respinsero anzi gli assalitori e li costrinsero a ritirarsi. Non contenti, vollero sfruttare il successo e, usciti dal campo, si diedero ad inseguire i legionari.

Ma il successo anziché al loro valore era dovuto agli ottimi trinceramenti. In aperta campagna invece, assaliti abilmente dalle truppe del console, furono completamente sbaragliati.
Dopo queste due vittorie APPIO CLAUDIO marciò su Siracusa, ma qui la fortuna non arrise ai Romani che furono respinti dalle schiere di Gerone né migliore sorte ebbero i legionari ad Echetla, fra il territorio siracusano e quello cartaginese, dove la loro marcia fu violentemente arrestata. Allora il console ritornò a Messana (490 di Roma - 264 a.C.) e, lasciatavi una numerosa guarnigione, ritornò nella penisola.

IL SECONDO ANNO DI GUERRA - ALLEANZA TRA GERONE E ROMA

Nel 491 la guerra in Sicilia fu condotta da Roma con forze maggiori, e con due consoli inviati nell'isola: MARCO OTTACILIO CRASSO e MANIO VALERIO MASSIMO detto Messalla, ciascuno al comando di due legioni.
I Cartaginesi, che disponevano di poche forze, non poterono né vollero ostacolare le operazioni degli eserciti nemici e questi con molta facilità riuscirono ad impadronirsi di sessantasette centri abitati, fra cui, degni di nota, Catana, Agira, Centuripe, Alicia ed Egesta. Tutte queste città, stanche delle dolorose vicende dell'isola, dovute ai tiranni ed ai Cartaginesi, accolsero amichevolmente i Romani; e lo stesso GERONE, ammirando il contegno corretto dei legionari e costatando i progressi da loro fatti, abbandonò Cartagine ed offrì a Roma la sua alleanza, pagando un'indennità di guerra di cento talenti e restituendo i prigionieri.
A Gerone fu lasciata la sovranità su Siracusa e le città a questa dipendenti. Quest'alleanza fu vantaggiosa per Siracusa e per Roma perché quella riuscì con un lungo periodo di pace, raggiungere la floridezza d'una volta e questa riuscì a sfruttare un importante base di rifornimento sulla costa orientale dell'isola e di aiuti non indifferenti

IL TERZO ANNO DI GUERRA - ASSEDIO E BATTAGLIA DI AGRIGENTO

Nel 492 (262 a.C.) Cartagine allestì un imponente esercito. Inviò in Sardegna ANNONE con un contingente affinché si tenesse pronto a sbarcare in Italia e a colpire Roma nei suoi punti più vulnerabili, e spedì ANNIBALE, figlio di Gisgone, con un altro esercito in Sicilia allo scopo di ricuperare le città perdute e rianimare le truppe rimaste nei luoghi non ancora occupati dai Romani. ANNIBALE, alla testa di cinquantamila uomini, entrò nella città Agrigento e consolidò ulteriormente il suo esercito.
Da parte Roma, per difendersi dalla minaccia di una spedizione in Italia di Annone, costituì un esercito che rimase di guardia nella capitale; mentre in Sicilia fece andare quattro legioni sotto il comando dei consoli LUCIO POSTUMIO MEGELLO e QUINTO MAMILIO VITULO, che subito marciarono direttamente su Agrigento e posero il campo a sud-est della città ad una distanza di un paio di chilometri.
Il primo a tentare la sorte delle armi fu ANNIBALE, muovendosi contro il campo romano, e lo assalì; ma le sue truppe non riuscirono a vincere la resistenza dei legionari, anzi, respinte, subendo molte perdite, furono costrette a ritirarsi dentro le mura della città. Resi baldanzosi da questo successo, i consoli strinsero di più Agrigento e posero un secondo campo a sud-ovest, presso Eraclea.
L'assedio durava da cinque mesi, quando Cartagine, abbandonata l'idea dell'invasione della penisola dalla Sardegna, ordinò ad ANNONE di correre in soccorso di ANNIBALE con il suo esercito composto di cinquantamila fanti, seicento cavalieri e cinquanta elefanti.
Giunto in Sicilia, Annone si accampò anche lui nei pressi di Eraclea ed iniziò la sua attività con un colpo di mano su Erbesso, che era la base dei rifornimenti dell'esercito romano. Scopo di Annone era di costringere i due consoli a togliere l'assedio e vi sarebbe riuscito se Gerone non avesse provveduto in tempo a vettovagliare gli alleati.
L'assedio si protrasse per altri due mesi. L'esercito africano chiuso dentro le mura di Agrigento era ridotto a mal partito ed Annibale sollecitava Annone all'esterno a dare battaglia.
La battaglia non tardò a venire, ma riuscì disastrosa per le truppe cartaginesi e dimostrò come è dannoso affidare le sorti di un combattimento a truppe mercenarie.
Furono, infatti, proprio queste che determinarono la sconfitta. Assaliti con impeto dai Romani, i mercenari, che costituivano le prime linee, resistettero scarsamente alla irruenza delle truppe consolari e, girate le spalle, portarono lo scompiglio tra gli elefanti, e questi imbizzarriti fecero il resto creando il caos.
Gli Africani di Cartagine, che nello schieramento si trovavano all'ultimo posto, furono anch'essi travolti nella fuga e la giornata finì con una memorabile sconfitta dell'esercito di Annone, che lasciò il campo con ogni cosa. Il bottino con il saccheggio che seguì, fu immenso, e durò buona parte della notte.

Se Annibale avesse disposto di forze sufficienti forse avrebbe potuto con una sortita infliggere gravi perdite ai Romani impegnati in quel momento solo a raccogliere il bottino, ma i superstiti del suo esercito, dopo sette mesi di assedio, erano sfiniti e sfiduciati e la vittoria del nemico li aveva talmente abbattuti che preferirono la fuga. Durante la notte, senza esser visti dai Romani, alla spicciolata, senza far rumore, uscirono dalla città e raggiunsero la flotta.
Agrigento così cadde in potere dell'esercito consolare. Dopo un assedio così lungo la povera città era ridotta in uno stato pietoso, la fame e la pestilenza aveva causato un gran numero di vittime. I Romani fecero il resto e oscurarono la fama della loro vittoria con violenze feroci, con orribili stragi e con il saccheggio. Venticinquemila abitanti, scampati alla morte, furono condotti in schiavitù.
GERONE, re di Siracusa, pur avendo -schierandosi con i Romani- già pattuito di lasciare il governo di Siracusa, fu costretto a stipulare un patto di resa, e come re dei Siculi, a limitare la sua sovranità alla Sicilia sudorientale.

LA FLOTTA ROMANA

La vittoria su Siracusa, come abbiamo appena visto, era stata netta, ed era la solita che i Romani erano da un po' di tempo abituati a vincere, ma era terrestre, e non erano queste vittorie che potevano decidere le sorti della guerra, con una potenza -nonostante tanti difetti già visti sopra- come quella Cartaginese.
Cartagine era una potenza marittima, la sua flotta aveva il dominio incontrastato del mare e rendeva precarie le conquiste romane in Sicilia. Le coste erano continuamente sotto la minaccia delle forze navali nemiche, le quali, con frequenti sbarchi, tenevano impegnate le forze legionarie, tornavano ad impadronirsi delle regioni costiere dell'isola e - senza ricorrere a tanta audacia, perché non avevano avversari a contrastarli- si spingevano anche sulle coste della penisola.
Roma comprese allora che se voleva mantenere le sue conquiste in Sicilia e continuare vittoriosamente la guerra, doveva vincere il nemico sul mare.
Ma non poteva farlo senza una forte flotta.
E' da mettere nel numero delle favole quello che molti storici ci raccontano (seguendo queste tracce, lo abbiamo scritto anche noi) che cioè Roma a quel tempo non possedeva navi. Molti storici a tale proposito lo hanno nascosto ma spesso si sono contraddetti.
Che invece le possedessero - mercantili e da guerra - lo attestano numerose prove. E fra queste bisogna mettere in prima linea i tre trattati navali stipulati con Cartagine nel 245, 406 e 448. (rispettivamente nel 509, 348, 306 a.C.).
E nessuno fa trattati navali se non possiede navi. Inoltre se ricordiamo, a Taranto nel 482 (272 a.C.) fu inviata una flotta, e alla resa della città, tutte le navi di quel porto, il più importante della penisola, furono inviate a Roma. E moltissime navi doveva possedere in questo periodo Siracusa, giacché tanto tempo prima si era presa il lusso di inviare una flotta di 200 navi in Grecia per contrastare i Persiani.

Sappiamo inoltre che Anzio (altro importante porto tirrenico) alla sua resa aveva consegnato alla vittoriosa Roma la sua flotta al principio del quinto secolo, che navi romane erano state catturate dai pirati presso la Sicilia dopo la presa di Vejo.
E se queste prove non bastassero si potrebbe aggiungere che nel 443 era stata accolta la proposta del tribuno Decio di istituire i "duunviri navales" e che i marinai erano reclutati fra i proletari e i liberti delle città costiere alleate, e a conferma di questo sappiamo dell'istituzione dei "socii navales".
Ma se è ormai fuor di dubbio che Roma possedesse una flotta è necessario però dire che non era da mettersi a confronto con quella cartaginese, sia per numero di navi, tecnica di costruzione che come allenamento degli equipaggi.
Nè le navi di Roma avevano la mole e la velocità dei navigli di Cartagine. Le più grandi navi che Roma possedeva erano le triremi, cioè legni a tre ordini di remi per ogni fianco, di stampo antico e di scarsa velocità che richiedevano oltre centocinquanta rematori.
Cartagine invece aveva anche "pentere" o "quinqueremi", navi cioè a cinque ordini di remi, velocissime e potenti, per ognuna delle quali occorrevano circa duecentocinquanta rematori (quelle di questo periodo, raffigurate in un mosaico scoperto da poco ad Ostia, possiedono pure immense vele)

La tradizione ci riferisce (Polibio) che nel 494 (260 a.C.) il senato romano ordinò di costruire una poderosa flotta e che in due mesi centoventi navi furono costruite e allestite. Ci riferisce anche che i Romani presero a modello una quinquereme cartaginese arenatasi sulle coste d'Italia nel 490.
Ma se può ammettersi che il modello sia stato cartaginese, non può ritenersi esatta la cifra di due mesi i quali se potevano esser sufficienti per dei cantieri bene attrezzati e forniti d'abili operai non potevano bastare per Roma che tali cantieri e tali maestranze non aveva. Inoltre a Roma mancavano del tutto truppe di marina, né i soldati -trasformati in marinai in due mesi- frettolosamente addestrati erano in grado di competere con i Cartaginesi, che appena lasciata la culla erano già sulle navi.
Il successo di una battaglia navale riposava allora nell'abilità degli equipaggi ed alla manovra, che consisteva nella rapidità delle mosse e nel colpire prima e meglio la nave avversaria con il pesante rostro della prua; alla manovra era affidata la vittoria (e senza le grandi armi d'oggi di lunga gittata, solo la manovra era fino all'inizio del XX secolo, l'arma vincente delle potenze marinare)
I Romani, non potendo per la brevità del tempo crearsi degli equipaggi abili, pensarono di riformare la tattica navale e di sostituire l'"arrembaggio" allo "speronamento".
Munirono pertanto le proprie navi di un ponte mobile, lungo undici metri circa e largo due, fiancheggiato da parapetti e munito all'estremità di arpioni di ferro. Questi ponti, che furono detti "corvi", erano legati ad un albero piantato a prua e con un ingegnoso sistema di funi potevano essere abbassati di fronte o dai fianchi, e, cadendo sulla nave nemica, la immobilizzavano con gli arpioni.
Il combattimento navale, con l'uso di queste nuove macchine, finiva di essere maestria di marinai e sì trasformava in battaglia molto simile a quella terrestre, perché i soldati romani potevano passare nella nave avversaria e, mettendo in opera tutta la loro bravura del corpo a corpo, avere ragione del nemico.

BATTAGLIA DI MYLAE

Nel 494 (260 a.C.) la flotta romana, composta di centoventi navi delle quali cento erano quinqueremi e solo venti triremi, prese il mare dirigendosi verso le acque della Sicilia, presso la quale mutava di bordo l'armata cartaginese che contava dieci navi di più di quella romana ed era comandata da quell'ANNIBALE che per sette mesi aveva difeso la piazzaforte di Agrigento.

La prima volta che le navi romane si trovarono di fronte alle nemiche fu all'isola di Lipari; attirati da una trappola. Chiamato dagli isolani, che, d'accordo con l'ammiraglio di Cartagine, dichiaravano di volersi dare a Roma; vi era andato con una squadra di navi il console GNEO CORNELIO SCIPIONE. Ma mentre si trovava nel porto, comparsa la flotta cartaginese, fu bloccato e dovette arrendersi.
A questo primo insuccesso romano seguì uno scontro vittorioso per le armi di Roma. La flotta romana si trovava presso il capo Peloro, quando Annibale, spintosi audacemente con cinquanta navi in quelle acque per spiare le mosse del nemico, assalito improvvisamente fu messo in fuga e dovette lasciare nelle mani degli avversari alcuni navigli.
Ma queste non erano che le prime avvisaglie della grande battaglia navale che doveva essere combattuta.

Questa avvenne - nel corso dello stesso anno 260 a.C.) nelle acque di Mylae (Milazzo), a poca distanza da Messana. Prime a muoversi furono trenta navi cartaginesi che avanzarono disinvoltamente contro la flotta romana comandata dal console CAJO DUILIO. Ma quando furono a pochi metri di distanza e i rematori arrancavano per imprimere maggior velocità ai legni pronti a speronare, ecco calare precipitosamente i "corvi" e le navi di Cartagine riempirsi di legionari. Giunte in aiuto le altre, la battaglia divenne generale, ma a nulla giovò la perizia degli equipaggi di Annibale; la vittoria fu di Duilio.

I Cartaginesi a Milazzo, persero ottanta navi ed Annibale sarebbe caduto prigioniero se non fosse riuscito a stento a salvarsi con un'imbarcazione.
Roma giubilò all'annunzio di quella vittoria, la quale dimostrava che ormai nulla più doveva temersi per mare da Cartagine e, tornato Duilio alla capitale, fu celebrato per lui un magnifico "triumphus navalis"; e perenne ricordo della vittoria fu innalzata nel foro una colonna ornata dei rostri delle navi nemiche.

LA GUERRA IN SICILIA

L'anno dopo, nel 259 a.C., Roma volle estendere il teatro delle suo operazioni militari. Il console LUCIO CORNELIO SCIPIONE, fratello dell'altro Scipione che era stato catturato a Lipari, inviato in Corsica si impadronì della città d'Aleria; portatosi poi contro Olbia, in Sardegna, dovette rinunziare all'impresa. Nel frattempo il collega CAJO AQUILIO FLORO combatteva contro il nemico in Sicilia; ma la sua di questo stesso anno, fu una campagna sfortunata che diede modo ai Cartaginesi di rafforzarsi nella parte occidentale dell'isola.
Nominato proconsole nel 258 a.C., FLORO ottenne qualche vittoria e riconquistò le città di Mittistrato e Camarina. Qui però poco mancò che non cadesse prigioniero con tutto l'esercito, che, trovandosi in un'augusta valle, fu circondato improvvisamente dalle forze nemiche e sarebbe stato costretto ad arrendersi se un tribuno romano di nome QUINTO CEDICIO, sacrificando la sua vita e quella di un manipolo di audaci suoi compagni, non avesse salvato le legioni. Alla testa di quattrocento uomini, dopo d'avere ottenuta licenza dal console, corse ad assalire un'altura, richiamando su quella posizione la maggior parte delle forze cartaginesi. La lotta di quel pugno di uomini votati alla morte contro una moltitudine di nemici fu violentissima; e tutti e quattrocento caddero sul terreno; ma l'esercito di Roma, mentre il nemico era impegnato, riuscì a uscire dalla stretta e mettersi in salvo.
Cedicio sopravvisse: fu rinvenuto sanguinante sotto una montagna di cadaveri; portato poi a Roma ebbe la ricompensa del suo eroismo una corona d'oro.

BATTAGLIA DI ECNOMO (256 a.C.)

Le operazioni in Sicilia si trascinarono con alterna vicenda fino a tutto il 257 a.C. poi nel corso di quest'anno avvenne una battaglia navale presso il promontorio di Tindaro nella quale Romani e Cartaginesi si dissero entrambi vittoriosi; ma sembra che fu sconfitto Amilcare.
Essendo riusciti inutili per tre anni gli sforzi delle armi di Roma di impossessarsi della Sicilia, il Senato aveva già stabilito, seguendo l'esempio di Agatocle, di trasferire la guerra in Africa.
Decisa quest'impresa, si era allestita una formidabile flotta. Trecento, erano i navigli, e ciascuno, oltre ai trecentotrenta rematori, doveva contenere centoventi soldati. Era comandata dai consoli LUCIO MANLIO VOLSONE e MARCO ATTILIO REGOLO, i quali, nella primavera del 256 a.C., partirono per la Sicilia.
Giunti presso la foce dell'Imera, dove erano radunate le quattro legioni della Sicilia che dovevano essere trasportate in Africa, furono eseguite prontamente le operazioni d'imbarco e queste erano appena finite quando all'orizzonte apparve la flotta cartaginese.
Era un'armata enorme. Circa trecentocinquanta navi la componevano e la comandavano ANNONE ed AMILCARE, successi ad Annibale, che, accusato di viltà dopo la battaglia di Mylae, era stato crocifisso.
All'Imera fu combattuta la più grande battaglia navale dell'antichità, che prese il nome di Ecnomo dal monte omonimo.
Seicentocinquanta navi si trovavano di fronte con a bordo più di trecentomila uomini.
Lo schieramento della flotta cartaginese fu fatto sopra una sola linea, la cui destra fu messa sotto il comando di Annone e la sinistra sotto quello di Amilcare.
Una formazione diversa prese l'armata romana: delle quattro squadre in cui era stata divisa, tre si disposero a triangolo con uno dei vertici fronteggiante la linea nemica, la quarta si schierò, come riserva, dietro alla squadra che faceva di base al triangolo. In testa erano le due navi ammiraglie. La formazione della flotta romana mostrava chiaramente il disegno di spezzare al centro la nemica ed i due ammiragli cartaginesi stabilirono si assecondare il piano avversario e di trarne vantaggio con il dividere le squadre romane.
Fu perciò che il centro cartaginese, premuto dalle due squadre romane convergenti al vertice d'attacco, cedette facilmente e si aprì trascinandosi dietro le prime due squadre assalitrici mentre le due ali attaccavano la squadra di base e quella di riserva.
Divisa in tre parti, la flotta romana - secondo Amilcare e Annone - doveva offrire minore resistenza ed essere con più facilità battuta. Ma non fu così. Le ultime due squadre resistettero con grande bravura e le prime due, sgominato il centro, ebbero il tempo di accorrere in aiuto delle altre e sconfiggere insieme con quelle le ali.
La sconfitta costò numerose perdite ai Cartaginesi: trenta navi furono affondate e sessantaquattro catturate, mentre solo ventiquattro furono quelle romane distrutte.

ATTILIO REGOLO IN AFRICA

Le forze superstiti della flotta nemica dopo la sconfitta fecero vela verso Cartagine per proteggerla da un attacco; e avevano ragione, perché i consoli, libera la via del mare, puntarono proprio sull'Africa.

Lo sbarco delle legioni romane avvenne ad Oriente del Capo Bon, dove la città di Clipea fu facilmente conquistata. Poco dopo però il console MANLIO fu richiamato a Roma per le elezioni e, certo dell'inferiorità delle armi cartaginesi, si portò dietro la maggior parte dell'esercito e della flotta, lasciando al collega REGOLO quaranta navi, quindicimila fanti e cinquecentocinquanta cavalieri. Eppure furono sufficienti queste esigue forze ad Attilio Regolo per continuare vittoriosamente la guerra. I Cartaginesi, demoralizzati di avere in casa il nemico, furono vinti in parecchi scontri, lasciando libera ai legionari la via della capitale dopo la perdita di Adis e Tunisi.
Ora non si battono più e, per quanto dispongano di forze considerevoli, di un buon numero di elefanti e di una cavalleria rispettabile, si proteggono prudentemente sulle alture dove queste forze non possono essere utilmente spiegate; la decisione fu quella di chiedere la pace.

ATTILIO REGOLO è ben disponibile a concederla, ma detta condizioni durissime: il nemico deve cedere la Sicilia e la Sardegna; pagare una forte indennità di guerra ed un tributo annuo; restituire i prigionieri senza il riscatto, ma con un riscatto i suoi; impegnarsi a non muovere guerra senza il permesso di Roma; rinunziare alla flotta.
Sono patti che il vincitore fa ad un nemico vinto e stremato; ma le condizioni di Cartagine non sono così disperate, rifiuta le condizioni imposte e si prepara alla riscossa.
AMILCARE richiama dalla Sicilia una parte dell'esercito, assolda mercenari in Grecia, in Numidia e in Spagna e da Sparta assolda un famoso generale, SANTIPPO.
Questi riordina l'esercito punico e nella primavera, presso Tunisi, dà battaglia all'esercito romano rimasto ozioso tutto l'inverno.
La cavalleria cartaginese, molto più numerosa di quella romana e i cento elefanti africani decisero le sorti della giornata, che fu disastrosa per i legionari; soltanto duemila riuscirono a salvarsi raggiungendo Clipea; lo stesso ATTILIO REGOLO cadde prigioniero con cinquecento dei suoi soldati mentre tentava di salvarsi con la fuga.

Cartagine doveva questa vittoria ad un uomo, ma è incerta la fine poi fatta da SANTIPPO. Secondo alcuni , lui odiato dai generali cartaginesi, si ritirò a vita privata, secondo altri, mentre se ne tornava a Sparta accompagnato da una scorta navale, fu ucciso e gettato in mare.

BATTAGLIA DI ERMEO -
FLOTTE ROMANE DISTRUTTE DALLA TEMPESTA (256 a.C.)

La sconfitta Tunisi spronò Roma a proseguire più energicamente la guerra.
Inoltre occorreva per prima cosa soccorrere i Romani di Clipea. Furono inviati in Africa i nuovi consoli SERVIO FULVIO e MARCO EMILIO PAOLO con una flotta di trecentocinquanta navi, la quale presso il promontorio Ermeo, scontratasi con la flotta cartaginese che contava duecento legni, la sconfisse. I nemici in questa battaglia ci rimisero centoquattordici navi; il resto, sbaragliato, trovò la salvezza rifugiandosi a Cartagine.
Poco dopo fu sgombrata Clipea e fu questa un'azione piuttosto imprudente sia dal lato militare sia politico, perché da una parte si perdeva una piazzaforte che rappresentava una base necessaria nelle future operazioni in Africa, dall'altra si abbandonavano le popolazioni della Numidia, amiche di Roma, alle rappresaglie di Cartagine. Che non mancarono, né tardarono.

Tremila Numidi furono crocifissi e il paese fu costretto a pagare un'indennità di mille talenti d'argento e ventimila capi di bestiame.

Da Clipea la flotta romana tornò nel luglio del 255 a.C., ma non tutte le navi raggiunsero i porti della Sicilia. Sorprese durante la traversata da una tremenda tempesta in prossimità del capo Pachino duecentosettanta navi affondarono o si sfasciarono sugli scogli e solo ottanta, grazie agli aiuti dei Siracusani, riuscirono a raggiungere e a mettersi in salvo nel porto di Messana.
Roma non si lasciò abbattere dalla sventura e in tre soli mesi riuscì a rimettere in mare una nuova flotta di duecentoventi navi; decisa a conquistare la Sicilia, dove i Cartaginesi, dopo l'arrivo di ASDRUBALE con un considerevole esercito, avevano preso coraggio e nuovamente la preminenza sul mare, inviò la nuova armata nell'isola al comando di CORNELIO SCIPIONE E ATTILIO COLLATINO.
A Messana si unirono alla flotta le ottanta navi superstiti, poi, nella primavera del 254, i consoli puntarono sull'importante piazzaforte punica: Panormo (Palermo), che costrinsero alla resa, e ridussero in loro potere Solunto, Cefaledio e Tindaride. Nel frattempo ASDRUBALE sbarcato in Sicilia devastava Agrigento.
Ma dopo il successo dei Romani su Panormo, seguì un disastro non inferiore a quello che aveva colto la flotta a capo Pachino. Tornando, nel 253, da alcune incursioni fatte sulla costa africana, la flotta romana, comandata dai consoli QUINTO SERVILIO CEPIONE e CAJO SEMPRONIO BESO, da una tremenda tempesta fu scaraventate sul promontorio Palinuro e quasi del tutta distrutta.
Roma a questo punto credeva che i disastri fossero mandati e voluti dagli dei e non ordinò più la costruzione di una nuova flotta. Fu decretato che solo sessanta navi dovevano rimanere in esercizio, e solo per la difesa


BATTAGLIA DI PANORMO (PALERMO)
ED AMBASCERIA DI ATTILIO REGOLO

Nella Sicilia intanto ASDRUBALE da Lilibeo si era trasferito con la flotta e il suo esercito a Panormo, assediandola.
Roma inviò nell'isola un esercito comandato dal proconsole LUCIO CECILIO METELLO, il quale mise in opera uno stratagemma che gli riuscì pienamente. Fece attaccare le truppe nemiche da un distaccamento romano, poi, fingendo di fuggire, nell'inseguimento si trascinò dietro fin sotto le mura della città i Cartaginesi, che ebbero la malaugurata idea -per terrorizzare o abbattere le porte- di farsi precedere da circa duecento elefanti.
Gli assediati, prevedendo che li avrebbero impiegati, i pachidermi furono accolti da una fitta pioggia di dardi infuocati, imbizzarrendoli e, invertita la marcia, disordinatamente travolsero le stesse schiere africane causando un caos infernale con fughe a destra e a sinistra; a quel punto il console non aspettava altro e proprio dai fianchi attaccò i fuggiaschi inferendo il colpo finale alla disfatta cartaginese
Le perdite di Cartagine furono enormi. Secondo gli storici persero la vita in quella giornata, ventimila uomini, furono uccisi ventisei elefanti e ne catturarono centoquaranta.
La sconfitta di Panormo produsse fra i Cartaginesi l'avvilimento, la Sicilia per loro era ormai quasi tutta perduta, restavano in loro potere soltanto Lilibeo e Drepano (Trapani) nella punta occidentale, mentre la repubblica romana era decisa a continuare risolutamente la guerra e a non più muoversi dalla Sicilia.
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Fu perciò da Cartagine offerta la pace.
Qui la tradizione torna a parlare di ATTILIO REGOLO, e vuole forse cancellare con un racconto romanzesco gli errori da lui commessi in Africa; ne fa un eroe che sacrifica la sua vita con romana fierezza per la grandezza della propria patria.
Ecco il racconto tradizionale.

Dalla disfatta di Tunisi, Attilio Regolo languiva in ceppi e quando Cartagine decise di avanzare proposte di pace e pensò che il prigioniero, accompagnando a Roma gli ambasciatori, poteva con la sua presenza e con la sua parola indurre il Senato alla riconciliazione. Regolo doveva essere stanco della lunga prigionia e pur di ottenere la libertà non avrebbe mancato di farsi sostenitore della pace. Fu perciò fatto uscire dalla prigione e gli si fece giurare che sarebbe ritornato a Cartagine se Roma avesse respinto le proposte di pace e lo scambio di prigionieri; prestato giuramento Regolo e gli ambasciatori s'imbarcarono.
Ma l'ex-console quando fu al cospetto del Senato, anziché appoggiare le proposte degli ambasciatori punici, parlò e si scagliò contro la superba rivale di Roma, disse che la guerra bisognava continuarla e che maggiori sforzi dovevano esser fatti per costringere l'odiata nemica alla resa, disse ancora che il pensiero dei prigionieri non doveva influire nelle deliberazioni del Senato; i prigionieri erano lieti di vivere lontani dalla patria, privi della libertà, e sarebbero stati contenti di sacrificare la propria vita purché Roma respingesse la pace chiesta da Cartagine.
La perorazione di Attilio Regolo fu così calda che i senatori rifiutarono d'intavolare trattative. Ma la sorte di Regolo da quel momento era decisa. Lui aveva promesso a Cartagine che avrebbe collaborato e che se la missione falliva doveva far ritorno come prigioniero; ma comportandosi con ostilità Cartagine al suo ritorno sopra di lui avrebbe sfogato la sua collera.
Si cercò di trattenerlo; il pontefice massimo lo sciolse dal sacro vincolo del giuramento che il prigioniero aveva fatto sotto l'imposizione del nemico; gli amici, i parenti, i familiari cercarono di commuoverlo con le loro preghiere e con le lacrime. Ogni sforzo riuscì vano. Un romano non poteva né doveva venir meno alla promessa fatta anche se questa era stata strappata con la violenza.
E, conscio del destino che lo aspettava nella terra africana, Attilio Regolo, partì e rifece la via che parecchi anni prima aveva fatto, al comando di una poderosa flotta, e l'animo pieno della speranza della vittoria.
Appena giunto a Cartagine il martirio che gli era stato riservato fu atroce. Fu messo in un'oscura prigione, in compagnia, dicono alcuni, di un elefante di cui era costretto a subire le molestie, poi portato fuori gli tagliarono le palpebre e costretto a guardare il sole, infine fu chiuso dentro in una botte disseminata di acutissimi chiodi alle pareti, poi fatta rotolare per le strade, fin quando il corpo fu ridotto a brandelli sanguinolenti.
La critica ha voluto mettere in dubbio questa tragica fine di Attilio Regolo, relegandola tra le leggende, eppure non presenta nulla di straordinario e d'inverosimile se si pensi da un lato alla crudeltà dei Cartaginesi intensificata dal contegno del prigioniero, e dall'altro, che non mancano esempi nella storia di Roma di prigionieri, temporaneamente liberati, ritornati poi allo scader del termine in cattività.

ASSEDIO DI LILIBEO

Se la fine di Attilio Regolo è leggenda o, meglio, se la sua ambasceria non ottenne i risultati che Cartagine si aspettava, dobbiamo credere che i negoziati di pace non diedero alcun risultato forse per le pretese avanzate da Roma, che chiedeva la cessione di Lilibeo (Marsala) e Drepano.
Finché queste due città rimanevano in potere dei Cartaginesi, nessuna sicurezza esisteva per le conquiste romane della Sicilia. Occorreva dunque costringerle alla resa e occuparle, ma a questo fine non erano sufficienti le forze terrestri. Era necessaria una flotta che bloccasse dalla parte del mare le due piazzeforti.

Messo da parte il decreto, iniziarono i lavori per costruire duecento navi, fu allestita una flotta e con quarantamila soldati fu inviata contro Lilibeo.
Questa città era sorvegliata da un presidio cartaginese formato da diecimila uomini, al comando di IMILCONE; era forte per la sua posizione naturale e per le imponenti opere di difesa; anche Pirro non era riuscito a prenderla con la forza.

I consoli la bloccarono al largo con la loro flotta perché non potesse ricevere aiuti da Cartagine, mentre altre navi tentavano di farla cadere mettendo in opera potentissime macchine da guerra. Queste da principio diedero ottimi risultati e sei torri crollarono sotto i martellanti colpi. Ma i Cartaginesi rendevano vani gli sforzi del nemico affrettandosi a riparare i danni. Cercarono i consoli di impadronirsi con il tradimento della città corrompendo alcuni mercenari, ma il colpo fallì. Nonostante la straordinaria difesa, la città era stremata di forze e cominciavano a mancare le vettovaglie.
Cartagine, che teneva moltissimo a conservare in proprio potere la piazzaforte di Lilibeo, in soccorso inviò ANNIBALE con cinquanta navi, diecimila soldati e viveri.
Al valoroso comandante cartaginese, noto per la sua audacia e risolutezza, riuscì a passare attraverso il blocco delle navi romane e a penetrare nel porto e poco mancò che alle forze consolari non toccasse una sconfitta.
Nonostante imperversasse una tempesta; IMILCONE, imbaldanzito dall'aiuto insperato, uscì con le sue truppe dalla città, assalì gli assedianti ed incendiò le macchine offensive romane (504), con la distruzione delle quali non c'era più da sperare di poter conquistare a viva forza la città.
Ma anche senza queste, l'assedio non fu rimosso.
Eletti a Roma consoli PUBLIO CLAUDIO PULCRO e LUCIO GIUNIO PULLO, questi furono subito mandati in Sicilia; il primo con centoventitre navi tentò un colpo su Drepano.
Si narra che alla vigilia dell'impresa, gli "auguri pullari" avevano sconsigliato l'impresa perché i sacri polli non avevano voluto beccare; l'ostinato Claudio sarcastico pare che ordinasse che gli animali fossero gettati a mare e che se non avevano voluto mangiare che bevessero".

L'impresa si mutò in disastro. Assalito improvvisamente da ADERBALE che comandava il presidio di Drepano, la flotta romana subì una grave sconfitta; soltanto trenta navi riuscirono a salvarsi. CLAUDIO, messo, più tardi sotto processo, fu condannato dai comizi tributi a pagare la somma di centomila assi. Non fu più fortunato il console GIUNIO PULLO. Mentre da Siracusa portava soccorsi di viveri ai Romani che assediavano Lilibeo fu sorpreso in mare da CARTALONE, uno dei luogotenenti di Amilcare, nelle cui mani lasciò alcune navi onerarie; sorpreso poi dalla tempesta e sbattuto sugli scogli di Pachino e Camerino, perse l'intera flotta che si componeva di ottocento navi da carico e centoventi da guerra.
Fu una fortuna che riuscì salvare buona parte delle truppe e con queste Giunio marciò su Erice, l'assediò, la costrinse alla resa, la occupò
Ciononostante accusato come il collega, Giunio Pullo, si uccise preferendo morire anziché comparire davanti ai giudici.


AMILCARE BARCA - BATTAGLIA DELLE ISOLE EGADI

La guerra si trascina per parecchi anni, con scaramucce, senza imprese di grande importanza.
Tornata a riprendere il predominio sul mare, la direzione delle operazioni militari è stata da Cartagine conferita ad AMILCARE, soprannominato Barca (fulmine) per la celerità delle sue mosse; e, infatti, dà con la sua audacia e il suo talento militare una nuova fisionomia alla guerra.
Innanzi tutto restituisce l'ordine e la disciplina fra i mercenari e li addestra con incessanti esercizi, poi marcia verso il settentrione dell'isola ed occupa il monte Ercta (Pellegrino, 600 m.) sovrastante la città di Panormo (Palermo) Qui vi resta tre anni (247- 245 a.C.) non concedendo un momento di tregua al nemico che cerca di stancare con continue incursioni su Panormo ed Erice. Né solo a queste, Amilcare dedica la sua attività. Padrone del mare, ora che Roma è priva di una flotta, scorazza indisturbato e alcune volte audace con le sue navi per il Tirreno, e si spinge fin sulle coste della Campania e della Lucania.

Alla fine del 245, Amilcare lascia il monte Ercta e punta con le sue truppe su Erice, che è in potere dei Romani e costituisce una perenne minaccia su Lilibeo (Marsala).
Erice, assediata, cade in mano dei Cartaginesi; la guarnigione romana è costretta a ritirarsi scacciata. Roma, che dal 247 al 242 a.C. è rimasta inoperosa di fronte alla sorprendente attività di Amilcare Barca, capisce finalmente che è necessario uno sforzo poderoso se non vuole logorarsi in una guerra dispendiosa e sfibrante che avrà per risultato non solo la perdita della Sicilia, ma l'accrescersi della potenza cartaginese, quindi una minaccia.
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Occorre dunque una potente flotta per eliminare la minaccia e rispondere all'arroganza dei Cartaginesi; ma le casse della repubblica sono esauste. Si ricorre allora ai privati cittadini e la generosità e il patriottismo dei Romani risposero con prontezza e larghezza all'appello e così fu possibile nella
primavera del 242 mettere in mare una flotta di duecento navi, che con settecento legni da carico fu mandata in Sicilia al comando del console CAJO LUTAZIO CATULO
Prima cura del console fu di bloccare Drepano e Lilibeo occupandone i porti, poi strinse d'assedio le due città, fulcro della resistenza cartaginese nell'isola.
Cartagine non perse tempo a correre ai ripari, radunò tutte le navi di cui disponeva e messo al comando ANNONE gli ordinò di accorrere in aiuto di Amilcare, rifornirlo di vettovaglie, prendere a bordo i migliori soldati che si trovavano in Sicilia e dare battaglia a CATULO.
ANNONE partì immediatamente, ma il console romano, apprese le intenzioni del nemico, e mentre era ancora al largo e non in formazione, lo sorprese mandandogli incontro la flotta e nelle acque di Egusa (Favignana), la più grande delle isole Egadi, tra le due flotte fu combattuta una grande battaglia navale.

LUTAZIO CATULO, rimasto ferito durante le operazioni di assedio a Drepano, non era presente, e la flotta era comandata dal pretore PUBLIO VALERIO FALTONE.
La battaglia avvenne il 10 marzo dell'anno 241e si risolse in una grave sconfitta per la flotta di Annone, della quale cinquanta navi furono affondate e settanta catturate, diecimila Cartaginesi caddero prigionieri dei Romani.

PACE CON CARTAGINE - FINE DELLA PRIMA GUERRA PUNICA

La vittoria delle isole Egadi fu decisiva. Cartagine aveva perso in pochissimo tempo il dominio del mare e si vedeva esposta alle offese della repubblica vincitrice e alla perdita degli uomini che aveva in Sicilia.
Una soluzione per porre fine ai mali era una pace con Roma; ma in patria con la veloce ascesa dell'influenza politica di AMILCARE BARCA, si era delineata una politica con due correnti; una della famiglia dei Barca, decisamente antiromana e quindi favorevole a proseguire la guerra; l'altra da ANNONE (che ha dovuto pure sostenere una ribellione a Utica di mercenari, perché smobilitati) sostanzialmente se non dichiaratamente favorevole a un'intesa con Roma (che però è esautorato dai Barca, mentre avrebbe potuto ottenere da Roma migliori condizioni).

Ma dopo l'ultimo rovescio alle Egadi, a chiedere la pace è lo stesso Amilcare Barca. Questa fu poi conclusa, ma Cartagine dovette sottostare alla dure condizioni imposte dai vincitori; che furono le seguenti: cessione della Sicilia a Roma; impegno da parte di Cartagine a non muovere guerra a Gerone di Siracusa (che rimane indipendente) ed agli altri alleati dei Romani; pagamento entro dieci anni di tremila e duecento talenti attici (una cifra enorme); restituzione senza riscatto dei prigionieri romani.
Un'altra condizione avevano imposta i vincitori romani: la consegna delle armi di tutte le truppe cartaginesi presenti in Sicilia e il loro passaggio sotto il giogo; ma Amilcare aveva opposto un reciso rifiuto e ai vinti, prima che si imbarcassero, Roma concesse alla fine perfino l'onore delle armi; e non fu uno spreco di generosità; nel veder partire dall'isola l'ultimo cartaginese, sapeva che ormai era l'incontrastata padrona della Sicilia, uno dei più ricchi territori, e il più evoluto di tutto il continente europeo.

Ventitre anni era durata la guerra.
Roma ne era uscita vittoriosa, ma quali e quanti sacrifici le era costato l'immane conflitto! Gli era costato settecento navi da guerra, un numero enorme di navigli da carico e molte migliaia di uomini.
Di un sesto era diminuito il numero dei cittadini romani in soli dieci anni; e non minore era stato il contributo di vite dato dalla popolazione della penisola. Ma ancora più disastrosa era stata la guerra per la finanza di Roma. Le casse erano quasi vuote e si era dovuto ridurre il valore delle monete di un sesto.
Ma i risultati della guerra, per quanto non sembri, visto in prospettiva, erano superiori di gran lunga ai sacrifici fatti; Roma, vincendo, non solo guadagnava la Sicilia, che costituiva il punto da cui, dominando il mare, doveva spiccare il salto per la conquista del mondo; non solo fiaccava la sua grande rivale africana diventando arbitra assoluta del Mediterraneo, ma - e questo contava più di ogni altra cosa - aveva accelerato il processo di fusione dei vari popoli della penisola, che le avevano data prova a Roma di fedeltà ed avevano diviso con Roma i pericoli e la gloria.
Come premio, oltre che a dare a molte città della penisola il diritto del suffragio, con delle riforme si va verso l'uguaglianza, si mette mano all'assetto politico-amministrativo, iniziando quel "sistema" che fu detto delle "province".

Ma siamo appena all'inizio delle conquiste e delle grandi riforme;
ora che Roma è anche un potenza navale, guarda anche oltre il mare; e davanti a Brindisi c'è l'Illiria e poi la Grecia; mentre a nord oltre l'Etruria, c'è la sconfinata pianura in mano ai Galli.

A cosa sta pensando ora Roma? Lo leggeremo nel prossimo capitolo:

il periodo dall'anno 265 al 219 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

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