I SABINI - MERIDIONE E SICILIA PREROMANA - MAGNA GRECIA -

GUERRA CONTRO I SABINI - MARCO CURIO DENTATO - QUARTA SECESSIONE DELLA PLEBE - LA LEGGE ORTENSIA - LEGA ETRUSCO-GALLICA - ASSEDIO DI AREZZO - CECILIO METELLO SCONFITTO - ECCIDIO DEGLI AMBASCIATORI ROMANI - GUERRA CONTRO I GALLI LENONI E LORO STERMINIO - ETRUSCHI E GALLI BOI SCONFITTI AL LAGO VADIMONE - BATTAGLIA DI POPULONIA - PACE CON L' ETRURIA E COI BOI - LE COLONIE GRECHE DELL' ITALIA MERIDIONALE - LA SICILIA - GUERRE, RIVOLUZIONARI E TIRANNI - AGRIGENTO - SIRACUSA - IL TIRANNO GELONE - BATTAGLIA DI IMERA - GERONE E TRASIBULO - DUCEZIO: L'EROE SICILIANO - I GRECI SCONFITTI IN SICILIA - IL TIRANNO DIONISIO - GUERRE CONTRO CARTAGINE - DIONISIO ALLA CONQUISTA DELL' ITALIA MERIDIONALE - MORTE DI DIONISIO - IL FIGLIO DI DIONISIO - DIONE - TIMOLEONE IN SICILIA - AGATOCLE - AGATOCLE IN AFRICA - AGATOCLE E L' ITALIA MERIDIONALE
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GUERRA CONTRO I SABINI

I Sabini, quest'antica popolazione italica centrale, assai affine ai Sanniti (la loro capitale era Reale -od. Rieti), una parte si era stanziata sul colle Quirinale fin dalle origini di Roma, poi (leggenda o no del "ratto delle Sabine") si era fusa con i Romani. Ma il proprio territorio nei successivi cinque secoli era rimasto sempre indipendente, non era stato mai sottomesso, pur essendo i Sabini alleati dei Romani; ciononostante nelle guerre che Roma aveva dovuto sostenere contro il Sannio non solo non si erano schierati in suo favore, ma non avevano neppure - specialmente nell'ultima guerra - mantenuta una bonaria neutralità.

Anzi, sia per i vincoli di parentela che li stringevano al Sannio con il quale avevano in comune la stirpe, sia perché pensassero che Roma dovesse soccombere nell'impari lotta contro quattro bellicosi popoli, sia perché, costretti dalla posizione geografica del loro paese, non potevano o, non fidandosi delle proprie forze, non volevano impedire che gli eserciti sannitici passassero attraverso il loro territorio, nelle ultime -per Roma- decisive guerre, avevano lasciato che le truppe del Sannio si trasferissero nell'Etruria attraversando la Sabina.
Roma tutto questo lo sapeva benissimo, ma, impegnata com'era contro tanti nemici, non voleva certo farsene un altro vicinissimo, quasi alle porte della città, e aveva aspettato per protestare, che la guerra sannitica terminasse. Poi sarebbe venuto in qualche modo il castigo.

Non aspettarono invece i Sabini che Roma alla fine avrebbe chiesto a loro conto della violazione dell'alleanza, e nel 464 (290 a.C.) e imbracciarono le armi ribellandosi alla potente vicina e, poiché presto giunse la notizia che un esercito consolare avanzava, anziché muovere ad incontrarlo con tutte le forze che avevano riunito, pensarono meglio di frazionarle presidiando i punti più deboli e importanti della regione (Reale (Rieti). Nursia (Norcia), Amiternum, Tremula Mutusca ecc.).

L'esercito che da Roma era stato inviato contro i Sabini, guidato dal console MANLIO CURIO DENTATO, quest'ingenuo piano di difesa messo in opera dai Sabini, invece di metterlo in difficoltà, gli facilitò enormemente il compito.
Se un esercito numeroso e compatto, guidato da un solo capo, poteva lottare contro l'invasore con probabilità di successo, niente potevano sperare i Sabini di ottenere tanti piccoli distaccamenti di fronte a delle legioni forti, agguerrite, compatte e con capitani che provenivano da una scuola che aveva alle spalle una lunga esperienza di guerra, di assedi, di strategie.
Infatti, il console assalì una dopo l'altra queste sparse forze sabine sconfiggendole, e in brevissimo tempo, sottomise al dominio della repubblica tutta la regione.

Celebri sono rimaste le parole di CURIO DENTATO quando aveva annunciato al Senato i risultati ottenuti: "…ho preso un territorio così vasto da rimanere deserto se non avessi insieme fatti tanti prigionieri; ho catturato un numero così grande di uomini che perirebbero di fame se non avessi preso tanto terreno".
Roma, dopo la spedizione vittoriosa trattò molto duramente i vinti; offrì loro, è vero, la cittadinanza, ma li escluse però dai diritti civili e politici (sine suffragio), inoltre sottrasse tutto il loro l'agro pubblico che, in lotti di sette jugeri l'uno, distribuì ai più poveri fra i plebei e come il solito anche a quelli non poveri, o che sottrassero poi i terreni dopo che i poveri avevano contratto con loro prestiti a usura.
Al console; il Senato, in premio di avere ottenuto così magnifici risultati, assegnò cinquanta jugeri dell'agro sabino, ma Curio Dentato non ne volle accettare che sette, come tutti gli altri, dando esempio mirabile di onestà.

Un altro fatto ci mostra quanto grande era in Curio il sentimento di onestà. Per ingraziarselo ed indurlo ad intercedere presso la repubblica perché le condizioni di pace fossero miti, i Sabini cercarono di corromperlo mandandogli, per mezzo di ambasciatori, una somma rilevante. Sdegnosamente rifiutando, Curio Dentato rispose che "come le armi dei Sabini non avevano saputo vincerlo, così non poteva l'oro Sabino piegarlo, e che amava di più rendere ricca e grande la patria che non se stesso".
La sottomissione dei Sabini fu una delle più facili vittorie, ottenuta senza sacrifici, con un vantaggio enorme, e in una sola guerra, che guerra non era, semmai solo un'occupazione punitiva.

QUARTA SECESSIONE DELLA PLEBE

Alla guerra sabinica, a Roma, successe un periodo di pace di oltre un lustro con i soliti nemici esterni, ma questa pace fu turbata da malumori interni, che divennero così intensi da provocare un'aperta ribellione.
Nonostante le enormi prede fatte nelle guerre precedenti, le spese sostenute per mantenere tanti eserciti avevano svuotato le casse dello Stato. Si ricorse allora a tributi, che gravarono specialmente sulla parte più povera della plebe ("infima plebs"- anno 461 - 293 a.C.), la quale non nascose il suo malcontento.

Le condizioni in cui versava la plebe erano molto tristi; più di una carestia aveva costretto i plebei a contrarre debiti con i ricchi e, l'usura dei creditori infuriando peggio del flagello, i tribuni avevano alzato la voce invocando severi provvedimenti in favore dei miseri. Ma invano: i senatori e i consoli (che facevano parte della categoria dei ricchi) si erano sempre opposti.

Quest'insopportabile stato di cose spinse la plebe alla rivolta.
Questa avvenne nel 467 (287 a.C.). I ribelli, anziché sull'Aventino, questa volta si accamparono minacciosamente sul Gianicolo. Fu tale la preoccupazione prodotta dalla sedizione popolare, che il Senato ricorse (come se si trattasse di una grave guerra esterna) alla dittatura, ma ebbe la furbizia, da creare QUINTO ORTENSIO, che era di famiglia plebea, ma era pur sempre legato al regime.

Il dittatore pensò prima d'ogni altra cosa di calmare gli animi degli insorti e fece credere che la repubblica fosse minacciata da eserciti nemici. I plebei, in cui non si era mai smentito l'amore per la patria, si misero a disposizione del magistrato e si dichiararono pronti a marciare contro il nemico.
Ottenuto questo, Quinto Ortensio indusse la plebe della ribellione a deporre le armi e promise di non punire i ribelli e di interessarsi in favore dei debitori.
La calma ritornò ben presto e il dittatore propose e fece approvare una legge con la quale si conferiva valore legale, senza alcuna restrizione, ai plebisciti.
Con questa, che dal suo autore si chiamò "Legge ortensia", la giurisdizione del Senato, al quale era riservato il diritto di sanzionare i plebisciti cessava, e la plebe ("concilia plebis") poteva chiedere, con sicurezza di ottenere, quello che prima della secessione le era stato negato e cioè l'alleviamento dei debiti. La cosa era più formale che sostanziale.

GUERRA CON I GALLI E GLI ETRUSCHI

Roma tuttavia per quattro anni ebbe pace fino al 471 (283 a.C.) nel quale anno dovette riprendere le armi e far marciare le sue legioni verso l'Etruria.
Di questa regione soltanto Arezzo aveva interesse a mantenere i vincoli d'amicizia che la stringevano a Roma, questo perché solo la potenza della repubblica romana poteva salvarla dalla cupidigia dei vicini Galli; le altre città etrusche invece non avevano abbandonato l'idea, ormai diventata atavica, della riscossa e di una rivincita contro l'odiata nemica del sud dell'Etruria, e non guardavano perciò di buon occhio la consorella.
Già nel corso del 470 gli Etruschi nemici di Roma si alleano con i Galli Senoni e mettono l'assedio ad Arezzo. Gli Aretini mandano ambasciatori a Roma chiedendo soccorso e l'ottengono prontamente: un esercito comandato dal pretore LUCIO CECILIO METELLO è immediatamente inviato in Etruria; ma la sorte non favorisce le armi romane. Sotto le mura di Arezzo si svolge una terribile battaglia contro i collegati e alle legioni di Roma tocca subire una sanguinosa disfatta. Eloquenti sono le cifre dei caduti romani: tredicimila; e, fra questi, sette tribuni militari e lo stesso Cecilio Metello.

La notizia di una simile disfatta, produce a Roma una profonda impressione. Molti sono i prigionieri caduti nelle mani dei Galli e si sa quanto grande sia la crudeltà di questo popolo. Prima ancora di pensare a vendicare lo scacco militare subito, il Senato pensa alla sorte dei prigionieri e manda ai Senoni alcuni ambasciatori perché trattino il riscatto.
I Galli, in quest'occasione, non smentirono la fama della loro barbarie: gli ambasciatori furono presi e trucidati.
Il dolore della sconfitta di Arezzo fu reso più intenso dalla notizia dell'uccisione degli ambasciatori. Lo sdegno della cittadinanza non poteva esser calmato che da un'esemplare vendetta, che era anche orgogliosamente voluta dalla dignità offesa della repubblica.
Il console PUBLIO CORNELIO DOLABELLA fu scelto come capo della spedizione punitiva e gli furono affidati pieni poteri. Dolabella ritenne opportuno non condurre le legioni attraverso l'Etruria, né ritenne di andare a combattere i Galli ad Arezzo.
Ad un nemico che si era macchiato di così efferato delitto, non si doveva offrire una leale, onorevole battaglia, ma mettere in pratica la legge del taglione.
Il console prese la via della Sabina e del Piceno, e, senza che al nemico giungesse la notizia della marcia dell'esercito romano, piombò nel paese dei Senoni.
I SENONI, facevano parte di un'antica popolazione Celtica, insediatasi nel V secolo ca. sulla costa adriatica tra Rimini e Ancona, Altri Senoni rimasti in Gallia erano invece stanziati lungo la Senna (ricordiamo che Galli era il nome latino dato dai Romani ai Celti).

La regione fu messa a ferro e a fuoco, campagne e paesi furono saccheggiati e devastati. Dove passavano le legioni di Roma, se prima esisteva il rumore e la vita delle genti, dopo vi piombava il silenzio e la desolazione. Occhio per occhio, dente per dente! Gli uomini, che non riuscirono a salvarsi con la fuga, furono spietatamente uccisi, le donne e i fanciulli fatti schiavi. La vendetta romana fu inesorabile.

Giunta ad Arezzo la notizia che la loro patria era stata invasa ed era sotto il sistematico sterminio, i Galli rimossero l'assedio e si affrettarono verso il loro paese, ma, scontratisi più di una volta con le truppe inferocite di Dolabella, furono disfatti (471 - (283 a.C.).
Quell'anno medesimo, sul litorale adriatico, a sud della foce del fiume Sena, i Romani inviarono una forte colonia fondando Sena Gallica (Senigallia), che da quel momento fu la sentinella avanzata delle conquista verso nord-est; con il nome che era tutto un programma.


BATTAGLIE AL VADIMONE E A POPULONIA (471-472 - 283-282 a.C.)

Le vittorie riportate sui Senoni e la devastazione del loro paese procurarono a Roma, anziché la pace, altri nemici.
I Galli BOI, confinanti a Sud verso Rimini, con i Senoni, videro in queste imprese belliche di Roma una minaccia contro la loro regione.

I Galli Boi, pure loro erano una popolazione Celtica, provenienti da quella regione tuttora chiamata Boemia. Una parte emigrò a Bordeaux, un'altra intorno al 400 a.C. scese in Italia occupando il territorio fra il Po e l'Appennino, comprendente l'antica città Etrusca di Felsina che divenne poi la loro capitale con il nome di Bonomia (Bologna).

Decisi a difendere nella loro regione la propria indipendenza, raccolsero le schiere superstiti dei Senoni e, stretta alleanza con gli Etruschi, presero la via di Roma.
Fu affidato ancora a CORNELIO DOLABELLA l'incarico di arginare l'avanzata dei nemici e di ricacciarli. Accanto a lui fu l'altro console, GNEO DOMIZIO CALVINO.
Le legioni romane incontrarono i Galli e gli Etruschi presso il lago Vadimone, dove Fabio aveva, circa quindici anni prima, riportata una memorabile vittoria, e li attaccarono violentemente.

Nonostante il nemico si battesse con valore e con un accanimento disperato, quel gíorno il violento impatto dell'esercito romano e fu incontenibile.
Di quell'esercito che superbamente voleva scendere su Roma con il proposito di distruggerla, dopo la battaglia non rimase che miseri avanzi e a stento molti si salvarono solo dandosi alla fuga.
Ciononostante, i Boi e gli Etruschi non disarmarono e l'anno seguente scesero ancora in campo.
Le legioni, che Roma inviò contro di loro, erano comandate dal console EMILIO PAPO. Il nemico, non fidandosi delle sole sue forze, cercò d'avere ragione dell'esercito romano con l'insidia, ma l'accorto console non cadde nel tranello che gli era stato teso e costrinse i Galli-Etruschi a una battaglia in campo aperto.

Il combattimento avvenne a Populonia (Piombino) e i nemici subirono una tale sconfitta al primo attacco, da esser costretti subito a deporre le armi e arrendersi.
I Boi chiesero la pace, la ottennero a buone condizioni e la rispettarono per circa quarantacinque anni; gli Etruschi, essendo state vinte le città di Volsinio e di Vulci, chiesero pace pure loro e trovarono i Romani così ben disposti da stringere un trattato di alleanza che ebbe una lunga durata: circa due secoli.

Da questo momento la nazione Etrusca scompare dalla storia come potenza militare, ma anche il nome "etrusco" cessa di esistere, in breve tempo la regione è romanizzata, e la sua popolazione, non pensando più alle guerre, rivolge alle arti ed all'industria quasi tutta la sua attività.

LA MAGNA GRECIA

Roma forse con i Boi e con gli Etruschi non sarebbe stata così generosa da dare subito ai primi equa pace ed agli altri alleanza, se gli avvenimenti dell'Italia meridionale non le avessero consigliato di esser clemente con i popoli del nord.

Al mezzogiorno d'Italia è necessario che ora noi rivolgiamo l'attenzione, come pure a quel popolo di stirpe Aria che di tanta luce fece risplendere la penisola e che se non fosse stato lacerato da discordie intestine sarebbe forse diventato il dominatore d'Italia.
Parliamo del popolo Greco. Rivolgimenti politici, guerre civili ed esterne, la necessità di estendere il loro commercio e un'innata tendenza all'espansione, spinsero i Greci delle varie stirpi, forse nell'VIII secolo a. C. - quando cioè l'emigrazione in Oriente cominciò a trovare seri ostacoli - verso l'Occidente sulle coste specialmente della Sicilia e dell'Italia meridionale.
Come abbiamo già narrato in altre pagine, in precedenza, uno, due, tre secoli prima, da quell'aerea (forse dalla Lydia) i Greci erano stati già preceduti dagli Etruschi; e sempre da quella zona, circa 1500-2000 anni prima, risalendo l'intero corso del Danubio, dal Mar Nero, dalla Tracia, nel nord-est della penisola era già giunti i Venedi, e a nord delle Alpi, nel medio e alto Danubio i Palafitticoli (a Varna sul Mar Nero esistono reperti di villaggi su palafitte di oltre 4000 anni a.C. molto simili al villaggio palafitticolo del Lago di Ledro). Poi scesero nei laghi prealpini, nel 1200 a.C. nella pianura Padana, e senza conservare un nome ben preciso, e fortemente integrandosi con i locali, nel 1000-800 a.C., la loro presenza è perfino segnalata nel Lazio, e nella stessa zona dove poi sorgerà Roma.
( altri particolari e indicazioni cronologiche sui popoli palafitticoli, in Storia di Roma)

Lasciamo da parte questi, e torniamo ai Greci. Approdati iniziando dagli anni dell'VIII-VII sec. a.C., si fermarono nei punti migliori del litorale Jonico, Tirrenico ed Adriatico e vi fondarono numerose colonie, che, ingrandendosi per mezzo di successive immigrazioni dalla madre patria, fondarono a loro volta altre colonie, ed estesero le loro conquiste, qualche volta guerreggiando, con le popolazioni indigene.

Sorsero, sulle coste dei tre mari, città che in poco volgere d'anni raggiunsero un alto livello di ricchezza, di civiltà e di potenza. Prime fra queste, Locri, Crotone, Sibari, Cuma, Caulonia, Metaponto, Siri, Eraclea, Posidonia, Taranto, le quali rivaleggiarono con le città medesime della Grecia ed attirarono con il loro fascino, con la loro fama, con il clima dolcissimo delle feconde terre in cui sorgevano, non soltanto i commercianti stranieri, ma filosofi e poeti di grido, e molti esuli, tutti coloro che la rivoluzionaria politica di Atene o di Sparta, aveva cacciato dal seno della madre patria.
Pitagora, Archiloco, Saffo, Epicarmo, Senofane, Erodoto, Pindaro vi si recarono e ne magnificarono le meravigliose bellezze; alcuni non vollero nemmeno più far ritorno alla loro madre patria; e non pochi uomini illustri vi nacquero e le resero famose queste contrade con la loro arte e la loro dottrina.
Zaleuco e Caronda, grandi legislatori del loro tempo, resero illustrissima la città di Locri; Crotone, la superba città sul fiume Esaro, dalle mura gigantesche, andò famosa per Pitagora; Taranto vantò il matematico Archita, oltre moda e arte che anticipa di 2000 anni, l'arte ottocentesca europea.
(oggi lo straordinario Museo Archeologico di Taranto ci offrono testimonianze perfino incredibili..
....queste bellissime eleganti statuine di donne, che sembrano vestire le crine del Settecento Parigino)

Né soltanto per i grandi ingegni furono illustri le città della Magna Grecia, ma anche per le industrie che vi fiorivano per i commerci che vi facevano affluire ricchezze da ogni porto del Mediterraneo, per le feste che vi si celebravano, per l'arte che aveva saputo innalzarvi teatri vasti e templi maestosi adorni di mirabili sculture; e per le delizie e il lusso sfrenato che vi era andò famosa la "molle" Sibari.

Peccato però che mancasse in tutte le città greche dell'Italia meridionale l'unità politica; questa mancanza rese effimera la loro potenza e fu la causa principale della loro rovina. I coloni avevano portato nelle nuove gli ordinamenti politici delle città da cui provenivano e in Italia erano stati trapiantati i partiti, le istituzioni, i governi della Grecia, che furono poi le cause di contrasti e di guerre.
Guerre tra città e città, tra partito e partito, per la prevalenza di un paese o di una forma di governo. Una delle guerre che maggiormente influì sui destini della Magna Grecia, fu quella combattuta tra la democrazia e l'aristocrazia.
Scaturì proprio nella "molle" Sibari la prima scintilla, dove il popolo, insorto contro i ricchi che sperperavano in piaceri le ricchezze, cacciò cinquecento nobili che furono ospitati poi a Crotone. Fra Crotone, retta a regime aristocratico, e Sibari, caduta in mano della democrazia, si accese accanita la guerra che si decise sulle rive del Tronto.
L'esercito crotonese, capitanato da MILONE, sconfisse i nemici e distrusse Sibari dalle fondamenta. Effimera vittoria dell'aristocrazia perché, ben presto, in quasi tutte le altre città la democrazia, insorta, ebbe il sopravvento e stabilì il suo predominio.

Causa della debolezza delle città greche furono, oltre che la lotta fra i vari partiti, la quale spesso sacrificò gli interessi della patria (quasi del tutto dimenticata) la mancanza di solidarietà tra le varie città, gli odi che le tennero divise, le rivalità che le spinsero l'una contro l'altra; la ricchezza, ottenuta con i commerci, che rese apatici gli abitanti e ostili o incapaci alla creazione di eserciti propri; cause queste tutte che dovevano rendere un popolo, forte in origine e civile, facile preda -come vedremo in altri capitolo- delle rapaci aquile romane.

LA SICILIA

Le colonie greche della Sicilia invece, conseguirono maggior splendore, ebbero più forte vitalità e maggior peso negli eventi, fino al punto che decisero in modo decisivo i destini di Roma e del Mediterraneo.
Posta nel centro del Mediterraneo, dotata di un clima meraviglioso e di un suolo fertilissimo, ricca di comodi porti naturali, circondata da mari pescosi, ebbe fin dai tempi più antichi una parte importantissima nella storia della umana civiltà, attirò nella sua splendida isola, dai tre continenti popoli di razza diversa, e con l'Africa, con il continente europeo e con l'Asia ebbe intense relazioni di commercio, oltre che culturali.
Siculi, Sicani, Elimi e forse Fenici popolavano l'isola, in possesso d'una civiltà non indifferente, quando nel secolo VIII a. C., cominciarono a stabilirsi i primi coloni greci; e non poche e non brevi furono le lotte che questi dovettero sostenere con i fieri abitatori della Sicilia, prima di potersi affermare ed imporre la propria civiltà.
Numerose città sorsero su tutte le coste e molte nell'interno dell'isola
Nasso, Zancle (poi Messana), Leontini, Catana, , Megara Iblea, Mile, Imera, Selinunte, Agrigento, Gela, Acre, Siracusa (fondata nel 733 a-C. dal Corinto Archia); queste le principali, ma molte altre scomparvero in seguito dalla storia.
Come nell'Italia meridionale cosi nella Sicilia, manca fra le colonie greche l'unità nazionale; le città sono rivali tra loro, spinte l'una contro l'altra da odi e da interessi economici e politici contrastanti e, per giunta, tutte, o quasi, hanno da lottare contro l'elemento indigeno che orgoglioso della sua terra, non vuole rassegnarsi alla perdita della propria indipendenza.
(Così caratteristica questa volontà d'indipendenza, che nei successivi 2700 anni, cioè fino ai nostri giorni, non cesserà mai di manifestarla).

Oltre a questo, in ogni singola città i partiti si dilaniano tra loro; la democrazia è in perpetua guerra con l'aristocrazia e da questo stato di cose nascono sommosse, congiure, eccidi, mutamenti di governo, alleanze temporanee e talvolta ibride di una città con l'altra, rivoluzioni di cui approfittano uomini arditi e spregiudicati per impadronirsi del potere ed instaurare la tirannide, che lascia tracce sanguinose dietro di sé e produce altre guerre ed altre rivolte.
Ad Agrigento e a Siracusa, che sono le più grandi città dell'isola, periodi di splendore si avvicendano con periodi di turbolenza, e le rivolte si alternano con la tirannide.
Tristemente famosi sono FALARIDE, ALCMENE, ALCANDRO e TERONE che dilaniano Agrigento: CLEANDRO, IPPOCRATE e GELONE che tiranneggiano a Gela; TERILLO che infierisce nella città di Imera.
Non tutti i tiranni però si distinsero solamente per la crudeltà del loro carattere e per il modo spietato con cui trattarono i loro sudditi. C'è fra di loro chi fra i delitti e le sevizie, fra la durezza e la ferocia ha momenti di bontà e di nobiltà ed opera per la grandezza della patria.
Fra questi è GELONE con il quale Siracusa si mette in prima fila tra le città greche di Sicilia. Chiamato dalla nobiltà siracusana, che è stata scacciata dalla plebe, Gelone si impadronisce di Siracusa, la espande, ne moltiplica la popolazione attirandovi coloni, la rende ricca e potente e unifica sotto il suo scettro gran parte delle colonie greche della zona occidentale dell'isola; mentre TERONE, suo suocero, amplia lo stato agrigentino.
È il secolo in cui sembra che i Greci di Sicilia stiano per raggiungere l'unità nazionale. Infatti, le città greche dell'isola, salvo pochissime, si raggruppano intorno a Siracusa ed Agrigento e anche queste due stringono alleanza.

Immensa è la potenza raggiunta da entrambe; nel frattempo Atene, minacciata dai Persiani, chiede aiuto a Siracusa e questa manda duecento navi, ventiquattromila fanti e duemila cavalieri (da queste cifre, possiamo immaginare quanta ricchezza circolava, per permettersi il lusso di inviare duecento navi)

I Persiani (era l'anno 480 a.C. - Serse ha invaso la Grecia - anno della battaglia delle Termopoli) sono alleati dei Cartaginesi, i quali allo scopo d'impedire che le colonie siciliane inviano soccorsi alla madre patria, sono loro a inviare in Sicilia un poderoso esercito comandato da AMILCARE che assedia Imera.
Siracusa ed Agrigento prontamente muovono contro gli aggressori con un esercito di cinquantamila fanti e cinquemila cavalieri che però sono duramente sconfitti.

Cinquantamila Africani, fra cui AMILCARE, sono uccisi, gli altri sono fatti prigionieri.
(questa battaglia costituisce quasi il corrispettivo ad Occidente della vittoria greca su Salamina. I Persiani di Serse sono costretti ad abbandonare l'Attica; i Cartaginesi di Amilcare ad abbandonare la Sicilia per un settantennio, per dedicarsi all'Africa, pur conservando il possesso della Sicilia occidentale.

A GELONE succede il fratello GERONE, che muove guerra ad Agrigento, e uscitone vincitore, volge le armi contro gli Etruschi sui quali riporta una grande vittoria navale.
Siracusa si libera dalla tirannide scacciando TRASIBULO, successore di Gerone, e instaurando un governo democratico.
Un periodo di pace e di libertà pare che inizi nella grande città, ma ben presto la guerra è nuovamente davanti alle sue porte. Gli indigeni dell'isola bandiscono una crociata contro i Greci usurpatori. DUCEZIO il più famoso capopopolo innalza il vessillo dell'indipendenza nazionale, espugna Etna, assedia Motia e sconfigge Agrigentini e Siracusani.

Ma la lotta è impari e Ducezio non può continuarla, ben presto è costretto a cedere le armi e relegato in esilio a Corinto; ma qui ricomincia a sognare la riscossa della sua patria; vi ritorna, fonda la città di Cale Acte, ma mentre organizza gli isolani per iniziare una nuova guerra, l'eroe siciliano muore.
A sostenerla e ad essere fiera di scatenarla la guerra, è Trinacria, una potente città sicula rimasta indipendente (che prese il nome che i greci allora davano alla Sicilia, per la sua forma "triangolare"). Assalita da un poderoso esercito siracusano, Trinacria si difende eroicamente. Vecchi, giovani, fanciulli, uomini e donne si battono disperatamente e solo il numero infinitamente superiore degli avversari ha ragione dello sconfinato valore degli isolani.
I superstiti però non si sottomettono e si rifugiano sulle montagne, da cui sperano di scendere per scacciare i Greci (o chicchessia) dalla loro terra (e così faranno in seguito, fino a Garibaldi)

Con la vittoria ottenuta sugl'indigeni dell'isola cresce ancora la potenza di Siracusa, e cresce ancora di più quando ottiene altre vittorie sugli Agrigentini e sugli Etruschi. Ma questa supremazia siracusana sulle vicine città greche pesa non poco e queste o isolatamente o unite tentano di liberarsene.
Prima a ribellarsi è Leontini, la quale, non potendo da sola competere con Siracusa, chiede aiuto ad Atene e si allea con Reggio. Atene invia navi in soccorso, ma prima del loro arrivo, Leontini era già stata vinta e si era arresa.

Ad Atene si rivolge, dieci anni dopo (siamo nel 415 a.C.), Segesta, trovandosi in guerra contro Selinunte che è spalleggiata da Siracusa; ed Atene, che da qualche tempo cerca di sottomettere e vuole allargare il suo dominio in Sicilia, non si lascia sfuggire l'occasione: allestisce una potente flotta (con a capo Alcibiade ma che appena arriva è richiamato ad Atene con un'infamante accusa) e pone l'assedio a Siracusa.

In soccorso di quest'ultima si schiera Dori, che invia un poderoso esercito comandato dallo spartano GILIPPO (Con Sparta in lotta con Atene, Siracusa ha ottimi rapporti).
Gli Ateniesi sono costretti a levare l'assedio e si preparano a partire, ma, impediti da una tempesta, sono improvvisamente assaliti dai Dorici e dai Siracusani e sanguinosamente sconfitti. Settemila superstiti cadono prigionieri e chiusi nelle Latomie (cave di pietra) dove molti soccombono tra sofferenze inenarrabili.
La sfortunata spedizione siciliana costa agli Ateniesi la perdita di duecento navi e più di quarantamila uomini.

IL TIRANNO DIONISIO

Dopo questa vittoria, Siracusa è la città più potente dell'isola; ma per la rivalità delle colonie greche, la Sicilia rischia di cadere in potere di uno straniero che da tanto tempo le ha messo gli occhi addosso: Cartagine.
Segesta e Selinunte sono di nuovo in lotta e, questa volta, la prima si rivolge per aiuti ai Cartaginesi (344 A. di R. - 410 a.C.), che sbarcano numerosi sull'isola e saccheggiano e distruggono Selinunte ed Imera. La ferocia degli Africani, che tutto al loro passaggio mettono a ferro e a fuoco, commuove Siracusa; in questa città affluiscono spaventati gli abitanti dei territori invasi, raccontando orribili episodi di stragi e di violenze; e inoltre affermano che il nemico non si accontenterà di ciò che ha già conquistato e sicuramente marcerà sulla ricca Siracusa. E' necessario quindi correre ai ripari.

Ma il governo è perplesso e l'esercito inoperoso. Di questo stato di cose approfitta un uomo furbo, audace, ambizioso, di nome DIONISIO, il quale fa credere al popolo che i capi dell'esercito hanno intenzione di cedere la città al nemico. La plebe si solleva e Dionisio, è a furor di popolo nominato capo delle milizie. Poco dopo anche il governo cade nelle sue mani e Dionisio, anziché rivolgere le cure alla guerra contro gli invasori, si preoccupa solo di rafforzare la sua posizione, raduna intorno a sé schiere prezzolate e usa il braccio di ferro sui più influenti cittadini, esautorandoli dalle più importanti cariche.
Questa sua condotta provoca un ammutinamento dell'esercito, che, assalito il palazzo del suo capo, ne uccise la moglie; ma Dionisio con le sue schiere prezzolate, seppe domare la rivolta, poi rivolse la sua attenzione alla guerra contro i Cartaginesi e fu così abile nello sconfiggerli, che riuscì perfino a farsi restituire o a recuperare tutto ciò che avevano saccheggiato.

Ma ben presto a Siracusa torna a scoppiare una rivolta, ma di nuovo Dionisio riesce a reprimerla con tutta la ferocia delle milizie che sono ai suoi ordini.
Poi mosso da uno sfrenato desiderio di potenza, assoggetta Catana, Etna e Nasso e, poiché i Cartaginesi sono ritornati minacciosi, Dionisio raduna un esercito di ottantamila fanti e tremila cavalieri ed una flotta di trecentocinquanta navigli. Ma superiori di numero sono le forze nemiche: trecentomila soldati e quattrocento navi.
La guerra si svolge accanita ma con alterna vicenda, ma alla fine fu il numero a vincere: nelle acque di Catana la flotta di Dionisio è distrutta e Siracusa, investita da tutte le navi di Cartagine, sta per capitolare.
Ma accadono due fatti; il primo è una provvidenziale peste che, improvvisamente scoppia fra i nemici, che ne diminuisce sensibilmente le forze e terrorizza demoralizzando le stesse; il secondo è il tempestivo aiuto di una flotta giunta da Sparta. Le due cose salvano Siracusa ed allontanano i Cartaginesi.

La guerra non tarda ad essere ripresa; segue prima un periodo di conflitti tra Siracusa e Cartagine, durante il quale l'una e l'altra ottengono vittorie e subiscono sconfitte.
Ma DIONISIO non pensa solamente a fiaccare i Cartaginesi e a cacciarli dalla Sicilia. Le sue mire vanno oltre l'Isola: nel Tirreno vuole far cessare l'egemonia etrusca, vuole insignorirsi delle colonie greche dell'Italia meridionale e concepisce perfino l'ambizioso progetto di assoggettare la Grecia.
Agli Etruschi, infatti, non concede un momento di tregua; riesce a cacciarli dalle coste illiriche ed italiche dell'Adriatico e invia colonie ad Ancona, a Numana ed Hatria (Adria) e nelle isole di Lisso e di Issa; dalla parte del Tirreno espugna, nel 369 a.C. la florida città di Pirgi.
Maggiore accanimento mette nell'attuare il disegno di conquista delle colonie della Magna Grecia. E prima fra tutte è Reggio a subire i fieri colpi di Dionisio, che si presenta
con centoventi navi davanti la città e, non riuscendo a costringerla alla resa per l'eroica difesa degli abitanti, capitanati da ELORI, ne saccheggia e devasta il territorio.

Contro il tiranno siracusano si schierano quasi tutte le città greche, ma DIONISIO, con accorta politica, riesce a tirare dalla sua parte Locri e i Lucani. Mentre lui torna ad assalire Reggio, i Lucani sconfiggono l'esercito che difende TURIO. Reggio seguita a resistere; la guerra si estende a Caulonia e Crotone che affidano ad ELORI un forte esercito.
La sorte favorisce Dionisio: l'esercito nemico cade in un'imboscata, Elori resta ucciso con un gran numero di combattenti e diecimila soldati sono fatti prigionieri.
La vittoria è schiacciante, decisiva, e molte città cadono sotto il dominio del tiranno; poco dopo pure Reggio, dopo un'eroica resistenza, si arrende per fame e Caulonia dopo aver subito la stessa sorte, per punizione è rasa al suolo.

Il terzo e più arduo disegno, la conquista della Grecia, forse sarebbe rimasto solo un desiderio, anche se lui fosse vissuto più a lungo. Ma la morte lo coglie nell'anno 367 a.C., e con la sua morte non poche città della terraferma, che erano finite sottomesse alla Sicilia, riacquistano la loro libertà.

IL SECONDO DIONISIO, DIONE ED AGATOCLE

Al tiranno succede suo figlio, con lo stesso nome; (detto "il giovane" o DIONISIO II); meno audace e ambizioso ed anche di minore ingegno, ma come il padre malvagio e più del padre dissoluto. Contro di lui si muove lo zio DIONE, cacciato dal nipote, il quale, aiutato da non pochi esuli, sbarca in Sicilia, solleva Agrigento, Gela e Camarina e marcia su Siracusa, che dopo un aspro combattimento conquista; DIONISIO è costretto a rifugiarsi in esilio a Locri. Era l'anno 357 a.C.
Ma DIONE resta al potere per poco tempo, nemmeno tre anni: prima osteggiato dal partito favorevole a Dionisio, infine nel 354 a.C., è ucciso a tradimento da un certo CALIPPO, lasciando la città in preda al disordine.

Ritornato a Siracusa dall'esilio, Dionisio ben presto si rende inviso ai cittadini a causa delle
sue scelleratezze. Si congiura contro di lui e si chiede aiuto a Corinto. Nel 344 a.C., è inviato sull'isola TIMOLEONE che libera dalla tirannide Siracusa, Catana, Leontini e Messana:
Dionisio II assediato in Ortigia, si arrende. Inviato in esilio in Grecia vivrà ancora a lungo come privato, morendo infine, sembra, a Corinto.
TIMOLEONE instaura governi democratici, poi nel 341 a.C., dichiara guerra a Cartagine, sostenitrice dei tiranni dell'isola, e con dodicimila uomini affronta un esercito di settantamila Cartaginesi e lo sconfigge sul Simoenta (fiume Crimiso).

Libera dalle insidie straniere, tutelata dall'onestà di Timoleone, che procede alla riorganizzazione di molte città sotto il dominio di Siracusa, tra le quali Selinunte, da lui ricostruita, la Sicilia respira e gode alcuni anni di pace e di benessere, ma, a causa della cecità da cui è stato colpito, si ritira a vita privata nel 337 a.C., dopo aver costituito un sinedrio di 600 cittadini. Ma la bellissima opera rinnovatrice da lui costruita in breve tempo si sfascia e la libertà è spenta dalle milizie mercenarie, che proclamano tiranno AGATOCLE, un turpe avventuriero il quale era riuscito a diventar loro capo.

Comincia con lui, in Sicilia, un periodo di violenze, di persecuzioni, di sangue, che ha un momento di tregua solo quando (310 a.C.) nell'Isola sbarca un grosso esercito di Cartagine.
AGATOCLE gli dà battaglia al monte Ecnomo, presso Imera, ma è sconfitto e lascia al campo settemila uomini. La sua disfatta segna per i Siciliani l'ora della riscossa; molte città, pur di liberarsi dalla tirannide di quel mostro, si alleano con i Cartaginesi, che marciano contro Siracusa.
Ma AGATOCLE ritorna all'offensiva; pone in stato di difesa Siracusa e, raccolto un esercito, eludendo la vigilanza della flotta cartaginese, sbarca in Africa con lo scopo di far allontanare dalla Sicilia i Cartaginesi portando la guerra in casa loro (311 a.C.)

Sbarcati con i suoi uomini, AGATOCLE distrugge le navi per costringere i soldati a combattere strenuamente togliendo loro i mezzi per una ritirata; poi, saccheggiando e devastando, giunge in Libia. Per accrescere il suo esercito, ricorre ad un ignobile stratagemma. Ad OFELLA, governatore di Cirene (che si è reso quasi indipendente da Tolomeo) promette di metterlo sul trono di Cartagine, futura capitale di un suo grande impero greco-africano. L'ingenuo Ofella raggiunge Agatocle con un esercito di diecimila uomini, ma il tiranno lo fa trucidare (309 a.C.) e con le nuove milizie di Cirene e le vecchie di Sicilia continua la sua marcia.
Intanto Siracusa, assediata dal nemico, resiste eroicamente, anzi infligge perdite considerevoli ai Cartaginesi, il cui capo, è ucciso. Mentre continua l'assedio, le città greche dell'isola che sono sotto la tirannide di Agatocle, capeggiate da Gela ed Agrigento, si proclamano indipendenti.
AGATOCLE capisce che, rimanendo lontano, rischia di perdere la Sicilia; lasciato parte dell'esercito in Africa sotto il comando del figlio ARCAGATO, con un forte contingente di truppe ritorna nell'isola e doma ferocemente la rivolta, poi fa vela ancora per l'Africa e punta su Cartagine.

Ma i soldati di Cirene lo abbandonano e passano al nemico; i suoi stanchi di stare in Africa, si ammutinano; Agatocle si nasconde; scoperto, è fatto prigioniero, ma riesce a fuggire a Siracusa lasciando in balia delle truppe, che poi li uccidono, i figli Arcagato ed Eraclito.

Costretto e conclusa la pace con Cartagine, Agatocle in Sicilia continua nella sua vita di scelleratezze fino a quando, padrone di tutta l'isola, già avanti con gli anni, volge le sue mire all'Italia; stringe e scioglie alleanze con gli Apuli e Iapigi; dà in sposa la figlia LANASSA a PIRRO, re dell'Epiro; assedia ed espugna Crotone, s'impadronisce d'Ipponio, fa scorrerie sulla costa dei Bruzii, ne cattura la flotta e medita una nuova guerra contro Cartagine.

Ma la sua ultima ora è suonata: un suo nipote, ambizioso quanto lui, desideroso di regnare, lo fa avvelenare (289 a.C.). Alla morte di Agatocle l'anarchia succede in Sicilia e la libertà, improvvisamente ottenuta dopo tanti anni di tirannide, di schiavitù e di degrado, genera l'abuso di libertà, rinascono le discordie intestine, e n'approfitta Cartagine, che dalla sponda dell'Africa sorveglia gli avvenimenti dell'isola e risuscita le sue cupidigie.

In non più liete condizioni versano intanto le città dell'Italia meridionale, prima oppresse ed impoverite dai tiranni siciliani, combattute ora dagli abitatori indigeni e specialmente dai Lucani. Con questi è in continua lotta Taranto, che, città di mercanti com'è, non potendo da sola frenare l'audacia dei nemici, seguita a chiamare in aiuto capitani di ventura e truppe mercenarie.
Ad ARCHIDAMO segue - come abbiamo visto - Alessandro Re d'Epiro (zio dell'allora ventenne Alessandro Magno); ad Alessandro si allea lo spartano CLEONIMO, che viene in Italia al soldo di Taranto e, dopo aver combattuto contro i Lucani, si allea con gli stessi contro Metaponto.
Abbattuta l'aristocrazia lucana, Taranto spinge la democrazia di quel popolo, che ha aiutato ad acquistare il potere, contro la città italiota-greca di Turio (o Turi - la odierna Bari).
Turio è una città fondata dai superstiti abitanti di Sibari mezzo secolo circa dopo la distruzione di questa città da parte di Crotone ed è l'unica colonia greca nel circondario in mano ad un governo aristocratico. Assediata da un esercito lucano capitanato da STATILIO, Turio non vede altra salvezza che chiedere aiuto a Roma, la tenace sostenitrice di tutte le aristocrazie dell'Italia meridionale.

Dal giorno che gli ambasciatori di Turio mettono piede nel Senato romano il destino del mezzogiorno d'Italia è segnato: le legioni di Roma, chiamate in aiuto, andranno in Meridione, ma da quel terreno che bagneranno con tanto sangue, non torneranno più indietro.

A Roma, i governanti da qualche tempo preoccupati per la politica espansionistica dei Tarantini, e irritati per il loro intervento a favore di Turi, per entrare in guerra, come pretesto ricorrono ad un incidente vecchio quanto il mondo: alcune navi romane sconfinano a N del capo Lacinio (od. Capo delle Colonne); era quello il limite invalicabile delle navi romane, indicato in un trattato bilaterale del 301-303 a.C.
Alle proteste del governo tarantino, non solo le navi Romane superano il limite violando i patti, ma provocatoriamente, quattro navi entrano dentro il porto di Taranto sfacciatamente in un giorno di gran festa per la città affacciata sul mare. La popolazione furibonda accorsa sul porto fa a pezzi l'equipaggio, l'ammiraglio e infine incendia le navi romane.

Era quello che voleva Roma, per iniziare la guerra "Guerra Tarantina"
per le sue mire espansionistiche;

ed è il prossimo capitolo, dall'anno 282 al 267 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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