FINE GUERRA SANNITICA - LE ULTIME BATTAGLIE

ROTTURA DELLA PACE COL SANNIO - BATTAGLIA DI VOLTERRA - PRESA DI BOVIANO - VITTORIA ROMANA A TIFERNO - GLI APULI SCONFITTI A MALEVENTO - QUINTO FABIO IN LUCANIA - CONQUISTE DI PUBLIO DECIO NEL SANNIO - GELLIO EGNAZIO DUCE DEI SANNITI - I SANNITI IN ETRURIA - LA QUADRUPLICE LEGA - SCONFITTA DEGLI ALLEATI - VOLUMNIO SCONFIGGE I SANNITI AL VOLTURNO: BATTAGLIA DI SENTINO - MORTE GLORIOSA DI PUBLIO DECIO E GELLIO EGNAZIO - PACE CON L' ETRURIA - BATTAGLIA DI LUCERIA - LA "LEGIONE LINTEATA" - BATTAGLIA DI AQUILONIA - PRESA DI COMINIO - FINE DELLA GUERRE SANNITICHE - TRIONFO DI QUINTO FABIO E MORTE DI PONZIO TELESINO - COLONIA DI VENUSIA - PACE COL SANNIO
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ROTTURA DELLA PACE COL SANNIO

Roma pur con una lunga serie di vittorie, dopo le due clamorose disfatte subite dai Sanniti, concesse al Sannio la pace, pur non avendola sottomessa del tutto; ma la concesse con uno scopo ben preciso: non solo il Sannio nella situazione di perdente ma anche Roma la vittoriosa, con gli sforzi fatti quasi contemporaneamente contro i Sanniti, gli Etruschi, gli Umbri e gli Ernici l'avevano esaurita; rilevanti erano state le perdite di uomini subite ma anche altissimi erano stati i costi, ed aveva perciò bisogno di ristorarsi con un periodo, più o meno lungo, di quiete. Tuttavia, sapendo che presto o tardi si sarebbe trovata ancora di fronte ai Sanniti, concesse malvolentieri quella pace per poter -con un periodo di quiete- consolidare la sua posizione.

Erano trascorsi sei anni di pace, ma anche per i Sanniti, questi erano stati sufficienti per darsi sollievo delle perdite subite e degli sforzi poderosi fatti durante le guerre precedenti. Era tempo per il bellicoso popolo di vendicare i suoi morti, di liberare i lembi di terra sannitica caduti in potere dei Romani, di lavare le onte patite e riacquistare tutta intera la libertà d'azione che gli era stata tolta dal nemico con i patti dell'ultimo trattato di pace concluso nel 450 (304 a.C.).

Lo abbiamo visto nel precedente capitolo, a Roma, l'esercito, pur disimpegnato dai Sanniti, non era rimasto inoperoso ma dovette occuparsi nei successivi sei anni di altri conflitti; vittoriosi, ma pur sempre impegnativi come uomini e mezzi. Non così i Sanniti, che sgravati dalla guerra con Roma, impiegarono i sei anni per prepararsi a farne un'altra per vendicarsi delle precedenti disfatte. E dopo i preparativi ritennero che il momento era giunto, e che non poteva essere migliore.

Siamo nel 299 a.C. L'Etruria da qualche tempo è in armi contro Roma, e i Galli partiti all'avanzarsi delle legioni di Valerio possono forse tornare, e forse allearsi con gli Etruschi, che questi hanno già tentato di assoldare. Mordono poi il freno i Marsi per i quali Corseoli (Carsoli) per Roma è come una spina nel fianco. Poi ci sono gli Umbri, vigilati dai coloni di Narnia, ma che aspettano pure loro l'occasione di insorgere.

Potrà resistere Roma contro tanti nemici?
Il Sannio cerca altri alleati, sapendo quanta sia grande la potenza di Roma. A mezzogiorno ci sono i Lucani. In parte, quindi non tutti, sono amici dei Romani, è vero, ma la regione è retta dal partito aristocratico e si può tentare di rovesciare il regime e di acquistare un nuovo alleato aiutando il partito democratico ad impadronirsi del potere.
Sono pertanto inviati ambasciatori nella Lucania affinché tentino in tutti i modi d'indurre il paese a muovere guerra contro Roma. Ma i Lucani rifiutano: perché giocare una carta così pericolosa ?
Allora i Sanniti ricorrono alle minacce, poi alla forza: schiere di armati varcano i confini della Lucania e mettono a ferro e a fuoco il paese.
A quel punto i Lucani un giorno dell'anno 455 (299 a.C.) si presentano al Senato romano ed ai consoli CUCIO CORNELIO SCIPIONE e GNEO FULVIO MASSIMO degli ambasciatori lucani a lagnarsi che, a motivo dell'incrollabile volontà di amicizia del loro paese verso Roma, tale affetto ha causato l'inimicizia dei Sanniti e questi hanno invaso il loro territorio. Rinnovano la loro devozione per la potente repubblica, e offrono, ove sia necessario, la sudditanza della Lucania a Roma.
I consoli e il Senato non sono sordi all'appello degli ambasciatori e stringono con i Lucani un trattato di alleanza, poi mandano i Feciali nel Sannio affinché ufficialmente dicano che
siano ritirate le truppe sannitiche dalla Lucania e siano rispettati i nuovi alleati di Roma.

La notizia prima ancora dell'arrivo degli ambasciatori di Roma giunge rapidamente nel Sannio e sono mandati incontro dei messi che superbamente ammoniscono i messaggeri romani di non entrare nel paese: perché nessuno si farebbe garante della loro incolumità.
Gli ambasciatori Romani risentiti riprendono la via del ritorno, mentre i Sanniti ben sapendo quale sarà la reazione a Roma, iniziano a preparare i loro eserciti, fidandosi nel concorso della armi etrusche.

BATTAGLIA DI VOLTERRA (456 A.di R. - 298 a. C.)

Ma gli Etruschi non sono più affidabili alleati sulla cui forza si possa contare come su un coefficiente importante di vittoria; gli Etruschi, lo abbiamo visto nell'ultimo conflitto, ormai non sono che l'ombra di quel popolo una volta così potente. Unito veramente non lo era mai stato, ma nemmeno diviso come in questi ultimi anni.

Un esercito romano, guidato dal console LUCIO CORNELIO SCIPIONE, risale l'Etruria in cerca del nemico, e già dispera di trovarlo e pensa che la presente campagna sarà simile a quella dell'anno precedente, quando con sua grande sorpresa gli Etruschi, presso Volterra, gli si fanno incontro.
Gli si offre quella battaglia che lui va del resto cercando. In un attimo le schiere sono disposte in ordine di combattimento e si scaglia addosso con furia sul nemico.
Pare che gli Etruschi abbiano ritrovato l'antica vigoria e si siano, ad un tratto, ricordati di essere i nipoti dei famosi guerrieri di Porsenna. Infatti, si battono con valore e di fronte all'incalzare impetuoso delle legioni romane non cedono di un passo.
La battaglia infuria tutto il giorno, poi cala la sera e le armi tacciono. Quando l'alba spunta si schierano ancora i Romani per riprendere il combattimento che la notte ha interrotto; ma gli Etruschi non solo più là a fronteggiarli né stanno chiusi nel campo.
La battaglia del giorno prima, energica ma così impegnativa, li ha sicuramente provati e nel pieno della notte hanno abbandonato precipitosamente l'accampamento per trovare riparo nelle città murate.
Gli alloggiamenti sono saccheggiati e offrono un bottino ricchissimo. Scipione passa nel territorio dei Falisci, lascia a Faleria con poca guardia i carriaggi e percorre con le sue legioni il paese nemico mettendo ogni cosa a ferro e a fuoco.

BATTAGLIA DI TIFERNO (457 A.di R. - 297 a. C.)

Con questa loro defezione, più che su quelle degli Etruschi i Sanniti ora devono contare sulle proprie forze ed opporsi al console GNEO FULVIO che marcia con un esercito nel Sannio e punta risolutamente verso Boviano. La loro capitale è minacciata. Le truppe sannitiche escono ad incontrare le legioni consolari e dalla città si ode il rumore della battaglia; che non dura molto, i Sanniti in ritirata cercano rifugio dentro le mura della stessa Boviano.
GNEO FULVIO non si accontenta di questa mezza vittoria riportata in aperta campagna, la vuole totale, si muove ed investe la città, che ben presto cade sotto gli assalti impetuosi dei legionari romani.

Lasciata a Boviano un forte presidio, il console punta verso il Sangro, su Anfidena, che invano si difende con accanimento ma segue la sorte della consorella.
Dopo queste vittorie romane la guerra langue, ma i Sanniti non dormono; per nulla domati o scoraggiati preparano nuovi e più poderosi eserciti, e giunge notizia che anche gli Etruschi sono impegnati a fare intensi preparativi.
Occorre dunque che Roma non riposi sugli allori, che altre legioni siano formate e che si affidi il comando a capitani più famosi.

QUINTO FABIO MASSIMO RULLIANO, vecchio d'anni e carico di gloria, rivive nel meritato riposo gli anni eroici del suo passato; ma il popolo, la nobiltà, il Senato vogliono che stringa nel pugno ancora la sua celebre spada per la grandezza di Roma, e che a lui si affidato l'imperio.
L'illustre vegliardo rifiuta; non ha più la vigoria di una volta; che si riservino ai giovani le imprese gloriose. La città torna a pregarlo e Fabio a rifiutare. Da tutte le parti si insiste perché egli accetti il consolato. Il famoso capitano alla fine non resiste agli accorati appelli e cede alle pressioni, ma desidera che gli si dia come collega PUBLIO DECIO MURE, ardente anima di guerriero ed espertissimo duce.

Ora le legioni romane sono in ottime mani. Nel corso dell'anno 457 (297 a.C.) un console andrà a mietere allori in Etruria, l'altro nel Sannio. Ma le notizie dei preparativi etruschi risultano false: messaggeri che giungono da Sutri, da Nepi e da Faleria riferiscono che tutto è quieto da quella parte. A Roma non dispiace, tanto meglio. Gli sforzi si convergeranno tutti sul Sannio.

Partono i consoli con la stessa meta ma per vie diverse, l'anziano FABIO attraverso il territorio di Sora, DECIO attraverso il paese dei Sidicini, avanzando con somma prudenza perché sanno che i Sanniti sono maestri nell'arte di tendere agguati (sono del resto quelli delle "forche caudine"!)
Ed infatti, un agguato è teso, a Tiferno, ma non a Decio, ma al vecchio Fabio; i nemici si sono imboscati nelle alture che fiancheggiano una valle ed aspettano che le legioni di Roma l'attraversano. Il console, cui non manca l'esperienza, in qualche modo apprese le intenzioni dei Sanniti; lascia i carriaggi in luogo sicuro sotto buona guardia ed entra nella valle, ma non in forma sparsa, ma con l'esercito disposto in quadrato come se si trattasse di una battaglia.

Fallita la sorpresa, i nemici, desiderosi di battersi, a quel punto scendono al piano. Numerosi sono gli uomini che motivati dall'odio si battono oltre ogni limite; tuttavia pur ostinata la battaglia, per qualche tempo è incerto l'esito; anzi il console teme di essere sopraffatto. Soltanto la cavalleria può compiere il miracolo di rompere le prime linee nemiche. Ordina perciò ai tribuni MARCO FULVIO e MARCO VALERIO di far entrare in azione i cavalieri, e nello stesso tempo ordina al luogotenente SCIPIONE di mettersi alla testa degli astati della prima legione e con un'intelligente manovra di aggirare i Sanniti per portarsi alle loro spalle.
I suoi ordini sono prontamente eseguiti: la cavalleria sferra con impeto il fronte avversario; purtroppo questo non cede. I cavalieri si ritirano e cresce la fiducia nei Sanniti che hanno avuto in quello scontro il sopravvento. E lo avrebbero mantenuto se i principi (la seconda linea del rincalzo del quadrato) freschi di forze, non fossero entrati nella mischia ad arginare l'impeto dei nemici, non proprio risolutivo ma sufficiente per tenere impegnati i Sanniti per qualche tempo, nell'attesa della "fortuna".
Che arriva! Infatti, improvvisamente, un rumor d'armi sorge alle spalle dei Sanniti: sono gli astati di SCIPIONE, ma Fabio grida che è l'esercito di DECIO MURE che corre al soccorso.

Si rinfrancano i Romani e lo sgomento invade gli animi dei nemici, che si danno alla fuga. Si vorrebbe incalzarli per annientarli, ma i Sanniti fuggendo si sono sparsi in così tante direzione che gli inseguimenti risultano tutti inconcludenti. Tuttavia lasciano sul terreno 3.400 morti, ventitre bandiere, e solo 330 prigionieri.

BATTAGLIA DI MALEVENTO

Se il vecchio ma astuto FABIO avesse indugiato nella valle a predisporsi in battaglia con i Sanniti e si fosse trovato al suo posto un altro esercito consolare, forse a Tiferno non avrebbero vinto i Romani.
I Sanniti erano riusciti a trascinare alla guerra gli Apuli ed un esercito di questi muoveva alla volta di Tiferno per congiungersi con gli Alleati.
Però il console DECIO che aveva preso la via del paese dei Sidicini faceva buona guardia. Giuntagli la notizia di questo nuovo esercito che avanzava, marcia risolutamente con le sue legioni contro gli Apuli e giunge a prender contatto con questi a Malevento.

Gli Apuli non rifiutano di battersi e la battaglia si accende furiosa, ma la fortuna arride all'esercito di DECIO MURE. Duemila nemici cadono sul campo e maggiore sarebbe stato il numero dei morti se gli Apuli, sgomenti per l'andamento della battaglia non avessero abbandonato il campo per darsi alla fuga e mettersi in salvo.

La via del Sannio era aperta. I due eserciti consolari invasero la regione e vi portarono la devastazione. Quarantacinque - scrive TITO LIVIO - furono i luoghi dove Publio Decio si accampò ed ottantasei quelli dove Quinto Fabio pose il campo. Né dopo la loro partenza rimasero soltanto le tracce degli steccati e dei fossati, ma i segni ben più gravi della devastazione nei paesi dove avevano sostato un solo giorno.
Fabio assalì poi la città di Cimetra prendendola d'assalto e la resistenza dovette essere stata accanita a giudicare dalle perdite nemiche: mezzo migliaio di morti e un migliaio e mezzo di prigionieri.

L'anno seguente (458 - 296 a.C.), la guerra nel Sannio non ebbe un momento di tregua. Sono consoli APPIO CLAUDIO CIECO II, astuto uomo politico, più che valoroso capitano, e il plebeo LUCIO VOLUMNIO FLAMMA VIOLENTE II; ma sono stati lasciati come proconsoli per sei mesi i due valorosi reduci delle vittorie QUINTO FABIO e PUBLIO DECIO.
Il vecchio FABIO passa con le sue legioni in Lucania dove il partito democratico ha avuto il sopravvento sull'aristocratico, e rimette con le armi il potere in mano della nobiltà amica di Roma; Decio rimane invece nel Sannio a guerreggiare.
Ma non è più una guerra in campo aperto, esercito contro esercito; sono solo scorrerie, devastazioni, incendi e saccheggi per le campagne.
PUBLIO DECIO vuole, così operando, portare solo lo sgomento nel territorio nemico e impoverirlo affinché non possa per lungo tempo con uomini e mezzi riorganizzarsi. E vi riesce; poi prende di mira le città dove le truppe sannitiche si sono concentrate.
Murganzia, nonostante città potente, è investita e in un solo giorno è costretta con la forza alla resa; che procura 2.100 prigionieri e un ricchissimo bottino.
E poiché le prede, bottino e uomini non si possono trascinare dietro, ogni cosa si vende. E siamo al punto che i mercanti, abili a gestire questo lucroso mercato, seguono a breve distanza l'esercito, nell'attesa della più che sicura "abbondanza" di lauti guadagni.

Dopo Murganzia cade Romulea: 2.300 sono i nemici uccisi, ma 6.000 sono i prigionieri che vanno in mano ai mercanti di schiavi. Cade Ferentino, dove accanita e non breve fu la resistenza favorita dalla fortezza del luogo e delle opere di difesa; qui l'immenso bottino - avviene ogni tanto per rinnovare l'audacia e motivare gli assalti- è lasciato ai soldati Romani, e sono allora loro a fare affari con i mercanti, non potendosi trascinare dietro l'ingombrante bottino.

I SANNITI IN ETRURIA - LA QUADRUPLICE LEGA

Ma i Sanniti non sono per nulla scossi da tutti questi disastri. Capo supremo della bellicosa nazione è ora GELLIO EGNAZIO, forse figlio di STAZIO caduto a Boviano nel 449, patriota insigne e guerriero valorosissimo.
GELLIO capisce che da solo il Sannio non può sperare di tenere testa alla potente Roma e che prima o poi finirà con il soccombere e cadere sotto il giogo della repubblica; e pensa di opporre al nemico una forte coalizione di popoli dell'Italia centrale. Gli Apuli, è vero, non hanno più il coraggio di tornare a brandire le armi contro Roma, né i Lucani vogliono mancarle di fede; ma ci sono ancora fra gli insofferenti di Roma, gli Umbri, i Galli e gli Etruschi.

GELLIO EGNAZIO raccoglie quante più forze possibili, lascia la patria in balia degli eserciti romani vittoriosi e convinto di operare meglio fuori dei propri confini passa in Etruria.
Gli Etruschi sono stanchi della guerra e i rappresentanti delle varie città sono riuniti e stanno per decidere di chiedere la pace ai Romani. L'arrivo del duce sannita fa tuttavia abbandonare le idee di pace e, mentre s'inviano messi nell'Umbria e presso i Galli, si stabilisce d'intensificare la guerra contro la vicina repubblica.

È il momento per Roma di agire con la massima prontezza e risolutezza. In Etruria vi è già un esercito al comando del console APPIO CLAUDIO, ma la perizia del console nell'arte militare non è molta, rispetto a quella del suo anziano ex collega Quinto Fabio, e più volte l'esercito combatté contro gli Etruschi con esito poco felice.
Fu così chiamato in Etruria dal Sannio, dove si trovava con un altro esercito, il console plebeo LUCIO VOLUMNIO.
Il suo arrivo per APPIO CLAUDIO fu come un'offesa. Questa frivola questione di prestigio, di amor proprio e di risentimento personale, avrebbe gravemente danneggiato i supremi interessi della patria in guerra se i nemici, decidendo di assalire le legioni Romane, non avessero fatto sopire i rancori e fatto nascere una nobile gara nell'animo dei due consoli.

EGNAZIO GELLIO, il duce Sannita, non è presente, essendo andato in cerca di vettovaglie, e la sua assenza favorisce i Romani per sferrare un attacco; quando il duce sannita rientra è troppo tardi; Etruschi e Sanniti, dopo un furioso combattimento sono stati respinti negli alloggiamenti, poi attaccati con estrema violenza dagli eserciti consolari, sono caduti in loro potere. Settemila e trecento nemici sono rimasti uccisi e oltre duemila fatti prigionieri. Il duce al suo rientro a stento riesce ad evitare la cattura.

LUCIO VOLUMNIO SCONFIGGE I SANNITI

Tuttavia questo scacco non scoraggia EGNAZIO GELLIO.
Poiché Fabio e Decio, terminato il loro proconsolato, sono tornati a Roma, e VOLUNNIO si trova in Etruria lasciando sguarnito di truppe il Sannio, Gellio ordina che un nuovo esercito sia allestito in patria; e n'assume il comando STAJO MINACIO, il quale, attraverso il paese dei Vestini, scende nella Campania e nel territorio Falerno, razziandolo.

Appresa la novità, a marce forzate, con il suo esercito torna il console VOLUMNIO verso il Sannio e non appena entra nel territorio campano gli si mostrano le testimonianze dei saccheggi. Per mezzo di spie e di prigionieri apprende che un esercito sannitico, ricco di bottino fatto in Campania, di ritorno nel Sannio è accampato sul Volturno; decide subito di mettersi in marcia verso quello e di sorprenderlo.
Favorito dalle tenebre si avvicina ai Sanniti; qui apprende che le bandiere e il meglio degli armati nemici sono partiti da poco e che il resto dell'esercito che ha con sé il bottino, lascerà il campo prima dell'alba.
Le informazioni sono esatte. Non è ancora l'alba quando in gran disordine inizia la partenza del nemico. Non c' è miglior momento per assalirlo. L'assalto è sferrato con così estrema violenza che nella confusione, numerosi Campani fatti prigionieri dai Sanniti nelle precedenti scorrerie, riescono a liberarsi e in un baleno tutti riuniti, essendo dentro il campo nemico, riescono a catturare STAJO MINACIO che sotto la minaccia di ucciderlo è costretto ad impartire ordini di resa.

Le schiere nemiche, partite durante la notte, informate degli avvenimenti, tornano indietro, ma là battaglia è ormai perduta; tutta la preda è caduta in mano dei vincitori, trenta bandiere, quattro tribuni militari e duemila e cinquecento uomini sono prigionieri e altri seimila giacciono morti nel campo.

BATTAGLIA DI SENTINO

Questa vittoria comunque non tranquillizza Roma, allarmata sia dai preparativi che i nemici fanno in Toscana e sia dalle informazioni che da quella regione fornisce Appio Claudio. Gli Umbri, infatti, hanno preso le armi, e lo stesso hanno fatto i Galli.
Mai Roma ha avuto tanti nemici contro di sé ed è necessario ricorrere a misure eccezionali. Il consolato di CLAUDIO e VOLUNNIO è al suo termine. Occorre che i nuovi consoli siano i migliori capitani di cui Roma disponga.
Chi più valoroso, più prudente, più esperto nelle armi di Fabio e di Decio? I due famosi generali sono assunti al consolato e questi chiamano sotto, le bandiere Romani e Latini; circa novantamila uomini sono ripartiti in cinque eserciti, al comando dei due consoli e dei tre vicepretori LUCIO SCIPIONE, GNEO FULVIO e LUCIO POSTUMIO MEGILLO.

QUINTO FABIO corre in Toscana per rendersi conto personalmente della situazione e vi rimane per qualche mese, poi, lasciato a presidio di Chiusi LUCIO SCIPIONE con due legioni, torna a Roma.
Verso Chiusi intanto si dirigono i Galli e SCIPIONE, stimando svantaggioso attendere nel campo un nemico infinitamente superiore di numero, conduce le sue legioni verso un colle che sorge tra gli alloggiamenti e la città, ma nello spostamento sorpreso dai Galli durante il cammino, ha l'esercito interamente distrutto.
Altri raccontano in modo diverso quest'avvenimento, scrivendo che fu il legato LUCIO MANLIO, inviato con un distaccamento in cerca di vettovaglie, ad esser sorpreso e battuto e che, accorso Scipione, questi poi sconfisse i nemici.
Ma questo è un episodio che non ha peso nella grande guerra. La parola decisiva sarà detta fra poco a Sentino. Qui si sono raccolte le truppe dei popoli coalizzati, che si fanno ascendere a circa centomila uomini; loro duce supremo è GELLIO EGNAZIO.
Verso Sentino marciano FABIO e DECIO, ma non hanno tutte le forze mobilitate; gli eserciti dei vicepretori Fulvio e Postumio sono stati lasciati, come riserva e guardia della via di Roma, presso Faleria.

A quattro miglia dal nemico FABIO pone il campo romano e solo allora si accorge della superiorità numerica degli avversari. La vecchia "volpe", non perde la sua freddezza, e cerca con uno stratagemma di pareggiare le forze. Ordina a FULVIO e a POSTUMIO con una parte dell'esercito di marciare verso Chiusi, devastando, al passaggio, il territorio etrusco. Lo stratagemma riesce: gli Etruschi abbandonano gli alleati e corrono a difendere le loro terre, invase e saccheggiate dalle truppe, romane.
Allora Fabio incita alla battaglia i nemici e la battaglia avviene il terzo giorno dalla partenza degli Etruschi. Da una parte e dall'altra i due avversari si dispongono in ordine di combattimento: i Galli formano l'ala destra dello schieramento nemico, i Sanniti e gli Umbri la sinistra. Contro i primi sta l'esercito di DECIO MURE, contro gli altri quello di QUINTO FABIO MASSIMO.
Prima che il combattimento abbia inizio, avviene un fatto che dai Romani è interpretato come segno di propizio augurio: una cerva è inseguita da un lupo, e, cercando rifugio verso i monti, passa in mezzo tra le opposte schiere. Qui la cerva, avvicinandosi ai Galli, è uccisa da questi a colpi di saetta; il lupo invece, andando verso i Romani, riceve da questi il passo libero.
Un soldato romano grida: "La fuga e la morte sono dalla parte dove uccisa giace la fiera sacra a Diana; il lupo, sacro a Marte, ci annunzia che la salvezza sarà con noi e ci ammonisce di ricordarci del dio, nostro progenitore".
Il grido fu come un segnale di inizio della battaglia che, infatti, si scatena su tutto il fronte.

IL SACRIFICIO DI DECIO MURE

QUINTO FABIO ordina che le sue legioni si difendano solo, in modo da lasciare che il nemico si logori e si stanchi assalendo. L'accorto generale vuole prolungare più possibile la battaglia onde evitare di logorare le proprie truppe per lanciarle poi decisamente contro i Sanniti e gli Umbri quando questi sono prostrati dalla fatica.
PUBLIO DECIO, al contrario, giovane ed irruente, lasciandosi vincere dalla foga e dall'ardore, scaglia furiosamente le sue legioni contro i Galli e poiché gli sembra che la fanteria non assalga con l'impeto con cui egli vorrebbe che si combattesse, fa entrare in azione la cavalleria, e lui stesso, con un manipolo di valorosi cavalieri, fa prodezze inaudite sulla prima linea. Due volte mettono in rotta la cavalleria nemica e si spingono arditamente in mezzo ai pedoni e li avrebbero senza dubbio sbaragliati se non gli fossero venuti incontro i carri da guerra dei Galli, mezzi mai visti prima d'allora dai Romani, i cui cavalli, spaventati dallo frastuono delle ruote, si irritano, si imbizzarriscono, indietreggiano senza più il controllo del cavaliere, mettendo in disordine la stessa retrostante fanteria.

E' la rotta. I cavalieri e i fanti dell'esercito nemico intanto incalzano, perfino increduli di quella facile vittoria. Invano DECIO MURE va in giro a rivolgere a suoi incitamenti per la battaglia; più nessuno gli bada. Allora si ricorda del padre, che al fiume Veseri -come abbiamo ricordato noi nelle precedenti pagine- aveva fatto sacrificio della propria vita per salvare l'esercito vacillante. Chiama il pontefice MARCO LIVIO e davanti a lui pronuncia la formula rituale e, votando se stesso e i nemici alla madre Terra ed agli dèi Infernali, spronato il cavallo, si lancia disperatamente nel folto delle schiere galliche, dove, colpito da innumerevoli dardi, squarciato il corpo da numerose ferite, finisce la sua corsa stramazzando al suolo.
Il sacrificio del console non è del tutto vano. Stimolati dall'esempio eroico del loro capo, aiutati dalla retroguardia giunta con Cornelio Scipione e Cajo Marcio al soccorso, i Romani tornano alla battaglia e prima tempestano di dardi e giavellotti la fronte nemica, poi come una furia piombano addosso ai Galli e prendono in un baleno il sopravvento su truppe che ormai sono stanche.

La lotta non è finita, ma manca pochissimo al suo termine, perché quello è il momento che aspettava l'astuto Quinto Fabio. Vedendo quella debole difesa, intuito che i Sanniti e gli Umbri sono stanchi, il vecchio lancia all'assalto tutte le sue riserve fresche, ordina alla cavalleria capuana di aggirare i Galli e le manda dietro, di rincalzo, i principi della terza legione anche loro freschissimi.

La moltitudine nemica non resiste, vacilla, cede, fugge verso gli accampamenti, si fa una ressa indescrivibile intorno alle porte, troppo strette per dare passaggio a tanta gente. GELLIO EGNAZIO tenta di frenare l'impeto romano davanti gli steccati, facendo un'ultima resistenza, ma non resiste neppure lui, e mentre eroicamente combatte, il duce cade ucciso.

La disfatta degli eserciti alleati è completa: 30.000 nemici uccisi giacciono sul terreno e più di 8.000 sono fatti prigionieri; ma anche dalla parte romana le perdite sono molto gravi, che TITO LIVIO fa ascendere a 8.200 morti.

Il giorno dopo imponenti funerali sono tributati al console DECIO MURO.
Nello stesso giorno i resti dell'esercito sannitico, fuggendo attraverso il territorio dei Peligni, sono da questi assaliti e lasciano lungo il percorso oltre 1.000 morti. Nei successivi giorni, gli Etruschi, affrontati dalle truppe di GNEO FULVIO, subiscono presso Chiusi una grave sconfitta e lasciano sul campo 3.000 morti e nelle mani dei Romani venti bandiere; correva l'anno di Roma 459 (295 a. C.).

PACE CON L'ETRURIA - LA BATTAGLIA DI LUCERIA

Dopo la sconfitta di Sentino si sciolse la confederazione dei quattro popoli nemici di Roma.
In Etruria la guerra ebbe qualche ripresa, ma dai risultati poco efficaci per non dire disastrosi; oltre che i cittadini, nelle stesse truppe la voglia di combattere era di molto scemata e non era questa una buona garanzia per coloro che volevano ad ogni costo condurre scellerate operazioni belliche, senza però esserne capaci, pur potendo contare - come abbiamo visto a Sentino- su oltre centomila uomini, che erano tali, ma non soldati; spesso erano civili costretti a fare il combattente senza averne le capacità oltre che la volontà necessaria.

Per prima fu Perugia che pagò le spese di questa inefficienza e passività diffusa. Le sue milizie mandate al macello, furono, infatti, sbaragliate in un istante, dallo scaltro QUINTO FABIO ed ebbero 4.500 e cinquecento morti e circa 2.000 prigionieri che furono - per non restare senza necessari e operosi cittadini- poi riscattati pagando 310 assi ciascuno.
Poi venne la volta di Volsinio che, combattuta dal console POSTUMIO, perdette oltre 2.000 uomini, e di Russelle che fu costretta alla resa e si ebbe il territorio saccheggiato.

Esausta, l'Etruria chiese a Roma l'anno dopo, nel 460 (294 a. C.) la pace per quarant'anni e le principali città Volsinio, Perugia ed Arezzo, furono obbligate a pagare cinquantamila assi ciascuna come indennità di guerra ed a ricevere dentro le loro mura e rifornire di viveri e vesti le guarnigioni romane.
Il Sannio invece non si diede per vinto. Radunato un esercito, lo mise in marcia contro il pretore APPIO CLAUDIO e il proconsole VOLUNNIO; ma la sorte piuttosto ovvia gli fu contraria e il valore spiegato in battaglia non fu compensato dalla dea fortuna. 16.000 Sanniti perirono ed oltre 2.000 furono catturati.
Benché disfatto, il fiero popolo ha ancora la forza di mettere in campo tre eserciti. Con uno intende custodire i confini della regione, con il secondo tentar la fortuna in Etruria, con il terzo invadere la Campania.
Contro quest'ultimo fu mandato il console ATTILIO REGOLO che incontrò il nemico in una località infame per ingaggiare una battaglia e poco mancò di finire soccombente.
Era una notte di gran nebbia e le guardie romane facevano scarsa vigilanza alle porte del campo, quando i Sanniti, prima che spuntasse l'alba, scatenarono l'assalto e riuscirono a penetrare nel recinto addirittura fino al padiglione del questore LUCIO OPIMIO PANSA che uccisero. Nella confusione che seguì il console non perse il sangue freddo, e, dato l'allarme, riuscì opporre al nemico un'energica difesa e a ricacciarlo.
Però dalla critica posizione in cui l'esercito di Attilio si era venuto a trovare, ci pensò il collega POSTUMIO MEGILLO, il quale, poi divisosi da Regolo, dopo un accanito combattimento, costrinse alla resa Milonia e, senza colpo ferire, Ferentino ed altre città, che erano state abbandonate dai loro abitanti.

LUCERIA

MARCO ATTILIO REGOLO con le sue legioni passò in Apulia e si scontrò al confine del territorio di Luceria con un esercito sannitico. La battaglia fu tremenda e le perdite romane superarono quelle del nemico. Alla stanchezza della lotta subentrò nelle truppe di Regolo lo sconforto e se, durante la notte o sul far del mattino, i Sanniti avessero assalito il campo non avrebbero avuto certamente difficoltà a conquistarlo.
Per fortuna anche il nemico era stanco e non meno sfiduciato di quello romano e, giunto il giorno, anziché riprendere il combattimento, avevano deciso di abbandonare il campo per rientrare nel Sannio.

Il console vedendo quel movimento pensò che i Sanniti volessero assalire l'accampamento romano e con le preghiere e con le minacce riuscì a far riprendere le armi agli stanchi e svogliati soldati per schierarli contro il nemico.

Benché né gli uni né gli altri avessero voglia di tornare a combattere, spinti dai loro comandanti, s'ingaggiò nuovamente la battaglia e stava questa per volgere in favore dei Sanniti con i Romani che già ripiegavano verso il campo, quando Regolo, fatto voto a Giove Statore di edificargli un tempio se la vittoria fosse stata delle armi della repubblica, con un manipolo di cavalieri, prima riunì i soldati che tentavano di rientrare negli alloggiamenti, poi li persuase che quello era il momento migliore per attaccare; infine insieme sferrarono l'attacco decisivo con una vittoria strepitosa.
La giornata fu più sanguinosa della precedente, ma questa volta la disfatta del nemico fu completa, avendo lasciati sul terreno circa 5.000 morti. Oltre 7.000 furono i prigionieri che Regolo fece poi passar nudi sotto il giogo.
Dopo questa vittoria un'altra molto facile la conseguì l'esercito di Regolo, che, ritornando da Luceria, imbattutosi in un esercito carico di bottino fatto nel territorio di Interamnae, lo attaccò, lo fece a pezzi e recuperò anche il bottino.

BATTAGLIA DI AQUILONIA

Nell'anno 461 (293 a. C.) i Sanniti tentano con un grande sforzo la riscossa.
Tutti gli uomini validi furono chiamati alle armi e si minacciò di morte coloro che non rispondevano all'appello della patria.
Ma il Sannio rispose generosamente non perché c'era la minaccia, ma solo perché si trattava di salvare l'onore della nobile e sfortunata nazione.
Quarantamila uomini si concentrano ad Aquilonia (Lacedogna). Qui, in un recinto di legno coperto di tela, il sacerdote OVIO PACCIO, compie il sacrificio secondo l'antico rito sannitico chiamando le divinità a difesa della patria e della stirpe. Il duce supremo poi chiama, ad un per volta, dentro il recinto gli uomini più nobili per sangue e per imprese e singolarmente li conduce davanti all'altare. Presso l'ara innalzata agli dèi giacciono sanguinanti gli animali immolati e ritti stanno attorno i centurioni con le spade sguainate. I soldati pronunciano ad uno ad uno, un'orribile formula, invocando che sulla propria vita e su quella della loro famiglia e della loro stirpe cada la maledizione se non seguono ciecamente i loro capi se fuggono, o se lasciano impuniti quelli che di faccia al nemico voltano le spalle.
Sedicimila uomini fanno questo giuramento solenne e con loro si forma una legione disperata di guerrieri votati alla morte, la cosiddetta legione "linteata". Le loro vesti sono bianche, di lino, impennacchiati gli elmi e dorate le armature dei legionari, perché si distinguano dai rimanenti soldati.

Contro il Sannio in armi Roma allestisce due poderosi eserciti. Li comandano SPURIO CARVILIO e LUCIO PAPIRIO CURSORE, il figlio del vincitore di Longula. Marciando verso il Sannio, il primo conquista Amiterno, il secondo costringe alla resa Duronia; saccheggiando lungo la via, il primo giunge a Cominio che cinge d'assedio l'altro ad Aquilonia, in mano all'esercito Sannita.
Venti miglia separano i due consoli, e giorno e notte sono percorse da messi che mantengono il contatto tra i due campi romani.
Presso Aquilonia, per molti giorni si scaramuccia soltanto, ma infine si arriva alla giornata della grande battaglia, desiderata dal duce, desiderata dai capitani, dai legionari, dagli auguri.

E' tanto il desiderio dell'áugure "pullario" che, per affrettare il combattimento, senza pigliare gli auguri, li annuncia favorevoli. Si schiera a battaglia l'esercito romano: LUCIO VOLUNNIO comanda l'ala destra, LUCIO SCIPIONE la sinistra, CAJO CEDEZIO e TREBONIO la cavalleria.
SPURIO NAUZIO, escogita un singolare stratagemma; privati delle bardature i somari del carreggio li conduce di nascosto sopra un'altura alle spalle del nemico e, a combattimento inoltrato, farà scendere giù per la china gli animali sollevando un fitto polverone come se si trattasse di un terribile grande esercito al galoppo.

Davanti, l'esercito nemico luccicava d'oro e d'argento, svolazzavano i pennacchi degli elmi, e le candide vesti della legione linteata formavano una scena stupenda.
Si aspettava più solo che sia da una parte sia dall'altra che i capi impartissero il segnale dell'inizio della battaglia; ed ecco che davanti al console Papirio, come propizio augurio, andò a posarsi e a gracchiare un corvo. Fu a quel punto che suonarono le trombe e dai legionari si levò il grido della battaglia.

La battaglia inizia con violenza inaudita; il desiderio di combattere o l'ira spingono i Romani, assetati di sangue nemico; mentre gran parte dei Sanniti erano costretti più dal giuramento a resistere che non ad assalire ed essendo abituati ad essere vinti non
avrebbero retto al primo scontro dei Romani se una potente paura non li avesse trattenuti dal fuggire, avendo sempre davanti agli occhi l'orribile rito del giuramento, l'altare circondato di vittime e nella memoria le maledizioni invocate sulla loro vita, su quella della famiglia e sulla stirpe.

Ed infatti, i bianchi linteati vincolati dal giuramento, non indietreggiano di un solo passo, nemmeno quando i legionari di Roma irrompono su di loro sciabolando a destra e a manca come dei seminatori di morte. Ed ecco, a un tratto, alle spalle del nemico sorge un sordo rumore come di cavalleria che avanza al galoppo e un nugolo fitto di polvere si alza al cielo. "È l'esercito di SPURIO CARVILIO, che, vinto Cominio, viene in nostro aiuto", urla Papirio ai suoi. Era invece lo stratagemma di SPURIO NAUZIO, e il polverone era quello dei somari al galoppo giù per la china alle spalle del nemico.
I legionari e i Sanniti hanno udito il grido del console; i primi raddoppiano gli sforzi, i secondi sbigottiti, perdono vigore nella resistenza. A questo punto Papirio alza una lancia al cielo, è il segnale convenuto; si aprono le schiere romane e attraverso il varco da dietro irrompe la cavalleria che cozza furiosamente contro il baluardo vivente dei linteati, poi subito seguita dalla fanteria.
Ora la battaglia ha il suo tragico epilogo. La disfatta dei difensori del Sannio è irreparabile. I pedoni superstiti sono respinti agli alloggiamenti, i nobili e i cavalieri sanniti fuggono verso Boviano; e gli uni e gli altri sono inseguiti dai vincitori; ma gli steccati del campo sono un debole riparo per i vinti, travolti e superati dalle schiere di Volumnio per i Sanniti non c'è più scampo.
Scipione, oltrepassato il campo con un distaccamento dei suoi, giunge sotto le mura di Aquilonia che non può fare altro che arrendersi.

Trentamila Sanniti giacciono sul campo e altre migliaia fatti prigionieri.
Né questa è la sola sconfitta di quella giornata. All'alba l'importante città Cominio è stata attaccata da SPURIO CARVILIO e, dopo una resistenza accanita e dove sono caduti quattromila uomini, si è arresa a discrezione con tutta la guarnigione di quindicimila Sanniti.
Aquilonia e Cominio sono prima saccheggiate, poi ad entrambe è appiccato il fuoco; nello stesso giorno le due città sono ridotte in cenere.
Più tardi anche Sepino, Volana, Palumbino ed Erculaneo cadono nelle mani degli eserciti consolari. In un solo anno, nella disastrosa guerra i Sanniti hanno lasciato sul terreno oltre cinquantamila morti ed hanno avuto più di ottantamila prigionieri, e gran parte della ricchezza del Sannio è stata preda delle legioni romane.
Nel trionfo, che più tardi celebrerà a Roma, Papirio porterà in moneta due milioni e cinquecentotremila assi, tratti dal ricavato dei prigionieri venduti ai mercanti, e mille e cento trenta libbre fra oro e argento.

FINE DELLE GUERRE SANNITICHE

Nelle condizioni in cui era ridotto, pareva che il Sannio non dovesse più rialzarsi e invece un anno dopo nel, 462 (292 a.C.) è di nuovo in armi; ma è l'ultimo sforzo, vano ed eroico insieme.
Capo delle truppe Sannite è PONZIO TELESINO, che comincia la lotta con una vittoria. Nella Campania gli si offre l'occasione di sorprendere l'esercito del console FABIO MASSIMO GURGITE, figlio del grande Fabio Rulliano, e di sconfiggerlo. Ma a vendicare la sconfitta delle legioni romane e a cancellare l'onta recata al glorioso nome dei Fabii, parte il vecchio QUINTO FABIO, che in una memorabile battaglia, non sappiamo in quale luogo combattuta, sconfigge i Sanniti, i quali lasciano migliaia di morti sul campo e fra le mani dei Romani quattromila prigionieri.
Fra questi è PONZIO TELESINO che, carico di catene, segue a Roma il carro trionfale di RULLIANO, poi terminata la cerimonia è messo a morte.

L'anno seguente, nel 463 (291 a. C.) il console L, POSTUMIO MEGELLO, conquista Venusia, nell'Apulia, e vi si stabilisce una colonia di ventimila uomini. E' l'ultimo atto!

Il Sannio ha finito di lottare.
Dopo cinquant'anni circa di ostinate guerre, l'anno dopo, nel 464 (290 a.C.) si arriva alla pace definitiva con Roma e mette la parola fine alla sua indipendenza.
Tuttavia alcuni Sanniti irriducibili, continueranno a opporsi ai Romani, partecipando a tutte le coalizioni militari che saranno promosse contro Roma. Non sono grandi battaglie storiche, ma ne fa fede la menzione di trionfi registrati dai Fasti ancora per gli anni 279, 276, 275, 273, e 272 a.C.

Con la fine della terza guerra sannitica, sono ormai sotto il dominio romano, oltre al Lazio, il Sannio, l'Etruria, l'Umbria, la Sabina e la Campania.

Ma nominando per ultima la Campania, che fin qui abbiamo menzionato nel conflitto dei Sanniti con Roma, nel frattempo altri avvenimenti erano avvenuti nell'intero Meridione e in Sicilia; con i Greci e i Cartaginesi.
Ce ne occupiamo nel prossimo capitolo, tornando di qualche anno indietro, e menzionando pure alcune fasi della guerra Sannitica in Etruria, con i Galli e i Boi.

passiamo dunque al periodo dall'anno 290 al 280 a. C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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