I GALLI IN ITALIA - A CHIUSI, NEL LAZIO, A ROMA - SACCHEGGIO


I GALLI E LA LORO DISCESA IN ITALIA - ASSEDIO DI CHIUSI - I CHIUSINI CHIEDONO AIUTO AI ROMANI - AMBASCERIA DEI FABII - I GALLI MARCIANO SU ROMA- BATTAGLIA DELL'ALLIA - SCONFITTA DEI ROMANI - ROMA ABBANDONATA - I GALLI A ROMA - IL SENATORE PAPIRIO - INCENDIO E SACCHEGGIO DI ROMA - ASSEDIO DEL CAMPIDOGLIO - INCURSIONI GALLICHE NEL LAZIO - I GALLI SCONFITTI AD ARDEA - GLI ETRUSCHI SCONFITTI A VEJO - ASSALTO DEL CAMPIDOGLIO: M. MANLIO - MARCO FURIO CAMILLO SCONFIGGE I GALLI - LA TRADIZIONE E LA CRITICA - RIEDIFICAZIONE DI ROMA
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I GALLI E LA LORO DISCESA IN ITALIA

Molto prima che i Romani iniziassero i preparativi per l'ultima guerra contro Vejo, era giunta a Roma la notizia della comparsa di popolazioni nuove oltre le regioni abitate dagli Etruschi; e questi erano già impegnati a difendere alcuni estremi confini a nord della Toscana, e in piccoli insediamenti nella pianura Padana, o sulle coste adriatiche.
Luoghi che un Romano fino allora non si era mai spinto. Per tre motivi: l'esercito che Roma possedeva non era ancora in grado né era organizzato per fare delle grandi campagne lontano dalla madre patria; c'era il solito baluardo di Vejo che impediva di andare non oltre le porte a nord di Roma; ed infine non possedeva ancora una flotta navale, anche perché in questi anni il mar Tirreno era dominato da navi etrusche o cartaginesi; dalla Liguria alla Sicilia il mare era un "condominio" incontrastato, solcato solo dalle navi delle due potenze, per lo più per scopi commerciali e non militari.

Tuttavia Roma apprese, forse dagli stessi Etruschi, le prime notizie di queste popolazioni erranti, che facevano scorribande e razzie nei territori settentrionali della penisola.
Si riferiva che erano genti di statura gigantesca (l'italica come l'etrusca era di media alta 150-160 cm, i barbari oltre i 180 cm.) dall'aspetto feroce e dall'anima non meno feroce; coraggiosissime, armate di scudi e di rozze spade, amanti della guerra, che in battaglia operavano con orde numerose, e assalivano popolazioni e territori con un impeto straordinario travolgente, emettendo urla terribili che portavano lo spavento nelle schiere avversarie, recidevano le teste nemiche e le appendevano come ornamenti alle loro selle, predavano e devastavano i territori per i quali passavano e, come traccia del loro passaggio, non lasciavano che rovine e desolazione.

Queste genti erano i Galli.
(ne daremo un'altra descrizione, fatta più tardi, da Giulio Cesare, nel suo famoso "De bello gallico")

Quando i popoli di razza Aria (o indo-europea) come sono chiamati anche gli Italici, occuparono la penisola, una gente della medesima stirpe si era stabilita nell'Europa centrale ed occidentale dove poi si era spinta a nord nelle isole e penisole nordiche, ad oriente nella penisola Balcanica, ad ovest nella penisola Iberica ed a sud nell'Italia settentrionale. Erano i Celti, dai Greci chiamati Galati e dai Romani Galli (Galli è infatti una denominazione latina dei Celti).

Non si sa con precisione quando i Galli scendessero in Italia e in quali punti valicassero le Alpi. Certo non prima di Tarquinio Prisco, forse dopo la cacciata dell'ultimo re da Roma (Tarquinio il Superbo - anni 534-510 a.C.).

Calarono probabilmente a più riprese, una tribù dopo l'altra.
LIVIO (una delle poche fonti che esistono al riguardo - ma scrive cinque secoli dopo, attingendo a tradizioni e leggende ormai consolidate) narra che al tempo di Tarquinio Prisco, Ambigato, re dei celti Bitturigi, forse a causa della sovrappopolazione nel suo regno, ordinò ai nipoti SIGOVESO e BELLOVESO di emigrare alla testa d'alcune tribù, vere e proprie turbe; il primo verso le selva Ercinia (la regione boscosa e montuosa tra il Reno e l'Alto Danubio), il secondo in Italia.

Belloveso con una moltitudine di Bitturigi, Arveni, Senoni, Edui Ambari, Carnuti ed Aulerci, dal paese dei Taurini attraverso (allora) gli immensi boschi delle Alpi Giulie, scese nella grande pianura attraversata dal Po, sconfisse gli Etruschi presso il Ticino ed occupò la regione degli Insubri dove fondò la città di Mediolano.

Sempre secondo Livio, un'altra moltitudine di Cenomani capitanati da Elitovio si spinsero nella regione ove poi sorsero Brescia e Verona; dopo di questi seguirono i Sali che occuparono i passi confinanti con i Liguri; più tardi i Boi e i Lingori, passati su zattere il Po, si spinsero fino all'Appennino, cacciando gli Etruschi e gli Umbri, e da ultimo i Senoni occuparono il paese posto tra il fiume Uffente e il Ticino (In seguito li troveremo tra Rimini e Ancona fino a Senigallia).

Ad ogni modo prima ad essere occupata dai Galli fu la regione a nord del Po che fu poi denominata Gallia transpadana, dove abitavano i Liguri che perdettero i territori di Brescia e di Verona e parte di quelli circostanti al Ticino. I Galli nel passare il Po, gli Etruschi perdettero quasi subito tutti i campi sulla sponda destra del fiume e la regione felsinea, mentre i Liguri anche loro dalla pianura, furono cacciati da tutti i territori dove si erano stanziati: da Piacenza a Modena.

Al tempo della guerra di Vejo la Gallia Transpadana era occupata dalle tribù galliche degli Insubri, che ad ovest confinavano con i Liguri Salassi e Taurini, e dei Cenomani che confinavano ad est con i Veneti; nella Cispadana i Longoni abitavano il territorio ravennate, i Senoni quello di Sinigallia e i Boi, più potenti fra tutti gli altri Galli, i territori da Felsina (qui fondarono Bologna) al Po oltre il quale possedevano pure l'attuale territorio di Lodi.

ASSEDIO DI CHIUSI

I popoli che maggiormente avevano sofferto per l'invasione gallica, essendo i primi a venire a contatto, erano stati ovviamente gli Etruschi. Cacciati dai loro possedimenti settentrionali e cioè dalla regione tra l'Appennino e il Po, in un primo tempo avevano cercato di rifarsi delle perdite subite trovando compensi a Sud, cioè nel Lazio e nella Campania, ma, come abbiamo visto, dopo un primo successo a Roma erano stati sconfitti sotto le mura di Aricia; poi, ridottisi tra l'Appennino e il Tirreno nell'Etruria propriamente detta, rimasero continuamente in armi contro i Boi a difendere accanitamente le frontiere settentrionali del loro territorio.
Era naturale che i Romani rimanessero se non atterriti almeno preoccupati dalle notizie giunte fino a loro di questi popoli barbari che tentavano con le armi di inoltrarsi nelle vie dell'Italia centrale; nessuna meraviglia perciò se cercarono di avere maggiori notizie sul conto dei Galli e di raccogliere direttamente informazioni sui loro propositi, inviando nel nord dell'Etruria persone che spiassero le mosse dei Galli, studiassero il loro modo
di combattere, si rendessero conto dell'entità delle loro forze e tentassero di conoscere le loro mire.
Invece, secondo LIVIO, il cui racconto non può essere che leggendario, Chiusi, città etrusca, essendo assediata dai Galli, chiese (cosa abbastanza strana) aiuto ai Romani.
Da Roma, anziché andare in soccorso dei Chiusini con un esercito, furono inviati ai Galli come ambasciatori tre figli del pontefice massimo M. FABIO AMBUSTO, i quali tentarono d'indurre i barbari di levare l'assedio e di non molestare i Chiusini.
Risposero i Galli che volentieri avrebbero fatta la pace con Chiusi se una parte del territorio di questa città fosse stata loro amichevolmente ceduta. Avendo i Fabii obbiettato che non era giusto pretendere la cessione di terre dai legittimi possessori, i Galli dissero con arroganza che essi portavano la ragione sulle armi e che la terra apparteneva a chi sapeva conquistarla con la forza. Era del resto un concetto proprio di tutti i popoli barbari, il "legittimo possesso" non aveva nessun senso, perché nella loro cultura e nelle loro leggi consuetudinarie, non esisteva la proprietà terriera, ma solo quella tipicamente personale, e spesso neppure quella; anche fra parenti stretti (vedremo in seguito le intestine lotte fra Longobardi, Franchi e Germani)

Sdegnati i Chiusini da quella risposta, corsero alle armi e da una parte e dall'altra si accese un'ostinata battaglia alla quale sfortunatamente parteciparono i tre FABII, pur facendosi notare per il loro ardimento e valore. Anzi uno di loro, QUINTO, staccandosi con il suo cavallo dalla prima schiera, assalì con la sua spada e passò da parte a parte uno dei capi dell'esercito barbaro e, abbattutolo al suolo, lo spogliò delle armi.
Riconosciuto dai Galli per uno degli ambasciatori, fu grande l'ira del nemico, e BRENNO il loro condottiero, a gran voce impartì gli ordini ai suoi uomini di toglier l'assedio e di marciare contro Roma, ma prevalse la proposta di mandare alcuni ambasciatori al Senato romano a chiedere conto dell'ingiuria patita e a domandare che fossero consegnati i tre Fabii.
Portarono gli ambasciatori la protesta e la richiesta dei Galli e il Senato, pur trovandole giuste, non osò consegnare uomini di una così illustre famiglia oltre che valorosi e rimise la decisione al popolo, che non soltanto rimandò indietro l'ambasceria con un rifiuto ma creò anche i tre Fabii per l'anno successivo tribuni consolari, provocando lo sdegno negli ambasciatori, i quali ritornarono al campo presso Chiusi minacciando la guerra.
Dalle minacce ai fatti non passò tanto tempo perché subito dopo al galoppo le orde barbariche scesero alla volta di Roma attraverso l'Etruria.

Avrebbero dovuto i Romani, com'era loro costume, data la gravità della situazione creare un dittatore; invece non se ne diedero pensiero, anzi nei preparativi di guerra non posero né cura né furono fatte sollecitazioni per organizzare un efficiente esercito oltre che difensivo, offensivo.

BATTAGLIA DELL'ALLIA

Dall'Etruria, si avvicinava intanto il terribile nemico: un'onda infinita di combattenti al cui passaggio dal terrore che li precedeva, fuggivano le popolazioni.
Ben presto giunse a Roma la notizia che uno sterminato esercito di Galli si avvicinava e grande fu lo sgomento che invase gli animi dei cittadini. Si radunò come meglio si poté, in fretta e in furia un esercito, poi informati che il nemico, passato il Tevere a monte della città, scendeva costeggiando la sinistra del fiume, le legioni romane gli mossero incontro e, ad undici miglia da Roma, giunte che furono al torrente Allia, avvistarono le avanguardie barbariche.
Non c'era il tempo di scegliere un luogo adatto per il campo né di costruire delle difese; avanzavano i nemici come una incalzante marea ed era necessario schierare frettolosamente a battaglia l'esercito.
Era il 14 luglio dell'anno 364 (390 a.C.) e comandava quel giorno le truppe romane il tribuno consolare QUINTO SULPICIO LONGO. Questi, forse per far fronte al numero grandissimo di nemici, forse per attirarli al centro e premerli poi con le ali, schierò l'esercito tra il Tevere e i colli Crustumini lasciando il centro protetto da una striminzita schiera di soldati, e lui si portò sui colli dove si stendeva l'ala destra e un nutrito contingente di reclute che rappresentavano le schiere di rinforzo, e lì attese il nemico.

I Galli, compreso probabilmente il piano, dei Romani, anziché attaccare il centro e spezzare in due l'esercito di Sulpicio, concentrarono la maggior parte delle loro forze contro le alture ed assalirono vigorosamente l'ala destra. Lo scontro in quest'attacco gallico fu terrificante. I Romani non ressero all'urto; vacillò la destra, poi questa si diede alla fuga precipitando dai colli al piano e trascinando con sé nella rotta il resto dell'esercito che non ebbe il tempo nemmeno di iniziare il combattimento. Fu una rotta disastrosa! Il centro e la sinistra credendosi circondati sulla destra e supponendo che fosse loro preclusa la ritirata verso la città, si assieparono sulla sponda del Tevere, poi in gran confusione si gettarono nel fiume, dove molti per l'imperizia del nuotare o per l'impaccio e il peso delle armi annegarono; ciononostante la maggior parte riuscì a porsi in salvo nella sponda opposta e a rifugiarsi a Vejo.

Soltanto quelli dell'ala destra riuscirono entrare, gli altri fuggirono verso Roma. I Galli, stupiti di aver vinto così facilmente un nemico del cui valore era giunta fino a loro la fama e non potendo credere alla realtà dei fatti, temettero che i Romani avessero simulata la fuga per trarli in inganno e perciò non osarono inseguire i fuggiaschi e, com'era loro costume, rimasti sul campo di battaglia, si diedero a raccogliere le spoglie dei vinti mentre una parte della loro cavalleria si spingeva verso le mura della città in perlustrazione. Più tardi, ritornati i cavalieri ed avendo riferito che le mura erano prive di guardia ed aperte le porte, il grosso dell'esercito barbaro si mosse nel corso della notte verso Roma nelle cui vicinanze giunse allo spuntar del sole. Sempre più meravigliati e temendo agguati da parte del nemico, i Galli sostarono titubanti tra la città e l'Aniene.

Dal primo scontro, per tre giorni interi, i nemici rimasero incerti sul da farsi fuori della città limitandosi a mandare sotto le mura alcuni drappelli di esploratori.
Questa indecisione fu la salvezza della cittadinanza. Al primo arrivo dei fuggiaschi, i Romani, non sapendo che fine avessero fatto gli altri - la maggior parte dell'esercito e che fuggendo a Vejo si erano rifugiati- credendoli tutti periti nella battaglia, riempì di lamenti le case e le vie; ma al dolore si sostituì ben presto il terrore e ciascuno pensò a come salvare la pelle prima che i barbari giungessero in città, che ormai era dato per scontato.

Tutti i giovani idonei alle armi decisero di ritirarsi nella rocca del Campidoglio e difendersi a oltranza, fino all'estremo. E nella rocca furono portate tutte le vettovaglie per resistere a un lungo assedio e iniziarono a predisporre le difese.
Il resto della popolazione, portandosi dietro viveri e masserizie, abbandonò la città fra i saluti strazianti di quelli che partivano e quelli che rimanevano. La maggior parte erano donne e fanciulli, alcuni trovarono rifugio nello stesso Campidoglio, anche perché i difensori non ebbero il coraggio di respingerli, mentre altri si rifugiarono sulla cima del Gianicolo, e altri ancora si dispersero per la campagna o per raggiungere i paesi sulle vicine colline.

I sacerdoti e le vestali spogliarono i templi di tutte le cose sacre perché non cadessero in mano del nemico, e siccome non potevano trasportare tutto decisero di mettere una buona parte le varie cose in vasi e sotterrarli in un tempietto vicino all'abitazione del sacerdote di Quirino.
Divise tra loro le rimanenti trasportabili cose, sacerdoti e vestali attraverso il ponte di legno presero la via del Gianicolo. Era tanto allora il rispetto per i ministri della religione e per le cose divine, che Lucio Albino, il quale insieme con la famiglia sopra un carro si allontanava dalla città, fece scendere i suoi familiari e caricate le vestali e gli oggetti sacri, le une e gli altri li portò a Cere.

A Roma -narra Livio- rimasero soltanto ottanta vecchi patrizi, che volontariamente si offersero in sacrificio alle divinità infernali e, dopo che furono consacrati dal pontefice massimo Marco Fabio, vestiti dei loro abiti migliori, si sedettero nel foro sui seggi curiali e lì aspettarono il nemico.
I Barbari che finalmente si erano decisi a muoversi, entrarono in città dalla porta Collina. Roma era deserta e silenziosa come una città morta. Vuote le vie, aperte le porte delle case, da dove nessuna voce veniva fuori. Solo il Campidoglio dava qualche segno di vita e mostrava di volere opporre resistenza agli invasori. I quali dapprima si rivolsero alla rocca, poi, lasciati nelle vicinanze alcuni uomini a far la guardia, si sparsero per la città, meravigliati di non incontrar nessuno e piuttosto preoccupati di quel silenzio che forse nascondeva qualche insidia.
Perplessi e timorosi i Galli non osavano penetrare nelle case, ma poi, giunti nel Foro, al loro sguardo si offerse lo spettacolo di tutti quei vecchi riccamente vestiti, immobili e indifferenti seduti sui seggi, con le lunghe barbe fluenti sui petti.

Uomini o divinità romane protettrici della città? Un soldato dei Galli si avvicinò ad un patrizio, era vecchio MARCO PAPIRIO, e, incuriosito, gli toccò la barba. Il vegliardo alzò un bastone d'avorio che teneva in mano e percosse con quello il barbaro. Non l'avesse mai fatto: fu il segnale della strage. Ad uno ad uno i patrizi caddero colpiti da quell'orda che, urlando selvaggiamente, si diede poi nuovamente a percorrer le vie, invase le case, uccidendo i vecchi e gl'infermi, che non avevano voluto o potuto abbandonar la città, e qua e là cominciò ad appiccare il fuoco. Lingue di fiamme e nuovole di fumo si levarono in più punti della città verso il cielo.

Dall'alto della rocca del Campidoglio i Romani guardavano la patria invasa dal nemico e gli incendi distruttori e piangevano dal dolore e dalla collera. Così trascorse il giorno e così passò la notte illuminata dai bagliori delle fiamme, dinnanzi alla cui violenza crollavano case e templi. Della Roma, quasi quattro volte centenaria, non rimaneva oramai che una distesa fumante di rovine. Solo alcuni templi rimanevano, in piedi ed alcuni palazzi sul Palatino che erano stati scelti come dimora dai capi barbari.

I GALLI SCONFITTI AD ARDEA

Così trascorsero alcuni giorni, ed avendo i Galli devastata ogni cosa e vedendo che il Campidoglio e la rocca non mostravano intenzione alcuna di arrendersi, pensarono di prenderli d'assalto. Un giorno, sul far dell'alba, assalirono con selvagge grida la fortezza. Non si persero d'animo i difensori, risoluti a non lasciar cadere nelle mani nemiche l'ultimo brandello della patria romana, e, fortificate tutte le entrate controllate da buone guardie, correvano dove maggiore era il pericolo; con gran coraggio fecero pure una audace sortita, e ributtarono giù per la costa gli assalitori che su quella si erano avventurati.

Questi allora decisero di continuar l'assedio; ma avevano dimenticato come procurarsi il mangiare. Mancavano infatti le vettovaglie, poiché nell'incendio avevano sconsideratamente distrutto ogni cosa, e né potevano trovarne girando la città essendo stati tutti i viveri portati via da Roma. Furono costretti perciò a lasciare una parte dell'esercito intorno al Campidoglio e se l'altra parte più numerosa voleva procurarsi qualcosa da mangiare dovevano andare a razziare i territori vicini che però non erano migliori della città; cioè non vi era nulla da mettere sotto i denti. Al massimo potevano fermarsi e mangiarsi i propri cavalli.

Alcune schiere di barbari dovettero spingersi molto lontano, e nemmeno fecero più ritorno nella città deserto. E sembra che Dionisio tiranno di Siracusa, allora era in guerra contro le città della Magna Grecia, fece loro proposte di entrare al suo soldo, e quelli si misero volentieri, per mangiare o per avidità di guadagno al suo servizio.

Altre schiere invece corsero in lungo e in largo il Lazio dappertutto portando la devastazione. Ma ad Ardea ebbero una dura lezione da MARCO FURIO CAMILLO, il quale, vivendo in esilio in quella città (per l'ingratitudine del popolo e dei senatori che l'avevano condannato per un'accusa infamante) appreso che i Galli erano entrati nel territorio con l'intenzione di depredarlo, persuase gli Ardeati a brandire le armi e di notte con una numerosa schiera piombò improvvisamente sul campo dei Galli sepolti nel sonno. La strage di nemici che fu compiuta fu grande e quei pochi che riuscirono fuggire da Ardea, penetrati nel territorio di Anzio, che si era pure questa preparata a dare a loro il benvenuto, furono assaliti e tutti uccisi dagli abitanti fortemente decisi a salvare le proprie cose.

GLI ETRUSCHI SCONFITTI A VEJO

Mentre queste cose succedevano, gli Etruschi dimenticando che Roma si trovava in quelle condizioni per aver voluto difendere Chiusi, approfittando della sconfitta della città latina, non si lasciarono sfuggire l'occasione; pensarono che era giunto il momento di riprendere ai Romani, Vejo. Radunate le forze, iniziarono a fare scorrerie fin quasi sotto le mura della città.

I Romani, quei pochi che si aggiravano ancora nei dintorni, già in collera per i barbari, gli incendi, le distruzioni, arsero di sdegno nel vedere questi "avvoltoi" che approfittavano della tragedia che stava vivendo l'intera Roma. Nonostante male armati e provati dalla sventura, decisero di difendere il nome e le ultime terre di Roma. Elessero pertanto loro capo il centurione M. CEDICIO e di notte, usciti da Vejo, sorpresero un campo etrusco che si era appostato nelle vicinanze e ne fecero una strage; poi guidati da alcuni prigionieri, la notte successiva ripeterono l'impresa, assalendo un altro campo, ne distrussero il presidio e se ne ritornarono carichi di armi e di bottino a Vejo.

La vittoria sugli Etruschi e le armi di cui erano venuti in possesso rialzarono fortemente il morale dei Romani di Vejo, i diventati baldanzosi decisero di correre in soccorso dei poveri malcapitati chiusi e assediati nel Campidoglio.
Ma mancava a loro un capo degno e strategicamente capace di una tale audace impresa.
Vejo fece loro pensare a Camillo, il gran capitano che l'aveva conquistata, e a Camillo pensavano anche molti soldati che l'avevano avuto come duce in molte fortunate battaglie. Si decise di farlo ritornare dall'esilio di Ardea, ma nessuno voleva assumersi la responsabilità di tale iniziativa e fu stabilito perciò di chiedere licenza al Senato, di cui alcuni membri si trovavano pure loro asserragliati in Campidoglio. Impresa certo non facile questa, essendo la rocca cinta d'assedio. Ma si trovò chi si offrì di tentarla. Un giovane valoroso, PONZIO COMINIO, protetto dalle tenebre, passò a nuoto il Tevere, poi portatosi sul retro, che era il versante più inaccessibile, scalata l'erta rupe, giunse al Campidoglio, fece l'ambasciata e, ricevuto il decreto del Senato, che richiamava dall'esilio Camillo e gli affidava la dittatura proposta dalle centurie, ritornò per la stessa via a Vejo.

ASSALTO DEL CAMPIDOGLIO - LE OCHE SACRE - M. MANLIO

L'impresa felicemente portata a termine da Ponzio per poco non fece cadere il Campidoglio in potere dei Galli, i quali, accortisi delle orme lasciate dal giovane, di notte si arrampicarono pure loro silenziosamente per la stessa rupe e già stavano raggiungendo la sommità del Campidoglio favoriti dalla non vigilanza di una guardia che non stava certamente compiendo il proprio dovere nel porre molta attenzione, o forse perché riteneva impossibile che da quella via potessero sopraggiungere dei nemici.

A salvare la situazione che per pochi minuti poteva diventare critica per tutti gli altri, ci pensarono le oche; le quali per essere sacre a Giunone erano state risparmiate dagli assediati affamati come piatto culinario. Queste forse per sdebitarsi, quando il gallo stava per mettere piede sulla sommità della rupe cominciarono a strepitare, avvertendo così del pericolo MARCO MANLIO che tre anni prima era stato console. Brandite le armi, mentre gli altri da lui avvertiti si radunavano, corse subito alla rupe e, visto un Gallo in atto di superarla, gli si avventò con lo scudo e lo fece precipitare. Il nemico, abbattendosi sui compagni che stavano salendo dietro di lui, li trascinò in un groviglio di corpi nella caduta; ma altri ne rimanevano; molti li colpì lo stesso Manlio, mentre altri, dai Romani accorsi, furono con un lancio di sassi fatti precipitare giù dalla rupe. La notte poi passò tranquilla; il giorno dopo il soldato che aveva fatto cattiva guardia fu per volere dei soldati precipitato dall'alto del Campidoglio e a Marco Manlio in premio fu regalata - dono nella carestia dell'assedio di non poco valore - mezza libbra di farro e un quarto di vino.

Nonostante l'indomabile volontà di resistenza, la situazione dei difensori della rocca diventava di giorno in giorno più critica. Le vettovaglie erano state consumate e i soldati si erano ridotti a cibarsi di erbe e perfino a masticare il cuoio delle scarpe.
Ma in non migliori condizioni si trovavano gli assedianti Galli che oltre a non aver nulla da mettere sotto i denti, o perché denutriti e debilitati o per le pessime condizioni igieniche in cui erano, ben presto iniziò a infierire una terribile pestilenza, che comincio a mietere numerose vittime, che erano poi ammonticchiate e bruciate in certo punto denominato più tardi "la tomba dei Galli".

CAMILLO SCONFIGGE I GALLI

I Romani asserragliati in Campidoglio, aspettavano fiduciosi l'arrivo di Camillo che li liberasse dall'assedio, ma tardando il dittatore a giungere e non potendo più oltre resistere, furono alla fine costretti a venire a patti con il nemico.
Le trattative furono condotte a termine da PUBLIO SULPICIO, tribuno consolare e BRENNO, che era il capo dei Galli. Fu stabilito che questi avrebbero tolto l'assedio a patto di ricevere mille libbre d'oro.
Portarono i Romani l'oro che cominciò ad esser pesato; ma le bilance che i Galli usavano erano false e Quinto Sulpicio protestò. Non valse a nulla la protesta del tribuno. "Guai ai vinti" rispose con arroganza Brenno e, così dicendo, buttò nel piatto dei pesi la sua pesante e minacciosa spada perché altrettanto oro quant'essa pesava fosse aggiunto nell'altro piatto.
Ma non volevano gli dèi che Roma sopportasse un'onta così grande.

MARCO FURIO CAMILLO, conosciuto il decreto del Senato che revocava l'esilio e lo creava dittatore, era partito da Ardea con alcune schiere di volontari e si era portato a Vejo dove lo aspettava già pronto in armi un esercito di circa ventimila uomini composto di Romani e di Latini dei territori vicini. Alla testa di queste truppe Camillo era giunto a Roma proprio nel momento in cui gli assediati del Campidoglio pesavano l'oro del riscatto.

Udendo le arroganti parole di Brenno, CAMILLO con un coraggio che solo lui poteva avere, ordinò a Sulpicio che l'oro fosse riportato nella Rocca non ritenendo validi i patti conclusi dal tribuno senza l'approvazione del dittatore, poi, rivoltosi al capo dei Galli, gli disse fieramente: "Non con l'oro ma con il ferro Roma si conquista".

Furono queste parole il segnale per scatenare la tremenda offensiva ai barbari di Brenno. Colti veramente di sorpresa i Galli cercarono di opporre resistenza, ma furono sbaragliati con delle gravissime perdite e dovettero abbandonare Roma e ritirarsi precipitosamente sulla via Gabinia, ad otto miglia di distanza, dove si fermarono per passarvi la notte e per riorganizzare la marmaglia.

Ma il mattino dopo CAMILLO con audace determinazione attaccò con il suo esercito di ventimila uomini freschi il campo dei Galli. Questi che si reggevano per la fame e le malattie appena in piedi, lottarono disperatamente, ma la loro sconfitta fu totale e nessun barbaro riuscì a tornare al proprio paese, per portare la notizia della drammatica disfatta.

LA TRADIZIONE E LA CRITICA

Molti dei fatti che gli antichi storici ci hanno tramandati e che noi abbiamo esposti, alcuni certamente non corrispondono alla realtà.
Sembra strana, prima d'ogni altra cosa, la richiesta di aiuti da parte di Chiusi, città che non aveva mai avuto alcun rapporto di amicizia con Roma, ma che anzi, per essere etrusca, doveva piuttosto esserle nemica, e semmai si sarebbe dovuta rivolgere a quelli della sua schiatta. Dobbiamo quindi credere - se pur vogliamo passar per vero l'invio dei tre Fabii - che questi non furono mandati in qualità di ambasciatori, ma per spiare le mosse dei Galli. E questa non è una opinione nostra la quella dello storico DIODORO, scrittore non certo interessato a mistificare i fatti.
Leggenda senza dubbio è il racconto tradizionale della parte presa dai Fabii nel combattimento contro i Galli, dell'ambasceria da questi inviata al Senato romano perché consegnasse loro i colpevoli, della risposta negativa e dell'elevazione al tribunato dei tre Fabii per volere del popolo. Che sia leggenda ne è prova la discordia che esiste tra gli storici; e se vogliamo spiegarci perché sorse e fu divulgata questa leggenda dobbiamo supporre che i Romani, per giustificare la loro sconfitta sul torrente Allia, la
presentarono come la conseguenza della collera degli dèi, sdegnati dalla condotta sleale degli ambasciatori.
Continuando nell'esame dei fatti non ci convince l'asserzione di Livio, il quale scrive che Roma non ebbe il tempo di contrapporre al nemico un esercito numeroso e ben disciplinato. Pare invece che le cose andassero diversamente. Infatti, sempre Diodoro ci informa che i Romani chiamarono in aiuto gli Ernici e i Latini e poterono radunare circa quarantamila uomini.
Sorvoliamo sul racconto delle oche, che la tradizione fa passare come le salvatrici del Campidoglio, e che forse trova origine in una antichissima cerimonia religiosa e soffermiamoci invece sulla liberazione di Roma attribuita all'intervento di Camillo.
I critici, specie stranieri, vogliono che l'intervento del Dittatore sia una circostanza inventata dai Romani allo scopo di lavare con una vittoria l'onta della disfatta sull'Allia e della distruzione di Roma.

Lo storico POLIBIO - gli storici dicono per dimostrare il carattere leggendario del racconto tradizionale - non fa nessun accenno di Camillo, ma scrive che i Galli se ne ritornarono nel loro paese senza alcuna molestia da parte dei Romani, portandosi dietro il prezzo del riscatto. Secondo quanto invece scrive DIODORO, Camillo entra in scena soltanto l'anno dopo la partenza dei Galli da Roma. Questi assediavano una città etrusca alleata dei Romani quando Camillo, giunto con un esercito, li sconfisse e tolse l'oro ricevuto dagli assediati del Campidoglio.

SERVIO invece scrive che Camillo, giunto a Roma dopo che i Galli erano partiti, li inseguì e dopo averli raggiunti presso Pesaro, li attaccò, li sconfisse e recuperò l'oro del riscatto.
Che parecchie contraddizioni esistano tra le diverse versioni tramandateci dagli storici è innegabile, ma che proprio sia da relegarsi tra le favole l'intervento di Camillo non ci pare, né, esaminati bene e senza preconcetti gli avvenimenti, ci sembra di trovarci di fronte ad un fatto miracoloso e perciò inverosimile.

Al tempo in cui gli assediati del Campidoglio comprano il loro riscatto, l'esercito dei Galli non è più, come sei od otto mesi prima, così forte e numeroso. Non pochi di loro - lo abbiamo visto - abbandonando Roma sono stati presi al soldo da Dionisio per la guerra contro le città greche; una parte è continuamente occupata in scorrerie per procacciarsi vettovaglie per sé e per le schiere rimaste affamate a Roma, queste si sono assottigliate di molto per le epidemie, per la fame, per i disagi, per il clima; molti Galli inoltre hanno lasciata la vita presso Ardea. Non più di un terzo quindi delle loro forze debbono trovarsi attorno al Campidoglio e queste dopo otto mesi certo in non buone condizioni fisiche e morali.

A Vejo sono invece raccolti un gran numero i Romani; sono anzi tutti a Vejo gli uomini validi che non sono rimasti uccisi sulle rive dell'Allia e che riuscirono a passare il Tevere; sono certamente là molti latini costretti ad abbandonare il proprio territorio dalle continue scorrerie dei Galli; sono là infine i guerrieri di Ardea. E il morale di tutta questa gente è alto; hanno ottenuto due vittorie successive sugli etruschi, sono desiderosi di vendicare la sconfitta subita, la distruzione della città, il saccheggio delle campagne, bramano di liberare quelli che eroicamente hanno resistito nella rocca, sanno che il nemico è di molto diminuito di numero, che è stanco che è debole, e sanno ancora di essere guidati da un famoso capitano.
Da una battaglia tra Galli e Romani, stando cosi le cose, non possono uscir vincitori che questi ultimi.
Che Camillo sia giunto proprio nel momento in cui veniva pesato l'oro, e che abbia pronunziato le famose parole su riportate può anche non esser vero; ma noi affermiamo che non esistono ragioni sufficienti per mettere in dubbio la sconfitta dei Galli, dovuta all'intervento di Camillo, e che invece ne esistono parecchie e convincenti in favore del racconto tradizionale.

RIEDIFICAZIONE DI ROMA

Camillo ritornò trionfalmente a Roma. Pregato dal Senato di non dimettersi dalla carica nelle condizioni tristissime in cui la patria versava, Camillo non rinunziò - com'era costume - alla dittatura; ordinò che i templi profanati dai Galli "si rinnovassero, terminassero e purgassero", che si stringesse amicizia con Cere, la quale aveva ospitato dentro le sue mura i sacerdoti e le cose sacre di Roma, che fossero celebrati i giuochi capitolini in onore di Giove Ottimo Massimo, il quale aveva difeso il Campidoglio, sede del suo tempio, e che infine in questo fosse depositato l'oro recuperato ai Galli.
In quel tempo tornò in campo la proposta sicinia di abbandonare Roma e popolare Vejo. La proposta era specialmente caldeggiata dalla plebe, la quale temeva, per la miseria in cui si trovava, di essere costretta per la riedificazione della città a fare nuovi debiti con i patrizi. Inoltre conveniva ai plebei di trasferirsi a Vejo, nel cui territorio c'erano le terre distribuite dal Senato. Fu Camillo che risolutamente si oppose alla proposta con un fiero discorso pronunziato al cospetto di tutta la cittadinanza, del quale ci piace trascrivere la parte finale riferita da Livio:

"Non senza motivo gli dèi e gli uomini scelsero, come sede Roma, questo luogo dai salubri colli, lambiti da un fiume, che è via comodissima al trasporto delle biade e dei frutti e le merci nelle terre vicine ed al mare.
Il mare è vicino, ma non tanto da esporci ai pericoli delle flotte nemiche; la posizione di Roma è unica per una città destinata a un grande avvenire. Il segno manifesto è la sua stessa grandezza. O Quiriti, sono oggi trecentosessantacinque anni da che essa fu fondata; è tanto che voi combattete contro antichissimi popoli; e in tutto questo tempo Volsci ed Equi e tante potenti città non sono state in guerra pari a voi; né ha potuto resistere a voi tutta l'Etruria, potentissima per terra e per mare, che estende il suo dominio tra mare e mare per quanto è larga l'Italia. Stando così le cose, perché volete fare una nuova esperienza poiché siete sicuri di quella già fatta? Ma concesso che la virtù vostra si possa altrove trasferire, è certo che altrove non si può portare la fortuna di questo luogo. Qui è il Campidoglio, dove - essendosi trovato il teschio di un uomo - fu vaticinato che sarebbe il capo di tutte le cose e la somma dell'imperio. Di qui con grandissima letizia dei nostri padri, quando per mezzo di augurii si liberava il Campidoglio, non patirono di esser mossi la dea Gioventù e il dio Termine. Qui sono i sacri fuochi di Vesta, qui i sacri scudi mandati dal cielo, qui tutti gli dèi, propizi e felici saranno se fermamente in questo luogo rimarrete".

Si narra che trovandosi il Senato raccolto nella Curia Ostilia per prendere una decisione, un centurione che passava davanti la curia con una schiera di soldati, comandasse al portainsegne di fermarsi, dicendo: "qui rimarremo ottimamente".

I senatori, udendo quelle parole, uscirono dalla Curia e dichiararono di accettare l'augurio. Così non si parlò più del trasferimento del popolo a Vejo e ci si diede subito da fare per la riedificazione della città. Materiali furono distribuiti gratuitamente dal Senato, fu permesso che si cavassero le pietre e si tagliasse il legname ovunque e che i cittadini rifabbricassero le case nei luoghi che ognuno di loro piaceva scegliersi.
Vejo fece le spese della nuova città e questa risorse in poco tempo. La fretta però, e la libertà concessa agli abitanti, fecero sì che non si curassero le proporzioni e le disposizioni dei nuovi edifici, che alcune vie risultassero strette e tortuose e che le fogne non seguissero il corso delle strade.
Comunque, Roma ritornò in vita e questo fu merito di Camillo, il quale oltre al titolo di salvatore della patria si ebbe anche quello di secondo fondatore di Roma.

Con tutte queste liberalità concesse da Camillo, non mancarono chi lo accusava nuovamente di dittatura; le discordie per tenerle vive i suoi avversari si appigliavano a tutto, anche alle cose ben fatte; ovviamente quelle fatte agli altri, lasciavano sempre a qualcuno la bocca amara, o per invidia, o perché ogni cosa doveva essere fatta (solo) a loro e non agli altri.

Proprio di queste guerre e di questi particolari anni di discordie
che parleremo nel prossimo capitolo:


il periodo dall'anno 389 al 362 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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