ROMA - LEGGE TREBONIA - LA CANULEIA - I TRIBUNI CONSOLARI

LE LEGGI DUILIA E TREBONIA - BATTAGLIA DI CERBIONE - LA LEGGE CANULEIA - ISTITUZIONE DEL TRIBUNATO CONSOLARE - I CENSORI - SPURIO MELIO - GUERRA CONTRO FIDENA E VEJO - MORTO DEL RE TOLUNNIO - GUERRA CONTRO GLI EQUI E I VOLSCI. - GUERRA CONTRO I FIDENATI E I VEJENTI - EMILIO MAMERCO DITTATORE - PRESA DI FIDENA - ALTRE GUERRE CONTRO GLI EQUI E I VOLSCI; SESTO TEMPANIO - ROGAZIONE SUI QUESTORI - DITTATURA DI SERVILIO PRISCO - CONQUISTA DI LABICO - ROGAZIONE DI MECILIO E METILIO - PRESA DI BOLA - UCCISIONE DI POSTUMIO - DITTATURA DI PUBLIO CORNELIO - RESA DI ANXUR - PIU' PAGA AI SOLDATI
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LE LEGGI TREBONIA E CANULEIA

Le leggi "valerie-orazie" avevano prodotto un grave malcontento nel patriziato che era diventato ancora più infervorato quando, per volontà del popolo, era stato decretato il trionfo ai due consoli vittoriosi dei Sabini e degli Equi. Temendo che le relazioni tra i due ceti divenissero più tese, e sospettando che i tribuni avessero in animo di farsi rieleggere - il che avrebbe fatto peggiorare i rapporti fra patrizi e plebei, - M. DUILIO, uomo prudente ed incline alla conciliazione degli animi, trovandosi presidente dei comizi delle tribù, propose che non fossero rieletti i tribuni uscenti e assicurò che avrebbe dichiarato illegali e perciò nulli i voti dati a quelli.
Con questo singolare veto, l'effetto fu che solo cinque tribuni furono legalmente eletti, e M. DUILIO, anziché fare altre elezioni per completare il numero dei magistrati, propose una legge con la quale si stabiliva che i tribuni eletti potevano a loro volta nominare uomini da loro scelti per i posti rimasti vacanti. La legge, approvata, andò subito in esecuzione e i tribuni, spinti da Duilio, con lo scopo di migliorare i rapporti con il patriziato, si scelsero come colleghi tre plebei e due patrizi amici della plebe, SPURIO TARNEJO ed AULO ATERNIO.
L'elezione a tribuni plebei di patrizi costituiva però un pericolo non lieve per la plebe, di modo che il tribuno L. TREBONIO, nel 306 (448 a.C.) propose e fece approvare una legge che annullando quella di M. Duilio, stabiliva che per completare il numero legale dei tribuni dovevano farsi altre elezioni in seno alle tribù. Le cosiddette "leggi duilia e trebonia" non valsero a rendere migliori le relazioni tra i due ceti; anzi il desiderio di conciliazione dei tribuni plebei interpretato come debolezza rese più audaci i giovani patrizi, i quali, più di una volta, provocarono atti di violenza disturbando le assemblee popolari.
Le discordie intestine fecero rialzar la testa ai nemici esterni, ed Equi e Volsci più di una volta sconfitti dai Romani, invasero prima il territorio dei Latini e, non trovando chi contrastasse loro il passo, si spinsero poi fin presso la porta Esquilina devastando il contado di Roma e procurandosi e portando poi gran quantità di bottino a Cerbione, dove posero il campo.

Di fronte al pericolo, rimproverati dai nobili e dalle severe parole del console QUINZIO CAPITOLINO e sdegnati per le devastazioni, i plebei corsero alle armi ed è fama che un solo giorno bastò per allestire un forte esercito; che, uscito da Roma, andò incontro al nemico. Schieratesi le truppe romane a battaglia, Quinzio Capitolino assunse il comando all'ala destra, il collega AGRIPPA FURIO della sinistra, SPURIO POSTUMIO ALBO del centro; e alla cavalleria fu preposto PUBLIO SULPICIO.
Il combattimento, iniziato dall'ala destra, presto divenne generale. Resistendo vigorosamente l'ala sinistra dei nemici agli assalti delle fanterie di Quinzio, Publio Sulpicio entrò da quella parte in azione con i cavalieri e ruppe le file avversarie, ma, sopravvenuta la cavalleria degli Equi e dei Volsci, per non essere preso in mezzo a quel punto assalì con energia anche i cavalieri facendo strage di uomini e di cavalli.
Il centro e l'ala sinistra dell'esercito nemico furono i primi ad essere frantumati; maggiore resistenza oppose la destra, ma anche di questa ebbe ragione Agrippa e, dopo una battaglia cruenta, i Romani conquistarono il campo dei Volsci e degli Equi impadronendosi di ingente bottino.

Ricacciato il nemico, ripresero le contese tra il patriziato e la plebe, e questa, vista fallire la sua politica conciliatrice, volle con azione energica strappare ai patrizi nuove concessioni.
Nel 309 C. CANULEIO, eletto tribuno, presentò una rogazione con la quale chiedeva che fosse abolita quella legge delle XII Tavole che proibiva i matrimoni tra patrizi e plebei ed assegnava al ceto plebeo la prole nata da unioni miste. Contemporaneamente altri tribuni proposero che uno dei due consoli fosse plebeo. I patrizi accolsero le proposte con grandi ostilità; il Senato non volle sanzionarle e cercò in tutti i modi che le proposte sarebbero state ritirate, minacciando di chiamare la plebe sotto le armi; tentando così di seminare la discordia fra i tribuni e prospettando il pericolo di un'invasione nemica.

Ma Canuleio fu irremovibile e il Senato, sperando che gli altri nove tribuni avrebbero ritirata l'altra rogazione, accordò la sanzione alla legge sui matrimoni tra patrizi e plebei.
Gli altri tribuni invece mantennero risolutamente integra la loro proposta e, resi più audaci dal successo di Canuleio, ricorsero pure alle violenze. Finalmente il Senato cercò di accontentare la plebe con l'istituzione di tribuni militari investiti della potestà consolare da scegliersi tra patrizi e plebei; ma il vantaggio che ne ricavò la plebe fu più formale che sostanziale. Infatti, con la nuova magistratura non veniva ad abolirsi il consolato, ed era facoltà del popolo di eleggere ogni anno o due consoli o dei tribuni consolari; ma, siccome l'elezione avveniva tra i comizi centuriati, così i patrizi avevano sempre la sicurezza che gli eletti fossero in maggioranza del proprio ceto.
Inoltre per evitare che la potestà censoria - la quale era stata fino allora esercitata dai consoli - cadesse in mano ai plebei crearono dei magistrati speciali: i "censori". Questi ebbero l'incarico di assegnare i cittadini nelle varie classi secondo il censo, di compilare la lista dei senatori, di trasferire i cittadini da una classe all'altra, di fare l'elenco dei cavalieri e degli stranieri che risiedevano a Roma, di vigilare sui costumi applicando pene contro coloro che li offendevano e infine di dirigere i lavori pubblici (strade, acquedotti, edifici, ecc.) e di amministrare le rendite della repubblica.

I censori pure questi erano scelti soltanto fra i patrizi e duravano in carica cinque anni; più tardi, con la "legge Mamerca-Emilia" la loro durata fu ridotta a diciotto mesi.

I TRIBUNI CONSOLARI E SPURIO MELIO

I primi tribuni consolari - che entrarono in carica nel luglio del 310 - furono A. SEMPRONIO ATRATINO, T. CECILIO e L. ATILIO, dei quali l'ultimo (o gli ultimi due, secondo alcuni storici) era plebeo.
Dovevano poi passare quarantun anni, prima che la plebe tornasse ad avere nel tribunato consolare un suo rappresentante.
Infatti, i tre tribuni però non durarono a lungo nel loro ufficio e circa tre mesi dopo la loro elezione furono costretti dal Senato a dimettersi con il pretesto che erano stati eletti senza l'intervento degli auguri ai comizi elettorali.
Alle loro dimissioni, accolte secondo alcuni senza proteste, secondo altri con tumulti da parte della plebe, successe un interregno, o, come vogliono alcuni storici, un dittatore; indi fu ripristinato il consolato, che, per molti anni, poi si alternò con il tribunato consolare.

Nel 314 (440 a.C.) Roma fu afflitta da una carestia ed un ricco plebeo di nome SPURIO MELIO, per alleviare le misere condizioni della plebe, fatta arrivare a sue spese una gran quantità di grano dall'Etruria e dalla Campania parte la distribuì gratuitamente ai poveri, parte la vendette a basso prezzo. La generosità di Melio fu, dal patriziato, interpretata come brama di conquistarsi il favore popolare per poi conseguire la signoria. Accusatolo di aspirare alla tirannide e facendo credere che la repubblica era in pericolo, il Senato creò dittatore QUINZIO CINCINNATO, il quale a sua volta creò maestro della cavalleria C. SERVILIO AHALA. Questi incontrato nel foro SPURIO MELIO, lo uccise, e il Senato confiscò i beni dell'assassinato e, per dare un esempio, fece demolire la nuova casa.

Secondo altri storici fu L. MINUCIO, prefetto dell'annona, che accusò Spurio Melio, rappresentandolo al Senato come uomo ambizioso e pericoloso alla repubblica, e fu il Senato che diede mandato a C. Servilio di trucidare il ricco plebeo. A L. Minucio fu decretata dai senatori una statua, ma Servilio dovette fuggire da Roma per salvarsi dal furore della plebe.

GUERRA CONTRO VEJO E FIDENA

In mezzo a tante discordie ed essendo così accanite le lotte tra i due ceti, non deve fare meraviglia se i nemici osarono recare offese a Roma e provocare guerre. Fra le città nemiche, Fidena era la più pericolosa, perché vicina a Roma. Nel 318 Fidena scacciò - come pare - la colonia romana e si alleò con Vejo; poi, non paga di questo, uccise gli ambasciatori romani CAJO FALCINIO, CLELIO TULLO, SPURIO ANZIO e LUCIO ROSCIO.
Smorzate le discordie di fronte al contegno dei nemici, furono eletti consoli MARCO GEGANIO MACERINO e LUCIO SERGIO; quest'ultimo fu incaricato della campagna contro Fidena e in una giornata campale contro i nemici, riportò una sofferta cruente vittoria, che, per le numerose perdite subite, fu per i Romani peggiore di una sconfitta.

Fu allora dal Senato creato dittatore MAMERCO EMILIO, che nominò maestro della cavalleria LUCIO QUINZIO CINCINNATO, figlio del famoso dittatore, e come suoi luogotenenti QUINZIO CAPITOLINO e MARCO FABIO VIBULANO. All'avanzarsi dell'esercito romano, rinforzato da veterani, i nemici si ritirarono di là dall'Aniene, occupando le colline tra questo fiume e Fidena, e non scesero al piano fino a che non ricevettero soccorsi dai Falisci. Solo allora si accamparono davanti le mura di Fidena e l'esercito romano pose il campo alla confluenza dell'Aniene con il Tevere; e fu qui che avvenne lo scontro.

Nello schieramento nemico i Vejenti avevano l'ala destra, i Falisci la sinistra e i Fidenati il centro. Contro le ali mossero all'attacco Mamerco e Quinzio Capitolino, Cincinnato fece il suo assalto contro i Fidenati e benché i Romani combattessero con straordinario valore al primo urto non riuscirono a sfondare le schiere nemiche, specialmente quelle all'ala destra, perché la cavalleria di Vejo oppose un'ostinata resistenza, incoraggiata da LARTE TOLUNNIO, loro re, che personalmente partecipava e sosteneva la battaglia; che chissà quanto tempo sarebbe durato se il tribuno AULO CORNELIO COSSO, uomo atletico e di grande coraggio, riconosciuto il re dalle vesti e dalle insegne, dato di sprone al cavallo, non l'avesse investito con la lancia e buttato giù di sella. Scaraventato il re a terra, più volte Cosso lo colpì con lo scudo e con la lancia finché non l'ebbe ucciso, indi, spogliatolo, gli recise il capo, e questo, conficcato sulla punta della lancia, lo portò in giro nella mischia, sgomentando la cavalleria nemica, che girate le spalle abbandonò il campo con una precipitosa fuga.

Il valore di COSSO decise le sorti delle battaglia, le legioni romane inseguirono il nemico fino al campo conquistandolo; fu fatta una strage enorme di Vejenti e Falisci e solo alcuni Fidenati riuscirono a salvarsi fuggendo sui vicini monti. Durante questa battaglia il campo romano fu assalito da una schiera di Vejenti, ma Fabio Vibulano, che lo difendeva, fatta un'improvvisa sortita con i triarii, sorprese il nemico sulla destra, prima lo mise in disordine poi lo costrinse alla fuga.
Trionfale fu il ritorno dell'esercito vittorioso a Roma; Cosso sospese le spoglie di Tolunnio nel tempio di Giove Feretrio e, per volontà del popolo, fu posta in Campidoglio dal dittatore in onore di Giove una corona d'oro del peso di una libbra.
L'anno seguente (319 A. di R. - 535 a.C.), sotto il consolato di MARCO CORNELIO MALUGINENSE e LUCIO PAPIRIO CRASSO, furono fatte delle incursioni nel territorio dei Vejenti e dei Falisci, ma nessun notevole fatto d'arme avvenne.
Quello stesso anno la peste infuriò a Roma e si rinnovò con tal violenza nel 320 (534 a.C.) che più nessuno pensò alla guerra; ma i Fidenati, approfittando della strage che il morbo causava nella città, penetrarono saccheggiando il territorio romano, poi, chiamati i Vejenti, passarono con questi l'Aniene e si spinsero minacciosi sino alla porta Collina; ma quando seppero che era stato creato un dittatore nella persona di AULO SERVILLO e che l'esercito romano si preparava ad uscire, si ritirarono sulle alture.
Qui però Servilio raggiunse i nemici e li sconfisse, poi li insegui fin sotto le mura di Fidena intorno alla quale pose l'assedio. Ma la città era forte per posizione ed abbondantemente fornita di vettovaglie né per forza o per fame poteva esser conquistata. Tuttavia Servilio non desistette dal proposito d'impadronirsene ed ordinò che si scavasse una galleria nei fianchi del monte, tenendo notte e giorno impegnati i fidenati dalla parte opposta perché non si accorgessero dei lavori; terminati i quali, i Romani la imboccarono e sbucarono improvvisamente dentro la rocca e, mentre i difensori sulle mura erano intenti a ributtare le schiere di Servilio che accortamente simulavano di volerle scalare, le sempre più numerose "talpe" che sbucavano dalla galleria in breve si resero padroni della città.

GUERRE CONTRO GLI EQUI E I VOLSCI

La presa di Fidena preoccupò moltissimo Vejo ed i Fallisci; ma anche Roma era inquieta quando corse voce che gli Etruschi si apprestavano a fare una coalizione ai danni della repubblica. Fu creato per la seconda volta dittatore MAMERCO EMILIO, il quale -risultati infondati i timori di una guerra contro i popoli dell'Etruria - rivolse il pensiero ad opere di pace e propose una legge con la quale la durata in carica dei censori fosse ridotta da cinque anni ad un anno e mezzo. La legge del dittatore se ebbe l'approvazione unanime del popolo, suscitò lo sdegno dei patrizi e dei censori, e Mamerco, che alla fine si era dimesso, fu privato perfino dei diritti di cittadino.

La guerra, che Roma si aspettava dagli Etruschi, fu invece messa in moto alcuni anni dopo (324) dai Volsci e dagli Equi, che, radunati due forti eserciti, si accamparono all'Algido.
Vinta la resistenza dei consoli TITO QUINZIO CINCINNATO, figlio di Lucio, e GNEO GIULIO MENTONE, che non volevano cedere la carica, fu creato dittatore AULO POSTUMIO TIBERONE. Questi, oltre i Romani, convocò alle armi gli Ernici e i Latini e con un poderoso esercito marciò verso l'Algido, dove giunto, passò alcuni giorni a scaramucciare con i nemici, poi, afferrato il momento buono, li costrinse a una battaglia campale. Questa fu piuttosto accanita; il dittatore fu ferito al capo, il luogotenente Marco Fabio ad una coscia, e il console Cincinnato un braccio tagliato, tuttavia i nemici furono sbaragliati, espugnati i campi degli Equi e dei Volsci, fatti moltissimi prigionieri, portato via un enorme bottino.
L'anno seguente gli Equi chiesero ed ottennero una tregua di otto anni.


PRESA DI FIDENA

Roma visse in pace per alcuni anni; ma nel 327 (427 a.C.) i Vejenti misero in atto alcune scorrerie nel territorio romano e invano il Senato inviò a Vejo i Feciali per chiedere la restituzione della preda. Allora l'anno dopo fu dichiarata la guerra (328) ed il comando delle milizie romane fu affidato ai tribuni consolari QUINZIO CINCINNATO, CAJO FURIO e MARCO POSTUMIO. Però al primo scontro con i Vejenti, mancando nelle truppe romane l'unità di comando, queste furono messe in fuga e costrette a riparare nell'accampamento; fu più la vergogna che non il danno.

Si sentì allora a Roma il bisogno di ricorrere alla dittatura e fu innalzato in tale carica ancora una volta MAMERCO EMILIO, che, dimenticando i danni ingiustamente ricevuti dai censori, accettò. Rincuorata la cittadinanza, che si era scoraggiata per lo scacco subito e perché ai Vejenti si erano aggiunti i Fidenati, e fatti voti e sacrifici, partì con l'esercito e si accampò tra il Tevere e i monti, a un miglio e mezzo da Fidena.
Fatte occupare segretamente le alture da alcune schiere al comando di QUINZIO CINCINNATO, il dittatore con il grosso della truppa impegnò il combattimento e già al primo scontro gli era riuscito a far ripiegare il nemico, quando da Fidena irruppe una colonna nemica armata di fiaccole che assalì furiosamente l'ala sinistra romana e l'avrebbe scompigliata se non fosse intervenuta in tempo la cavalleria al comando di AULO CORNELIO COSSO e dai monti non fossero scese le schiere di Cincinnato. Presi di fronte e alle spalle, Vejenti e Fidenati subirono una sanguinosa sconfitta. Molti furono tagliati a pezzi, molti altri perirono miseramente nel fiume cercando scampo, pochissimi riuscirono a fuggire a Fidena, dove furono peraltro inseguiti e massacrati. La città fu poi presa e saccheggiata e l'esercito rientrò trionfante a Roma.
Ai Vejenti fu concessa una tregua di venti anni.

Nel 332 (422 a.C.) Roma tornò a combattere ancora contro i Volsci, ma le sorti di questa offensiva, per l'imprudenza e la leggerezza del console CAJO SEMPRONIO ATRATINO, non furono all'inizio favorevoli ai Romani e in una sanguinosa battaglia il loro esercito sarebbe stato vergognosamente sconfitto se un decurione della cavalleria di nome SESTO TEMPANIO, consigliati i cavalieri a scender da cavallo, non li avesse con estrema vigoria guidati contro i Volsci. Questi, non potendo resistere all'urto, ricorsero ad uno stratagemma e, aperte le file, diedero spazio ai cavalieri romani di addentrarsi fra le truppe nemiche, poi si chiusero e quelli rimasero accerchiati.
La battaglia così si frazionò, ma già le legioni romane, riordinatesi e ripreso animo, guadagnavano terreno e Sesto Tempanio, rifugiatosi con i suoi uomini sopra un'altura, si difendeva abbastanza bene dai continui assalti dei Volsci.
Solo la notte pose termine al combattimento e Romani e Volsci, anziché ritirarsi negli alloggiamenti, andarono sui vicini monti. Soltanto una parte di Volsci rimase fino alla mezzanotte ad assediare i cavalieri romani, ma informati che il loro campo era stato abbandonato, si ritirarono pure loro e di mattino, Tempanio con i cavalieri superstiti, non sapendo dove il console era andato, fece ritorno a Roma, dove lo stesso giorno da un'altra strada giunse Sempronio con il resto dell'esercito.

Due anni dopo (334 A di R. - 420 a.C.), tentarono gli Equi di scatenare un'offensiva contro i Romani, ma questi con il comando del console GNEO FABIO VIBULANO, prima che i nemici potessero darsi un assetto per la battaglia, li assalirono e li misero in fuga.
Per circa due anni Roma non fu più molestata dai nemici, ma non per questo rimase tranquilla perché il desiderio dei plebei di acquistare altri diritti e il proposito dei patrizi di non concederne continuo a tenere accesa la discordia nei due ceti.

ROGAZIONE SUI QUESTORI - PRESA DI LABICO

Dovendosi portare da due a quattro il numero dei questori, i tribuni della plebe chiesero che almeno due fossero per legge plebei. Prima si rifiutò il Senato poi, avendo insistito i tribuni e fattasi sentire la plebe rumoreggiando minacciosamente, accolse la domanda dei tribuni con la stessa modificazione apportata alla richiesta dei plebei in occasione dell'istituzione del tribunato consolare. Si concedeva cioè che quella carica potesse essere ricoperta anche da plebei.
La proposta di accrescere il numero dei questori a quattro, di cui due ("quaestores urbani parricidii") dovevano rimanere a Roma e gli altri due ("quaestores aerarii o militares") dovevano accompagnare i consoli nelle spedizioni militari per soprintendere all'amministrazione delle truppe ed alla distribuzione del bottino; la proposta era stata fatta nel 333 dai consoli ed i tribuni l'avevano accettata a patto però che due fossero scelti tra la plebe. I tribuni rifiutarono la modificazione proposta dal Senato e i consoli ritirarono la loro rogazione; ma i tribuni presentarono a proprio nome la rogazione alle proprie tribù.
Il Senato si oppose alla convocazione dei comizi popolari e proclamò l'interregno. L'interRe L. PAPIRIO, nel 334, per calmare l'agitazione dei plebei, propose al Senato di creare, invece dei consoli, dei "tribuni consolari", i quali dovevano accettare le rogazione dei consoli dell'anno precedente con la modifica del Senato.
I tribuni dovettero piegarsi e, giunti alle elezioni, cercarono di far emergere i candidati plebei; furono invece eletti dei patrizi. Enorme fu il malcontento della plebe, fu accusato AULO SEMPRONIO ATRATINO, presidente dei comizi, di avere alterato lo scrutinio, ma, non essendo sostenuta da prove, l'accusa si lasciò cadere e l'ira popolare si rivolse su un parente di Aulo, sull'ex-console Cajo Sempronio che, processato per la condotta della passata guerra, fu condannato ad una multa.

La carica di questore fu per parecchi anni di seguito occupata dai patrizi e fu soltanto nel 345 che alla plebe riuscì a far eleggere alcuni questori plebei.
Placate le discordie, seguì un periodo di pace di alcuni anni turbato solo da un fallito tentativo di alcuni schiavi di appiccare il fuoco alla città in vari punti per poter poi occupare il Campidoglio. Ma la congiura fu denunciata da due schiavi che, in premio, ottennero la libertà e diecimila assi.

L'anno seguente, 337 di Roma (417 a.C.) essendo tribuni consolari LUCIO SERGIO FIDENATE, MARCO PAPIRIO MUGELLANO e CAJO SERVILIO, i Labicani e gli Equi, uniti in un'alleanza, invasero e saccheggiarono il territorio di Tuscolo, che chiese aiuti ai Romani.
Formate le legioni con elementi di sole dieci tribù, furono inviati contro il nemico i tribuni SERGIO e PAPIRIO. Purtroppo la concordia non regnava tra i due capi e, volendo ciascuno che il proprio volere prevalesse, fu stabilito che il comando supremo dell'esercito fosse tenuto un giorno da uno e un giorno dall'altro.
Un giorno in cui il comando era affidato a Sergio, questi assalì con le truppe il campo nemico, dove gli Equi si erano ritirati fingendo di aver paura, ma, fatta il nemico un'improvvisa e vigorosa sortita, i Romani furono con gravi perdite ributtati e a stento riuscirono a difendere i propri alloggiamenti.
Ma il giorno dopo assaliti dagli Equi, i Romani vergognosamente abbandonarono anche quelli; i tribuni con una parte della truppa si ritirarono a Tuscolo, il resto si sparse per la campagna e alla spicciolata se ne ritornarono a Roma.

Fu allora creato dittatore QUINTO SERVILIO PRISCO, che, nominato Cajo suo figlio maestro della cavalleria, raccolto un secondo esercito e richiamate da Tuscolo le superstiti milizie, marciò verso l'Algido contro il nemico con il quale ben presto entrò in battaglia.
Il primo urto fu dato dalla cavalleria romana, che sgominò la prima linea avversaria. Servilio ordinò che le fanterie sfruttassero il successo iniziale dei cavalieri entrando prontamente in azione; si narra che avendo visto un vessillifero indugiare, gli corresse addosso e lo uccidesse.
I nemici non resistettero all'assalto delle legioni romane; girate le spalle, si affrettarono a rifugiarsi nel campo ma anche da quello dovettero sloggiare e non trovarono scampo che dentro le mura di Labico. Ma per poco tempo, perché il Dittatore, saccheggiato l'accampamento e distribuita la preda ai soldati, andò a porre l'assedio alla città e, il giorno dopo, assalita con impeto la costrinse alla resa.
Per deliberazione del Senato il territorio di Labico fu confiscato e su quello fu inviata una colonia di mille e duecento Romani, a ciascuno dei quali toccarono due iugeri di terra.

ROGAZIONE DI MECILIO E METILIO
GUERRE CONTRO GLI EQUI E I VOLSCI

Nel 339 (415 a.C.) i due tribuni della plebe SPURIO MECILIO e METILIO tornarono ad agitare la questione della legge agraria e presentarono una rogazione che proponeva la divisione di tutto il territorio sottratto ai nemici.
La proposta, se accettata, avrebbe danneggiato enormemente i patrizi; non deve quindi recare meraviglia se questi cercarono tutti i modi per far cadere la rogazione.
Non sapendo i senatori cosa fare, uno di loro, Appio Claudio, della famiglia del famigerato decemviro, uomo astuto, ambizioso e di animo vile, consigliò i suoi colleghi di trarre dalla loro parte i tribuni plebei e persuaderli ad opporre il veto. Il consiglio piacque ai senatori, i quali tanto seppero fare e dire che guadagnarono alla causa del patriziato sei tribuni plebei su dieci. Questi, chiamati alla Curia, dichiararono che si sarebbero opposti a qualsiasi proposta dei propri colleghi che fosse "dal Senato giudicata dannosa alla Repubblica"; la frase era velatamente ambigua, ma non sfuggì all'indignazione della plebe; Mecilio e Metilio chiamarono i sei tribuni traditori del loro ceto e schiavi dei patrizi.

Alle discordie tra i due ceti si aggiunse la guerra contro gli Equi scoppiata nel 341. Capo dell'esercito romano fu fatto il tribuno consolare MARCO POSTUMIO REGILLENSE, il quale, per spingere i soldati a combattere con maggior animo, promise loro di ripartire il bottino che avrebbero fatto espugnando la città di Bola che andavano ad assalire. Vinti e sbaragliati gli Equi in pochi e facili scontri, Bola fu presa, ma non mantenne il tribuno la promessa, anzi, proposto dal tribuno Sestio, richiamato a Roma dal Senato per dare il proprio parere intorno all'invio di una colonia a Bola, disse pubblicamente quando si accennò al malcontento delle sue truppe: "Guai ai miei soldati se non staranno calmi".

Queste parole, riportate al campo, fecero crescere nei soldati il malcontento, il quale ben presto si mutò in una pericolosa potenziale ribellione, anche perché littori e centurioni cercavano di trattenerla con la violenza; ma non valse a nulla la loro autorità né quella dei questori militari, uno dei quali a stento inseguito riuscì salvarsi con la fuga da una fitta sassaiola.

Di peggio avvenne quando proprio l'arrogante POSTUMIO, tornato fra le "sue" truppe, cercò di reprimere con la forza la ribellione, la quale, al contrario, con la sua presenza divampò ancora più furiosa e non si calmò se non quando il tribuno consolare, anche lui lapidato, restò vittima del furore dei soldati.
I guai che aveva promesso, se li era andati proprio a cercare

La notizia dell'uccisione di Postumio portò a Roma la costernazione e il Senato stabili di punire severamente i colpevoli. I tribuni della plebe, data la gravità della situazione, tentarono di calmare lo sdegno dei senatori, ma questi, fermi nel loro proposito, cercarono di approfittare del subbuglio per abbattere il tribunato consolare e di eleggere i consoli. E vi riuscirono. Nominando interRè FABIO VIBULANO, e questi nel 342 indisse i comizi consolari che elessero consoli AULO CORNELIO COSSO e LUCIO FURIO MEDULLINO.

Ai due fu dalla plebe affidato l'incarico di giudicare i colpevoli della morte di Postumio; vi furono alcune condanne alla pena capitale alla quale i rei si sottrassero dandosi di propria mano la morte. Questo fatto aumentò l'odio della plebe, lagnandosi che la legge prontamente era applicata soltanto per punire i misfatti dei plebei, mentre si metteva da parte quando si trattava di difendere i diritti del popolo.
Il quale non aveva dimenticato di insistere sulla divisione del territorio Bolano. Ed erano tanto esasperati gli animi per l'opposizione del Senato, che sarebbero certamente nati, come a Bola, altrettanto simili gravi tumulti se i Volsci, invadendo il territorio degli Ernici, non avessero paradossalmente cooperato a smorzare le lotte intestine.

Tuttavia contro il nemico secolare fu inviato il console LUCIO FURIO, che, assalito Ferentino, dove una grande moltitudine di Volsci si era rifugiata, la costrinse alla resa. Scarso fu il bottino; il territorio fu poi affidato agli Ernici. Ma appena finita la guerra, si riaccesero le discordie interne e il tribuno LUCIO ICILIO, all'inizio del 343; ripresentò la legge agraria; ma, sopraggiunta una mortale pestilenza, i pensieri dei cittadini furono rivolti alla salute pubblica.
Essendo state lasciate incolte le terre dopo la peste seguì la carestia e, nel 344, il Senato fu costretto a mandare ambasciatori presso i popoli vicini affinché acquistassero il frumento per attenuare la fame. Si opposero alla compera i Sanniti che si erano resi padroni di Capua e di Cuma, ma una grande quantità giunse dalla Sicilia e dall'Etruria. Ma era destino che a Roma finito un guaio ne sopraggiungesse un altro. Erano tornati in arme gli Equi e i Volsci ed erano ancora una volta penetrati nel territorio dei Latini e degli Ernici.

Correva l'anno 345 (409 a.C.) e tenevano il consolato MARCO EMILIO e CAJO VALERIO POTITO. Quest'ultimo ordinò la leva militare, ma si oppose il tribuno MARCO MENIO, uno dei più tenaci sostenitori della legge agraria. Essendo in quel frattempo i nemici riusciti ad occupare la Rocca Carventana, non fu difficile a Valerio chiamare alle armi le legioni, alla testa delle quali il console diede l'assalto alla rocca e la costrinse alla resa. Ordinò però che il bottino fosse dai questori venduto a beneficio dell'erario pubblico e non distribuito fra i soldati, per punire costoro di non essersi arruolati al primo appello. Aumentò per questo l'ira dei soldati e della plebe contro il console e quando questi, alla testa delle truppe, fece il suo ingresso a Roma, dall'esercito si cantarono sconce canzoni all'indirizzo di Valerio e si inneggiò a MENIO.
Più che i dileggi cui era stato fatto segno Valerio il patriziato era preoccupato per il favore cresciuto presso il popolo per Menio, e temendo che costui, il quale evidentemente aspirava al tribunato consolare, potesse conseguirlo, il Senato convocò i comizi consolari, dai quali furono creati consoli per la seconda volta GNEO CORNELIO COSSO e LUCIO FURIO MEDULLINO. Questo irritò ancora di più la plebe che nell'elezione dei questori dell'anno 345 fece uscire tre plebei, QUINTO SILIO, PUBLIO ELIO e PUBLIO PIPIO, contro un solo patrizio, FABIO AMBUSTO.
Il merito si dovette specialmente alla famiglia plebea degli ICILII che in quell'anno ottenne tre rappresentanti nel tribunato della plebe. Per la vittoria conseguita i plebei diventarono più esigenti; ma giunse a proposito per i patrizi (346) la notizia che Volsci ed Equi avevano invaso il territorio dei Latini e degli Ernici, ed i consoli - volendo tenerli impegnati- chiamarono i cittadini alle armi.

Si opposero però i tribuni, ma essendo il momento d'estrema gravità poiché la Rocca Carventana era caduta in potere degli Equi che n'avevano trucidato il presidio, il Senato si vide costretto a decretare che nelle future elezioni sarebbero stati creati i tribuni consolari mettendo però come condizione che non potevano essere eletti coloro che già coprivano la carica di tribuni della plebe. Questa clausola del Senato mirava evidentemente ad escludere dalla suprema magistratura della repubblica gli ICILII. E solo allora poterono cominciarono gli arruolamenti e gli altri preparativi di guerra. Quando fu pronto, l'esercito romano partì per andare ad assalire la Rocca Carventana, ma i nemici si difesero così strenuamente che, riusciti inutili tutti gli sforzi per prenderla, i Romani invasero il territorio dei Volsci e degli Equi che predandolo e devastandolo alla fine conquistarono Verruca.
Terminato l'anno (346), furono convocati i comizi, ma anche questa volta furono patrizi gli eletti e cioè CAJO GIULIO JULO, GNEO CORNELIO COSSO e CAJO SERVILIO ALA.
La guerra con i Volsci e con gli Equi intanto ricominciava e il nemico ad Anzio riuniva grandi forze. Nonostante l'opposizione di due tribuni consolari, il Senato nominò dittatore PUBLIO CORNELIO che scelse come maestro della cavalleria SERVILIO ALA. Le operazioni non furono lunghe e difficili; i nemici furono sbaragliati ad Anzio in una battaglia di non grande importanza, fu poi percorso e saccheggiato il territorio dei Volsci e conquistato a viva forza un castello sul lago Fucino, dove furono fatti tremila prigionieri (347 A.di R. - 407 a.C.)).
I Volsci però non disarmarono e l'anno seguente ripresero ai romani Verruca, massacrandone il presidio. Una clamorosa rivincita fu presa dai Romani nel 348. Dei quattro tribuni consolari che erano in carica, tre furono inviati con un esercito ciascuno contro i Volsci, PUBLIO CORNELIO COSSO, LUCIO VALERIO POTITO e CAJO FABIO AMBUSTO. Quest'ultimo pose l'assedio alla città di Anxur, l'odierna Terracina, e dopo un accanito combattimento costrinse i difensori alla resa. I cittadini ebbero salva la vita, ma i loro beni furono distribuiti ai soldati dei tre eserciti, che ricchi di bottino se ne tornarono a Roma.
Quell'anno stesso il Senato decretò di concedere ai soldati la paga con i fondi dell'erario pubblico. Questa concessione non fu fatta certamente per amore alla plebe, ma perché era in vista una guerra di conquista lunga e impegnativa e il Senato voleva ingraziarsi l'animo dei plebei, evitare tumulti ed opposizioni durante i preparativi, ed infine a far sì che i soldati quando sarebbe arrivato il giorno dell'offensiva si battessero con maggiore ardore.


Ma questa offensiva contro chi era? Contro l'odiata Vejo
ed è narrata nel prossimo capitolo


il periodo dall'anno 406 al 391 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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