LE LOTTE FRA IL PATRIZIATO E LA PLEBE - LE LEGGI

PRIMI TUMULTI DELLA PLEBE - GUERRE CONTRO I VOLSCI E I SABINI - APPIO CLAUDIO - VALERIO DITTATORE - LA PLEBE SUL MONTE SACRO - MENENIO AGRIPPA - ISTITUZIONE DEL TRIBUNATO DELLA PLEBE - TRATTATO CON I LATINI - GUERRA CONTRO I VOLSCI E CARESTIA. - LA LEGGENDA DI CORIOLANO - SPURIO CASSIO E LA LEGGE AGRARIA - I FABII - LA LEGGE PUBLILIA - LA LEGGE TERENTILIA - CINCINNATO - LA LEGGE ICILIA - LA LEGGE TARPEJA-ATERNIA
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Poiché con la Repubblica, si era ripristinata la riforma serviana, che manteneva sempre l'esclusione di tutti i plebei, poveri o ricchi, dalle cariche pubbliche, è naturale che essa non riuscisse a soddisfare le aspirazioni di una classe della cittadinanza romana che, ormai rilevante non solo numericamente, aveva una grandissima importanza finanziaria. Mentre i patrizi né lavoravano, né operavano nel commercio; entrambe le due attività erano considerate disonorevoli e volgari.

Infatti, i primi dissidi tra patrizi e plebei furono causati da interessi economici.
Tristissime erano le condizioni in cui versavano i plebei nei primi tempi della repubblica. Gravati di tributi, distratti dal lavoro per le continue guerre che lo Stato sosteneva contro i nemici esterni, ben presto essi furono costretti a contrarre prestiti con i patrizi, i quali volentieri, allo scopo di ridurre in servitù la plebe, si servivano delle leggi inumane che al creditore davano diritto di considerare come schiavo il debitore che non pagava.
E non soltanto il capo della famiglia, ma tutta la famiglia del debitore cadeva in temporanea schiavitù, durante la quale il trattamento subito era ciò che di più duro si possa immaginare. Erano caricati di catene, chiusi nei sotterranei e addetti a fatiche insopportabili cui si aggiungeva la fustigazione.
Questo stato di cose non poteva certamente durare a lungo e doveva fatalmente causare un malcontento che alla fine produsse aperte ribellioni.

Un giorno dell'anno 259 (459 a. C.), - come c'informa la tradizione - mentre il popolo si trovava radunato nel foro, comparve un vecchio centurione. Il petto lo aveva pieno di cicatrici che attestavano il suo valore come guerriero, ma nel dorso portava i segni d'orribili frustate. Raccontò con le lacrime agli occhi che in molte battaglie aveva versato il suo sangue per la salvezza di Roma, ma che da un patrizio di cui era debitore era stato fatto schiavo e orribilmente maltrattato. Al racconto del vecchio guerriero arse di sdegno la plebe e, tumultuando, chiese ai consoli che convocassero il Senato per alleviare con nuove leggi le condizioni dei plebei.
Era il Senato radunato quando giunse improvvisamente l'annunzio che un forte esercito di Volsci marciava contro Roma.

La notizia sgomentò i senatori; al contrario la plebe era lieta vedendo nel nemico la vendetta degli dei, e diceva di non voler brandire le armi in difesa della città e che si lasciassero ai superbi patrizi la cura e i pericoli della guerra.
Ma la Curia e il Senato, temendo sia i nemici sia la plebe, si raccomandarono al console SERVILIO, un magistrato che godeva il favore del popolo; il console, abbandonato il Senato, uscì a parlamentare con i plebei e disse loro che i senatori erano ben disposti a favorire il popolo, ma che prima d'ogni altra cosa si doveva pensare a difendere la patria dal nemico, indi pubblicò un editto con il quale si ordinava che tutti i plebei che volevano iscriversi nell'esercito e che per debiti si trovavano in carcere fossero subito posti in libertà e che, durante il servizio militare, non fossero occupati o venduti i beni dei debitori né trattenuti in garanzia i loro figli e nipoti.
Pubblicato l'editto, un gran numero i plebei, specialmente i debitori, corsero ad arruolarsi e in breve fu radunato un fortissimo esercito, che, sotto il comando dello stesso console, uscì dalla città e andò ad accamparsi vicino ai nemici. Questi, cui era giunta la notizia della discordia sorta nella cittadinanza romana, durante la notte cercarono di far passare nelle proprie file una buona parte dei soldati avversari, ma, dato l'allarme, il tentativo dei Volsci fallì. Spuntato il giorno, i Volsci diedero l'assalto al campo romano, ma ebbero la peggio, perché i Romani ingaggiarono la lotta con grande determinazione e ributtarono i nemici, che si rifugiarono nel proprio accampamento; ma anche di là furono scacciati dalle truppe di Servilio, che, messo a sacco e bruciato il campo avversario, inseguì i Volsci fino a Suessa Pomezia che in pochi giorni fu espugnata e saccheggiata.

Era appena Servilio ritornato a Roma carico di bottino quando fu portato l'annunzio che i Sabini erano giunti fino all'Aniene e depredavano il territorio romano. Furono allora riprese le armi e contro il nemico fu inviato AULO POSTUMIO con la cavalleria e SERVILIO con un buon contingente di fanti. Sorpresi i Sabini durante la notte sparsi per le ville e ubriachi, furono facilmente sbaragliati. Pochi giorni dopo, avendo gli Aurunci dichiarato guerra ai Romani, questi, senza perder tempo, andarono contro il nuovo nemico e, dopo averlo incontrato nei pressi d'Aricia, lo sconfissero.
Speravano i plebei, che tanto si erano segnalati in queste guerre, nella gratitudine del Senato ed aspettavano che il console mantenesse fede alle sue promesse.
Ma uno dei consoli, APPIO CLAUDIO, uomo superbo e crudele, invidioso del favore che presso il popolo godeva il collega, rimandò in prigione i debitori. Invano questi si appellavano a SERVILIO, ricordandogli le promesse ricevute e i servigi resi in guerra. Il buon console, pur commuovendosi, temporeggiava, tergivisava, non osava schierarsi apertamente contro Appio Claudio e il patriziato. Così facendo, Servilio non s'ingraziò i patrizi, dai quali era considerato ambizioso e di poca energia, ma si acquistò solo l'odio della plebe come l'uomo che non aveva mantenuto le promesse.
Il contegno dei consoli e del Senato inasprì talmente i plebei che questi ricominciarono a tumultuare e non prestarono più obbedienza ai decreti. Al grave malcontento della plebe si aggiunse la minaccia di una guerra da parte dei Sabini e solo allora si capì dalle autorità la gravità della situazione perché nessuno dei plebei rispose alla chiamata alle armi.

Cominciava intanto l'anno 494 a. C. Furono eletti consoli VIRGINIO e VETURIO, i quali cercarono di salvare la situazione chiamando il popolo alle armi. Nuovo rifiuto da parte dei plebei, che ora, preso animo, si radunavano sull'Aventino e sull'Esquilino e con fare minaccioso gremivano il foro.
I nuovi consoli convocarono il Senato, dove molte furono le proposte sui provvedimenti da prendere; ma su tutte prevalse quella di Appio Claudio di nominare un dittatore.
A questa suprema carica fu assunto VALERIO, fratello del Poplicola, il quale, allo scopo di tenere a freno la plebe e di prepararsi contro i Volsci, gli Equi ed i Sabini che si preparavano alla guerra, pubblicò un editto simile a quello di Servilio e chiamò quindi i cittadini alle armi. I plebei vollero per la seconda volta credere alle promesse contenute nel bando e risposero così generosamente all'appello che furono composte dieci legioni e, poiché gli Equi avevano invaso il territorio dei Latini e questi avevano chiesto soccorsi a Roma, si giudicò opportuno d'inviare truppe contro i nemici.
Dei due consoli, sotto il cui comando erano state poste sei legioni, Veturio fu mandato contro gli Equi, che, lasciata la pianura, per meglio difendersi si rifugiarono sulle montagne, Virginio fu inviato contro i Volsci, che costretti a battaglia nell'aperta pianura, furono sgominati e inseguiti fino a Velitre, che quale poi cadde in mano dei Romani.
Il dittatore nel frattempo, alla testa delle altre quattro legioni, affrontava i Sabini e li sconfiggeva.
Terminata vittoriosamente la guerra, il dittatore Valerio tornò a Roma e suo primo pensiero fu di adempiere le promesse fatte alla plebe, per la qual cosa chiese al Senato che fossero; condonati i debiti e liberati i debitori.

Il Senato oppose un rifiuto e Valerio, sdegnato, si dimise dalla carica. Temendo i senatori che i plebei, se fosse stato sciolto l'esercito, tornassero a tumultuare, lo mantennero sotto le armi. Ma questa scelta fu il peggiore dei mali. Esasperate, le legioni plebee si ribellarono ai consoli ed eletto capo L. LICINIO, andarono ad accamparsi tre miglia lontano della città, oltre l'Aniene, sopra un colle che più tardi fu chiamato Monte Sacro.
La plebe rimasta a Roma, temendo per la propria sicurezza, se ne andò ? come credono certi critici ? sull'Aventino. Questi fatti preoccuparono immensamente i patrizi, non solo perché si preannunciavano gravi lotte civili, ma perché potevano indurre i nemici esterni ad assalire Roma, che in simili condizioni non poteva essere validamente difesa.

Fu perciò deciso di avviare trattative con i plebei. Molti furono gli ambasciatori, ma nessuno di loro riuscì a persuadere la plebe a ritornare in città. Allora fu inviato sul Monte Sacro MENENIO AGRIPPA, uomo con molti anni, pieno di senno e molto caro al popolo, il quale per mezzo del famoso apologo del ventre e delle membra, persuase i plebei che la discordia era di danno al patriziato e alla plebe e che solo nella concordia tra le due parti potevano queste trovare il benessere. Disarmati gli animi, i plebei ricevettero il dittatore Valerio col quale furono trattate le condizioni di pace. Queste furono: condono dei debiti ai debitori insolvibili, restituzione della libertà a quei debitori caduti in servitù dei creditori per inadempienza dei pagamenti, assicurazione di regolare con legge centuriata i contratti tra creditore e debitore, ed infine l'istituzione di un magistrato della plebe.

Questo magistrato, che prese il nome di "tribuno della plebe" doveva aiutare i plebei che ne facevano richiesta contro gli arbitrii consolari; la sua persona doveva essere inviolabile; chi avesse osato ostacolarlo nell'esercizio delle sue funzioni avrebbe subito la confisca dei beni e poteva anche essere ucciso. Nessun patrizio spettava rivestire tale carica. Il tribuno doveva essere assistito da altri magistrati: i cosiddetti "edili plebei e giudici decemviri". Gli uni dovevano presiedere alla polizia, regolare l'annona e i ludi plebei, registrare i plebisciti, giudicare le liti in nome del tribuno e fare eseguire le sentenze; gli altri dovevano istruire i processi civili e coadiuvare il tribuno nelle sue funzioni.
La pace, solennemente giurata alla presenza dei Feciali, fu detta "sacrata" e a ricordo di quest'avvenimento furono istituiti i "giuochi plebei".

TRATTATO CON I LATINI

Nel 261 ( 493 a.C.) dalla sua fondazione, Roma stipulò un trattato federativo con le seguenti città latine: Ardea, Aricia, Boville, Bubento, Corne, Carvento, Circeio, Corioli, Corbione, Cora, Fortinea, Gabio, Laurento, Lanuvio, Lavinio, Labico, Nomento, Norba, Preneste, Pedo, Querquetulo, Satrico, Scapzia, Sezia, Tellene, Tiburi, Tuscolo, Tolerio, Triario e Velitre.
Nel trattato erano consacrati i seguenti punti: fra Roma e le suddette città doveva regnare pace eterna; il bottino acquistato nelle guerre combattute insieme doveva essere ripartito in parti eguali; se una delle due parti fosse stata aggredita dai nemici, l'altra, doveva difenderla con tutte le sue forze; i processi tra un Romano e un Latino dovevano essere risolti entro dieci giorni, infine non poteva essere tolto o aggiunto al trattato alcun punto senza il consenso di Roma e di tutte le città latine confederate.

GUERRA CONTRO I VOLSCI E CARESTIA

Nello stesso anno scoppiò una guerra tra Roma e i Volsci di Anzio. Il console Postumio Cominio, incontratosi con l'esercito nemico, lo sbaragliò, lo mise in fuga e lo inseguì fino a Longula che fu dunque conquistata. Espugnata quindi Pollusca, marciò su Corioli e la cinse d'assedio. Si trovava fra le truppe un patrizio giovanissimo di nome GNEO MARCIO, valoroso e prudente guerriero. Essendosi un giorno gli abitanti di Corioli, per il sopraggiungere di soccorsi inviati dai Volsci, decisi a fare un'uscita improvvisa, il giovine Marcio frenò con i suoi l'impeto dei nemici e, messi questi in fuga, li inseguì, e insieme con loro riuscì a penetrare nella città provocando una grande strage, tanto che i Volsci, senza colpo ferire, sbigottiti se ne tornarono ad Anzio.
Gneo Marcio, che era stato l'eroe della giornata, salì a grande popolarità e prestigio e si ebbe il soprannome di CORIOLANO.

Moriva in quello stesso anno MENENIO AGRIPPA in estrema povertà. Non lasciò nemmeno i denari per essere sepolto e i cittadini, che tanto lo amavano per aver lui ricondotta la concordia a Roma, si tassarono ciascuno di un sesterzio per fargli le esequie.
L'anno seguente Roma fu afflitta da una grande carestia e, venendo a mancare le vettovaglie e cominciando la plebe a soffrire la fame, i consoli, che erano TITO GEGANIO e PUBLIO MINUCIO, mandarono a comperar grano in Etruria, presso i Volsci, in Campania e in Sicilia; ma soltanto in Sicilia e in Etruria si riuscì ad acquistarne. I Volsci, che nutrivano fiero odio contro i Romani, si rifiutarono di venderlo e maltrattarono e cacciarono via i compratori; a Cuma si riuscì a comprare qualcosa, ma il tiranno Aristodemo, cui Tarquinio il Superbo aveva per testamento lasciato i propri beni confiscati da Roma, per rivalsa sequestrò le navi romane cariche di frumento.
I Volsci avrebbero forse certamente approfittato delle ristrettezze in cui Roma si trovava per muoverle guerra se nel loro territorio non fosse scoppiata una grave pestilenza.
Giunto a Roma il grano dalla Sicilia, fu convocato il Senato per stabilire a quale prezzo doveva esser venduto alla plebe. Alcuni senatori furono di parere di regalare il frumento che il tiranno di Siracusa aveva gratuitamente offerto, e di vendere a basso prezzo quello acquistato; altri però proposero di costringere la plebe a rinunziare ai tribuni in cambio delle vettovaglie.

Fra questi ultimi fu GNEO MARCIO CORIOLANO, il quale odiava i plebei perché non gli avevano dato il voto nelle elezioni consolari. In una rovente e sdegnosa orazione, pronunciata davanti all'assemblea dei senatori, si scagliò contro la plebe e i tribuni e sostenne che si dovesse, ora che l'occasione si era presentata, obbligarla a rinunziare a quei diritti acquisiti con la sedizione o altrimenti lasciarla perire di fame.
Le parole del giovane patrizio, conosciute ben presto dai plebei, scatenarono la furia del popolo contro di lui, che, uscito dalla curia, sarebbe stato fatto a pezzi dalla folla tumultuante se non fosse stato salvato dai tribuni. Questi lo accusarono di violazione della "legge sacrata" e lo citarono a comparire dinnanzi al concilio plebeo.
Il patriziato cercò di calmare la plebe concedendo il grano a bassissimo prezzo, ma questo non valse a far ritirare l'accusa contro Coriolano, il quale fu giudicato in contumacia e dichiarato meritevole della pena capitale.

Ma CORIOLANO, già prevedendo la sentenza, aveva lasciato Roma e si era rifugiato presso i nemici di Roma, i Volsci. Aveva trovato ospitalità presso ATTIO TULLIO, signore di Anzio, fiero nemico dei Romani, con il quale prese accordi per muovere guerra alla propria patria. Ma i Volsci, pure loro provati dalla pestilenza e sfiduciati dall'esito sfavorevole delle precedenti guerre sostenute contro i Romani, si rifiutarono di brandire le armi. Questo fatto però non fece desistere Tullio e Coriolano dal loro proposito, e non potendo metterlo in attuazione con la persuasione pensarono di ricorrere ad uno stratagemma.
Si dovevano celebrare a Roma con grande solennità i giuochi nel Circo e dai territori vicini molta gente si recò ad assistervi; e fra gli altri un gran numero di pacifici Volsci. Insieme con questi era Attio Tullio, il quale, giunto in Roma, si recò segretamente dai consoli e disse loro che i Volsci erano venuti non per assistere pacificamente alle feste ma per approfittarne per tentare un colpo di mano sulla città.
Ricevuta la confidenza, i consoli convocarono il Senato al quale riferirono le brutte intenzioni dei Volsci, e, poiché questi erano sempre stati nemici di Roma, nessuno pensò di mettere in dubbio l'informazione di Attio Tullio.
Subito furono mandati in giro i pubblici banditori e fu per mezzo di questi ordinato che tutti i Volsci, presenti a Roma, lasciassero la città prima del calar della notte.
L'ordine inaspettato produsse sgomento nei Volsci che si affrettarono ad uscire; al timore però successe lo sdegno per il trattamento ricevuto, e per vendicare l'onta patita fu su due piedi decisa la guerra contro Roma.

CORIOLANO

ATTIO TULLIO e CORIOLANO furono eletti comandanti dell'esercito dei Volsci.
La guerra iniziò con la presa di Circeio, dove fu scacciata la colonia romana; poi l'esercito dei Volsci si impadronì di Satrico, Longula, Pollusca, Corioli, Mugilla, Lavinio, Corbione, Vitellia, Trebio, Labico e Pedo e si accampò alla Fossa Cluilia a cinque miglia da Roma.
Allo scopo di far nascere discordie tra il patriziato e la plebe, Coriolano fece devastare le proprietà che i plebei avevano nei dintorni romani ma risparmiò quelle dei patrizi, che furono per questo motivo accusati di connivenza con il fuoruscito.
Erano consoli in quel tempo SPURIO NAUZIO e SESTO FURIO. Questi, un giorno, mentre sovrintendevano ai preparativi della difesa, furono circondati da una moltitudine di plebei che, chiedendo la pace, li costrinsero a convocare il Senato e a proporre di mandare ambasciatori a Coriolano.
Il Senato, considerando che sarebbe stato difficile avere ragione del nemico a causa della plebe contraria alla guerra, accettò la proposta, ed inviò cinque senatori a Coriolano perché lo informassero che sarebbe stato reintegrato nei suoi diritti se avesse fatto allontanare i Volsci da Roma.

Coriolano superbamente rispose che non poteva intavolare trattative di pace se prima dai Romani non erano ridati ai Volsci i territori sottratti. E fissò un termine di trenta giorni, passati i quali, il Senato mandò una seconda ambasceria di dieci consolari per tentare di ottenere condizioni meno gravi.
Il fuoruscito però non si piegò e concedette tre giorni di tempo ai senatori per accettare le condizioni. Allora si tentò di render più mite Coriolano, inviando a lui i sacerdoti e, riuscito vano anche questo tentativo, molte matrone romane andarono dalla madre di Coriolano, VETURIA, e la persuasero ad intercedere presso il figlio per la salvezza della Patria.
VETURIA partì con la nuora VOLUNNIA, portandosi dietro due figlioletti di Coriolano ed un numeroso gruppo di matrone, ma, giunto il corteo femminile al campo nemico, non avrebbe ottenuto udienza se un famigliare di Gneo Marcio, riconosciute Veturia e Volunnia, non avesse detto a Coriolano: - Se non m'inganno, ecco tua madre, tua moglie e i tuoi figliuoli. - Fuori di sé, Coriolano si lanciò incontro alla madre per abbracciarla, ma questa, allontanandolo da sé, severamente gli disse: "Prima che tu mi abbracci dimmi se io sono venuta a visitare il figliuolo o il nemico, se io nel tuo campo sono prigioniera e serva oppure madre, poiché la mia lunga vita e l'infelice vecchiaia ha voluto che ti vedessi prima fuoruscito e poi nemico. Come hai tu potuto saccheggiare questa terra che ti ha dato i natali e ti ha nutrito? Come non cessò l'ira nell'animo tuo nel metter piede dentro questi confini? Come, alla vista di Roma, non hai potuto pensare che dentro alle sue mura tu avevi la tua casa, i tuoi Penati, la madre e i figliuoli? Se io non ti avessi partorito, Roma ora non sarebbe stata combattuta, se io non avessi avuto un figlio sarei morta libera nella mia libera patria. Ma oramai io non posso sopportare cosa alcuna a me più misera o a te più turpe e vituperevole; sebbene io sia infelice non potrò a lungo durare: pensa tu a costoro, che per causa tua periranno d'immatura morte o saranno oppressi da lunga servitù".
La moglie e i figli abbracciarono Coriolano, che, commosso dalla loro presenza, dalle giuste ammonizioni della madre e dal pianto delle matrone, ordinò che si levasse il campo e l'esercito lasciasse subito il territorio di Roma.

Discordanti sono le notizie circa la fine di Coriolano. Alcuni affermano essersi ucciso, altri essere stato trucidato dall'esercito o per ordine di Attio Tullio perché aveva tradito i patti. Ma forse egli continuò a vivere in esilio tra i Volsci fino a tarda età.

CRITICA DELLA LEGGENDA DI CORIOLANO

Anche qui molte sono le critiche, e alcuni affermano che non ci vuole molto per capire che sono leggendari i fatti che si attribuiscono a Coriolano.
Come mai, difatti, si può parlare della conquista di Corioli, avvenuta nel 261, se in quello stesso anno questa città è compresa nel numero delle altre che stringono il patto con Roma. Come mai Coriolano, che nell'occupazione di Corioli è un giovinetto, un anno dopo, durante la carestia, è senatore e di tale prestigio da fare accettare le sue proposte (di far morire di fame i plebei, se non rinunciavano ai diritti acquisiti).
Come mai può Coriolano addossare la responsabilità della carestia ai plebei, dicendo che a causa della loro rivolta i campi rimasero incolti, visto che pochi giorni soltanto durò la rivolta stessa e questa, per giunta, ebbe luogo in settembre a raccolto -pur scarso- già avvenuto.

Né questo basta; vi è dell'altro. La tradizione fa regalare ai Romani dal tiranno Dionisio una certa quantità di grano; ma noi sappiamo che in quel tempo non ci fu un tiranno di tal nome a Siracusa.
I Volsci muovono guerra ai Romani e invadono il Lazio e Roma sta inoperosa e i Latini non prendono le armi. Ammesso che l'inerzia di Roma sia causata dalle discordie tra patrizi e plebei, come giustificare la passività delle città latine, le quali non solo non portano aiuto, secondo i patti, alla loro alleata, ma non tentano neppure di difendersi? Ed è infine credibile che, davanti a Roma, una parola di Coriolano, cioè di uno straniero, possa esser sufficiente per far levare il campo ai Volsci e abbandonare i territori conquistati (14 città)?
E non è un ripiego di storici posteriori l'attribuire la morte di Coriolano al malcontento dei Volsci? I quali, poiché si accorgono d'essere stati ingannati, dovrebbero, ucciso Coriolano, portare la guerra fino alle estreme conseguenze e non ritirarsi a mani vuote quando la vittoria era ormai certa e vicinissima.

"Sotto qualunque aspetto dunque si consideri la tradizione di Coriolano - scrive il Bertolini - essa si presenta come un tessuto d'inattendibilità e di assurdi. Coriolano ha nome e gloria dalla liberazione di una città che era già libera; passa improvvisamente dall'età adolescente all'adulta; prende occasione per levarsi contro la plebe da una carestia immaginaria; conquista dodici o quattordici città munite senza combattere, e in una sola estate; e tutto poi abbandona improvvisamente dietro preghiera della madre e della moglie, senza incontrare opposizioni nei Volsci e nel suo stesso collega Attio Tullio, né sollevare contro di sé l'odio e l'ira dei traditi; e passa in mezzo a loro l'intera sua vita, senza essere molestato, lamentando un esilio che egli stesso si era imposto; chi ha potuto compiere tali cose non è un essere di questo mondo; e la tradizione che così lo ritrae non ha diritto d'essere qualificata una tradizione storica".

Ma si domanderà, com'è nata e quale motivo la ispirò? È nata forse da una confusione, parte accidentale e parte artificiale di fatti diversi per tempo e per natura; fu ispirata dall'orgoglio degli annalisti romani. I quali, non potendo negare che un tempo la maggior parte delle città latine caddero in potere dei
Volsci e che Roma stessa ebbe a causa loro patire gravissimi danni, cercarono di salvare l'onore offeso con il mettere a capo dei terribili invasori un cittadino romano ed attribuire a merito suo le conquiste e le vittorie riportate dagli stranieri.

"Già da secoli correva per le bocche del popolo il nome del bandito Coriolano, cui si associavano i ricordi di guerresche imprese condotte insieme con i Volsci contro la sua patria. E da questa tradizione trassero partito gli annalisti per costruire la natura e il processo dei fatti in modo che l'orgoglio romano ne uscisse illeso. Così Coriolano che aveva combattuto con i Volsci contro i Latini e i Romani, fu convertito in un duce supremo dei Volsci stessi, ed egli diventò l'anima dell'impresa".

Come ogni leggenda, anche questa di Coriolano deve avere un fondamento storico. E questo punto sta nelle guerre che verso la fine del terzo secolo di Roma - secondo Livio - furono combattute contro i Romani (alleati dei Latini e degli Ernici) dai Volsci e dagli Equi.

Che queste guerre ci siano state è dimostrato, oltre che dall'affermazione liviana, dal fatto che nell'ultimo ventennio di quel secolo tacquero le contese tra patrizi e plebei, entrambi concordi di fronte al nemico della patria e dimentichi dei rispettivi interessi di classe.

Non nel 262 dunque sarebbe avvenuta la guerra ma molti anni dopo e non contro Volsci ed Equi soltanto, ma anche contro un forte gruppo di fuorusciti romani, che detestavano, ed erano quindi odiati dalla plebe, o forse esiliati perché rei di violazione della "legge sacrata" e quindi insofferenti del prestigio sempre maggiore che essa era andata acquistandosi.
Quanto a Coriolano egli deve essere stato uno di questi fuorusciti, senza dubbio il loro capo, nato da famiglia forse originaria di Corioli. L'improvvisa fine della guerra alle porte di Roma si spiegherebbe con la defezione dei fuorusciti in seguito a trattative segretamente avviate tra loro e la loro patria, defezione che, rialzato il morale e il numero dei difensori di Roma e sorpresi i Volsci, avrebbe consigliato questi ultimi a battere precipitosamente in ritirata.

SPURIO CASSIO E LA LEGGE AGRARIA (268 di R. - 486 a.C.).

Dopo i fatti sopra, nei successivi cinque anni, cresceva di giorno in giorno il dissidio tra il patriziato e la plebe. Correva l'anno 268 di Roma quando SPURIO CASSIO, eletto per la terza volta console, propose al Senato la "legge agraria". Magistrato integro e di larghe vedute, avendo di mira l'interesse dello Stato ed essendogli a cuore le sorti della plebe, benché fosse patrizio, Spurio Cassio si proponeva con la sua legge di alleviare le tristi condizioni dei plebei concedendo a loro parte dell'agro pubblico, che era costituito dalle terre sottratte ai popoli vinti. Di queste terre, diventate suo patrimonio, lo Stato distribuiva fra i coloni o vendeva o dava in enfiteusi la parte coltivata, lasciava invece la parte devastata dalla guerra a chi, volendola coltivare, s'impegnava a corrispondergli il decimo dei raccolti. Si capisce che solo i patrizi, appunto perché ricchi e perciò in grado di metterle a coltura, prendevano queste terre in affitto, ma l'affitto a poco a poco si mutò in proprietà e con l'andar del tempo la decima non fu più pagata.

La legge di Spurio Cassio con la quale si chiedeva che parte dell'agro pubblico fosse distribuita ai poveri e che i possessori del rimanente pagassero i tributi, mise in grande agitazione la plebe in un verso e i ricchi in un altro, e il Senato finse d'accogliere la proposta e nominò, per prendere tempo, una commissione di dieci consolari perché misurasse l'agro pubblico e stabilisse la parte che doveva essere distribuita ai plebei.
Intanto, allo scopo di sopprimere il console, i patrizi cominciarono a spargere fra il popolo la voce che Spurio Cassio cercava di ingraziarsi la plebe per poi diventar tiranno di Roma, e tanto fecero che il popolo irrazionalmente diede ascolto a queste voci. Così con l'appoggio del popolo, i questori criminali, fra cui era CESONE FABIO, accusarono Spurio Cassio, lo processarono come traditore della patria, lo condannarono, e fu precipitato dalla rupe Tarpeia.

I FABII

Strumento del patriziato nella soppressione di Cassio fu soprattutto la gente dei Fabii, i quali in compenso del servizio reso, ottenevano che un loro rappresentante fosse ogni anno eletto console. E così fu, infatti, per molti anni con grande danno per la plebe, la quale, per opera dei Fabii, vide non applicata di anno in anno l'esecuzione della legge agraria.

Questo stato di cose però non poteva durare a lungo. Nel 273 (481 a.C.), essendo scoppiata la guerra contro Vejo, al console di Roma, che quell'anno era (ancora) CESONE FABIO, fu impedito dal comportamento della plebe di riportare una decisiva vittoria sul nemico. Questo, infatti, era stato sbaragliato dalla cavalleria romana comandata dal console stesso e messo in fuga, ma le legioni plebee anziché inseguirlo, per diminuire la portata della vittoria e il merito dell'odiato Fabio, ritornarono agli accampamenti.

Questo fatto e parecchi altri ancora consigliarono la gente dei Fabii a schierarsi dalla parte della plebe e l'anno dopo, essendo stato nominato console il fratello di Cesone, MARCO FABIO, promise ai plebei la pronta esecuzione della legge agraria, ingraziandosi così la plebe.
La guerra contro Vejo si era riaccesa, ma questa volta i plebei combatterono con tanto valore che i Vejenti furono clamorosamente disfatti. La guerra però costò la vita a QUINTO FABIO, altro fratello del console e questi ne fu tanto addolorato che si dimise dalla carica. A suo successore fu nuovamente eletto CESONE che tuttavia mantenne le promesse del fratello e chiese al Senato che la "legge cassia" fosse eseguita.

Se i Fabii avevano saputo accattivarsi le simpatie del popolo non avevano potuto sfuggire all'odio dei patrizi che, facendo tutto questo per il proprio interesse e considerandoli traditori del proprio ceto, cominciarono a perseguitarli aspramente. I Fabii avrebbero potuto, capeggiando la plebe, abbattere la potenza dei patrizi e mantenersi al potere; ma avrebbero inasprite le interne discordie. Punti forse anche dal rimorso di avere tradito il patriziato e di essere stato loro strumento contro Spurio Cassio, vollero scontare le loro colpe mostrando il loro patriottismo.

Tutta la gente, eccettuato QUINTO FABIO perché ancora adolescente, sotto il comando di Cesone nell'anno 275 (479 a.C.) abbandonò Roma e si recò ad occupare una fortezza sul Cremera allo scopo di molestare continuamente Vejo e facilitarne la sottomissione ai Romani.
I Fabii rimasero circa due anni sul Cremera e di là non poche devastazioni fecero nel territorio nemico, ma un giorno, colti di sorpresa da un numero schiacciante di nemici, dopo un'eroica resistenza, trovarono la morte sul campo di battaglia.
Indegna però di un romano fu in quella circostanza la condotta del console T. MENENIO che, trovandosi con l'esercito nelle vicinanze, non volle portare aiuto ai Fabii a causa dell'odio che, come patrizio, nutriva contro di loro.
Ma non restò impunito. Scaduto dalla carica, venne da L. CONSIDIO e T. GENUCIO, tribuni della plebe, accusato di "perduellione" (contegno ostile) contro i plebei, fu condannato a pagare una multa di circa duemila assi e per la vergogna si uccise (278).
In memoria dei Fabii fu messo tra i nefasti il giorno della loro morte e fu chiamata "scellerata" la porta Carmentale per la quale essi erano usciti dalla città.
Alla legge agraria intanto non si dava esecuzione e nel 281 il TRIBUNO GNEO GENUCIO accusò i consoli dell'anno precedente C. MANLIO e L. FINNIO pure loro di "perduellione" per avere essi impedito che la legge di Spurio Cassio fosse eseguita. I patrizi, che male sopportavano la sempre crescente autorità e ingerenza dei tribuni plebei decisero di sbarazzarsi di loro e la mattina stessa nella quale i due consoli dovevano essere giudicati G. GENUCIO fu trovato morto nel suo letto.

LA LEGGE PUBLILIA (283 di R. - 471 a.C.)

Sbigottita, la plebe non osò protestare e il Senato chiamò i cittadini sotto le armi e i nuovi consoli nel conferimento dei gradi militari commisero non poche ingiustizie. Un tale PUBLILIO VOLERONE, ad esempio, che aveva il grado di centurione, fu messo nel numero dei semplici gregari e siccome lui osò fare pubbliche rimostranze furono mandati i littori per arrestarlo. Volerone però, spalleggiato da altri plebei, respinse i littori e il popolo che gremiva il foro, a quella scena, cominciò a tumultuare e inveì minacciosamente contro i consoli, che si salvarono dall'ira popolare rifugiandosi nella curia.

L'anno dopo (282) PUBLILIO VOLERONE fu eletto tribuno della plebe e, invece d'insistere perché fosse data esecuzione alla legge agraria, presentò alla plebe una rogazione con la quale proponeva che dai comizi tributi, per l'elezione dei tribuni, fossero esclusi i patrizi e che dai comizi stessi si stabilissero le attribuzioni.
La rogazione di Publio Volerone fu accolta ovviamente con ostilità dai patrizi, ma il Volerone, rieletto tribuno l'anno seguente (283), ripresentò la rogazione validamente appoggiato dal collega LETORIO e dal contegno risoluto della plebe, la quale, di fronte all'ostinazione del console Appio Claudio, minacciò una nuova secessione.
La legge fu votata, e, tardando a venire la sanzione del Senato, i plebei si sollevarono e occuparono il colle Capitolino. Solo allora i senatori cedettero e sanzionarono la cosiddetta "legge publilia".

APPIO CLAUDIO volle rifarsi dell'insuccesso opprimendo con una disciplina inumana i soldati ma ben presto dovette subirne i tristi effetti, perché l'esercito, esasperato, combattendo contro i Volsci sotto il comando dell'odiato console, volse le spalle al nemico. Ferocissimi furono i provvedimenti disciplinari adottati da Appio Claudio; l'esercito fu condannato alla decimazione; cioè un soldato su ogni dieci fu dietro suo ordine preso a caso e ucciso.
Scaduto Appio Claudio dalla carica di console, i tribuni lo citarono in giudizio, ma lui per evitare la vergogna di esser giudicato dalla "indegna" plebe si tolse la vita.

LA LEGGE TERENTILIA (292 a. di R - 462 a.C.)

Parecchi anni dopo e precisamente nel 292, il tribuno GAJO TERENTILIO ARSA presentò ai comizi tributi, che la votarono, una legge con la quale proponeva che fosse fatto un codice di leggi e nominata una commissione di cinque cittadini per compilarlo.
La rogazione di Terentilio trovò ostile il patriziato, ma la plebe tenne duro e, per dimostrare la sua approvazione ai tribuni, successi ad Arsa, che della sua proposta si erano fatti sostenitori, li confermò in carica per cinque anni consecutivi. Dal canto loro i patrizi, per impedire l'esecuzione della legge, chiamarono i cittadini più di una volta alle armi e lasciarono che insolenti giovani di nobili famiglie turbassero i lavori dei comizi tributi.

Un figlio di L. QUINZIO CINCINNATO, chiamato CESONE QUINZIO, che si era distinto nell'ultima guerra contro i Volsci e gli Equi, un giorno, capeggiando un manipolo di questi tracotanti giovani, penetrò nei comizi e ne cacciò i tribuni. Per questo gravissimo fatto fu dal tribuno A. VIRGINIO citato in giudizio, ma i parenti del reo ed i più influenti patrizi, temendo per l'accusato, cercarono con preghiere di salvarlo e ci sarebbero riusciti se M. VOLSCIO FITTORE, già tribuno, non avesse rivelato che Cesone, due anni prima, gli aveva ucciso il fratello. Tuttavia con la potenza del denaro, e quindi con il versamento di una cauzione di 30.000 assi i patrizi ottennero che Cesone rimanesse in libertà fino al giorno del processo. Di questa libertà provvisoria ne approfittò Cesone, il quale, essendo sicuro di essere condannato, fuggì in Etruria.
L'odio dei patrizi prese allora di mira VOLSCIO. Nel 295 i questori, tra cui era T. Quinzio Capitolino, zio di Cesone, lo citarono in giudizio accusandolo di falsa testimonianza e l'anno dopo, essendo dittatore Cincinnato, Volscio fu dai comizi curiati mandato in esilio.

Mentre i patrizi sfogavano il loro rancore contro Volscio, Cesone dall'Etruria, d'accordo con i patrizi organizzava su Roma, allo scopo di togliere alla plebe i diritti acquistati, un colpo di mano. Raccolti intorno a sé un migliaio di fuorusciti romani, in compagnia del Sabino APPIO ERDONIO - il quale probabilmente è un personaggio inventato - marciò su Roma ed occupò il Campidoglio. Alcuni storici affermano che i patrizi, preoccupati delle conseguenze che sarebbero derivate, anziché sostenere i fuorusciti, si unirono alla plebe per ricacciarli; altri invece scrivono che la plebe, invitata a prender le armi non ubbidì che dopo avere ricevuta dal console Valerio la promessa che, liberato il Campidoglio, sarebbe stata sanzionata la legge tarentilia.

La verità è che i patrizi -forse per paura- non si schierarono con Cesone per il contegno risoluto della plebe e per l'avvicinarsi dell'alleato Mamilio con un esercito di Tuscolani. Assaliti dalle legioni romane ed alleate i fuorusciti si batterono accanitamente, ma dovettero alla fine sgombrare il colle, lasciando numerosi morti e prigionieri. Perirono nella lotta lo stesso Cesone e il console Valerio.
A sostituire il console morto fu chiamato L. QUINZIO CINCINNATO, il quale ordinò, non appena assunto in carica, che tutti i cittadini sotto le armi si radunassero presso il Lago Regillo. Suo proposito era di riunire là (cioé in un luogo dove contro l'autorità dei consoli non poteva ergersi l'autorità dei tribuni - che era limitata solo dentro le mura) i comizi centuriati e far da questi votare la soppressione dei tribuni e l'annullamento della legge sacrata.
Ma il colpo di mano non riuscì e Cincinnato e si ritirò a vita privata in un campo di quattro jugeri, unica proprietà rimastogli dopo il pagamento della cauzione con la quale aveva ottenuto la libertà provvisoria per il figlio. Ma ben presto come vedremo tornerà alla ribalta.

CINCINNATO

Durante gli anni in cui questi fatti si svolsero, Roma dovette sostenere delle accanite guerre contro i popoli vicini.
Secondo la tradizione, nell'anno 295 i Volsci tentarono di assalire Anzio, ma furono sconfitti da un esercito romano capitanato dal console FABIO. Non pare però che le cose siano andate proprio così e quella che gli storici romani decantano come vittoria dovette essere una sconfitta. Risulta difatti che in quell'anno Anzio fu conquistata dai Volsci, che vi distrussero la colonia dei Romani, dei Latini e degli Ernici. In un trattato di pace firmato nel 295 i Romani rinunciarono ad Anzio in favore dei Volsci che la mantennero sotto il loro dominio per molti anni.
In quell'anno medesimo Roma sostenne una guerra contro gli Equi, di cui gli antichi storici hanno alterato, come al solito, l'esito sfavorevole ai Romani.

Secondo questi storici, essendosi gli Equi impadroniti di Tuscolo, il console Fabio piombò di notte sulla città é la sottrasse nuovamente al nemico, costringendolo alla pace. L'anno dopo (296) gli Equi, riprese le armi, invasero il territorio latino, giungendo fino all'Algido. Roma mandò al campo nemico degli ambasciatori, perché chiedessero conto della rottura del trattato; ma GRACCO CLELIO, capo degli Equi, rifiutò di riceverli.

Deciso a vendicare l'affronto, il Senato romano spedì all'Algido il console MINUCIO con un esercito; ma la spedizione ebbe un esito infelice: i Romani subirono una disfatta, furono circondati e a gran fatica il console riuscì ad informare il Senato della critica situazione in cui lui si trovava.
Nell'assemblea dei senatori fu allora deciso di nominare un dittatore e la scelta cadde sopra un guerriero che altre volte aveva fornito prove di valore: L. QUINZIO CINCINNATO.
Si trovava ad arare il suo campo quando la moglie Racilia gli annunziò la visita del messo inviatogli dal Senato. Indossata la toga, Cincinnato ricevette il messo e, dimenticato le passate amarezze, accettò la carica. Il giorno dopo il dittatore fece ritorno a Roma, ordinò che tutti i cittadini idonei alle armi, prima di sera, si radunassero al Campo Marzio con una scorta di viveri per cinque giorni e dodici pali ciascuno e mise a capo della cavalleria L. TARQUIZIO.
Al tramonto l'esercito era pronto a partire e si avviò verso l'Algido, presso cui giunse a metà della notte. Senza far rumore i Romani costruirono durante la notte una palizzata intorno al campo nemico. Gli Equi, all'alba, vistisi stretti tra l'esercito di Minucio e quello del dittatore, si arresero, accettando i patti imposti da Cincinnato. Si obbligarono cioè a restituire la città di Cerbione, a consegnare le armi e a sottomettersi ai romani. GRACCO CLELIO, incatenato, seguì a Roma il vincitore Cincinnato, ma Minucio fu rimosso dalla carica.
Questo il racconto del fatto tramandatoci dagli storici, che senza dubbio è un romanzo inventato per mascherare il risultato sfavorevole della guerra contro gli Equi.
Come più sopra abbiamo detto, durante la dittatura di Cincinnato, Volscio era stato condannato all'esilio e questo provvedimento preso a scopo di vendetta provocò lo sdegno dei tribuni e della plebe, la quale, avendo nel 297 i Sabini invaso il territorio romano, si rifiutò di prender le armi e di combattere contro il nemico e cedette soltanto allorquando il Senato concesse che il numero dei tribuni da cinque fosse portato a dieci.

LE LEGGI ICILIA E TARPEIA (298-300 A, di R. - 456-454 a.C.)

L'anno dopo (298), il tribuno L. ICILIO propose una legge che prese il suo nome, per mezzo della quale alla plebe fu ceduto il possesso dell'Aventino il cui agro pubblico doveva essere distribuito a tutti quei plebei che volessero su quel colle fissare la loro dimora. Era questa una legge vantaggiosa per le plebe, perché tramite questa i plebei riuscivano ad avere un loro quartiere, dove potevano difendersi in caso di lotta con i patrizi.
Nel 299 i tribuni, non contenti dei privilegi strappati al Senato in favore della plebe, chiesero ancora che fosse data esecuzione alla legge agraria di Spurio Cassio. Avvennero allora altre violenze da parte dei giovani patrizi più intemperanti e scoppiarono tumulti nelle file della alla plebe che ottenne di citare in giudizio alcuni membri delle famiglie patrizie dei Clelii, dei Sempronii e dei Postumii. Anche i consoli F. Romilio e C. Veturio furono accusati e processati e i primi furono condannati alla confisca dei beni e all'esilio, i secondi ad un'ammenda di diecimila assi ciascuno.

Ma questi forti contrasti tra patriziato e plebe non poteva durare senza danno dell'uno e dell'altro ceto; fu per queste intollerabilità che nell'anno 300 i consoli SPURIO TARPEJO e AULO ATERNIO presentarono una legge con la quale il potere dei consoli per ciò che riguardava le multe era limitato, fissando multe che andavano da un minimo di un solo capo di piccolo bestiame ad un massimo di trenta capi di grosso bestiame e due di piccolo. Secondo la "legge tarpeja-aternia" le multe dovevano essere applicate gradualmente e il condannato ad una multa superiore alla massima poteva appellarsi al popolo.
Era un gran passo verso la pacificazione e il disarmo degli spiriti. I tribuni, visto il buon volere dei consoli, non insistettero più sulla "legge terentilia" e fra loro e i consoli si stabilì di compilare un codice di leggi comune ai due ceti.

E' il primo DECEMVIRATO di cui parleremo nel prossimo capitolo:

vale a dire il periodo dal 453 al 449 a.C. > > >

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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