43 - 42 a.C.

MARC'ANTONIO - BATTAGLIA DI MODENA - MORTE CICERONE

MARC'ANTONIO - LA BATTAGLIA DI MODENA - IL SECONDO TRIUMVIRATO
OTTAVIANO CONSOLE ENTRA A ROMA - L'UCCISIONE DI CICERONE
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OTTAVIANO

CAIO OTTAVIO era nato in Roma il 23 settembre del 691 (63 a.C.) da padre plebeo di Velletri appartenente all'ordine equestre e da Azia, figlia di Marco Azio Balbo e di Giulia, sorella di Cesare.

All'età di quattro anni, perduto il padre, era stato educato dalla madre e, quando questa era passata in seconde nozze con Lucio Mario Filippo, era stato affidato alle cure della nonna Giulia. Amato teneramente dal dittatore, ormai diciottenne, aveva voluto raggiungerlo nella Spagna per partecipare alle operazioni contro i figli di Pompeo, ma vi era giunto quando i Pompeiani avevano già subita la disfatta alla battaglia di Munda.

Nel 709 (44 a.C. proprio nell'anno in cui viene assassinato Cesare) era stato nominato patrizio dallo zio e, in attesa della spedizione contro i Parti alla quale doveva partecipare, era stato mandato ad Apollonia perché vi studiasse lettere greche sotto Apollodoro di Pergamo.
Si trovava appunto ad Apollonia quando seppe dell'assassinio di Cesare. Partito alla volta dell'Italia, sbarcò a Lecce dove qui apprese che il dittatore lo aveva adottato e costituito erede universale.  Partito da Brindisi non si recò a Roma ma prima a Napoli, dove fece visita a Cicerone per propiziarselo, e dalla città partenopea partì per Roma assumendo il nome di Cajo Giulio Cesare Ottaviano.
Aveva 18 anni, il 23 settembre ne avrebbe compiuti 19.

Non meno ambizioso dello zio, Ottaviano fin dal momento che aveva avuto conoscenza del testamento aveva deliberato d'accettar pienamente l'eredità del dittatore e non solo di raccoglierne i beni ma di succedergli anche nella fortuna politica. Gli occorreva però, anzitutto, pagare i trecento sesterzi ai cittadini poveri e celebrare i giuochi votati da Cesare per la vittoria sui pompeiani.
Ma i denari del defunto erano caduti in mano di Antonio, al quale invano si rivolse il giovane per riaverli. Anziché la restituzione delle somme egli si procurò le inimicizie del console, il quale, vedendo in Ottaviano un competitore, cercò di sbarragli la via e cominciò ad avversarlo tentando d'impedirgli che portasse il nome di Cesare, negandogli i denari presi ed opponendosi alla candidatura di lui perfino al tribunale della plebe.

Ottaviano malgrado i suoi diciotto anni, non si perse d'animo; vendette i beni paterni e con l'aiuto dei suoi amici e dei più fedeli partigiani di Cesare si procurò le somme occorrenti per la celebrazione dei giochi e per il pagamento dei legati ai poveri, acquistandosi le simpatie del popolo e procacciandosi i consensi dei conservatori che in Ottaviano, naturale loro nemico, vedevano un temporaneo e provvidenziale alleato contro Antonio.

Questi col suo contegno ostile all'erede del dittatore era scaduto non poco in seno ai cesariani e per ristabilirsi propose al Senato, il primo di settembre, che si aggiungesse un giorno in onore di Cesare a quelli destinati alle supplicazioni. Ma questo espediente anziché giovargli gli procurò i terribili strali di Cicerone.

Il famoso oratore, mal sopportando le prepotenze di Antonio, si era da tempo allontanato da Roma e, soggiornando nelle varie ville che possedeva, si era applicato soltanto ai suoi studi. Nel luglio, mentre lavorava intorno al De officiis,  aveva deliberato di recarsi in Atene e raggiungere il figlio Marco che ivi attendeva agli studi, ma per ben due volte i venti contrari lo avevano costretto a ritornare a terra.  Saputo dagli amici dei dissidi sorti tra Antonio e Ottaviano, nella speranza che le cose prendessero una piega contraria al primo, si era affrettato a ritornare a Roma, ma sebbene invitato, non intervenne all'assemblea del 1° settembre adducendo come scusa alla stanchezza del viaggio.
Il giorno dopo però si recò in Senato e, assente Antonio, pronunziò contro di lui un'orazione che fu la prima delle quattordici scritte o dette contro l'usurpatore le quali a somiglianza di quelle pronunciate da Demostene contro Filippo furono da lui chiamate Filippiche.

Irritato, Antonio convocò per 19 di quel mese i senatori e si recò all'assemblea seguito da molti suoi partigiani armati. Temendo per la sua vita e dietro consiglio dei suoi amici, Cicerone non intervenne anzi si allontanò da Roma e si recò in una sua villa a Pozzuoli. Antonio, in Senato, parlò  acerbamente contro l'oratore cui addossò la responsabilità morale dell'assassinio di Cesare. A Pozzuoli intanto Cicerone componeva la seconda Filippica,  terribile atto di accusa contro Antonio. Era questa orazione che doveva tirargli addosso l'odio di Antonio il quale non doveva placarsi che dopo la vendetta.

Ai primi di ottobre Antonio lasciò Roma e si recò a Brindisi per ricevere le legioni, Approfittando dell'assenza del rivale, Ottaviano si portò in Campania   e con il prestigio che gli conferiva il nome e per mezzo di paghe vistose (cinquecento dinari per uomo) riuscì a mettere su un esercito di diecimila soldati circa, alla testa dei quali fece ritorno a Roma, dichiarando di voler difendere la repubblica dalle mire liberticide di Antonio; poi si diresse verso Arezzo allo scopo di raccogliere altre truppe in Etruria e d'intavolare trattative con Decimo Bruto il quale, rifiutatosi di lasciare il governo della Cisalpina per quello della Macedonia, anche lui già stava organizzando un esercito contro Antonio.
pareva insomma che le cose si mettessero male contro quest'ultimo. Due delle legioni venute dalla Macedonia, la legione Marzia e la IV, allettate dal soldo pagato da Ottaviano quattro volte superiore a quello dato da Antonio, disertarono in massa e passarono dalla parte del figlio adottivo di Cesare e le altre avrebbero seguito l'esempio se Antonio non avesse elevata la paga delle truppe alla stessa cifra concessa dal rivale alle proprie milizie.

Il 29 novembre fece assegnare al fratello Cajo il governo della Macedonia, poi si incamminò  col suo esercito verso Rimini e iniziò le ostilità contro Decimo Bruto che fu costretto a chiudersi a Modena e vi rimase assediato.
 A Roma intanto i conservatori rialzavano il capo; Cicerone pubblicava la seconda  Filippica  e si dava da fare con la parola e con gli scritti per scuotere gli animi. Il 20 dicembre il Senato veniva riunito e Cicerone pronunziava un'orazione contro Antonio e proponeva che le leggi del console sull'assegnazione delle province fossero annullate.
La proposta fu accolta e si decretò che chi aveva il governo delle province continuasse a rimanere in carica e desse il posto solo a chi fosse designato dal Senato. Inoltre DEcimo Bruto fu dichiarato benemerito della Repubblica per la resistenza che opponeva ad Antonio.

Al principio dell'anno nuovo il consolato passo nelle mani di Aulo Irzio e Vibio Pansa, designati da Cesare a succedere ad Antonio e Dolabella. Sebbene cesariani, i nuovi consoli non approvavano l'opera di Antonio e stavano dalla parte della legalità  che per essi era rappresentata dal Senato. Ad Ottaviano, che arbitrariamente teneva in piedi un esercito, fu conferita l'autorità pretoria e venne concesso il diritto di sedere in Senato e di chiedere il consolato all'età di trentatre anni. Cicerone voleva che Antonio fosse dichiarato nemico della patria, ma il SEnato si limitò a mandare ad Antonio una commissione per invitare a levar l'assedio da Modena, a non ostacolare i nuovi consoli, ripassare il Rubicone e mettere il campo a duecentomila passi da Roma. Anziché obbedire, Antonio chiese che gli si desse per cinque anni il governo della Gallia Transalpina con sei legioni, che fossero ratificate le sue leggi e fosse fatta una distribuzione di terre ai suoi soldati.

Il Senato rifiutò le condizioni, ruppe le trattative, diede ordine ai consoli e ad Ottaviano di ridurre con le armi all'obbedienza Antonio e, dietro consiglio di Cicerone, furono annullate le leggi di Antonio e venne dato l'incarico a Vibio Pansa di fare uno discernimento gli atti autentici di Cesare dagli apocrifi. Ai soldati di Antonio venne promesso il perdono purché abbandonassero l'ex console non più tardi del 15 marzo.

I fautori di Antonio che si trovavano a Roma tentarono di scongiurare la guerra inducendo il Senato a mandare una nuova deputazione, della quale ottennero facesse parte Cicerone. Essi speravano di poter rialzare le sorti di Antonio allontanando dalla metropoli l'oratore e forse cercavano di poterlo far cadere nelle mani dell'implacabile nemico; ma Cicerone declinò l'incarico e, convinto il Senato che la ripresa delle trattative avrebbe dato tempo ad Antonio d'impossessarsi di Modena, ottenne che la commissione non partisse.

LA BATTAGLIA DI MODENA

    La posizione del Senato e dei conservatori pareva abbastanza forte. Nella provincia d'Africa Quinto Cornificio si era schierato dalla parte del Senato, rifiutando di cedere il governo a Caio Calvinio Sabino, creatura di Antonio. Lucio Munazio Planco e Asinio Pollione, cesariani, che avevano il governo della Transalpina e della Spagna Citeriore, s'erano mesi anch'essi dalla parte del Senato e a Massilia s'era ridotto Sesto Pompeo col quale pendevano trattative. In Oriente, Marco Bruto s'era impadronito della Macedonia, raccogliendo i resti dell'esercito destinato contro i Parti e facendosi consegnare da Quinto Ortensio le milizie. Anche le truppe dell'Illiria gli erano state consegnate dal governatore di quella regione e Cajo Antonio, abbandonato ad Apollonia dalle sue coorti, s'era arreso: il Senato, lieto di questi avvenimenti, aveva assegnato il governo della Macedonia, dell'Illiria e della Grecia a Bruto, il quale aveva raccolto considerevole materiale bellico, s'era guadagnato il titolo di imperatore per una spedizione contro i barbari del nord e aveva coniato monete con la propria effige e la data dell'uccisione di Cesare. In Asia, Dolabella s'era impadronito della provincia di questo nome occupando Smirne di sorpresa e facendo trucidare il governatore Cajo Tribonio, per la qual cosa il Senato lo aveva dichiarato nemico della patria; ma Cassio, con l'aiuto di Lucio Staio Murco e di Quinto Masio Crispo, governatori della Siria e della Bitinia era venuto in possesso di queste regioni e di quattro legioni che Aulo Allieno, legato di Dolabella, conduceva dall'Egitto.

In Italia sebbene molti Municipi si fossero schierati in favore del Senato, la posizione dei conservatori non era molto forte. Le casse della repubblica erano state vuotate da Antonio e le truppe di cui i due consoli disponevano ed Ottaviano non erano così numerose ed agguerrite da poter facilmente avere il sopravvento su Antonio.

Questi occupava con le sue milizie Reggio e Bononia e teneva stretto Decimo Bruto a Modena. Fra le sue truppe era la V Legione, famosa per valore; altre due ne aspettava dal pretore P. Ventidio Basso che dal Sud avanzava verso la via Emilia per congiungersi con l'ex console.

Se questa congiunzione fosse avvenuta la posizione di Antonio si sarebbe fatta fortissima. Le truppe avversarie erano comandate da Ottaviano, che disponeva di due legioni di veterani e da Aulo Irzio che aveva la Legione Marzia e la IV, ribellatasi ad Antonio; Vibio PANSA, che faceva leve, non era ancora entrato in campo.
Per impedire che Ventidio si congiungesse ad Antonio, Ottaviano s'accampò nelle vicinanze del Foro Cornelio (Imola) e Aulo Irzio assalì Claterna e dopo breve lotta se ne impadronì, costringendo Antonio a lasciare Bonomia e Ventidio ad andare nel Piceno.
Malgrado il favorevole  inizio delle operazioni, Irzio ed Ottaviano non osavano impegnarsi con Antonio in una battaglia decisiva ed aspettavano i soccorsi di Vibio Pansa. Questi partì da Roma con quattro legioni sulla fine di marzo. Avuta notizia del suo arrivo, Aulo Irzio gli mandò incontro la Legione Marzia.

Antonio, informato, delle mosse del nemico, ritenne di averne ragione con un attacco a sorpresa. Con due legioni e parte della cavalleria si pose in agguato a Foro dei galli (Castelfranco) per cui doveva passare l'esercito di Vibio Pansa. Mentre egli assaliva queste truppe, il fratello Lucio doveva dar battaglia ad Irzio e Ottaviano per impedire ad essi di accorrere in soccorso di Pansa.

Il 15 aprile ebbe luogo la battaglia. Vibio avrebbe preferito, data la situazione sfavorevole in cui si trovava, di non impegnarsi in campo aperto, ma la Legione Marzia mostrò molta voglia di battersi e il console allora, lasciate due legioni nell'accampamento con le altre due si unì alla Marzia e marciò contro Antonio. 
La lotta, ingaggiata con ardore da ambo le parti, ben presto cominciò a prendere piega favorevole per le milizie antoniane e poiché la loro cavalleria minacciava di aggirare il nemico, Pansa fu costretto a ripiegare verso gli accampamenti, dinanzi ai quali la battaglia si riaccese più furiosa. Le truppe consolari ebbero la peggio e Vibio, ferito gravemente, venne trasportato a Bononia, dove poco tempo dopo moriva.
 A soccorrere il collega, mentre Ottaviano teneva testa a Lucio, mosse Aulo Irzio con due legioni, le quali, assalito Marc'Antonio, gli inflissero una sanguinosa sconfitta e gli tolsero sessanta insegne e due aquile.

Ma questa non fu una vittoria decisiva, né valse a liberare Decimo Bruto dall'assedio. Antonio, aspettando di aver per fame Modena e di essere rinforzato dal pretore Ventidio Basso, si teneva sulla difensiva, limitandosi a tormentare il nemico con quotidiane azioni di cavalleria.

Però Irzio, valoroso capitano cresciuto alla scuola di Cesare, riuscì a trarre fuori dal campo l'esercito di Antonio, che il 27 di aprile venne a battaglia con le truppe del console e di Ottaviano e, avuta la peggio, cercò riparo entro le difese del campo. Ma queste non furono sufficienti a trattenere l'impeto dei vincitori. Negli alloggiamenti si combatte furiosamente e fu merito della V Legione se la rotta degli antoniani non ebbe proporzioni maggiori. Essa infatti infranse l'urto della Legione Marzia e l'annientò uccidendo Aulo Irzio presso la tenda di Antonio e costringendo il nemico ad abbandonare il campo.
 Però, malgrado questo successo, la giornata aveva segnato una sconfitta per Antonio, il quale, per le forti perdite ricevute, il giorno dopo ritenne più opportuno levare l'assedio.

Valicati gli Appennini, Antonio penetrò in Etruria e con gli schiavi degli ergastoli accrebbe il numero delle sue truppe; poi si mise in marcia alla volta della Liguria col proposito di andare nella Provincia Narbonese ed unirsi con Emilio Lepido.
 A Vado Ligure fu raggiunto dal pretore Ventidio Basso che gli recava tre legioni. Lieto di questo soccorso, che veniva a rialzare il morale depresso delle sue truppe dopo la disfatta di Modena e gli forniva un nerbo rispettabile di milizie, mosse alla volta delle Alpi occidentali.

Di aver lasciato fuggire Antonio venne più tardi accusato Ottaviano che si sarebbe rifiutato d'inseguirlo in Etruria. Ottaviano fu anche accusato di avere ucciso Irzio; ma non possiamo prestar fede ad Aquilio Nigro, libellista nemico di Ottaviano, che è l'autore di questa affermazione nè ha finora trovata conferma la voce, che di lì a poco si sparse a Roma - giunta a noi per messo di Svetonio- intorno alla morte di Pansa, la cui ferita, per mandato di Ottaviano sarebbe stata avvelenata dal medico Glicone. Noi pensiamo che Antonio riuscì a scampare per le titubanza di Decimo Bruto che soltanto dopo due giorni dalla sua liberazione si decise a partire da Modena e si avviò verso le Alpi per tagliare la via ad Antonio. E forse ci sarebbe riuscito se non fosse stato tratto in inganno dall'astuto nemico. Questi infatti, saputo che Decimo Bruto si trovava a Dertona (Tortona), fece spargere la voce che le sue milizie non volevano passare le Apli e reclamavano di essere condette a Pollenza. Decimo prestò fede a queste dicerie e si affrettò ad occupare Pollenza.
Anotnio, invece lasciato indietro Ventidio, passo le Alpi ed, entrato nella Provincia Narbonese, s'accampò sul fiume Argenteus (Argens) dove più tardi veniva raggiunto dalle tre legioni del pretore.

OTTAVIANO CONSOLE - FINE DI DECIMO BRUTO

Il 21 Aprile giunse a Roma la notizia della sconfitta di Antonio a Foro dei Galli e pochi giorni dopo quella della liberazione di Modena e della fuga dell'ex console.

Grandi dimostrazioni di gioia ebbero luogo nella metropoli; Cicerone propose in Senato con la quattordicesima Filippica che si dessero premi in denaro alle truppe e si ringraziassero per cinquanta giorni gli dei e il popolo andò alla casa dell'oratore e lo condusse, acclamandolo, in Campidogio. Ai due consoli furono fatti splendidi funerali a spese dello stato. Antonio venne dichiarato nemico della repubblica insieme con tutti i suoi partigiani, a Decimo Bruto, a Cassio si concesse il governo della Siria e, in via straordinaria, delle altre province asiatiche per combattere contro Dolabella, e a Sesto Pompeo fu conferito il comando della flotta e decretata la restituzione dei beni paterni confiscati.

A Roma i conservatori gioiscono, credendo Antonio disfatto definitivamente. Le sorti di Antonio invece si rialzavano. Emilio Lepido il 29 maggio si univa con lui a Foro Giulio (Frejus) e si giustificava col  Senato scrivendo di avere ubbidito alla volontà delle sue milizie. Munazio Planco, che era passato sulla sinistra dell'Isara, ritornava nella sua provincia e chiedeva al Senato soccorsi. E intanto Decimo Bruto, che da Pollenza si era portato ad Eporedia, reclamava da Roma truppe e denaro e solo dopo lungo tentennare passava le Alpi e si univa con Planco. Ma era già tardi per tentare un'azione contro Antonio e Lepido cui sul finire dell'estate si univa Asinio Pollione.

Le notizie di questi avvenimenti produssero enorme impressione nei conservatori, che credevano finita la guerra e invece si vedevano minacciati da un'altra guerra più grave della prima. Il Senato dichiarò nemici Lepido e Pollione, dando loro tempo di ravvedersi fino al primo settembre e cercò ricorrere ai ripari chiamando Sesto Pompeo, Marco Bruto, Cassio e Cornificio in Italia. Ma ci voleva del tempo prima che le milizie di costoro accorressero a salvar le sorti della loro parte che di giorno in giorno si facevano più critiche.

Aggrava maggiormente la situazione dei conservatori il contegno di Ottaviano. Questi era scontento del Senato. A Decimo Bruto era stato decretato il trionfo per una vittoria della quale non era stato l'artefice e a lui invece si era deciso di dare l'ovazione; ai soldati di Decimo erano stati accordati premi in denaro e ai suoi soldati invece non era stato concesso nulla. Nè questi soltanto erano i motivi per i quali Ottaviano non poteva lodarsi del Senato, il quale si era valso dell'opera di lui quando gli premeva di disfarsi di Antonio, ma aveva guardato a lui sempre con diffidenza e a più riprese aveva voluto sminuirne le forze, prima ordinandogli di cedere a Irzio due legioni, poi ingiungendogli di consegnare le milizie di Vibio Pansa a Decimo Bruto e infine comandandogli di dare allo stesso Bruto la Legione Marzia e la V.

Questi motivi giustificavano a sufficienza il malcontento di Ottaviano; ma ve n'erano altri e più gravi che dovevano portare ad una rottura dei rapporti tra l'erede di Cesare e i Senato.

La loro alleanza, consigliata dall'interesse reciproco di fiaccare la potenza di Antonio, non aveva più ragione di essere mantenuta. I veri interessi di Ottaviano contrastavano con quelli dei conservatori. I nemici del padre non potevano essere gli amici del figlio né la politica del Senato poteva accordarsi con quella che il giovane erede del defunto dittatore intendeva seguire.

Ottaviano sapeva che dal Senato aveva tutto da temere; sapeva benissimo che Cicerone, parlando di lui, aveva detto che era giusto, sì, lodarlo ed onorarlo, ma che era anche necessario disfarsene, e non poteva non ricordare le parole di Vibio Pansa che, moribondo a Bononia, gli aveva dato il consiglio di riconciliarsi con Antonio.
L'alleanza con quest'ultimo era senza dubbio meno ibrida di quella dei conservatori, ma non poteva, data l'avidità e l'ambizione di Antonio, essere duratura. Fiaccato il comune nemico i dissidi tra i due cesariani sarebbero risorti e ciascuno avrebbe cercato di scalzare l'altro.

Ottaviano pensò in un primo tempo che i meglio per lui era di far senza di Marc'Antonio e di rendersi padrone della situazione.

Il momento era per lui favorevolissimo: i conservatori erano senza capo, i capi della congiura erano lontani dall'Italia, i due consoli erano morti, il Senato era disorientato dagli avvenimenti e disponeva di poche truppe, nemici pericolosi erano appena di là delle Alpi. Ottaviano intanto godeva le simpatie della plebe romana, aveva con sé un esercito agguerrito di veterani, scontenti anch'essi del Senato , ed aveva anche il prestigio del nome. Volle approfittarne del momento opportuno e dalla Gallia Cisalpina dove si trovava, scrisse al Senato che gli fosse accordata la facoltà di presentare la candidatura al consolato.
Ottaviano non aveva i requisiti prescritti dalla legge: non era stato cioè pretore e non aveva l'età richiesta. Le leggi però erano state violate altre volte anche  in favore di Ottaviano al quale l'età per accedere al consolato era stata abbreviata di dieci anni. Si poteva quindi fare uno strappo alle leggi. Ma il Senato, che non nutriva tenerezze per l'erede di Cesare, rifiutò.

Ottaviano allora mandò a Roma una deputazione di quattrocento centurioni che chiesero per il loro duce, a nome dell'esercito, e per i soldati i denari promessi; ma il Senato rifiutò ancora, sperando che presto giungessero gli aiuti richiesti ai governatori delle province, e i centurioni se ne tornarono a Bobonia minacciando rappresaglie.

MARC'ANTONIO MARCIA SU ROMA

Queste non si fecero aspettare. Seguendo l'esempio di Cesare, Ottaviano, alla testa di otto legioni, lasciò la Cisalpina e marciò verso Roma.
La notizia sgomentò i senatori, i quali mandarono dei messi all'esercito che si avvicinava promettendo di pagare i premi; ma le legioni non si piegarono, né si fermarono.
Il Senato avrebbe fatto qualsiasi concessione ad Ottaviano se non avesse saputo che due legioni spedite da Cornificio erano sbarcate ad Ostia. Quest'aiuto lo decise alla resistenza. I pretori ebbero l'incarico di difendere la città con la legione che Vibio Pansa aveva lasciata a Roma prima di partire per la Cisalpina e con le due giunte dall'Africa; fu presidiato fortemente il Gianicolo e vi si trasportò il tesoro pubblico.

Ottaviano però entrò in città  senza trovare resistenza, dalla parte del Quirinale: al suo arrivo le due legioni d'Africa, composte di veterani di Cesare, si unirono a lui, lo stesso fece la terza e il pretore urbano M. Cornuto si uccise.

Divenuto padrone della città, Ottaviano si impossessò del denaro dello stato, diede ad ogni soldato la somma di diecimila sesterzi, pagò ai centocinquantamila cittadini poveri le somme promesse per testamento da Cesare, poi ordinò che si convocassero i comizi consolari e, per lasciar libera la volontà del popolo, uscì da Roma. Il pretore urbano Q. Gallio nominò due commissari con potestà consolare e questi presiedettero i comizi, che il 19 agosto del 711 (42 a.C.) elessero consoli Ottaviano e Quinto Pedio, parente ed erede di Cesare.

Appena entrato in carica, Ottaviano fece ratificare dai comizi curiali la sua adozione e dal collega Pedio fece proporre una legge per mezzo della quale si ordinasse un processo contro gli assassini di Cesare. La legge venne approvata e il processo esteso ai partigiani dei congiurati, fra i quali si incluse anche Sesto Pompeo.

Gli accusati, naturalmente, non comparvero in giudizio. I giudici -eccetto il senatore Silicio Corona-, che votò in favore di Bruto e Cassio- condannarono tutti all'esilio ed alla confisca dei beni, parte dei quali fu data agli accusatori, che in premio, coi figli e i nipoti, furono esonerati dal servizio militare. Dopo la condanna il governo delle province e le magistrature vennero dati ai cesariani; fu dato ordine alle legioni di Decimo Bruto di abbandonare il loro capo colpito dalla sentenza e si tolse il bando a Dolabella. Ma questi, assediato da Cassio in Laodicea, si era già ucciso a giugno.
La notizia degli avvenimenti di Roma si sparse rapidamente in Italia e, varcate le Alpi, giunse fino a Munazio Planco. Questi, fin allora era rimasto titubante. Si era unito a Decimo Bruto ma si manteneva in segreti rapporti con Lepido ed Antonio. Saputa la condanna di Decimo, abbandonò le parti del Senato. Con la sua defezione si indeboliva la speranza nella riscossa che il partito conservatore nutriva ancora.

IL SECONDO TRIUMVIRATO

Il Senato faceva buon viso a cattiva sorte e si mostrava ligio ai voleri di Ottaviano, ma in segreto sperava di trarre partito dal dissidio tra l'erede di Cesare e Antonio. Le sue maggiori speranze erano riposte in Cassio e in Marco Bruto.
Questi costituivano un serio pericolo per Ottaviano. Essi disponevano di forze considereboli e una lotta contro i due congiurati presentava delle incognite delle quali Ottaviano non poteva non tenere conto. L'alleanza con Antonio e Lepido no era la soluzione che lui desiderava, ma si rendeva necessaria per il trionfo dei cesariani.

Presa la risoluzione di venire ad un accordo con Lepido ed Antonio, lasciò a Roma Q.Pedio, che dietro incarico del collega propose al Senato ed ottenne la revoca del bando contro i due proscritti, e nella prima metà di settembre partì con le sue legioni di veterani per la Gallia Cisalpina.
Da questa parte non c'era più da temere di Decimo Bruto. Vistosi abbandonato da Planco, egli aveva pensato di raggiungere Marco Bruto in Macedonia passando per l'Illiria; ma parte delle sue legioni lo avevano lasciato e si erano date a Ottaviano.
Temendo che questi gli attraversasse la via, aveva cambiato itinerario dirigendosi verso il Reno. Durante il cammino il resto delle sue milizie era andato a raggiungere Antonio. Rimasto con una schiera di cavalieri Galli si era dato alla fuga e per aver maggior probabilità di scampo si era travestito da Gallo, ma presso Aquileia era caduto nelle mani di un principe, un certo Camalos, che lo uccise e mandò la testa ad Antonio.
Mentre Ottaviano giungeva a Bononia, Lepido ed Antonio scendevano per la via Emilia.
In una piccola isola in mezzo al Reno ebbe luogo fra i tre il convegno che durò due giorni e portò ad un accordo che sopprimeva interamente la libertà repubblicana.

Ottaviano si impegnava di cedere per l'ultimo trimestre dell'anno il consolato a P. Ventidio Basso; tutti e tre assumevano il titolo di tresviri,  riservandosi di farsi conferire per mezzo di una legge la facoltà di governare per un quinquennio, allo scopo di ricostituire la repubblica, e di nominare i magistrati e i governatori delle province.

Durante i cinque anni del loro governo essi non dovevano dipendere né dal Senato né dal popolo. Perq uesto periodo di tempo Ottaviano doveva governare l'Africa, la Numidia, la Sicilia e la Sardegna, Antonio la Cisalpina e la Transalpina, Lepido la Provincia Narbonese e la Spagna Citeriore e Ulteriore. 
Rimanevano indivise le province d'Oriente. Lepido nel 712 avrebbe avuto il consolato e, lasciati nelle due Gallie legati suoi, sarebbe rimasto in Italia con tre legioni. Il resto delle truppe doveva servire ad Ottaviano ed Antonio per combattere contro Bruto e Cassio. Ai soldati che componevano le quarantatre legioni comandate dai triumviri dovevano essere distribuite le terre di diciotto città italiane fra cui erano Arimino, Capua, Reggio, Benevento, Venusia, Nuceria e Vibone e inoltre a ciascuno d'essi si dovevano dare cinquemila dramme.
Per trovare il denaro occorrente alla paga delle milizie e alla guerra contro Bruto e Cassio, i tre stabilirono di adottare il sistema delle proscrizioni e della confisca dei beni. Le liste dovevano essere compilate senza tener conto delle parentele e delle amicizie. Questo sistema risolveva il problema economico e dava modo ai tre triumviri di sfogare gli odi personali e di sbarazzarsi dei nemici politici.

Concluso l'accordo, i triumviri ne diedero comunicazione ai soldati, che accolsero la notizia con applausi e vollero che, per rendere più duratura la pace tra Marc'Antonio ed Ottaviano, quest'ultimo promettesse di sposare Clodia, figliastra del primo.

OTTAVIANO, ANTONIO e LEPIDO , a distanza di un giorno l'uno dall'altro, entrarono in Roma, ciascuno alla testa di una legione e della sua coorte pretoria ed occuparono i punti strategici della città.

Secondo quanto era stato stabilito nel convegno, il Tribuno P. TIZIO presentò una legge, che conferiva ai triumviri il governo della repubblica dal 27 novembre del 711 (42 a.C.) al 1° gennaio del 717 (37 a.C.)e, appena essa venne approvata, i tresviri entrarono in carica.
La città sapeva che ogni libertà era finita ed era sicura che gli orrori di Silla si sarebbero rinnovati. Prima che i triumviri entrassero a Roma, avevano fatto pervenire al console Pedio un breve elenco di nomi di senatori che dovevano essere uccisi e alcuni di essi erano stati messi a morte. Queste esecuzioni avevano provocato un tumulto, sedato a stento dal console, il quale, per la fatica sopportata, morì d'infarto.
Ma, penetrati i triumviri con le loro truppe, le agitazioni non si rinnovarono ma il terrore invase la cittadinanza.

Nella notte che seguì il 27 novembre fu pubblicata la prima lista di proscrizione in cui figuravano i nomi di centotrenta senatori. Un'altra con centocinquanta nomi seguì alla prima ed altre furono pubblicate dopo. Circa trecento furono i senatori e di oltre duemila i cavalieri proscritti. Un editto spiegava che le proscrizioni intendevano colpire i nemici di Cesare e dei triumviri e prometteva a chiunque avesse portata la testa d'un proscritto la somma di venticinquemila dinari se era un uomo libero, la cittadinanza e la libertà e diecimila dinari se era uno schiavo. Aprivano la prima lista i nomi dei fratelli di Lepido, di uno zio di Antonio e del fratello di Planco. Una taglia vistosa, centomila sesterzi, fu messa sulla testa di Sesto Pompeo; questi, in risposta, ne promise duecentomila a chi avesse salvato la vita di un proscritto. I ricchi premi furono fatali ai proscritti e mostrarono a qual punto fosse arrivata la corruzione dei costumi. Moltissimi furono gli schiavi che tradirono i loro padroni pur di guadagnare il premio; non poche mogli tradirono i mariti e ragguardevole fu il numero dei figli che consegnarono la testa del padre. Vi furono però degli esempi nobilissimi di amore e di devozione, fra i quali rimase famoso quello offerto da Turia, moglie di Quinto Lucrezio Vespillone che, fatto nascondere il marito, ottenne da Ottaviano che fosse graziato e sopportò con virile fermezza i supplizi cui per ordine di Lepico fu sottoposta.
Non tutti i proscritti però vennero presi e uccisi; non pochi riuscirono a fuggire, aiutati specialmente dalle navi di Sesto Pompeo, e ripararono in Africa, in Asia e in Macedonia presso Cornificio, Cassio e Bruto.
Fra coloro che non riuscirono a trovare scampo fu CICERONE.

L'UCCISIONE DI CICERONE

Il suo nome era incluso nella lista inviata a Pedio, ma l'oratore non era stato trovato. Fuggito da Roma all'annunzio che i triumviri si apprestavano ad entrare in città, si era recato nella sua villa di Tuscolo. Non sentendosi sicuro se ne andò alla villa di Astura, in riva al mare, con l'intenzione di imbarcarsi e cercare rifugio in Macedonia presso Bruto. Impedito dal mare tempestoso, o, come si crede, avendo dimenticato l'occorrente per il viaggio, rimase ad Astra e rimandò il fratello Quinto e il nipote a Tuscolo. Vi giunsero poco dopo i sicari di Antonio. Quinti si nascose, ma non potendo tollerare che il figlio sopportasse oltre le torture a cui lo avevano sottoposto perché rivelasse il rifugio del padre, scì dal nascondiglio e, insieme col giovinetto, venne trucidato. Cicerone, avendo aspettato invano il ritorno del fratello, decise di tornare a Roma, affermando di voler morire nella sua patria che tante volte aveva salvata; ma giunto a Circeio mutò idea e si diresse alla sua villa di Formia (Mola di Gaeta); ma qui arrivato, i servi lo scongiurarono di partire e, fatto salire in una lettiga, lo scortarono verso il mare. Si sarebbe salvato, se un liberto, di nome Filologo, non avesse indicata la via presa dall'oratore ai sicari di Antonio che gli stavano dando la caccia. Fra questi c'erano il centurione Erennio e il tribuno Popilio che Cicerone aveva difesi in un processo. Raggiunto dagli sgherri del suo implacabile nemico, Cicerone proibì ai suoi servi, che volevano difenderlo, di fare uso delle armi, fece fermare la lettiga, e portando al mento, com'era solito fare, la mano sinistra, guardò in viso i sicari come per invitarli a colpire; poi sporse la testa e offrì il collo a Erennio che tagliò la gola del vecchio oratore.

Così, a sessantaquattro anni, il 7 dicembre del 43 a.C., morì sotto il ferro della tirannide l'uomo che, dopo la gloria, aveva amata più di ogni altra cosa la libertà.  Era vissuto, come abbiamo visto, in un periodo tempestoso della storia di Roma. Temperamento di studioso, pieno di vivissimo ingegno, uomo politico accorto ed ambizioso, egli si era illuso di raggiungere nella politica di Roma quel primato che si era acquistato nel foro. Ma non aveva le qualità dell'uomo di stato né quelle di capo di una fazione e in tempi normali sarebbe stato un ottimo uomo di governo. Gli mancò la tempra del dominatore, quel coraggio che inchioda il lottatore sulle sue posizioni conquistate, quella volontà che spinge il combattente verso le posizioni perdute. Impavido di faccia ad un nemico debole, non seppe mai dar prova di fermezza d'animo di fronte ad avversari potenti o davanti al pericolo. Osò difendere Roscio Amerino nel tempo delle persecuzioni sillane, ma non ardì di assalire Silla, accusò Verre perchè sapeva di essere sostenuto dalla democrazia risorgente, tuonò contro Catilina perchè spalleggiato dai senatori, dai cavalieri e dalle forze della repubblica, ma nel foro, al cospetto del contegno minaccioso dei clodiani, non seppe difendere Milone e in assenza di Antonio pronunziò sempre le sue Filippiche. Anche la  fermezza del carattere gli fece difetto. In politica non di rado fu abile, mai ebbe la vista lunga e con la sua eloquenza aiutò i disegni ambiziosi di Cesare e Pompeo senza accorgersi che affrettava la caduta delle libertà repubblicane. Ma se non lievi furono i suoi difetti, non poche furono le sue virtù. Cicerone seppe, in tempi di grande corruzione, mantenere incorrotta la sua anima; fu ambizioso ,ma onesto, onesto nella vita privata e nella pubblica, onesto anche nei suoi errori che non furono mai consigliati da egoismo e da mal'animo. E fu soprattutto un grande  patriota. La patria fu sempre in cima ai suoi pensieri, la grandezza di Roma fu il primo dei suoi ideali, l'amore per la patria fu il suo più grande affetto e la causa delle sue sventure.

La testa di Cicerone fu da Erennio recata ad Antonio per ordine del quale fu appesa ai rostri del Foro, muti testimoni dell'eloquenza insuperabile del massimo oratore romano; ma, prima -secondo la tradizione-  sulle sue spoglie si sarebbe accanita crudelmente Fulvia, già moglie di Clodio Pulcro (il demagogo aspramente criticato da Cicerone durante il processo milioniano del 52 a.C.) ed ora moglie di Marc'Antonio. La lingua che aveva tante volte tuonato al cospetto delle folle, subì gli insulti più atroci di una donna che niente aveva di femminile eccetto il corpo: Fulvia volle punirla ferocemente delle invettive che aveva scagliate contro il marito e ripetutamente la trafisse con un ago crinale.


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Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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