ANNI 14 d.C. - 37 d. C.

IL PRINCIPATO DI TIBERIO  dal 14 al 37  d.C.

(Qui Prima Parte ) * LA SUCCESSIONE DI AUGUSTO - * ELEZIONE DI TIBERIO
LE SPEDIZIONI IMPRESE DI GERMANICO - 
TRIONFO DI GERMANICO - LA FINE DI GERMANICO IN ORIENTE
(Versione di Svetonio - in fondo Versione di Tacito)
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 (Nella Seconda Parte) IL GOVERNO DI TIBERIO - ELIO SAIANO - TIBERIO A CAPRI - MORTE DI SEIANO 
LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA MORTE DI TIBERIO

LA SUCCESSIONE DI AUGUSTO


Alla morte di Augusto nessuno pensò minimamente di ripristinare il governo repubblicano. La Repubblica con l'avvento di Ottaviano, fin dal 27 quando gli erano stati dati pieni poteri, era morta per sempre, e il Principato ormai aveva posto salde radici.
Nè vi fu alcuno che non pensasse a Tiberio come successore di Augusto. Anche se Tiberio aveva non pochi nemici a Roma e nei vari ambienti militari nelle province.
Infatti come vedremo più avanti, appena eletto, fra le truppe stanziate ai confini ebbero luogo gravissime sedizioni che misero in serio pericolo il suo principato.
Inoltre Tiberio - prima dell'assemblea che gli avrebbe conferita la nomina- temeva che la successione fosse data ad Agrippa Postumo, che viveva relegato (punizione data da Augusto al prepotente nipote) a Pianosa, e non poteva non pensare a sbarazzarsi del rivale, facendolo uccidere. Ma secondo quanto scrive SVETONIO:

 "...Lo uccise un tribuno militare che custodiva Agrippa dopo aver lette certe lettere che gli ordinavano di fare ciò. E' dubbio se queste lettere siano state veramente lasciate da Augusto in punto di morte, affinchè, dopo di lui, non ci fosse materia di discordie, o se le abbia dettate Livia in nome di Augusto e, in tal caso, se Tiberio fosse o no consapevole della frode. Quando il tribuno scrisse a Tiberio di avere eseguito gli ordini da lui ricevuti, Tiberio disse di non avergli ordinato nulla e aggiunse che il tribuno avrebbe reso conto al Senato del suo operato. Ma forse disse questo per evitare l'indignazione del pubblico, e subito dopo mise la cosa a tacere" (Svetonio).

 Comunque libero da Agrippa, e temendo altri eventuali cospiratori, Tiberio assunse il comando delle guardie del palazzo e delle coorti, poi, per far mostra di volere agire secondo le leggi, valendosi della sua qualità di tribuno radunò il Senato; ma in questa prima assemblea, Tiberio, abilissimo commediante, non parlò di successione e si limito a leggere il testamento di Augusto e un discorso d'occasione la cui lettura finse di non poter condurre a termine per la commozione che lo attanagliava.

In una seconda assemblea, dovendosi procedere alla sua elezione come successore di Augusto, fece un'altra commedia: (come aveva fatto Ottaviano a suo tempo) e si lasciò tanto pregare dagli amici e dall'insistenza dei senatori, prima di accettare, "che era -disse- quella di Imperatore una incombenza gravosa, e quasi lagnandosi della carica che gli veniva imposta, la accettò, ma aggiunse che era un incarico duro e che l'Impero era una cattiva bestia".

Tiberio alla sua nomina aveva 56 anni. Alla notizia della morte di Augusto e alla successiva notizia dell'elezione di Tiberio, fra le truppe stanziate ai confini dell'impero ebbero luogo delle gravissime sedizioni che misero in serio pericolo il suo principato.
Alla morte di Augusto le venticinque legioni erano così distribuite: 8 al Reno, 3 nella Spagna, 4 in Oriente, 2 in Egitto, 1 in Africa, 4 nella Mesia e nell'Illiria e 3 nella Pannonia. Queste ultime (l'VIII la IX e la XV) erano comandate da Giunio Bleso; le otto del Reno erano divise in due eserciti, di cui uno stanziato nella Germania superiore al comando del legato Cajo Silio, l'altro nella Germania inferiore sotto Aulo Cecina. L'uno e l'altro esercito però erano sotto il comando generale di Germanico, figlio di Druso.

Tra le milizie stanziate ai confini settentrionali dell'Impero non poche erano le ragioni di malcontento. Alcune di queste erano comuni a tutte le soldatesche: la lunghezza del servizio militare, il servizio di distaccamento che veniva imposto anche dopo il congedo, il premio di congedamento che non veniva pagato puntualmente e spesso consisteva in terreni incoltivabili. Altri motivi di malcontento erano propri delle legioni del Reno e della Pannonia: qui i soldati trovavano grandi difficoltà nel provvedere al vitto, al vestiario e all'attendamento e il loro servizio era più faticoso e pericoloso che altrove. Aggiungasi che alcune delle legioni della Pannonia e della Germania inferiore erano composte di proletari, reclutati a forza da Augusto e in gran parte a Roma dopo la disfatta di Varo. Non avvezzi alle fatiche e non animati da forte sentimento di disciplina, questi legionari si lagnavano, oltre che delle condizioni su esposte, del trattamento che loro veniva fatto, inferiore di gran lunga a quello che godevano i pretoriani, i quali, pure stando nelle vicinanze di Roma, avevano un soldo triplo, una ferma minore e un maggior premio di congedamento.


Se fra le truppe degli altri confini dell'Impero la notizia della successione di Tiberio fu accolta con grida di gioia, tra le milizie del Reno e della Pannonia provocò un grave ammutinamento: Si rifiutarono di giurare fedeltà al nuovo principe e chiesero che fossero migliorate le loro condizioni, col ridurre la ferma, con l'aumento del soldo e con il pagamento in contanti all'atto del congedo.

Nella Pannonia Giunio Bleso cercò di ridurre le truppe all'obbedienza imprigionando i più scalmanati, ma il provvedimento sortì l'effetto opposto perché - solidali con gli arrestati-  la ribellione si estese, liberarono dalle prigioni i compagni che avevano avuto il coraggio di parlare a nome di tutti, negli incidenti uccisero alcuni centurioni e cacciarono i tribuni militari.

A reprimere la rivolta delle milizie pannoniche Tiberio mandò suo figlio Druso con due compagnie di pretoriani. Giunto al campo e informato da un centurione dei desideri delle truppe, DRuso rispose che non aveva la facoltà di decidere e mandò una commissione al padre, cercando nel medesimo tempo di tenere a bada i rivoltosi con lusinghe e promesse. Ma queste furono vane, anzi riempirono di sdegno i legionari che lo insultarono e lo minacciarono. Druso avrebbe certamente corso pericolo di vita se non fosse stato aiutato dal caso. la notte del 26 settembre di quell'anno (14 d.C.) ebbe luogo un'eclisse di Luna che produsse un grave sgomento nei legionari, ignoranti e superstiziosi. Tiberio ne approfittò ed aiutato da certe discordie che erano sorte in seno alle truppe, riuscì a ridurle all'obbedienza e, messi a morte i caporioni della rivolta, gli altri condurli ai quartieri d'inverno.

Ma molto più grave fu la sedizione militare in Germania. I primi ad ammutinarsi furono i soldati della XXI legione di stanza sull'alto Reno. Con essi fecero ben presto causa comune le altri legioni dell'esercito comandato da Aulo Cecina, al quale riuscì vano ogni tentativo di sedare la sommossa. Germanico si trovava allora a Lugdunum occupato nelle operazioni di censimento delle Gallie. Essendogli giunto la notizia dell'ammutinamento, si portò in fretta sul luogo della rivolta e poiché godeva la stima e l'affetto dei soldati, sperava di ricondurli all'obbedienza con l'autorità della sua presenza e della sua parola. Radunate le truppe e ascoltate le loro lagnanze, Germanico ricordò loro le vittorie passate ed aspramente li rimproverò per la rotta disciplina. 
Le sue parole invece di calmare gli animi delle milizie, provocarono ulteriori proteste, che si fecero sempre più tumultuose. I soldati chiedevano le solite cose, aumento di paga, diminuzione della ferma e congedi e improvvisamente si misero a gridare di volere come imperatore Germanico al posto di Tiberio.

Poteva rimanere lusingato Germanico da queste ovazioni, invece ne rimase inorridito. E se già prima i soldati lo stimavano, quello che accadde dopo lasciò tutti i presenti molto turbati; soprattutto quando fecero alcune riflessioni, aumentando così quella stima e affetto che fecero poi - e per molti decenni- di Germanico il condottiero più leale e amato delle legioni.
Mentre arringava le truppe, al grido di "Germanico imperatore" , fu sdegnato, e fece l'atto di allontanarsi, ma i soldati con le armi in pugno gli sbarrarono il passo; allora Germanico, gridando che voleva mantenersi fedele all'imperatore, sguainò la spada e se la puntò al petto e si sarebbe certamente ucciso se alcuni ufficiali non gli avessero strappata l'arma di mano e non l'avessero trascinato a forza nella sua tenda.

Animo nobile e natura leale, al solo pensiero di essere creduto traditore del padre adottivo, Germanico preferiva morire così piuttosto che macchiarsi di una simile indegno inganno nei suoi confronti.
D'accordo con gli ufficiai Germanico, allo scopo di sedare la ribellione, finse di avere ricevuto lettere di Tiberio che lo autorizzavano a congedare i legionari che avessero compiuti venti anni di servizio e a raddoppiare a tutti il legato lasciato da Augusto, ma i soldati compresero che si voleva quietarli con l'astuzia e chiesero che quelle concessioni venissero subito tradotte in atto.

Germanico, messo alle strette, accordò il congedo ai veterani e promise che avrebbe pagato il legato dopo il ritorno delle truppe ai quartieri d'inverno. Parte dell'esercito si quietò, ma parte continuò a tumultuare reclamando l'immediato pagamento ed anche questa volta Germanico dovette cedere. Il lascito imperiale fu pagato con somme raccolte fra gli amici di Germanico. Le stesse concessioni accordate alle truppe della Germania inferiore vennero fatte a quella superiore. Pareva sedata del tutto la ribellione quando un nuovo moto scoppiò improvvisamente. Alcuni messi spediti da Roma per dar notizia a Germanico che gli era stata conferita la potestà consolare e fargli le condoglianze per la morte di Augusto erano giunti a Colonia dove il generale si trovava. Essendosi sparsa la voce che la deputazione portava l'ordine che fossero revocate le concessioni fatte, i legionari si levarono, assalirono la casa di Germanico, ne abbatterono le porte e malmenarono il senatore Planco, capo della deputazione, che riuscì a stento a salvarsi.

fattosi largo tra la turba dei rivoltosi, Germanico li rimproverò duramente delle violenza commesse e riuscì a calmare gli animi più eccitati, poi, temendo che si rinnovassero i disordini, deliberò di mandare al sicuro nel paese di Treviri la moglie Agrippina che le truppe adoravano e, per umiliare i legionari, anziché servirsi della loro scorta, scelse un corpo di ausiliari celtici locali.
Umiliati e commossi, i veterani allora deposero le ire e, recatosi da Germanico, si dissero pentiti, implorarono il perdono e supplicarono che non facesse partire Agrippina; poi deposero le armi e dichiararono di essere pronti a consegnare nelle mani del loro capo i più riottosi.
Però due legioni, la I e la XXI, dislocate a Castra Vetera, continuarono nella ribellione. Germanico, sicuro della fedeltà del resto dell'esercito, che spontaneamente era ritornato all'obbedienza, con la flotta e un buon gruppo di legionari ed ausiliari si presentò a castra Vetera. Al suo apparire non pochi dei rivoltosi fecero atto di sottomissione, gli altri vennero assaliti e ne seguì una mischia ferocissima che ebbe termine con la vittoria degli uomini che si era portato Germanico. Molto sangue però era stato sparso e molti vincitori erano rimasti disgustati da quella lotta tra fratelli. I cadaveri vennero bruciati e Germanico, per cancellare il ricordo di quella mischia, stabilì di effettuare una incursione nei territori nemici oltre il Reno.

Con un esercito di 12.000 legionari, ventisei coorti di ausiliari ed otto squadroni di cavalleria passò il fiume e invase fulmineamente il paese dei Marsi. Fu una strage più che una guerra. La regione venne messa a ferro e fuoco, non si ebbe pietà né dell'età né del sesso, i villaggi furono ridotti in cenere e la popolazione fu pressoché distrutta.
Alla notizia della sanguinosa spedizione, le vicine tribù degli Usipeti, dei Turbanti e dei Butteri corsero alle armi e sbarrarono il passo ai Romani durante il loro ritorno, ma non riuscirono ad arrestare la marcia dell'esercito di Germanico, il quale sbaragliati i nuovi nemici, raggiunse i quartieri da dov'era partito.
Ricominciava così, dopo cinque anni di tregua, la guerra contro i popoli della Germania.

LE GRANDI IMPRESE DI GERMANICO

Queste incursioni nel paese dei Marsi non era stato che il preludio della guerra. E questa ebbe inizio l'anno seguente, il 15 d.C.

Germanico passò il Reno con un esercito di quattro legioni e 10.000 ausiliari, fece costruire il forte innalzato da Druso su Tauno, e invase la regione dei Chatti; passato poi il fiume Adrana, incendiò Mattium sul Tauno, la capitale del paese nemico. I Chatti non poterono opporre che una debole resistenza; pochi trovarono scampo nella fuga, ricoverandosi nei boschi vicini, mentre altri si arresero, altri furono passati a fil di spada o perirono tra le fiamme e le rovine-
Mentre Germanico devastava la regione dei Chatti, Aulo Cecina con un esercito di pari forze fronteggiava i Cheruschi, i quali si erano levati in armi, sconfiggeva i Marsi e proteggeva il proconsole, che, dopo la sanguinosa incursione, poté tranquillamente ritornare alle sue basi del Reno.
Si inasprivano nel frattempo le discordie che tenevano divisa una delle più bellicose tribù germaniche, quella dei Cheruschi. Non correvano buoni rapporti tra Arminio e lo zio Segeste, di cui il primo aveva rapita la figlia Tusnelda per farla sua moglie, e dissensi gravissimi erano sorti tra Arminio e il fratello Flavo, che, abbandonata la causa per cui combatteva il fratello, passò nel campo dei Romani. Venuto a guerra Arminio con Segeste, stava questi per essere sopraffatto quando chiese aiuto a Germanico, il quale rispose all'appello avanzando con un forte esercito verso la fortezza dove Segeste si trovava assediato.
Le legioni romane giunsero in tempo; Segeste venne liberato, Arminio fu sconfitto lasciando nelle mani nemiche numerosi prigionieri, e venne recuperata gran parte delle spoglie dell'esercito di Varo. Ma la preda migliore fu Tusnelda, la moglie di Arminio, che cadde in potere dei Romani. Nella sventura essa si mostrò degna del valoroso consorte. Essa - come ci narra TACITO-- non versò una sola lacrima, non rivolse una sola preghiera; con le mani al seno conserte, teneva fisso lo sguardo al gravido ventre, lagnandosi forse in cuor suo che il proprio figlio dovesse nascere in schiavitù".
Inasprito dalla prigionia della moglie, Arminio chiamò alle armi i Cheruschi, i Brutteri, i Marsi ed altre popolazioni vicine, trasse dalla sua parte lo zio Inguiomero che parteggiava per i Romani, e si apprestò a vendicare l'onta subita e a difendere la libertà della propria nazione.

Ma Germanico non era un uomo da farsi intimorire da tali e tanti preparativi. Avanzando verso l'Ems, mise a ferro e fuoco il territorio che si trova tra questo fiume e la Lippe; i Butteri che tentavano di assalirlo alla sinistra furono attaccati e sconfitti da Lucio Stertinio che si impadronì dell'Aquila della XIX legione, caduta in mano dei Germani sei anni prima, nella disfatta di Varo. Ottenuti questi successi, Germanico volle vedere i luoghi dove le tre legioni erano state massacrate e si inoltrò nella foresta di Teutoburgo.

Il luogo faceva rivivere i suoi orribili ricordi. Il terreno era ricoperto dei miseri resti dell'esercito di Varo distrutto, che testimoniavano della disputata resistenza e della strage. U
na trincea poco profonda indicavano il punto in cui si erano rifugiati gli ultimi commoventi combattenti, mentre disseminate tutto attorno, vi erano sulla nuda terra numerose bianche ossa di altri uomini che forse lì si erano fermati a respingere l'attacco oppure avevano inutilmente cercato una via di scampo. Vi giacevano frammenti di lance, zampe di cavalli e poi teschi umani infilzati nei tronchi degli alberi. Nei boschi circostanti c'erano degli strani altari su cui i Germani avevano massacrato i colonnelli e gli ufficiale della compagnia.

Germanico fece raccogliere pietosamente le misere ossa ed ordinò che fosse innalzato un tumulo, cui egli pose la prima pietra; poi si mise sulla via della ritirata.
Ma poco mancò di finire  anche questa spedizione in un modo disastroso. Una parte dell'esercito, comandata da P. Vitellio, che doveva marciare lungo la costa, fu sorpresa dall'alta marea, a stento Vitellio riuscì a salvarsi, ma perdette tutti i bagagli; un'altra parte, comandata da Aulo Cecina, che attraversava un terreno paludoso e difficile, si era diretta verso i ponti lunghi, trovatili guasti, ignorando che era una trappola, si era fermata a ripararli quando venne improvvisamente circondata ed assalita dalle orde di Arminio. Cecina corse il rischio di cadere nelle mani del nemico e dovette la sua salvezza al pronto intervento della I Legione. 
La situazione dei Romani era talmente critica che i Germani si ritennero sicuri di distruggere l'intero corpo dell'esercito. La voce che le legioni di Cecina erano state massacrate si sparse rapidamente e giunse fino ai presidi romani del Reno. Temendo una invasione, i soldati volevano tagliare il ponte sul Reno costruito presso Colonia e l'avrebbero fatto se Agrippina con energico contegno non l'avesse impedito; se la notizia non era vera come avrebbero potuto rientrare le legioni. Infatti le notizie del disastro di Cecina non erano vere. Sebbene in condizioni difficilissime, egli seppe tenere testa agli assalti dei Germani, uscire, sia pure con la perdita dei bagagli, dai luoghi paludosi e costruire un campo trincerato in una posizione favorevole. Assalito qui da Arminio, Cecina passò alla controffensiva e sconfisse i Germani in una sanguinosa battaglia, nella quale uno dei capi, Inguiomero, rimase gravemente ferito.

Tornato l'esercito sul Reno a Colonia, e sopraggiunto l'inverno, le operazioni guerresche ebbero sosta, della quale approfittò Germanico per colmare i vuoti prodotti nelle sue truppe e preparare una nuova spedizione. Venne costruita una grande flotta che ebbe come base l'isola dei Batavi, nuove fortezze erette tra Aliso e il Reno e l'ara in onore di Druso, abbattuta dai germani, venne ricostruita.

Le operazioni belliche furono riprese nella primavera del 16. La flotta trasportò sulla foce dell'Ems otto legioni e molte migliaia di ausiliari, che invasero il territorio degli Angrivarii e lo devastarono, poi marciarono verso il corso del Weser, dove giunsero nell'estate.

Arminio con i suoi Cheruschi stava accampato sulla riva destra del fiume. I primi a passare il Weser furono i Batavi guidati da Chiarovalda. Caduto in agguato dei Cherusci, il prode capo venne ucciso e le sue schiere si trovarono a mal partito, assalite e circondate da un numero soverchiante di nemici. La cavalleria romana, sopraggiunta a tempo, le salvò da certa morte: il resto dell'esercito di Germanico costrinse Arminio a ritirarsi verso la pianura di Idistaviso.
Qui, nell'agosto di quell'anno, si combatté una grandissima battaglia. Numerosissimi erano i barbari e, decisi a vincere ad ogni costo, si batterono disperatamente e a lungo, ma non meno risoluti a disfare l'irriducibile nemico e a vendicare la strage di Varo erano i Romani, che ai Germani opponevano valore, disciplina e sapienza nell'arte della guerra. La vittoria fu dei Romani. Arminio, ferito, poté scampare tingendosi il viso col proprio sangue; anche Inguiomero benché ferito trovò scampo con la fuga; ma oltre diecimila Cheruschi trovarono la morte sul campo di battaglia. Dicesi che il terreno, per un tratto di dieci miglia, fu ricoperto di cadaveri e dalle spoglie dei vinti.
I morti della Selva di Teutoburgo erano stati vendicati.


La sconfitta di Idisiaviso anziché scoraggiare i barbari li irritò. I Romani avevano innalzato sul campo un trofeo con il nome dei popoli vinti; ma vinti non volevano considerarsi i Cheruschi. Radunate nuove forze, si posero in agguato presso una foresta per la quale i Romani dovevano passare, ma Germanico, informato dalle mosse del nemico, lo attaccò vigorosamente e lo sconfisse producendogli numerose perdite, rese più gravi dall'ordine che il figlio di Druso aveva dato ai suoi di non fare prigionieri.
Germanico fece innalzare sul campo un altro trofeo con la iscrizione: "L'esercito di Tiberio Cesare, vinte le popolazioni tra l'Elba e il Reno, consacrò questo monumento a Marte, a Giove e ad Augusto".
Sopraffatti i Cheruschi, Germanico mandò parte delle truppe verso il Reno per la via di terra, poi con il resto delle milizie raggiunse l'Ems e salito sulle navi discese il corso del fiume fino al mare, dove una furiosa tempesta colse la flotta, causando perdite, fortunatamente non gravi, di uomini e di navi.

La campagna si chiuse con una incursione nella regione dei Chatti e dei Marsi, i quali però, apparire delle legioni, si dispersero nelle foreste.
Le notizie delle vittorie di Germanico, diffuse da appositi bollettini, facevano crescere in Roma le simpatie che vi godeva il giovane figlio di Druso; ma il prestigio che questi con il suo valore si andava acquistando non poteva non irritare Tiberio.

Sappiamo quanto costui aveva dovuto lottare per ottenere la successione al principato; sappiamo anche che l'adozione di Germanico gli era stata imposta da Augusto.
In Germanico, Tiberio vedeva, oltre che un suo rivale, un rivale del vero figlio che aveva nome Druso (come si chiamava il padre di Germanico); egli temeva che il figlio adottivo, che cos' popolare si era reso a Roma e fra i legionari, potesse un giorno alla testa dell'esercito marciare su Roma e togliergli il potere.

Ma non era solo per questo che Tiberio non vedeva di buon occhio le imprese del figlio adottivo in Germania. Tiberio seguiva una politica di pace e in questo non faceva che calcare le orme di Augusto. Il tempo delle conquiste, per lui come per il suo predecessore si era chiuso. Contrastava quindi con la sua politica pacifica la guerra che Germanico conduceva oltre il Reno, guerra che Tiberio considerava dannosa per le finanze dello stato e inutile per tutto il resto. La Germania secondo lui, era di difficile conquista e lo dimostrava la stessa guerra di Germanico: le tribù di quel paese, infatti malgrado le sanguinose sconfitte subite, non si sottomettevano. Ma anche se la conquista definitiva avesse potuto  avere luogo, la Germania sarebbe rimasta un inutile peso per l'Impero, perché i Romani la consideravano poco adatta alla colonizzazione e non suscettibile di sfruttamento. Anche dal lato della difesa, Tiberio stimava inutile la conquista della Germania: alla linea dell'Elba egli preferiva quella del Reno.

Consigliato dalle sue vedute politiche e dal timore che il crescente prestigio di Germanico gli incuteva, Tiberio stabilì di richiamare il figlio adottivo da Reno. Per non mettersi in urto con i numerosi simpatizzanti del giovane condottiero, egli propose in Senato che a Germanico venisse decretato il trionfo e conferito il titolo di imperatore e che gli altri capitani, A. Cecina , L. Apronio e C. Silio, avessero gli ornamenti trionfali poi scrisse al figlio pregandolo che tornasse a Roma per ricevere gli onori decretatigli.
Germanico avrebbe voluto restare ancora un anno al comando delle legioni del Reno per poter debellare definitivamente tutto il territorio fino all'Elba, ma Tiberio non lo permise; l'onore di Roma era stato vendicato, ora conveniva abbandonare quei popoli alle loro discordie e al loro destino, che per l'Impero sarebbero state più utili delle vittorie.

Germanico ubbidì e lasciò il comando generale dei due eserciti del Reno che, con la sua partenza, venne abolito. Le legioni della Germania superiore e quella della inferiore vennero messe alle dipendenze di due legati dell'Imperatore.

Sul finire del maggio dell'anno 17 Germanico celebrò a Roma uno splendido trionfo e il popolo applaudì freneticamente all'eroe che percorse le vie della metropoli sopra un carro magnificamente addobbato, accanto alla moglie Agrippina e circondato dai suoi  figlioletti, fra trofei di insegne e di armi, in mezzo alle quali si ammiravano quelle perdute da Varo e da lui riconquistate. Lo seguivano i simulacri delle battaglie combattute e lo precedevano numerosi prigionieri, fra i quali degni di attenzione la moglie di Arminio, Tusnelda, col figlioletto Tumelico, e il fratello di lei Sigismondo.

per rendere più solenne il trionfo Tiberio distribuì trecento sesterzi ai cittadini poveri e per premiare la pronta obbedienza di Germanico gli fece innalzare un arco trionfale e fece coniar monete col motto:  signis receptis, devictis germanis. Quell'anno stesso Tiberio mandò suo figlio Druso al Danubio affinchè sorvegliasse Maroboduo e vi svolgesse una politica abile e tendente a scuotere la potenza del barbaro monarca e a disgregare l'impero Marcomanno.

Ma superflua fu l'opera di Druso. Cessate le molestie delle legioni romane, rinacquero le ataviche discordie tra le tribù germaniche che, soltanto sotto il pericolo degli invasori, avevano dimenticato gli odi da cui erano divise. Da queste discordie furono travolti i Cheruschi e i Marcomanni. I Sennoni e i Langobardi abbandonarono Maroboduo e si schierarono dalla parte dei Cheruschi, che a loro volta furono abbandonati da Inguiomero il quale fece lega coi Marcomanni. Tra l'uno e l'altro popolo si venne ad una sanguinosissima battaglia tra la Saale e l'Elba. L'esito fu incerto, ma Maroboduo, dopo qualche combattimento, si ritirò verso posizioni migliori e la sua ritirata, se non fu, parve una fuga e provocò numerosissime diserzioni dal suo esercito che lo costrinsero a rifugiarsi sui monti della sua Boemia, dove egli chiese aiuto a Tiberio. Ma, come era da aspettarsi l'imperatore preferì rimanere spettatore degli avvenimenti, i quali precipitarono.
Un nobile della tribù dei Gotini chiamato Matualda che odiava Maroboduo, approfittando della scemata potenza del suo nemico, con una schiera di guerrieri penetrò audacemente in Boemia e, attirati dalla sua non pochi capi Marcomanni, assalì la casa di Maroboduo, il quale vistosi tradito ed abbandonato dalla maggior parte dei suoi, con quelli che gli erano rimasti fedeli si rifugiò nel Norico. Più tardi Matualda venne scacciato dalla Germania con i suoi seguaci e si diede a Tiberio. Questi confinò Natualda a Frejus e Naroboduo ad Ancona, dove visse diciotto anni; i loro seguaci vennero mandati fra il Maro e il Cuso, nell'odierna Moravia, e fu loro dato come re un certo Vannio, della tribù dei Quadi.

Non fu migliore la sorte che toccò ad Arminio. Odiato dai Cheruschi per la sua smodata ambizione, combatté parecchie volte contro i numerosi nemici che si era procurati e nel 21 fu ucciso dai suoi medesimi parenti. 

LA FINE DI GERMANICO

Nello stesso anno in cui Tiberio mandava Druso al Danubio, Germanico veniva inviato in Oriente.
Tiberio insomma lo allontanava da Roma perché non era prudente lasciarvi un uomo che tante simpatie aveva saputo procacciarsi in città e, se pur non era sembrava un emulo dell'imperatore; lo mandava in Oriente perché là occorreva un uomo di provata energia, di grande prestigio e appartenente alla famiglia imperiale; in modo da poter mettere termine alla situazione pericolosa che si era andata creando.

A VONONE, re dei Parti, cresciuto ed educato a Roma, dove era stato per molto tempo come ostaggio, venuto in odio ai suoi sudditi perché aveva voluto introdurre nel suo regno costumanze occidentali era stato contrapposto l'arsacide ATABANO III.
Vonone sconfitto in battaglia, si era rifugiato in Armenia dove nel 16 era stato proclamato re. Ma un forte partito capeggiato dalla nobiltà armene, la quale si teneva in rapporti con Artabano, era ben presto sorto contro Vanone.  Tiberio, per evitare che i Parti si impadronissero dell'Armenia col pretesto di volerne scacciare Vonone, aveva chiamato quest'ultimo nella Siria, governata allora da SILANO Cretico, lasciandogli il titolo e gli onori regali. Nello stesso tempo erano venuti a morte Antioco re della Commagene e Filopatore II re della Cilicia e le popolazioni di queste regioni si erano divise in due partiti, dei quali uno voleva che si eleggessero i successori dei defunti sovrani, l'altro era intenzionato a farli incorporare nell'impero romano.

Germanico doveva sottrarre l'Armenia dall'influenza che volevano esercitarvi i Parti, incorporare all'impero la Cilicia e la Commagene e infine sedare le agitazioni che si erano moltiplicate in Siria e in Giudea per i gravi tributi imposti.
Per misura di prudenza Tiberio richiamò dalla Siria SILANO Cretico, parente di Germanico, e al governo di quella provincia mise GNEO PISONE, il quale senza dubbio

 
doveva sorvegliare l'opera di Germanico e moderarne gli spiriti bellicosi che avrebbero potuto provocare un conflitto non desiderato coi Parti.

Germanico era stato designato console, ma entrò in carica sul finire del 17 d.C. quando si trovava già in Grecia dopo che Tiberio -dopo il suo rientro dalla Germania- aveva insistito molto che partisse subito per l'Oriente. Oltre che console gli fece avere con decreto del Senato l' imperium maius su tutti i governatori imperiali e senatoriali delle province d'Asia.
Germanico eseguì felicemente la missione che l'imperatore gli aveva affidata : fece tornare la calma nelle province mitigandone i tributi, ridusse a province la Comagene, la Cappadocia e la Cilicia, al governo delle quali mise dei legati imperiali, ed esaudendo un voto della popolazione dell'Armenia mise sul trono di questo paese Zenone, figlio di Polemone re del Ponto, che col nome di ARTASSE incoronò solennemente nella capitale, infine accordò amicizia al re dei Parti che gli promise di disinteressarsi dell'Armenia a patto che Vonone venisse mandato via dalla Siria. Era questa una concessione che Germanico poteva fare: Vonone venne confinato nella Cilicia e qui poi perdette la vita tentando, più tardi, di fuggire.

Ma questa missione di Germanico fu molto ostacolata da Gneo PISONE, il quale, forse eseguendo con eccessivo zelo ed esagerazione gli ordini di Tiberio, forse spinto dal carattere superbo e violento che gli era proprio, trattò il figlio di Druso con modi rudi e sprezzanti; si mostrò verso Germanico, che pur gli era superiore nel comando, indisciplinato e non curò neppure di approntargli le legioni che questi aveva richieste. Ad acuire il dissidio ben presto sorto tra Germanico e Pisone contribuì la moglie di questo, Plancina, la quale, istigata certo dalla madre di Tiberio, Livia, di cui godeva l'amicizia, non trascurò occasione per mostrare il suo odio e il suo di sprezzo verso Germanico e sua moglie Agrippina.
Germanico cercò di comporre il dissidio con Pisone e per venire ad una spiegazione con lui lo invitò a Cirra ad un convegno, ma senza ottenere alcun risultato.

Dall'Asia, l'anno dopo, Germanico andò in Egitto. Questa provincia era afflitta da grande carestia ; Germanico ribassò il prezzo del grano e nel farlo oltre che per altri provvedimenti presi in favore della popolazione e per le sue maniere semplici si acquistò molte simpatie.  Andava egli difatti per le vie privo di scorta militare, rifuggiva dalle pompe e vestiva il costume del paese. 
Approfittando poi del suo soggiorno in Egitto, Germanico volle visitare i luoghi e i monumenti che testimoniavano l'antica grandezza di questo Paese; risalì il Nilo da Canopo a Syene e giunto a Tebe, si fece spiegare i geroglifici che ricordavano il regno di Ramses. 
Ma per questo suo viaggio in Egitto, Germanico non ebbe l'approvazione di Tiberio, il quale gli rimproverò di aver messo piede in quella provincia violando la legge di Augusto che proibiva ai senatori e ai cavalieri di recarvisi senza il permesso imperiale e si lamentò con lui per avere  preso, senza autorizzazione alcuna, provvedimenti tendenti a lenire gli effetti della carestia. Nonostante il suo risentimento, Tiberio non poteva non riconoscere gli ottimi servigi di Germanico resi all'impero in Oriente e gli fece decretare a Roma una ovazione.

Tornato dall' Egitto in Siria, Germanico non riuscì più a tollerare la condotta di Pisone, il quale, nell'assenza del proconsole, aveva annullate tutte le sue disposizioni e gli aveva messo contro perfino i soldati delle legioni.
Germanico, presentatosi coraggiosamente in mezzo alle truppe, con quell'arte già vista in Germania, le ridusse con energia all'obbedienza, poi per mezzo di lettere fece capire, a quanto pare, a Pisone che era necessario che si allontanasse dalla provincia.
Pisone partì, ma poco dopo Germanico si ammalò. Si sospettò che o da Pisone o da Plancina gli sia stato propinato del veleno, ma le prove mancano né -pur volendo ritener fondati questi sospetti- si può dire se i due coniugi avessero agito per iniziativa propria o dietro ordine di Tiberio o di Livia.

Vedendo prossima la sua fine, Germanico chiamò intorno al suo letto i capi del suo esercito, i suoi consiglieri e gli amici e consigliò loro di denunciare alla giustizia
del popolo e dei tribunali coloro che, secondo lui, erano causa della sua morte : « Portate le vostre querele al Senato e, se è vero che mi amate, invocate le leggi. Il primo dovere degli amici è, non di piangere i morti, ma di ricordare ed eseguire le loro ultime volontà ».

Si narra che, dopo di aver in presenza di altri pregato la moglie Agrippina di mostrarsi coraggiosa e rassegnata nella sventura che la colpiva e di non essere altera per non attirarsi l'odio dei più potenti, mostrasse il desiderio ed ottenesse di parlar segretamente a lei, cui forse palesò i propri sospetti.

Germanico morì il 19 ottobre all'età di trentaquattro anni, lasciando sei figli, tra cui tre maschi: Serone, Druso e Cajo.
La sua salma venne portata ad Antiochia e cremata; la provincia d'Asia e gli stati vicini presero il lutto.
Morto Germanico, i legati e i senatori che si trovavano nella provincia diedero il governo a Gneo SENZIO. La notizia della fine del suo nemico trovò Pisone all' isola di Kos. Consigliato da Domizio Celere, anziché proseguire per Roma, egli tornò indietro per riprendere il governo della Siria e, siccome Senzio gli proibì l'ingresso nella provincia, egli occupò Celenduis, nella Cilicia, dove si diede a raccogliere molti soldati armati, ma da Gneo Senzio, che in quell'occasione spiegò la sua più grande abilità, fu costretto non molto tempo dopo a fare ritorno in Italia.

A Roma già la notizia della malattia di Germanico aveva prodotta grande costernazione; quando poi arrivò anche quella della sua morte, la città piombò  nel più grande dolore. Prima che il Senato ordinasse il lutto furono chiuse le case, le botteghe e i tribunali; il popolo che idolatrava l'eroe, sdegnato contro gli dèi, prese a sassate i templi e ne ruppe gli altari; una turbe imponente si raccolse davanti alla reggia urlando che gli fosse restituito Germanico come per mostrare che riteneva Tiberio responsabile della fine immatura del giovane.

Per onorarne la memoria fu decretato che il nome di Germanico fosse messo nel carme saliare, che tre archi trionfali gli venissero innalzati a Roma, in Siria e sul Reno, che la sua statua insieme con quelle delle altre divinità fosse portata in processione nei ludi circensi. L'ordine equestre stabilì che la statua di Germanico aprisse il corteo che il 15 luglio di ogni anno si recava dal tempio dell'Onore fuori porta Capena al Campidoglio.

Al principio dell'anno 20 Agrippina sbarcò a Brindisi portando con sé le ceneri del marito. Per ordine di Tiberio tutti i magistrati dell'Apulia, della Calabria e della Campania e due coorti di Pretoriani si recarono a Brindisi per onorare la vedova e le reliquie dell'eroe che ritornavano in patria. Da Roma e da molte altre città della penisola una grande folla accorse a Brindisi e volle scortare durante il viaggio l'infelice Agrippina, che passando per le colonie e i municipi fu fatta segno a vivissime dimostrazioni di cordoglio e di simpatia. A Terracina andò ad incontrarla Druso, figlio dell' imperatore, e fuori le mura di Roma i consoli, i magistrati, i cavalieri e i senatori. 
Tiberio con la madre Livia non si presentarono in pubblico;  né -forse per disposizione dell'imperatore- si fece vedere la vecchia madre di Germanico, Antonia. Le ceneri dell'estinto vennero tumulate nel mausoleo di Augusto. Dopo i funerali imponentissimi, il popolo avrebbe continuato per parecchi giorni le manifestazioni di cordoglio se Tiberio non le avesse bruscamente troncate con un editto in cui, ricordando la fermezza d'animo con la quale gli antenati avevano saputo sopportare le sciagure e dicendo che gli uomini sono mortali ed eterna invece è la repubblica, invitava la cittadinanza a riprendere le ordinarie occupazioni.

La vita di Roma tornò normale, ma nella calma covava l'ira della popolazione, che credeva all'avvelenamento di Germanico, e non aspettava che l'occasione per prorompere in una rivolta generale. L'occasione fa data dal ritorno di Pisone e di Plancina, i quali con il loro contegno lieto e con le feste e i banchetti dati nella loro casa presso il Foro indignarono la cittadinanza e spinsero gli amici dell'estinto a chiedere giustizia.

Fulcinio Trione accusò Pisone e Plancina di veneficio; l'accusa fu raccolta e presentata ufficialmente da Publio Vitellio e Quinto Veranio e il processo contro i due coniugi fu rimesso al Senato. L'opinione pubblica, decisamente contraria agli accusati, fece sì che Tiberio rimanesse  per prudenza, estraneo al processo e che parecchi senatori rifiutassero di far parte del collegio di difesa. Questo fu composto da Livineio Regolo, Manio Lepido e Lucio Pisone, fratello dell' imputato. Iniziandosi il processo, Tiberio raccomandò il Senato che si facesse giustizia. Tre erano le accuse che si facevano a Pisone: di avere rivolte ingiurie a Germanico e avergli messo contro l'esercito, di aver tentato di rioccupare a mano armata la provincia, e infine di aver cagionata la morte dell'eroico generale con scongiuri e veleno.

Non era difficile provare i primi due capi d'accusa, ma non fu possibile portar prove in favore dell'ultimo. La folla però che si accalcava fuori della curia tumultuava, convinta della colpa di Pisone, e minacciava di far giustizia da sé qualora i giudici lo avessero assolto. Per impedire al popolo di tradurre in atto le minacce, finita la prima udienza, bisognò che Pisone fosse accompagnato a casa da un tribuno dei pretoriani.
Sebbene tutti fossero contro di lui, Pisone si presentò ancora in Senato sperando di essere salvato da Tiberio, ma questi mostrò chiaramente di non volere influire nel dibattito ed allora l'imputato si vide perduto.
Tornato a casa, egli scrisse una lettera e ordinò ad uno dei suoi liberti di consegnarla a Tiberio. Il giorno dopo Pisone fu trovato morto, con una larga ferita alla gola e una spada accanto.
L'imperatore lesse in Senato la lettera. In essa Pisone si dichiarava innocente dell'accusa di veneficio e confessava di essere soltanto colpevole di aver tentato con  le armi di penetrare nella Siria; infine raccomandava i suoi figli all' imperatore. 
Morto Pisone, il processo continuò a svolgersi, ma, per intercessione di Tibeno e di Livia, ai figli dell'imputato vennero lasciati i beni patemi e Plancina fu assolta. Ma tredici anni più tardi essa farà la medesima fine del marito.

La morte di Pisone rimase avvolta nel mistero più fitto. Ufficialmente si disse che l'ex-govematore della Siria si era suicidato ma corse con insistenza la voce che Pisone fosse stato assassinato da SEIANO (forse per questo che poi divenne potente) per ordine dell'imperatore perché Pisone come unico mezzo di salvezza poteva produrre in giudizio le lettere scrittegli da Tiberio perché si sbarazzasse di Germanico.

Fonti: 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA 
PLUTARCO - VITA DI BRUTO 
SVETONIO - VITE DEI CESARI 
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

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LA VERSIONE DI TACITO

(intervento di un lettore: Mario Masi)

Le informazioni riportate in seguito sono prese tutte dal Libro Primo e Libro Secondo di:
Tacito, Annali, Introduzione generale, cura e traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, Newton, 1995
Ho cercato di mantenermi il più possibile vicino al racconto di Tacito e non ho fatto altro che riassumerne alcune parti.

Secondo quest’opera furono sottomesse, con estrema ferocia per vendicare la sconfitta di Varo, prima le popolazioni vicino al Reno (Marsi, Catti, Frisi, Brutteri) e, in seguito, facendo scendere le truppe dai fiumi nel cuore della germania anche le popolazioni più vicine all’elba (Cherusci, Cauci e Angrivari). In modo particolare contro i Cherusci si sarebbe riportata una grande vittoria nella piana di Idistavisio. In seguito Tiberio avrebbe richiamato Germanico per paura della enorme fama che i suoi successi stavano suscitando a Roma, impedendogli di completarne la conquista.

Visto che ci sono, cerco pure di spiegare perché trovo più verosimile questa versione dei fatti rispetto a quella, ad esempio, che ne da Svetonio. La mia interpretazione di basa principalmente su due punti:

1. Verosimiglianza degli eventi narrati
Durante le mie letture storiche (più o meno scolastiche e più o meno superficiali), mi è capitato di incontrare personaggi che godevano di grande stima e considerazione ma erano tutti personaggi che avevano compito grandi imprese. Le imprese di Scipione, Cesare o Augusto precedono la fama di questi condottieri e la rendono più che giustificata.
La figura di Germanico ha cominciato ad incuriosirmi perché è l’unico personaggio della storia romana (almeno per l’approccio che ne ho avuto io) di cui ho appreso che era molto amato e stimato senza sapere quasi che cosa ha fatto.
Per questo motivo trovo che sia verosimile pensare che, se ha ottenuto una tale considerazione, stima, affetto da parte del popolo romano, debba aver effettivamente compiuto imprese militari tali da giustificarli.
Così come trovo verosimile che Tiberio fosse preoccupato del suo crescente successo e che lo abbia richiamato e, in seguito, lo abbia fatto avvelenare non tanto per invidia ma per paura che potesse marciare, come Cesare, su Roma e destituirlo (paura, nella Roma antica, più che legittima). Se Cesare fosse stato richiamato a Roma dalla Gallia dopo tre anni probabilmente non avrebbe attraversato in armi il rubicone…

2. Attendibilità di Tacito
Io non sono uno storico e la mia lettura dei fatti è del tutto dilettantesca (un divertimento), però devo dire che Tacito come storico mi ha dato l’impressione di essere attendibile. E’ molto analitico e si vede che cerca di essere obbiettivo e imparziale. E quando invece prova dell’astio, come nei confronti di Domiziano o della corte imperiale la vena polemica traspare in modo abbastanza evidente. In più Tacito da l’impressione nei suoi scritti di conoscere molto bene la realtà germanica e di esserne un estimatore. Non avrebbe avuto alcun motivo per inventarsi vittorie o esaltare le imprese di un condottiero che dopo due anni fu avvelenato.


Campagne di Germanico nei territori tra il reno e l’elba (14-16 dC)

14 d.c.
Germanico, posto fine alla rivolta delle legioni germaniche a Castra Vetera, costruito un ponte sul reno vi fa transitare dodicimila legionari, ventisei coorti di alleati e otto ali di cavalieri che durante la sedizione erano rimaste perfettamente disciplinate. Con una veloce marcia compiuta anche di notte, giunge velocemente nei pressi dei villaggi dei Marsi che, vista l’instabilità interna all’impero causata dalla morte di Augusto, non si aspettano lontanamente un attacco romano e non hanno nemmeno disposto sentinelle. Germanico divide in quattro colonne le legioni per rendere il saccheggio più esteso e devasta a ferro e a fuoco un'area di cinquanta miglia. Non vengono risparmiati ne i vecchi ne le donne ed è raso al suolo persino il loro tempio sacro.
Brutteri, Tubandi e Usipeti, venuti a conoscenza dell’eccidio, si appostano nelle selve che le legioni si accingono ad attraversare al ritorno e ne aggrediscono con tutta la loro forza la retroguardia.
I legionari, incitati da Germanico a cancellare l’onta della sedizione, spingono i germani in campo aperto e ne fanno strage. Dopo questo scontro le legioni rientrano indisturbate nei quartieri invernali.
Quando a Tiberio vengono comunicati questi avvenimenti, provocano in lui sentimenti contrastanti: di gioia per il fatto che la rivolta sia stata sedata; di preoccupazione perché Germanico si è propiziato l'animo della truppa largheggiando in donativi e anticipando i congedi e per la sua crescente gloria militare.

15 d.c.
La guerra viene anticipata all'inizio della primavera con un attacco improvviso contro i Catti, popolazione sottomessa da Druso che aveva riacquistato l’indipendenza dopo la sconfitta di Varo.
Germanico affida al suo luogotenente Cecina quattro legioni, cinquemila ausiliari e torme arruolate in fretta di Germani residenti nell’impero e si pone alla testa di altrettante legioni, e d'un numero doppio di alleati. Dopo aver costruito un forte sulle rovine d'una fortezza eretta da suo padre Druso sul monte Tauno, piomba su i Catti talmente inaspettato che tutti quelli che per il sesso o l'età sono incapaci di resistere vengono immediatamente catturati o uccisi. Dei guerrieri, dopo una breve resistenza., alcuni accettano di sottomettersi, altri abbandonano borghi e villaggi e si disperdono nelle foreste.
Messa a ferro e fuoco Mattio, la loro capitale, e devastati i campi, le legioni si dirigono nuovamente verso il Reno, senza essere attaccate dal nemico, anche perché Cherusci e i Marsi che cercano di portare aiuto ai Catti, vengono respinti dalle truppe di Cecina. I Catti, vengono chiamati a far parte dell’esercito e a fornire truppe ausiliarie.
Tra i Cherusci, Arminio è il capo dei rivoltosi, mentre Segeste del partito fedele a Roma. Quest’ultimo aveva messo in guardia Varo contro Arminio e gli aveva consigliato di cambiare il tragitto di rientro ai quartieri invernali per evitare di subire un’imboscata. Germanico ricevuta la notizia che Segeste è assediato da Arminio, marcia con le legioni liberandolo dall’assedio. Garantita incolumità ai suoi figli e parenti gli offre di trasferirsi nell'antica provincia di Germania.
Allo stesso tempo fa muovere Cecina con quaranta coorti romane attraverso il territorio dei Brutteri e la cavalleria nel territori dei Frisii. I Brutteri vengono sbaragliati e durante il massacro e il saccheggio viene recuperata l'aquila della diciannovesima legione, perduta con Varo.

Tutto l’esercito finisce per convergere in un territorio non lontano dalla selva di Teutoburgo, nella quale avanza per dare sepoltura ai resti delle tre legioni di Varo e per innalzare un’ara votiva.

In seguito, dopo un favorevole scontro con Arminio, l’esercito viene ricondotto verso l’Amisia, l’attuale fiume ems, dove parte dell’esercito viene imbarcato per essere ricondotto agli accampamenti invernali. Cecina con l’altra parte dell’esercito invece segue un percorso noto ma nel mezzo di ampie paludi dove Arminio fa convergere le proprie truppe. Nella ritirata l’esercito, impacciato dai bagagli in un territorio paludoso, viene più volte attaccato e subisce gravi perdite. Rischia di ripetersi ciò che è accaduto alle legioni di Varo ma i Cherusci, spavaldi per i successi riportati, invece di mantenere lo scontro su terreni acquitrinosi e impraticabili, attaccano l’accampamento romano e vengono sconfitti.
Intanto si diffonde negli accampamenti sul Reno la notizia che l'esercito è accerchiato e che i Germani si dirigono verso le Gallie; solo l’intervento di Agrippina, la moglie di Germanico, impedisce che venga abbattuto il ponte sul Reno che consente alle legioni di Cecina di rientrare negli accampamenti invernali.

16 dc.
Germanico, temendo di essere richiamato da Tiberio, cerca di trovare il modo per raggiungere la vittoria il più velocemente possibile. La difficoltà di difendere una lunga colonna di salmerie esposta alle imboscate tra foreste e paludi, viene visto come il problema principale al conseguimento di un successo definitivo. Sbarcando l’esercito dal mare invece, l'occupazione del territorio sarebbe stata facile per i Romani e imprevista per i Germani: si sarebbe potuto dare inizio alle operazioni più presto e trasportare insieme legioni e salmerie, cavalli e cavalieri, entrando dalle foci dei fiumi: così si sarebbero trovati al centro della Germania senza alcun pericolo.
Per questo motivo da ordine di costruire una flotta: con navi corte, strette a prua e a poppa ma larghe ai lati, per poter sostenere meglio l'urto delle onde, altre a chiglia piatta, per poter posare su fondali bassi senza danno, le più numerose fornite di timone a entrambe le estremità, in modo che, qualora si fosse dovuto invertire subitaneamente la rotta, i remi potessero manovrare rapidamente in direzione opposta; molte erano coperte di ponti per poter trasportare macchine da guerra nonché cavalli e vettovaglie.
Dalle foci del Reno, la flotta costeggia la costa fino al fiume Amisia nel quale si addentra fino a fronteggiare i Cherusci sulle rive del fiume Visurgi. Germanico mentre fa allestire ponti e presidi ordina una incursione della cavalleria che però cade in una trappola e a fatica riesce a disimpegnarsi.
Attraversato il fiume, Germanico viene informato da un disertore del luogo scelto da Arminio per la battaglia e viene a sapere che altri popoli si sono radunati in una foresta sacra a Ercole per tentare un attacco notturno agli accampamenti romani. Verso mezzanotte si verifica l’assalto agli accampamenti; ma senza lancio di dardi, perché i nemici si rendono subito conto che le coorti sono schierate senza intervallo lungo le difese e senza punti incustoditi. Il giorno seguente gli eserciti si schierano in un’ampia spianata vicina al fiume Visurgi, l’attuale Weser: la piana di Idistavisio.
L’esercito romano schiera all'avanguardia gli ausiliari Galli e Germani, subito dopo gli arcieri a piedi; poi quattro legioni e Germanico accompagnato da due coorti pretorie e da cavalleria scelta. In ultimo, ancora quattro legioni, truppe leggere a cavallo e le rimanenti coorti ausiliarie. Germanico ordina alla cavalleria di attaccare i germani sui fianchi e alle spalle scompaginando le fila nemiche portando le truppe a una grande vittoria. I nemici uccisi dall'ora quinta fino a notte con i cadaveri e con le armi coprirono una superficie di dieci miglia.
Sventata una sedizione degli Angrivari che si erano ribellati, visto che ormai l'estate era inoltrata, alcune legioni vengono inviate ai quartieri d'inverno per via di terra; la maggior parte Cesare le imbarca su la flotta e lungo il fiume Amisia e risale verso l'oceano in cui viene sorpresa da una tempesta che ne disperde le navi e ne fa affondare parecchie.
Terminata la tempesta, Germanico fa subito riparare le navi sconquassate che sono sopravvissute e le manda a esplorare le isole. Questa sua sollecitudine consente di recuperare molti soldati. Altri vengono restituiti dalle popolazioni germaniche alleate.

La notizia del disastro che ha colpito la flotta risveglia nei Germani la speranza della guerra. Ma Germanico ordina al suo luogotenente Silio di muovere contro i Catti con 30.000 fanti e 3000 uomini a cavallo. Egli stesso con forze maggiori si getta sui Marsi e ne devasta il territorio. Rientrati nei quartieri d'inverno, i soldati si rallegrano d'aver compensato le sciagure del mare con il buon esito di quella irruzione. Inoltre, ormai non si ha più alcun dubbio che il nemico sta cedendo e si sta rassegnando all’idea di chiedere una pace definitiva.

Tiberio intanto con frequenti lettere ammonisce Germanico a tornare in patria per presiedere al trionfo che gli è stato decretato. Soddisfatto per l’esito favorevole degli scontri è invece insoddisfatto per i gravi danni e le perdite subite. Germanico lo prega che gli venga concesso ancora un anno per portare a termine le operazioni iniziate ma Tiberio, con maggiore insistenza, offrendogli un secondo consolato carica le cui funzioni avrebbe dovuto esercitare personalmente a Roma, gli ordina di tornare a Roma.

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 ( Seconda Parte ) > > > 

IL GOVERNO DI TIBERIO - * ELIO SAIANO - TIBERIO A CAPRI - MORTE DI SEIANO 
LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA MORTE DI TIBERIO

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