ANNI 14 d. C. - 37  d.C.

 ( Seconda Parte) IL GOVERNO DI TIBERIO - ELIO SAIANO - TIBERIO A CAPRI - MORTE DI SEIANO 
LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA MORTE DI TIBERIO

l'ascesa di CAJO CESARE CALIGOLA - LA MORTE
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GOVERNO DI TIBERIO


La figura di Tiberio è stata dipinta a colori forse troppo foschi da certi storici antichi, mentre alcuni storici moderni hanno cercato di riabilitare la memoria del secondo imperatore romano. Non possiamo accogliere ciecamente  i foschi colori dei primi e le rosee tinte dei secondi, e forse e meglio dire che la verità sta nel mezzo.
Tiberio ebbe dei grandi difetti ma anche dei meriti e se non si può escludere la ferocia dei suoi ultimi anni, non può esser passata sotto silenzio tutta la parte buona del suo governo. 

In politica estera egli cercò di seguire fedelmente le orme di Augusto, mantenendo la pace ai confini dell' impero. 
IN GERMANIA  abbiamo visto che fu per opera sua che Germanico dovette lasciare incompiuta la guerra contro i popoli germanici, la quale, se condotta a termine, avrebbe poi risparmiato tanti guai all'impero.
Infatti non sempre la pace poté essere mantenuta, nonostante i buoni propositi di Tiberio, e più d'una volta fu necessario far parlare le armi. 

In AFRICA un numida, chiamato
Tacfarinate, che aveva militato sotto le insegne di Roma, tenne per più anni sul piede  di guerra le milizie imperiali. Prima, raccolte sotto il suo comando varie tribù e bande di predoni fece base delle sue operazioni la zona montuosa dell'Aurasio (Gebél Aures) compiendo scorrerie sul territorio dell'odierna provincia di Costantina, poi riunite sotto di sè tribù arabe ed elementi di altre tribù dell' interno, cercò di ampliare il raggio della sua azione ed osò venire in aperta lotta contro le milizie romane. Le sue soldatesche, sebbene numerose, non poterono misurarsi con vantaggio con i legionari e Tacfarinate dovette rifugiarsi nel deserto, dal quale iniziò una serie di rapide e felici incursioni, che avevano per scopo razzie e saccheggi. Pratico dei luoghi, con truppe non appesantite da bagagli, egli sfuggiva facilmente agli attacchi e agli inseguimenti dei Romani e quando gli si presentava l'occasione buona e aveva probabilità di successo assaliva il nemico. Una coorte romana, attaccata da lui con forze soverchianti, fu costretta alla fuga; non pochi villaggi vennero saccheggiati e crebbe talmente l'audacia dell'avventuriere da osare di porre un assedio a Thala, dove stavano di guarnigione cinquecento veterani. Ma questa volta ebbe la peggio.
 Sconfitto, tornò alle razzie, spingendosi perfino presso le coste; respinto nell'interno, ricomparve a dar molestia alle truppe proconsolari. A porre fine a questa guerriglia logorante fu inviato in Africa Giunio Bleso che riuscì a catturare il fratello di Tacfarinate dopo aver posto numerosi presidi nei luoghi abitati dell' interno. Parve che la calma fosse tornata in Africa e Giunio Bleso si ebbe a trionfo, ma, richiamate le truppe che vi erano state mandate, Tacfarinate fece riparlare di sé raccogliendo gli armati della Mauritania e stringendo rapporti con i Garamanti. La guerra avrebbe senza dubbio preso proporzioni allarmanti se l'esercito dei ribelli non fosse stato sconfitto in una battaglia presso Anzea dalle legioni proconsolari aiutate dalle truppe di Tolomeo, re della Mauritania, e se Tacfarinate  in questa battaglia non fosse morto.

In GALLIA nel 21 scoppiò una insurrezione. Un nobile gallo di nome Giulio Floro sollevò alcune tribù di Belgi, ma questi furono prontamente attaccati e sconfitti e cercarono scampo nelle foreste delle Ardenne, dove il loro capo si diede la morte. Un altro nobile gallo, Giulio Sacroviro, cui era stata concessa la cittadinanza romana, sollevò  nello stesso tempo gli Edui e i Sequani e riuscì a mettere in armi parecchie migliaia di uomini. Contro gli insorti, il cui esercito -a quanto si dice- era forte di quarantamila  armati, marciò con due legioni Silio che nelle vicinanze di Augustodunum li sbaragliò. Sacroviro riuscì a fuggire, ma in una villa presso la città, pose fine ai suoi giorni suicidandosi.

Ancora in GERMANIA sette anni dopo, nel 28, sulla destra del Reno, scoppiò una rivolta di Frisi la quale, se non durò a lungo costò però moltissimo sangue ai Romani. A sedarla il legato della Germania inferiore Lucio Apronio, mandò delle truppe ausiliarie, ma i ribelli combatterono accanitamente e le costrinsero a ripiegare; ma attaccati nuovamente dalle legioni romane i Frisii dopo fiera resistenza furono battuti e ridotti all'obbedienza.

In TRACIA la pace fu minacciata da Rascuporis e Cotys, fratello il primo, figlio il secondo del morto re Remetalce, con i quali Augusto aveva diviso il regno. Dietro le intimazioni di Tiberio di posare le armi, Rascuporis finse di rappacificarsi col nipote: e, invitatolo ad un banchetto, lo trasse prigioniero, poi, per non consegnarlo ai Romani, lo uccise. Condotto a Roma e accusato dalla vedova di Cotys, Rascuporis nel 20 fu confinato ad Alessandria dove morì in un tentativo di fuga. La Tracia venne divisa tra un| figlio di Rascuporis e i figli di Cotys, ma essendo minorenni vennero posti sotto la tutela di Trebellino Rufo.
Un anno dopo, una sollevazione di tribù traciche, che avevano cinto d'assedio Filippopoli, venne domata da P. Velleo. A questa rivolta un'altra, più grave, ne seguì alcuni anni dopo. I ribelli si fortificarono in alcune posizioni e resistettero a lungo a O. Poppeo Sabino, ma stretti d'assedio e decimati in una sortita infelice, furono costretti infine ad arrenderai. 

In ASIA pure qui ci fu pericolo di una guerra, la quale si riuscì a scongiurarla grazie alla politica di Tiberio. Venuto a morte Artasse, re d'Armenia, Artabano III aveva posto sul trono il proprio figlio ARCASE venendo meno alle promesse fatte ad Augusto di non interessarsi dell'Armenia. Tiberio, a sua volta, suscitò contro il re dei Parti un competitore, TIRIDATE, e spinde MITRIDATE a FARASMANE, re degli Iberi, contro Arsace, il quale venne ucciso a tradimento. A vendicare Arsace fu mandato ORODE, altro figlio di Artabano, ma il giovane fu ferito in battaglia e il suo esercito venne sconfitto. Vinte le sue milizie in Armenia, minacciato da Lucio Vitellio dalla parte dell'Eugrate il regno partico, attaccato dentro gli stessi confini da un partito che Tiberio aveva saputo mettergli contro, Artabano di diede alla fuga e Vitellio pose sul trono dei Parti TIRIDATE

Anche nella politica interna Tiberio seguì fin che poté quella di Augusto. Suo primo pensiero fu di rafforzare il principato; e lo fece con grandissima abilità. Tolse i comizi il diritto di eleggere i magistrati e affinchè questo provvedimento non sembrasse rivolto a sopprimere la libertà concentrò il governo nelle mani del Senato, sapendo però che questo non se ne sarebbe servito contro l'imperatore e senza consiglio dell'imperatore. Al Senato e alle magistrature lasciò - come scrisse SVETONIO- la maestà e i privilegi " ...di qualunque affare, piccolo o grande, pubblico e privato, rendeva conto al Senato. Lo consultava sulle imposte, sui monopoli, sugli edifici da costruire o da riparare, sulle leve militari e sui congedi, sullo stato delle legioni e dei corpi ausiliari, sulla proroga dei comandi, sulla condotta delle guerre, sulle risposte da darsi ai sovrani e sulla forma delle lettre di risposta".
Ma lo stesso Svetonio ci dice che "...a poco a poco Tiberio assunse modi di principe e come tale si comportò: sebbene in vario modo, pure per lo più si mostrò affabile e propenso al bene pubblico. Così annullò certe deliberazioni del Senato; molte volte offrì i propri consigli ai magistrati che giudicavano in tribunale e sedette tra loro o al posto d'onore, dirimpetto; e se si diceva che a qualche colpevole si desse a torto l'assoluzione accorreva subito, e sul luogo o davanti a un tribunale d'inchiesta rammentava ai giudici le leggi e la religione e il danno recato dal reo".

Nell'amministrazione finanziaria egli ebbe di mira che il denaro dello stato non fosse sperperato e che le casse fossero sempre in floride condizioni, tuttavia non aumentò i tributi anzi sensibilmente li ridusse.

Per la pubblica sicurezza Tiberio prese apprezzabili provvedimenti: rinforzò in Italia i posti militari, fece esercitare una sorveglianza rigorosa sugli stabilimenti ove erano impiegati degli schiavi, abolì l'uso degli asili sacri che erano rifugio di malfattori, frenò i tumulti popolari, diede disposizioni perché si impedissero o punissero severamente i disordini nei teatri e privò della libertà certe popolazioni che si erano rese colpevoli di violenza contro cittadini romani.

Alle province tolse molte imposte e proibì che gli esattori esercitassero molto rigore nella riscossione dicendo che le pecore dovevano tosarsi non scorticarsi. Inoltre per impedire che i governatori si arricchissero a spese delle province lasciò che essi vi rimanessero a lungo e a giustificazione del suo punto di vista si dice che narrasse l'apologo del ferito, il quale, ricoperto di mosche già sazie, pregava il viandante di non scacciarle per non dare agio ad altre mosche di dissanguarlo.

Non furono questi soltanto i meriti di Tiberio: egli ricoprì di onori coloro che ne erano degni, rifiutò molte eredità, fu parco, non volle che gli fossero dedicati templi e statue, rifiutò il titolo di  signore  e di  padre della patria,  si mostrò liberale con le popolazioni asiatiche danneggiate da un terremoto e con gli abitanti dei quartieri del Celio e dell'Aventino distrutti da incendi, il primo nel 17, l'altro nel 26. Per quest'ultimo erogò circa cento milioni di sesterzi. Moderò le spese dei giuochi e degli spettacoli, ridusse le paghe degli attori, limitò il numero dei gladiatori, stabilì che il senato regolasse annualmente il prezzo dei viveri e punì con l'esilio quelle matrone che per sfuggire alle pene riservate alle nobili dame dedite al libertinaggio, si erano fatte iscrivere nel ruolo delle meretrici.

Ma se molti e indiscutibili furono i suoi meriti non poche furono le colpe di cui si macchiò specie negli ultimi anni della sua esistenza. Non staremo qui ad elencare tutte quelle che gli storici hanno riportate nelle pagine che Svetonio dedica alla libidine di Tiberio che, se fu descritta con esagerazione, non fu, come altri pretendono, una invenzione dei nemici dell' imperatore ; ma ci limiteremo ad accennare ai processi di "lesa maestà" che diedero luogo a quella triste fioritura di malvagi che furono i delatori. Per onor del vero questi processi non furono molti, la maggior parte di essi ebbe luogo dopo la morte di Germanico, non pochi furono voluti dal Senato e disapprovati dall' imperatore, parecchi non vennero coronati da sentenze capitali, altri finirono con l'assoluzione degli imputati ; ma alcuni ce ne furono per i quali riuscirebbe vana ogni giustificazione e che da soli basterebbero a coprire di eterna infamia la memoria di un principe.

ELIO SEIANO

Se Augusto ebbe la ventura di trovare in Agrippa e in Mecenate due collaboratori geniali, Tiberio ebbe la disgrazia di non sapersi scegliere i ministri e di innalzare in potenza uomini corrotti, malvagi ed ambiziosi. Uno di questi fu ELIO SEIANO. Apparteneva costui all'ordine equestre, di famiglia originaria di Volsinio. Suo padre, Seio Strabone, era prefetto dei pretoriani e in questa carica, nei primi anni del principato di Tiberio, si associò il figlio, il quale, morto il genitore, rimase capo delle coorti pretorie. Maestro nell'arte del fingere e dell'adulare, Seiano aveva saputo con somma abilità entrare nelle grazie di Tiberio e guadagnarsene l'amicizia. Niente faceva l' imperatore senza aver prima preso consiglio dal suo ministro del quale faceva pubbliche  lodi. Queste gli procurarono grandi onori da parte del Senato, e Seiano ne approfittò per formarsi un suo numerosissimo partito. Ma più che sui suoi aderenti il furbo ministro contava sui pretoriani e per potersene più facilmente servire li raccolse in un campo trincerato che appositamente fece costruire fra le vie che conducevano a porta Viminale e porta Collina. Era tanta la fiducia che Tiberio gli aveva accordata e così grande la potenza cui era riuscito a pervenire che nel 20 si parlò perfino di imparentare una di lui figlia con l'imperatore maritandola con un figlio di Claudio, fratello di Germanico.

Molte cose sono state scritte intorno agli ambiziosi disegni di Seiano ; fra le altre che egli aspirasse alla successione di Tiberio. Ma alla realizzazione di questo disegno ai opponevano ostacoli non lievi: l'imperatore aveva un figlio, Druso ; e vivevano a Roma, molto amati dal popolo, i figli di Germanico e di Agrippina, donna ambiziosa e bramosa di potere, intorno alla quale si era venuto formando un numeroso partito composto di tutti coloro che non nutrivano simpatie per Tiberio. Ma l'ostacolo maggiore  era rappresentato da Druso, che un giorno, venuto a diverbio con Seiano, gli diede uno schiaffo. Druso aveva per moglie Livilla, sorella di Germanico, donna di facili costumi ed amante di Elio Seiano. Nel 23 Druso morì. Molte leggende corsero sulla sua fine. Secondo una di queste Seiano avrebbe detto a Tiberio che era intenzione del figlio di avvelenarlo e che perciò si guardasse dal bere nella coppa che gli sarebbe stata offerta da Druso. Cenando un giorno in casa del figlio ed essendogli stato offerto da questo una coppa di vino, in cui da Sciano era stata messa una sostanza velenosa, Tiberio avrebbe ordinato a Druso di berne il contenuto. Secondo un'altra leggenda la perdita di Druso sarebbe stata organizzata da Seiano e Livilla e sarebbe stata questa a propinare al marito il veleno preparato da un medico greco. Tolto di mezzo il marito, Sciano avrebbe dovuto sposare Livilla. Quanto ci sia di vero in quest'ultimo racconto non è facile sapere ; si sa però che Sciano ripudiò la propria moglie Apicata e chiese in sposa la vedova di Druso. Ma Tiberio si oppose a questo matrimonio. 

Scrive Svetonio che Druso fosse di carattere debole e che perciò il padre non lo stimasse. Pare infatti che Tiberio non provasse molto dolore per la morte del figlio. Non soltanto ritornò pochi giorni dopo alle cure del governo, ma vietò che a Roma il lutto fosse di lunga durata. « Anzi, essendo più tardi venuti legati da Ilio a presentargli le loro condoglianze, egli, quasi avesse già perduto il ricordo di quella disgrazia, rispose scherzando che anche lui si doleva con loro perché avevano perduto l'illustre concittadino Ettore !».
Druso lasciava due gemelli, uno dei quali doveva morire quell'anno medesimo. Tiberio pronunziò davanti al popolo e al Senato l'elogio funebre del figlio ; più tardi presentò al Senato i figli maggiori di Germanico, NERONE e DRUSO, pregando i senatori che li proteggessero e guidassero.

Non sappiamo se ciò facendo Tiberio fosse sincero ; certo è però che dal quel giorno Sciano dovette odiare maggiormente la famiglia di Germanico e meditarne la rovina. Il suo disegno veniva reso più facile dal contegno di Agrippina, la quale apertamente mostrava di dolersi di esser tenuta in poca considerazione dall' imperatore. Sciano iniziò una lotta accanita contro gli amici della vedova di Germanico e contro la stessa Agrippina, mettendola in cattiva luce presso Tiberio e Livia.
Narrasi che egli da una parte avvertisse la vedova che l'imperatore aveva in animo di avvelenarla e che d'all'altra facesse sapere a Tiberio che Agrippina temeva di essere avvelenata. Un giorno, a cena, l'imperatore le offrì certi frutti, ma lei li rifiutò e da allora Tiberio non la invitò più. Non possiamo garantire la verità di questo fatto ma non ci meraviglieremmo che fosse vero. 

Tiberio, istigato da Sciano e crucciato per il favore che la famiglia di Germanico godeva presso il popolo, aveva cominciato a nutrire odio verso Agrippina e i parenti di lei, odio che doveva nell'animo suo diventar grande ed esser causa della morte della vedova e dei figli ch'egli tanto calorosamente aveva raccomandato al Senato.
Una delle prime vittime di quest'odio fu Claudia Pulcra, cugina di Agrippina, la quale fu accusata di lesa maestà e di adulterio.
Invano Agrippina pregò l'imperatore di salvare l'accusata. Tiberio fu inflessibile ed avendogli essa detto che non era degno di sacrificare ad Augusto chi ne condannava i congiunti; dicesi che egli le rispondesse : "Figliuola, ti adiri, solo perché non regni ».

Consigliato da Seiano, il quale rivolgeva nella mente ambiziosi disegni, e trovandosi a disagio a Roma dove non era ben visto dalla cittadinanza, Tiberio decise di allontanarsi dalla metropoli. Col pretesto di dedicare il tempio di Giove a Capua e quello di Augusto a Nola, lasciò Roma nell'anno 26 e si recò in Campania, donde passò nell'isola di Capri, comprata da Augusto che vi aveva fatto costruire una grande villa. Tiberio si avvicinava al suo settantesimo anno e conduceva con sé Seiano, il giureconsulto Cocceio Nerva, parecchi cavalieri ed alcuni letterati greci. A Roma non doveva più tornarci neppure nel 29 quando finì di vivere la sua vecchia madre i cui rapporti col figlio non erano da tempo cordiali.
Ma a Roma era tornato Elio Sciano. Investito dei pieni poteri, deciso più che mai di disfarsi della famiglia di Germanico, il crudele ministro la circondò di guardie e di spie. Più d'ogni altro era sorvegliato il giovane Nerone. Per rovinarlo con maggiore facilità si guadagnò l'animo della moglie di lui, Giulia, che era figlia di Livilla, della quale Sciano era ancora l'amante, e suscitò contro Nerone, con arte abilissima, l'odio del fratello Druso.
In quel tempo un cavaliere molto amico di Germanico, chiamato Tizio Sabino, ac cusato da quattro senatori ligi a Seiano, venne condannato alla pena capitale. Da Ca pri Tiberio, saputa la condanna, si congratulava col Senato e lo ringraziava di avere esemplarmente punito un «nemico della repubblica».
Questa condanna era il preludio della tragedia che doveva funestare la casa di Germanico.

Giunge un giorno al Senato una lettera di Tiberio. In essa l'imperatore accusava Agrippina di arroganza e Nerone di condotta immorale. Il Senato, non conoscendo i propositi di Tiberio, non prese alcun provvedimento ; i partigiani di Agrippina invece, sdegnati, inscenarono una dimostrazione popolare: i ritratti dei due accusati furono portati per le vie di Roma e intorno alla curia con grandi acclamazioni gridando che la lettera era falsa e infondata l'accusa.
Questa dimostrazione anziché giovare arrecò danno alla famiglia di Germanico. Eccitato da Sciano, il Senato mise sotto processo per lesa maestà Agrippina e il figlio Nerone.
Dalla stessa accusa non riuscì salvarsi Druso alla cui rovina contribuì il tradimento della moglie Emilia Lepida.
La sentenza non poteva essere che di condanna : Agrippina venne relegata nell'isola di Pandataria, Nerone nell'isola di Ponza, Druso fu chiuso nel carcere sotterraneo del Palatino. 
Nel 31 Nerone si tolse la vita ; l'infelice Agrippina, dopo aver subito infiniti maltrattamenti e aver perduto un occhio per le percosse di un centurione, si lasciò mo rire di fame nel 33 ; nello stesso anno cessò di vivere Druso, che, lasciato senza cibo, tentò di mangiare la lana dei materassi.

Seiano trionfava; ma la tempesta che doveva travolgerlo si avvicinava. In mezzo agli onori che tutti gli tributavano, due uomini si ergevano davanti ai suoi ambiziosi disegni : Tiberio Gemello, figlio dell' imperatore, e Cajo, l'ultimo dei figli maschi di Germanico.
Il diabolico ministro cercò di realizzare i suoi disegni tramando congiure con generali e senatori. Ma una donna vegliava su Cajo e teneva d'occhio i segreti maneggi del pre fetto dii pretoriani : Antonia, la vecchia madre di Germanico la quale aveva assistito con angoscia alla rovina della sua famiglia e tramava vendetta.
Antonia informò il cognato delle macchinazioni del ministro e Tiberio decise di sbarazzarsene. Ma occorreva agire con la massima circospezione tanta era la potenza di Seiano, il quale aveva a sua disposizione nelle coorti dei pretoriani un'arma terribile.

L'imperatore mise in opera tutta la sua astuzia. Per non far sorgere sospetti nell'animo di Sciano, lo ricoprì di onori, lo innalzò, al pontificato e gli promise la potestà tribunizia, poi preparò con Nevio Sertorio Macrone, comandante delle coorti urbane, il colpo che doveva abbattere l'ambizioso e malvagio ministro.
Macrone venne segretamente nominato capo dei pretoriani e si recò a Roma con una lettera di Tiberio per il Senato. Giunto nella metropoli, Macrone si abboccò col console Mennio Regolo e con Grecinio Lacone, comandante dei vigili, con i quali, dopo aver rivelato i propositi dell'imperatore, prese gli opportuni accordi.

Venuto il giorno stabilito, Mennio convocò il Senato nel tempio di Apollo sul Pa latino. Sulla porta del tempio Macrone incontrò Seiano e gli comunicò che Tiberio gli aveva conferito la potestà tribunizia con una lettera che egli era stato incaricato di portare al Senato. Seiano, giubilante per la notizia, entrò nel tempio ed andò a sedersi fra i senatori ; Ma crone invece, rimasto fuori, rimandò i pretoriani che erano di guardia intorno al tempio e al loro posto mise i vigili di Lacene. Ciò fatto entrò nel tempio, consegnò la lettera al console e si recò in fretta al campo dei pretoriani, fuori di porta Nomentana, per comunicar loro che era stato nominato prefetto in sostituzione di Seiano. Quello che Ti berio temeva non si avverò: i pretoriani accolsero l'annunzio con ubbidienza.
Nel frattempo Memmio Regolo leggeva al Senato la lettera dell' imperatore : era una lettera lunghissima in cui Tiberio discorreva di tante cose e qua e là parlava del suo ministro ora lodandolo ora rimproverandolo ; ma nella chiusa l'imperatore accusava di cospirazione il suo ministro ed ordinava che fosse tratto in arresto.

Quell'ordine inaspettato produsse dapprima un'immensa sorpresa nell'uditorio; poi i senatori, che un momento prima si erano congratulati col ministro del nuovo onore di cui era stato colmato, si allontanarono da lui lanciando ingiurie al suo indirizzo. Seiano annichilito da quell'improvviso colpo di scena, fu circondato dai pretori e dai tribuni e, caricato di catene, venne dai vigili, per ordine del console, trascinato nel carcere.
Quel giorno stesso il Senato, radunatesi nel tempio della Concordia, fece un pro- cesso sommario contro il ministro, che terminò con una sentenza di morte. Questa venne eseguita il 18 ottobre del 31, tra la gioia grandissima del popolo che fece orribile scempio del cadavere dello scellerato ministro. Il Senato, decretò feste a perpetuo ri- cordo della fine del ministro e stabilì che fosse innalzata una statua alla Libertà con la seguente epigrafe : "Saluti perpetuae Augustae Libertatique populi romani Providentia Ti. Caesaris Augusti nati ad aeternitatem romani nominis, sublato hoste perniciosissimo".

LA CRUDELTA' DI TIBERIO - LA SUA MORTE

La morte di Seiano fu seguita da numerosi processi. Se prima avevano da temere i nemici del ministro poi furono i suoi amici coloro che videro infuriar contro sé stessi la vendetta.
I primi a cadere furono i congiunti di Seiano. Egli aveva due figli, un giovanotto e una fanciulla. Non colpevoli d'altro che di appartenere alla famiglia del ministro, tuttavia fu rono condannati alla pena capitale. La figlioletta, mentre veniva condotta al supplizio, levava alte grida e domandava dove la conducessero e  che non aveva commesso nessuna colpa. E siccome una legge antica proibiva che si condannassero a morte le vergini, prima di essere uccisa, fu violata dal carnefice !
Apicata, che era stata ripudiata da Seiano, per vendicare la fine dei suoi figli innocenti, rivelò a Tiberio che era stata Livilla ad avvelenare Druso. Livilla, fu processata, condannata incarcerata e fatta morire di fame. Apicata si uccise.

Dopo la rivelazione sulla morte di Druso -scrive SVETONIO- la crudeltà di Tiberio non ebbe più freno. « Si mostra in Capri il luogo dove commetteva le sue carneficine ; di là ordinava che i condannati, dopo aver subito in sua presenza lunghi ed atroci tormenti, venissero precipitati nel mare, dove una schiera di marinai  li colpivano con picche e con queste e coi remi facevano a brani i corpi affinché nessuno rimanesse vivo ».

Le crudeltà dell' imperatore e del suo degno ministro Macrone culminarono nel 33. In un solo giorno di quell'anno ben venti persone furono messe a morte, tra cui delle donne e dei fanciulli.

In quel tempo, forse senza che a Roma ne giungesse la notizia, nella lontana Palestina moriva crocifisso, sul Calvario, Gesù, il figlio di Dio, l'unto del Signore, che, nato a Betlemme sotto Augusto, aveva predicato l'umiltà e l'amore tra le genti e sparso sulla terra il seme della religione nuova che doveva più tardi espandersi nel mondo.

Tiberio contava allora settantatré anni. Visse ancora altri cinque. Trovandosi ad Asturia, in Campania, si ammalò ; rimessosi un po', si recò a Circe e per nascondere agli altri il suo male volle assistere ai giuochi militari e scagliò pure delle frecce contro un cinghiale lanciato nell'arena. Passato a soggiornare a Miseno, la sua malattia si aggravò, pur tuttavia Tiberio continuò la sua vita intemperante.
Da Miseno volle recarsi alla sua villa di Capri, ma fu trattenuto dal mare tempestoso.
Morì nella villa di Lucullo il 16 marzo del 37.

Secondo alcuni fu fatto avvelenare da Cajo, figlio di Germanico, secondo altri, essendo moribondo, fu da Macrone ordinato che venisse soffocato con un guanciale.
Il popolo accolse con grandi manifestazioni di gioia l'annunzio della morte del sanguinario tiranno e avrebbe voluto che il corpo fosse bruciato nell'anfiteatro di Atella ; ma i soldati lo portarono a Roma e qui venne arso con pubbliche cerimonie.


FINE PERIODO DI TIBERIO

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CAJO CESARE CALIGOLA

Due giorni dopo la morte di Tiberio il Senato nominava imperatore Cajo Cesare Caligola. Era questi l'ultimo dei figli maschi di Germanico ed Agrippina e contava allora venticinque anni, essendo nato ad Anzio il 31 agosto del 12.

Ancora bambino, era stato portato dal padre in Germania; era cresciuto fra i soldati e da questi, a causa dei calzari militari (dette caligae) che soleva portare, aveva ricevuto il soprannome di Caligola. Aveva accompagnato il padre anche in Oriente; ritornato a Roma, aveva abitato con la madre; quando questa era stata mandata in esilio era andato ad abitare con la bisavola Livia; morta costei, ne aveva pronunziato l'elogio, poi s'era recato a convivere con la nonna Antonia (la madre di suo padre).

Chiamato nel 31, quand'era in età di diciannove anni, a Capri da Tiberio, in uno stesso giorno aveva vestito la toga e si era lasciata crescere la barba senza alcuno degli onori che in simile occasione erano invece toccati ai suoi fratelli. A Capri era vissuto umile e sottomesso; invano si era cercato di fargli dir male di Tiberio; egli con una abilissima condotta aveva saputo evitare l'ira e i sospetti dell'imperatore, non aveva neppure mostrato dolore per la morte della madre e dei fratelli ed era stata tale la sua sottomissione a Tiberio che si disse poi di lui non essere mai stato né miglior servitore né peggior padrone.

Tuttavia -se dobbiamo credere a SVETONIO- neppure allora aveva potuto mitigare il suo carattere crudele: « uno dei suoi divertimenti preferiti era quello di assistere ai supplizi di quelli che venivano torturati. Di notte andava per le taverne e i postriboli, truccato con una parrucca ed una lunga zazzera; la più grande delle sue passioni era la musica e la danza nei teatri e Tiberio sopportava tutto questo sperando che il gusto della danza e della musica potesse mitigare il carattere feroce del nipote. L'intelligente vecchio lo conosceva così bene che spesso diceva : « Cajo vive per la rovina sua e di tutti; io educo un serpente per il popolo romano, un Fetonte per il mondo ».

Giovanissimo aveva sposata Giunia Claudia, figlia di Marco Silano. Venuto Seiano in sospetto dell'imperatore, Cajo era stato nominato àugure e poi creato pontefice. Avendo perduto la moglie in conseguenza di un parto, Caligola era divenuto l'amante di Ennia Nevia, moglie di Sortono Macrone, e per mezzo di lei aveva ottenuto l'appoggio del capo dei pretoriani. Morto Tiberio, fu appunto Macrone che assicurò al nuovo imperatore la fedeltà delle coorti pretorie.
La fine del vecchio e crudele imperatore era stata accolta con gioia da tutti; l'elezione di Caligola veniva ora considerata come il principio di una nuova era o meglio la continuazione del principato pacifico di Augusto. Essa segnava il trionfo del fortissimo partito di Germanico, che tante persecuzioni aveva dovuto subire e che finalmente vedeva a capo dello Stato il figliuolo dello sfortunato eroe, colui che per via materna discendeva da Augusto.

Il testamento di Tiberio, che insieme con Caligola istituiva erede Tiberio Gemello, venne annullato; ma da uomo accortissimo, Caligola per non suscitare malumori pagò i legati dell'estinto e quelli dell'imperatrice Livia, pagò inoltre le somme promesse all'atto di vestire la toga virile ed elargì due volte trecento sesterzi ad ogni cittadino povero.

Questi atti non potevano non conciliargli la simpatia del popolo, e poiché il popolo amava le feste e gli spettacoli di cui Tiberio era stato avaro, Caligola dopo la sua elezione volle che seguissero numerosi divertimenti per giorni e giorni.

I riti degli Egiziani, che dal passato imperatore erano stati aboliti, vennero permessi; gli istrioni furono richiamati; vennero dati spettacoli di gladiatori, parte nell'anfiteatro di Tauro, parte nel Campo Marzio, e ai gladiatori furono aggiunti Africani e atleti scelti della Campania; vennero dati spettacoli scenici sia di giorno che di notte con l'illuminazione di tutta la città e abbondanti distribuzioni di doni; furono inoltre dati giuochi nel Circo che duravano dalla mattina alla sera con intermezzi di cacce di belve africane e di ludi troiani. Alcuni di questi spettacoli rimasero famosi per la polvere d'oro e il minio sparsi sull'arena e perché i gladiatori furono sostituiti dai senatori incolpati di reati o di lesa maestà.
Perché tutti potessero assistere agli spettacoli vennero rimandate le liti che cadevano nei giorni di festa e perciò si videro i circhi e gli anfiteatri sempre pieni di gente plaudente.

Fu tanta la gioia della cittadinanza dopo l'ingresso del nuovo imperatore a Roma che -scrive SVETONIO- « in meno di tre mesi furono immolate più di centosessantamila vittime ». 
Pochi giorni dopo, essendosi Caligola messo in viaggio per le isole della Campania, furono fatti i voti per il suo ritorno per dar prova della sollecitudine e dell' interesse che il popolo aveva della sua salute.

Quando si ammalò, il popolo trascorreva le notti nelle vicinanze del palazzo e ci fu chi fece voto di combattere, se egli guariva, e perfino di immolarsi.
 All'amore grandissimo dei cittadini si aggiunse una grande benevolenza da parte degli stranieri. Difatti Artabano, re dei Parti, che aveva sempre disprezzato e odiato Tiberio, cercò l'amicizia di Cajo, ebbe un convegno col proconsole romano e, varcato l'Eufrate, adorò le aquile e le insegne di Roma e le immagini dei Cesari.

I primi atti del nuovo imperatore furono di bontà e di clemenza: di Tiberio, la cui memoria avrebbe dovuto odiare, fece invece l'elogio funebre e il figlio di Druso lo adottò e lo nominò principe della gioventù; volle però, quasi condannando l'operato del defunto principe, rimettere in primo piano la propria famiglia onorando la memoria dei suoi morti e ricoprendo di onori i vivi. Recatosi a Pandataria e a Ponza, raccolse le ceneri della madre e del fratello che mise in urne preziose e portò per mare ad Ostia e poi lungo il Tevere a Roma dove furono ricevute dai principali cittadini e collocate in due arche nel Mausoleo tra grande concorso di popolo. In loro onore furono decretati sacrifici annui e in memoria di Agrippina giuochi circensi nei quali l'immagine di lei doveva esser portata con gran pompa sopra un carro. 
In onore del padre diede il nome di Germanico al mese di settembre, con un decreto del Senato fece conferire alla nonna Antonia tutti gli onori ch'erano stati dati alla madre di Tiberio e prese come collega nel consolato suo zio Claudio. Alle sue sorelle non decretò onori ma ordinò che i cittadini, giurando, dicessero: « non amerò me stesso ne i miei figli più di quanto, amo Cajo e le sue sorelle » e che i consoli, nei loro rapporti, scrivessero: «salute e felicità a Cajo Cesare e alle sue sorelle ». 

Tutto acceso dal desiderio di ricondurre la pace tra i cittadini e di cattivarsi la simpatia e la stima, concesse un'amnistia generale, fece bruciare tutti gli atti dei processi fatti a sua madre e ai suoi fratelli dopo aver giurato di non aver preso visione i nomi dei testimoni e dei delatori, e rifiutò una carta con la quale gli si rivelava una congiura, dichiarando di non voler dare ascolto alle delazioni, concesse che si ricercassero, leggessero, e diffondessero le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo che il Senato aveva proibite, pubblicò i bilanci dello stato seguendo l'esempio di Augusto, istituì una nuova decuria di giudici, diede ampia libertà di giudizio ai magistrati, rimise in vigore la consuetudine di passare in rivista i cavalieri ed abolì imposta sulle vendite.

Per tutte queste cose gli furono decretati molti onori, fra cui uno scudo d'oro che ogni anno i collegi sacerdotali dovevano portare al Campidoglio accompagnati dai senatori e da fanciulli e fanciulle cantanti le lodi dell' imperatore. Inoltre il giorno della sua elezione fu chiamato Parilia come se in quel giorno fosse stata riedificata Roma.

In quanto alla politica estera il governo di Caligola non segnò che pochissime novità. Morto Tolomeo, la Mauritania fu ridotta a provincia; a Remetalce, primogenito di Cotys, fu dato il regno di Tracia, al secondogenito Polemone il Ponto Polemoniaco, al terzogenito Cotys l'Armenia minore; la Commagene, che da Tiberio era stata confiscata, fu restituita ad Antioco, figlio del re, accresciuta delle coste della Ciucia. Antioco ricevette inoltre cento milioni di sesterzi come indennizzo. Agrippa, principe di Giudea, ebbe, oltre il titolo di re, la tetrarchia di Filippo II, il territorio di Abila e, più tardi, la Galilea da cui fece cacciare Erode Antipa.
* * *
PAZZIE E CRUDELTÀ DI GALIGOLA

 II buon governo di Cajo Cesare Galigola durò poco più di otto mesi. Dopo questo breve tempo, colui che aveva abolita la legge di lesa maestà e dal popolo era stato chiamato stella, garzoncello, amore, pupilla degli occhi, si trasformò in un pazzo e in un mostro di crudeltà.
Si volle attribuire questo mutamento ad una gravissima malattia che ridusse in fin di vita l'imperatore otto mesi circa dopo ch'era stato assunto all'impero e certo questa infermità dovette influire sul carattere di Caligola, ma anche senza questa malattia Cajo Cesare non sarebbe rimasto il buon principe dei primi tempi. Noi crediamo che egli fingesse bontà e rettitudine per consolidare il suo potere; in realtà egli era di animo crudele ed aveva in sé già i germi della pazzia. Di corpo e di spirito non era sano; soffriva di epilessia sin dall'infanzia ; il corpo aveva tutte le caratteristiche del degenerato. 
Che fosse di natura crudele è dimostrato dalla vita condotta nella sua prima giovinezza. Un uomo simile non poteva tardare a rivelare i suoi istinti feroci. Dal giorno in cui egli si toglie la maschera dal viso, tutti i suoi atti sono quelli di un depravato, di un demente e di un sanguinario.
Libidinoso più del precedente imperatore, si unisce incestuosamente con le sorelle, Giulia ed Agrippina, e viola la sorella Drusilla che dà in sposa al consolare Cassie Longino, ma poi la rivuole. Per costei ha un' inclinazione particolare e la considera come moglie. Essendo infermo, la istituisce erede dei suoi beni e dell' impero; quando Drusilla improvvisamente muore, ordina un lutto pubblico, decreta che i giuramenti siano fatti nel nome di lei, la divinizza col nome di Pantea e le fa innalzare statue. 

Invaghitesi di Livia Orestilla, mentre questa banchetta per celebrare le sue nozze col senatore Calpurnio Pisone, la toglie allo sposo e la fa sua moglie, ma dopo pochi giorni la ripudia; la stessa sorte tocca alla bellissima Lollia Paulina, che, strappata al marito, viene sposata e poco dopo ripudiata da Caligola. Sua ultima moglie è Cesonia, già madre di tre figlio, né brutta né bella né giovane, ma piuttosto lussuriosa, che riesce a ispirare al marito una passione morbosa e duratura. 
Ma di quest'amore non è compagno il rispetto: l'imperatore la veste di clamide, l'arma di scudo e di casco e la conduce fra i soldati; agli amici la mostra nuda. Né sono queste soltanto le prove della libidine del principe. Ha turpi rapporti con Marco Lepido, col pantomimo Menestre, con Valerio Catullo e parecchi altri; dedica il suo tempo ad orge scandalose in compagnia di Pirallide, notissima, prostituta, invita a pranzo le matrone più illustri di Roma per strapparle ai loro mariti ed abusarne; e all'onta aggiunge lo scherno quando incontrando i rispettivi mariti loda il corpo e le prestazioni lussuriose delle loro consorti.

La follia in Caligola è pari alla lussuria. Egli si crede dio. Dalla Grecia fa venire le statue più pregevoli delle divinità maggiormente venerate, fra cui quella di Giove Olimpo, e fa sostituire la loro testa con la sua; fa ingrandire la sua casa fino al Foro e la congiunge al tempio dei Dioscuri e fra le statue di Castoro e Polluce si siede e si fa adorare. 
Prende il titolo di Ottimo Massimo proprio di Giove e si fa salutare col nome di Giove Latino; si fa erigere un tempio in cui pone una sua statua d'oro; istituisce uno speciale collegio di sacerdoti che in questo tempio Sacrificano fagiani, pavoni, oche nere, galline d'India e d'Africa; invita la luna a congiungersi con lui, parla con Giove, ordina che nelle province gli vengano eretti templi e che la sua statua abbia un posto nel tempio dei Giudei a Gerusalemme.

La mania della grandezza gli suggerisce azioni grottesche: vieta che s'innalzino statue a persone viventi, muove guerra alle opere di Omero, Livio e Virgilio perché non vuole essere oscurato dall'ingegno di questi grandi; per superare Serse che aveva passato l'Ellesponto fa costruire sul mare tra Baia e Pozzuoli per un tratto di tremila e seicento passi un ponte su navi ricoperto di terrapieno a somiglianza della Via Appia e vi passa e ripassa per due giorni, prima sopra un cavallo magnificamente bardato, portando in capo una corona di quercia, intorno al corpo una clamide dorata, nelle mani uno scudo gallico, una scure ed una spada, poi sopra un ricchissimo carro, preceduto da un ostaggio dei Parti e seguito dai suoi pretoriani e dai cocchi degli amici; disegna di ricostruire a Samo la reggia di Policrate, di fondare una città sulle Alpi e di tagliare l'itsmo di Corinto, dice di voler muovere guerra ai Germani e, apprestato un esercito di circa duecentomila uomini, va sul Reno, fa nascondere in un bosco un certo numero di soldati germanici della sua guardia, finge di assalirli e ritorna al campo trionfante; venutagli l'idea di fare una spedizione in Britannia, conduce le sue truppe sulle rive della Manica e qui, fatto dare il segnale dell'assalto, ordina ai soldati di raccogliere conchiglie per ornarne il Campidoglio.

Né queste sono le sole stranezze da lui commesse: vuole trionfare per le due spedizioni non fatte contro i Germani e i Britanni e traveste numerosi Galli, che serviranno a far la parte di prigionieri; fa svegliare una notte alcuni senatori e, dopo averli convocati a casa sua, li licenzia dopo aver fatto davanti a loro alcune capriole; fa costruire scuderie di marmo per il suo cavallo, lo nomina membro di un collegio di sacerdoti e lo fa eleggere console, e, per non citare altro: durante uno spettacolo ordinò di toglere il velario del teatro perché gli spettatori rimanessero esposti ai raggi del sole.

L'uomo feroce e sanguinario supera però di gran lunga il pazzo.
Cajo Caligola assume il titolo di dominus e si considera padrone di tutti, dal più alto magistrato all'ultimo cittadino. 
«Volle che molti senatori, che già avevano ricoperte le più alte cariche, corressero a piedi e in toga davanti al suo cocchio per parecchie miglia e rimanessero ritti vicino la sua tavola o ai suoi piedi portando, come gli schiavi, un grembiule; altri senatori fece morire segretamente e per un certo tempo continuò a chiamarli come se fossero ancora vivi; poi fece credere che si fossero suicidati. 
Destituì i consoli perché avevano dimenticato di annunziare con un editto l'anniversario della sua nascita, e per tre giorni lo Stato rimase senza i supremi magistrati. Fece battere con le verghe il suo questore, lo denudò e lo gettò sotto i piedi dei suoi soldati per esser battuto più fortemente solo perché il nome di lui era stato pronunziato in una congiura. Con pari arroganza e crudeltà trattò gli altri ordini. Disturbato dal chiasso prodotto da coloro che di notte si affrettavano ad occupare nel Circo i posti gratuiti, li fece scacciare a colpi di bastone; nel tumulto che ne seguì perirono più di venti cavalieri romani, altrettante matrone e un gran numero di plebei. 
Per far sorgere liti tra l'ordine
equestre e la plebe, faceva cominciare i giuochi prima dell'ora stabilita affinché i posti destinati ai cavalieri fossero occupati dai primi arrivati"  (Svetonio) ».

Per non spendere troppo comprando gli animali per il pasto delle fiere, più di una volta ordinò che venissero loro dati i detenuti. Condannò ai lavori forzati dopo averli fatti bollare con un ferro rovente o fece mettere in gabbie strettissime molti distinti cittadini colpevoli soltanto di non aver giurato in nome suo o di essersi mostrati poco soddisfatti di uno dei suoi spettacoli. 
Obbligava i genitori ad assistere al supplizio dei loro figli e uno di essi, dopo di essere stato spettatore dei tormenti inflitti a un suo figlioletto, fu costretto da Caligola a sedere alla mensa imperiale e a stare allegro. Assistendo un giorno ai sacrifici davanti ad un altare, brandì una scure e uccise il sacerdote; a un cavaliere, condannato alle fiere, che si proclamava innocente fece tagliare la lingua; sospettando che gli esiliati gli augurassero la morte, fece trucidare dai sicari tutti coloro che erano stati deportati nelle isole; voleva che i supplizi fossero prolungati e squisiti affinché la morte dei condannati fosse meglio sentita: ogni dieci giorni compilava l'elenco dei cittadini da giustiziare e diceva che metteva in ordine i suoi conti ».
Adirato contro il pubblico, che in uno spettacolo aveva espresso parere diverso dal suo, esclamò : «Oh se il popolo romano avesse una sola testa ! » ; avendo una volta i due consoli che pranzavano con lui chiesto umilmente perché ridesse, rispose : «rido perché penso che con un sol cenno potrei farvi scannare entrambi », e tutte le volte che baciava il collo della moglie o di un'amante diceva : «questa bella testa cadrà quando io vorrò ».

E moltissime furono le teste che rotolarono per suo ordine, né si salvarono amici e parenti: furono trucidati il re Tolomeo, cugino dell' imperatore, Ennia Nevia, Sertorio Macrone; la nonna Antonia fu -come si crede- avvelenata e il suocero Silano fu costretto a darsi la morte; Tiberio Gemello per ordine di Caligola fu assassinato da un tribuno militare. Solo lo zio Claudio e le sorelle scamparono, ma queste ultime saranno più tardi mandate in esilio.

«Nello spendere - scrive SVETONIO- superò ogni altro dissipatore. Inventò nuovi modi di bagni, di cibi e di banchetti; si lavava con essenze odorose, inghiottiva perle e pietre preziose con aceto, offriva ai commensali pane e altri cibi d'oro, dicendo; «o si è uomini frugali o si è Cesari ». Al popolo, per parecchi giorni consecutivi dall'alto della basilica Giulia, gettò monete di molto valore. Fece costruire navi liburniche di cedro con le poppe ingemmate e le vele di tela dipinta, in cui erano bagni, gallerie e ampie sale da pranzo, viti e alberi da frutto d'ogni specie. Su queste navi egli costeggiava la Campania, seduto a mensa, tra musiche e danze.
Nel costruire ville e palazzi eccedeva ogni misura, e gli piaceva fare tutto quello che gli altri stimavano impossibile a farsi. Gettò dighe in un mare profondo e tempestoso, fece tagliare le più dure rocce, spianare montagne in pianure, mutar pianure in alture, con incredibile celerità perché considerava delitto capitale ogni lentezza nei lavori. E per non enumerare ad uno ad uno gli sperperi chiudiamo dicendo che in meno di un anno consumò immense ricchezze e la somma di ventisei milioni di sesterzi che Tiberio aveva accumulato».

Non deve recar meraviglia se, con un simile dissipatore, presto l'erario rimase vuoto. Pur di trovar denaro da spendere Caligola non badò a mezzi. Condannò i più ricchi cittadini per poterne confiscarne i beni, fece mettere il suo nome tra gli eredi nei testamenti e fece morire molti di coloro che, dopo di averlo istituito erede, si ostinavano a vivere. 
Eseguì vendite pubbliche, obbligando i cittadini a comprare gli oggetti al prezzo da lui stabilito; trovandosi nelle Gallie, vendette i gioielli, i mobili, gli schiavi e i liberti delle sorelle e, spinto dal desiderio di guadagnare, fece venire da Roma tutte le vecchie suppellettili della corte e le mise all'asta.
Non contento delle somme ricavate, impose nuovi tributi: una tassa su tutti i viveri che ai vendevano a Roma, una del 2 e mezzo per cento sulle spese giudiziarie e un'altra del 12 e mezzo per cento sul reddito che colpiva i facchini e le meretrici; e per non lasciar nelle mani dei funzionari pubblici le riscossioni delle imposte, ordinò che le tasse venissero riscosse dai centurioni e dai tribuni delle coorti pretorie.
Fu tanto avido di guadagni che istituì - a quel che si dice- nel suo stesso palazzo un postribolo e mandò i suoi servi per le case a invitare vecchi e giovani perché lo frequentassero.
Allo scopo di ricavar molto denaro dalle multe fece leggi ed ordinò che, scritte in minutissimi caratteri, venissero affisse tanto in alto da non riuscir possibile ai cittadini di prenderne visione ed uniformarvisi. 
Essendogli nata una figlia, pretese che fosse mantenuta e dotata dalla cittadinanza ed egli stesso si mise nel vestibolo del palazzo per ricevere i doni che la folla gli recava.

Un pazzo così avido e sanguinario non poteva non attirarsi l'odio di tutti e non far sorgere nell'animo di coloro che più degli altri erano presi di mira dal suo desiderio di vendetta.
Tre congiure furono ordite contro Caligola. La prima e la seconda fallirono. Marco Emilio Lepido, parente di Augusto ed amante di una sorella dell' imperatore, insieme con Lentulo Getulico, già comandante delle legioni del Reno, accusato di aver capeggiato la prima, venne messo a morte. Le sorelle di Caligola, accusate anch'esse, furono mandate in esilio.
La terza congiura invece riuscì. Capo ne era Cassio Cherea, tribuno dei pretoriani, che l'imperatore soleva continuamente schernire ed oltraggiare. Con lui erano Cornelio Sabino e Papiniano, ufficiati delle coorti pretorie, il senatore Popedio, Valerio Asiatico, alcuni senatori e cavalieri, un liberto di Caligola e non pochi soldati.

Fu stabilito di porre fine alla vita del tiranno il 24 gennaio del 41, in occasione delle feste augustali. Quel giorno, verso l'ora settima, mentre l'imperatore passava in un corridoio, attraverso il quale si recava ad assistere alla recita di un ditirambo che alcuni giovani asiatici dovevano fare, gli si fece incontro Cassio Cherea col pretesto di chiedergli la parola d'ordine. Caligola, al solito, rispose con una parola di scherno. Il tribuno allora estrasse la spada e lo colpì alla testa; a sua volta Cornelio Sabino con la sua lo feriva al petto. L'imperatore cadde a terra; ma non era morto: gli altri congiurati lo finirono con una trentina di colpi. Non vennero risparmiate la moglie Cesonia e la figlioletta Drusilla. La prima fu trapassata con una spada, la seconda venne sfracellata contro una parete.

Quando morì, Cajo Cesare Caligola aveva ventinove anni. Il suo impero era durato tre anni, dieci mesi ed otto giorni. Il cadavere venne segretamente subito portato nei giardini di Lamia, bruciato a metà sopra un rogo frettolosamente innalzato, poi sepolto e ricoperto con poca terra. Solo più tardi, quando le sorelle tornarono dall'esilio, fu dissepolto, arso e le ceneri tumulate.

Quando i congiurati ebbero finito l'opera, uscirono per le strade di Roma gridando "Roma libera!".
Si ripeteva la scena delle idi di marzo quando fu assassinato Cesare.

Tutti appresero la notizia in silenzio senza fare alcun gesto; convinti che lo stesso Caligola avesse fatto divulgare apposta la notizia per poi colpire chi festeggiava la sua morte.


Fonti: 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA 
PLUTARCO - VITA DI BRUTO 
SVETONIO - VITE DEI CESARI 
SPINOSA - GIULIO CESARE
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE

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