ANNI 69 - 96 d.C.

L'IMPERO DI VESPASIANO - LA RIVOLUZIONE GALLICA - IL GOVERNO DI VESPASIANO-AMMINISTRAZIONE
LA GUERRA GIUDAICA - TITO STERMINA GLI EBREI - MORTE DI VESPASIANO - TITO IMPERATORE
L'ERUZIONE DEL VESUVIO - MORTE DI TITO - GOVERNO DI DOMIZIANO - AGRICOLA IN BRITANNIA
L'UCCISIONE DI DOMIZIANO
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GIULIO CIVILE E LA RIVOLTA DEI BATAVI E DEI GALLI

Morto a Roma VITELLIO l'imperatore nel tragico modo che abbiamo letto nelle pagine precedenti , della causa vitelliana rimase unico sostenitore il fratello. Tornando a Roma dalla Campania dove era stato mandato per domarvi la rivolta, incontrò a Boville un corpo di antoniani coi quali ebbe uno scontro in un'aspra battaglia. Le sorti gli furono avverse: egli perì nel combattimento, i suoi soldati, disarmati e legati furono condotti a Boma, dove entrarono fra gl'insulti del popolino.

Il 21 dicembre il Senato, anche se non era presente, conferì a Vespasiano tutti i poteri, compreso il legislativo, lo creò console insieme col figlio maggiore Tito, ad Antonio Primo diede le insegne consolari, e la pretura e l'imperio proconsolare a Domiziano che rimase a Roma a governare come rappresentante del padre.
Ma il suo fu più un governo nominale che di fatto: Roma era in mano di ANTONIO PRIMO, che permise alle soldatesche di saccheggiare molte case di ricchi sotto il pretesto di ricercare e punire i partigiani di Vitellio, e si impadronì di tutto ciò che di meglio si trovava nel palazzo dei Cesari. Il disordine in Roma durò fino all'arrivo di Licinio Muciano, che nella Mesia aveva dovuto fermarsi per ricacciare una invasione di Sarmati.
Giunto a Roma, il luogotenente di Vespasiano ricevette gli onori del trionfo e fece cessare i saccheggi. Rimessò l'ordine, fece arrestare e poi uccidere Calpurnio Galeriano, figlio di Pisone Liciniano, fece mettere a morte il figlio di Vitellio e il liberto Asiatico, e temendo le troppe simpatie che si era guadagnate Antonio Primo, allontanò dalla capitale tutte le milizie che gli erano affezionate, indi ricostituì le coorti pretorie con i soldati di questo corpo che Vitellio aveva licenziatim con elementi tratti dalle sue legioni d'Oriente.

Finalmente l'Italia respirava e tacevano le armi, ma queste non avevano tregua in due punti opposti e lontani dell'impero, nelle province germaniche e nella Giudea.
Quando Vitellio partì dalla regione del Reno per contrastare l'impero ad Otone, aveva lasciato a guardia del confine truppe arruolate fra le popolazioni del paese e specialmente fra i Batavi, ramo della tribù dei Chatti che stanziavano nella parte meridionale degli odierni Paesi Bassi. Appena avuto l'impero, Vitellio, alle prime notizie giuntegli dall'Oriente aveva ordinato ai Batavi nuove leve di truppe con le quali sperava di poter fronteggiare Vespasiano. Ma a sconvolgere i disegni dell' imperatore era sorto un uomo di grande tenacia e di smodata ambizione. 
Era questi GIULIO CIVILE. Nato da principesca famiglia Batava, costui era stato condotto in prigione a Roma per ordine di Nerone che ne aveva fatto uccidere il fratello; rimandato libero da Galba era a stento in Gallia scampato dalle mani dei legionari che volevano ucciderlo credendolo complice dell'assassinio di Fonteio Capitone. Spinto dall'odio che nutriva contro le legioni romane della Germania, aveva aderito al movimento di Antonio Primo ed era riuscito a sollevare in favore di Vespasiano le popolazioni germaniche del Basso Reno, tra le quali i Canninefati, che, proclamato re Brinnone, si erano alleati coi Frisii e insieme avevano assalito il campo di due coorti romane. In breve la rivolta s'era propagata tra le schiere ausiliarie germaniche dell'esercito romano e anche della flotta  presente sul Reno.
A ridurre all'obbedienza i ribelli fu Ordeonio Fiacco, comandante della Germania inferiore; aveva mandato Muoio Luperco con due legioni romane, un forte corpo di cavalleria batavica e numerose milizie ausiliarie, ma queste, giunte di faccia al nemico, erano fuggite, la cavalleria era passata dalla parte dei ribelli e le due legioni a stento si erano salvate rifugiandosi nel campo di Castra Vetere (Santen).
I ribelli avevano posto l'assedio al campo e intanto il loro numero veniva ingrossato dalle otto coorti di Batavi, rimandate indietro da Vitellio dopo la battaglia di Cremona, e dalle tribù dei Bructeri e dei Tencteri. Giulio Civile aveva invitato i legionari assediati a prestar giuramento di fedeltà a Vespasiano, ma essi si erano rifiutati ed avevano valorosamente respinto i vigorosi assalti degl'insorti.

Malgrado il propagarsi della rivolta non tutto era perduto per i Romani e Ordeonio avrebbe potuto con probabilità di successo marciare contro i ribelli e liberare gli assediati di Castra Vetere se le truppe al suo comando fossero rimaste disciplinate. Ma queste, che erano rimaste fedeli a Vitellio, erano in aperto dissidio con parecchi dei loro capi partigiani di Vespasiano. Da qui sospetti e malumori che avevano esautorato Ordeonio, il quale alla fine era stato sostituito nel comando, per volere dei soldati, da Dellio Vocula. 
Giunta la notizia della morte di Vitellio, Vocula aveva fatto giurare ai legionari fedeltà a Vespasiano ed aveva invitato Giulio Civile a deporre le armi. Ma questi fin dai primi successi aveva pensato di volgere la situazione in favor suo ed aveva carezzato l'idea di un regno indipendente e alla richiesta di Ordeonio aveva risposto che lui combatteva per la libertà del suo paese e della sua gente.

VOCULA , malgrado la ribellione delle truppe ausiliarie galliche, aveva iniziato l'offensiva, era riuscito a battere più di una volta gli insorti ed aveva potuto prender contatto con Castra Vetere. Ma ritorni offensivi del nemico e il malcontento delle truppe che si ostinavano a non credere alla morte di Vitellio avevano fatto peggiorare nuovamente la situazione. Il malumore era giunto a tal punto che una notte i soldati, sorpreso nel letto Ordeonio Fiacco, lo avevano ucciso ed altrettanto avrebbero fatto di Dellio Vocula se questi, fiutato il pericolo, non fosse fuggito. Più tardi una parte delle truppe era tornata all'obbedienza del suo capo, ma ormai la ribellione si era estesa nella Gallia, capeggiata dai nobili della Belgica: Giulio Classico e Giulio Tutore del paese dei Treviri, Giulio Sabino dei Lingoni. Classico, fatto trucidare Vocula, aveva proclamata la indipendenza» della Gallia, facendo prestare il giuramento alle truppe di Dellio; stesso giuramento erano stati costretti a fare i presidii di Colonia Agrippina e di Magontiacum. Solo le due legioni di Castra Votere resistevano ancora, ma erano ormai agli estremi e, mangiati i cavalli, ora si cibavano di radici. Costretti infine dalla fame, questi valorosi si erano arresi e i ribelli, violando la promessa fatta di conceder loro salva la vita, li avevano trucidati tutti. 
La resa di Castra Voterà aveva guadagnato proseliti alla ribellione, Tungri e Nervii si erano uniti a Civile, e Giulio Sabino con i suoi Lingoni aveva passato la Saóne per ribellare i Sequani, rimasti fedeli a Soma, ma, sconfitto, aveva dovuto salvarsi con la fuga.

A questo punto erano le cose nella Gallia e nelle regioni renane quando LICINIO MUCIANO giunse a Roma. Ridato l'ordine alla città, egli pensò per prima cosa a domare le insurrezioni dei popoli del nord. Chiamò sul teatro della guerra una legione della Britannia, due altre ve ne mandò dalla Spagna e quattro dall'Italia. Tutte queste forze erano poste sotto il comando di Petilio Cenale ed Annio Gallo.
Le legioni romane ai scontrarono coi Treviri sulle rive della Nahe e li sconfissero; altra sconfitta i Treviri la ebbero alla Mosella e il giorno dopo la città di Trer cadde in mano delle truppe di Petilio.

I diversi popoli ribelli, fra i quali dopo i primi successi sorgeranno dissidi per motivi di egemonia, all'avvicinarsi del nemico avevano abbandonati le loro liti ed ora s'apprestavano a vendicare le due sconfitte. Civile, Classico e Tutore, alla testa delle loro schiere assalirono improvvisamente l'esercito di Ceriale e riuscirono in un primo tempo a sbaragliarlo, ma Petilio potè riordinare le sue truppe e lanciarle all'assalto così vigorosamente che gli eserciti collegati subirono una disfatta sanguinosa.
Colonia cadde in potere dei Romani e la popolazione fece orribile massacro dei Germani che vi si trovavano; Tungri e Nervii si sottomisero, e questi ultimi presero le armi contro i Canninefati. Furono però battuti, mentre un altro esito infelice fu l'azione della flotta romana contro i sudditi del re Brinnone. Anche presso Novesio, alcuni squadroni di cavalieri romani riportarono un insuccesso contro le truppe di Classico. 

Ma non erano queste lievi vittorie che potevano rialzare le sorti dei ribelli. Le quali furono decise nelle vicinanze di Castra Vetere. Qui si era accampato Giulio Civile con il suo esercito e per rendere più forte la posizione aveva rotta la diga di Druso, poi aveva assalito da due parti l'accampamento. I legionari respinsero l'attacco, ma gli ausiliari furono battuti ed avrebbero compromessa la giornata se in loro aiuto non fosse prontamente accorso con la cavalleria Petilio Cenale, che, caricato risolutamente il nemico, lo ricacciò al di là del fiume.
Civile, inseguito dai vincitori, a stento riuscì a salvarsi nuotando.
Dopo questa sconfitta Giulio Civile comprese che non era più possibile continuare la lotta con speranza' di successo; si affrettò quindi a intavolare trattative coi Romani, e Petilio Ceriale fu ben lieto di concedergli la pace, con la quale i Batavi ritornavano rispetto a Roma nelle condizioni di prima, cioè di alleati; ma anche con l'obbligo di fornire all'impero un certo numero di soldati.

ASSEDIO E DISTRUZIONE DI GERUSALEMME

La guerra giudaica fu ripresa quando ad Alessandria Vespasiano seppe che Vitellio era stato sconfitto ed ucciso.
Gerusalemme era in balia delle discordie intestine. Tre uomini si contendevano il potere della città, la quale era divisa in tre fazioni: Simeone figlio di Giora, Giovanni di Giscala, ed Eleazar. Quest'ultimo con i suoi partigiani occupava il Tempio, il secondo era accampato presso la cinta esterna e ai passi del monte Moriah, Simeone era padrone della città alta. Ben presto Eleazar fu eliminato. Ricorrendo la Pasqua del 70 egli aprì ai fedeli le porte del Tempio, ma insieme con essi si introdussero alcuni seguaci di Giovanni i quali diedero mano alle armi e dopo una lotta sanguinosa si impadronirono del tempio uccidendo Eleazar.

Stavano così le cose in Gerusalemme quando Tito ricevette dal padre Vespasiano l'ordine di marciare sulla capitale della Palestina. Egli mosse da Cesarea con cinque legioni, alcune coorti dei presidi dell'Egitto e numerose schiere di ausiliari. Era l'aprile del 70 e per la ricorrenza della Pasqua molta gente era convenuta a Gerusalemme da Ogni parte della regione.
Tito credeva di trarre profitto dalle discordie intestine che travagliavano la città, ma all'avvicinarsi del nemico, le due fazioni si erano messe d'accordo e la conquista  di Gerusalemme, anche per il suo sistema di fortificazioni che si stendeva in un cerchio di una dozzina di chilometri, presentava serie difficoltà.
Il figlio di Vespasiano cinse d'assedio la città e fatti tagliare quasi tutti gli alberi del territorio circostante ordinò che si costruissero numerose macchine da guerra, poi cominciarono gli assalti.
La prima ad esser assalita fu la città bassa, chiamata Bezetha, cinta da un poderoso muro fornito di settanta torri. Non era un' impresa facile; le macchine, quotidianamente ostacolate dagli ostinati difensori, dovettero lavorare circa quaranta giorni per praticare una breccia nella cinta e nove giorni e nove notti i Romani furono costretti a combattere lungo le vie e nelle case per conquistare il quartiere della Bezetha.
Presa la città bassa, i Romani rivolsero i loro sforzi contro il quartiere di Acra che sorgeva sopra un colle munitissimo e che gli Ebrei difendevano con accanimento. Anche qui Tito dovette martellare senza tregua con le macchine le mura e solo dopo otto giorni e sanguinosissime mischie gli fu possibile impadronirsi del quartiere.

Rimaneva il grande colle sulla cui cima sorgeva il Tempio, custodito dalla fortezza di Sion e dalle torri Moriah e Antonia. Tito cercò di risparmiare i suoi soldati prendendo per fame gli assediati e nello stesso tempo ordinò che si costruisse un bastione che rendesse più facile la conquista della torre Antonia. Tre settimane furono impiegate in questo lavoro e, poiché gli Ebrei, malgrado la fame e le epidemie che tormentavano la città, rifiutavano di arrendersi, nei primi di luglio fu sferrato l'assalto che che fece cadere la torre nelle mani dei Romani. Questi iniziarono le operazioni contro il Tempio e, decisi com'erano ad espugnarlo, appiccarono il fuoco agli edifici vicini. L'incendio sviluppatosi si propagò così al Tempio e questo, quasi completamente distrutto, cadde l'8 di luglio nelle mani degli assedianti.
I difensori si ridussero nella fortezza di Sion e vi resistettero circa due mesi. Sion fu poi espugnata nei primi giorni di settembre. La città venne ridotta ad un enorme cumulo di rovine.
Si narra - ma le cifre sono certamente molto esagerate- che l'assedio costò agli Ebrei mezzo milione di morti e centomila prigionieri. Di questi quelli che non avevano superato il diciassettesimo anno di età furono venduti come schiavi, gli altri vennero inviati in Egitto a lavorare nelle miniere o mandati nelle varie città dell' impero per gli spettacoli dei gladiatorii o per le lotte contro le fiere. 
Simeone, Giovanni e i più ragguardevoli cittadini furono serbati per farli sfilare nel trionfo, dopo il quale il primo fu messo a morte e il secondo gettato in carcere.

La presa di Gerusalemme segnò la fine del regno giudaico. Al re Erode Agrippa II vennero lasciati i suoi possedimenti che, alla sua morte, furono annessi alla Siria. La Giudea fu eretta a provincia e ad Emmaus e a Cesarea vennero dedotte due colonie di veterani.
A perpetuare il ricordo della vittoria sugli Ebrei, sul Velia, a Roma, fu innalzato un arco marmoreo e nei bassorilievi vennero raffigurati il trionfo di Tito, le spoglie conquistate e il generale coronato dalla dea Vittoria. Mentre i tesori del tempio ebraico sottratti alle fiamme vennero assegnate al tempio di Giove Capitolino che era in via di ricostruzione.

La guerra giudaica e quella contro i Galli e i Germani furono le principali che si combatterono durante l'impero di Vespasiano, ma non le sole. Un tentativo di rivolta in Africa fu stroncato sul nascere, una invasione di Daci nella regione alla destra del Danubio venne respinta e, infine, una ribellione provocata nel Ponto da un liberto del re Polemone di nome Aniceto fu domata dal generale Virdio Gemino e il ribelle, che si era rifugiato nella Colchide, venne consegnato ai Romani.

GOVERNO DI VESPASIANO

Mentre Tito assediava Gerusalemme (maggio del 70) Vespasiano si imbarcava ad Alessandria. Giunse a Brindisi il 21 giugno dopo  aver toccato Rodi e la Grecia, dove vi trovò Licinio Muciano e i più influenti senatori recatisi là a riceverlo. Entrò a Roma fra grandi dimostrazioni di gioia, veramente sentita, salvo i pochi malcontenti, da tutta la cittadinanza, che aveva sete di pace e bisogno di un buon imperatore e sapeva che finalmente aveva trovato l'una e l'altro.

E imperatore davvero degno di lode fu questo discendente di famiglia plebea, che si vantava della sua nascita oscura e si burlava di coloro che per adularlo volevano far risalire le sue origini  ad Ercole. Egli doveva tutto alle sue azioni e alla sua carriera di soldato e alla rigidità e disciplina militare improntò sempre i suoi atti di governo e della sua vita privata.
Spietato in guerra contro i nemici, fu generoso con gli avversari politici: diede una buona dote alla
figlia di Vitellio, dimenticò le ingiurie passate e sopportò anche quelle successive provenienti da uomini stupidi e arroganti. Creò perfino console Mezio Pompesiano che non gli era rispettoso
e si credeva lui destinato all'impero perchè aveva il seguito di un certo popolino.
Fu invece inflessibile contro coloro che avversando lui potevano riuscire di pericolo alla pace dell'impero. Elvidio Prisco, nipote di Trasea Peto, di sentimenti repubblicani, che da pretore ometteva nei suoi editti il nome dell' imperatore, fu più di una volta diffidato e richiamato, poi mandato in esilio
e infine messo a morte; ma anche lui Vespasiano lo avrebbe volentieri salvato se avesse fatto a tempo a intervenire. 
Eprio Marcello e Alieno Cecina, che tentarono di mettere i pretoriani contro l'imperatore, vennero uccisi e la medesima sorte ebbero Giulio Sabino e la sua famiglia. Sabino si spacciava per figlio di un bastardo di Giulio Cesare. Dopo la sconfitta e la sottomissione dei Lingoni si era rifugiato in una caverna dove visse per nove anni insieme con la fedele moglie Eponina che lo rese padre di due figli. Scoperti, furono tutti e quattro condotti a Roma poi uccisi. 

Al pari di Augusto, ma con risultato negativo, cercò di correggere il lusso e il libertinaggio: a un giovane che per ringraziarlo di avergli concessa una prefettura si presentò a lui tutto profumato, Vespasiano disse: "Avrei preferito che tu puzzassi d'aglio" e gli revocò la concessione

Sebbene dentro il Senato come nel patriziato esistesse una corrente che non gli favorevole, Vespasiano sia all'uno che all'altro rivolse non poche cure. Li rinsanguò con, 11
mèmbri della nobiltà provinciale e purgò l'ordine senatoriale e l'equestre cacciandone gli elementi più indegni.
Non molti ma abbastanza saggi furono i suoi provvedimenti legislativi e sociali. Fece decretare che fosse considerata anch'essa schiava la donna che si univa in matrimonio con uno schiavo di altri e che i crediti fatti dagli usurai non potessero essere riscossi presso i figli in vita e neppure dopo la morte del padre. 
Essendosi enormemente accresciuto il numero dei processi, Vespasiano elesse a sorte giudici che in via straordinaria giudicassero le cause portate davanti ai centumviri. Le entrate dei senatori furono completate; ai consolari furono dati cinquantamila sesterzi ogni anno; vennero destinati fondi per la tricostruzione di città distrutte dai terremoti e dagli incendi; furono assegnati diecimila sesterzi annui a coloro che insegnavano lettere latine e greche; furono dati stipendi e doni ai poeti e agli artisti di valore. E neppure gli attori furono dimenticati: Apollinare, famoso tragico, ricevette quarantamila sesterzi, ventimila ne ricevettero Terpico e Diodoro, da dieci a quattromila parecchi altri.
Non lievi danni Roma aveva sofferti dalle vicende politiche: Vespasiano permise che chiunque potesse fabbricare negli spazi vuoti quando gli stessi proprietari tardassero  edificare; fece ricostruire il tempio di Giove Capitolino; fece rifare tremila tavole di bronzo distrutte dall' incendio, nelle quali erano documenti antichissimi e di grande importanza (senatoconsulti, plebisciti, trattati d'alleanza e privilegi); innalzò il tempio della Pace presso il Foro, riparò quello di Claudio sul Celio cominciato da Agrippina e quasi distrutto da Nerone, e nel centro della città tra l'Esquilino e il Palatino dove era il laghetto della Casa Aurea di Nerone, fece iniziare la costruzione, che fu compiuta dopo la sua morte: il grandioso anfiteatro (Colosseo) che doveva esser capace di ottantasettemila spettatori.
 
Per tutte queste opere occorrevano molti denari e le finanze invece erano in grave i dissesto. 
SVETONIO scrive che Vespasiano, salendo all' impero, dicesse che lo stato aveva bisogno di quarantamila milioni di sesterzi. Per trovar soldi e restaurare l'erario Vespasiano ristabilì le imposte abolite da Galba, altre e più gravi ne aggiunse, tra cui quella multa che colpiva coloro che sporcavano fuori dei contenitori di rifiuti posti agli angoli delle vie, tolse l'autonomia a Bisanzio e alle isole di Rodi e Samo, fece una revisione dei beni demaniali e delle terre dei municipi, ridusse le feste, le pubbliche distribuzioni e le spese della casa imperiale. Pur di raggiungere il suo scopo non badò ai mezzi, che non sempre furono corretti. Secondo SVETONIO, egli elevava "alle cariche più alte i più rapaci procuratori per poi condannarli quando si fossero arricchiti"..."... che si serviva di questi come di spugne: quando erano asciutti li inzuppava, quando erano bagnati li spremeva".
 Ma per merito di Vespasiano le finanze dello Stato furono rimesse in equilibrio. 

Oltre che all'erario Vespasiano rivolse attentissime cure all'esercito. Per non sottrarre soldati alle legioni egli ricostituì il corpo dei pretoriani con elementi arruolati in Italia; le coorti pretorie furono ridotte a nove, a quattro quelle delle guardie urbane e  perché i pretoriani non diventassero strumento pericoloso nelle mani di comandanti avidi e ambiziosi mise a capo di essi il figlio Tito.

Il numero delle legioni che sotto Augusto era di venticinque fu portato a trenta e radicali mutamenti si ebbero nell'esercito del Reno che durante la ribellione di Vindice aveva dato prova di indisciplina e di infedeltà: alcune legioni furono punite altre congedate o soppresse; tre nuove ne vennero formate e di queste due presero il nome dell'imperatore, la IV Flavia Felice e la XIV Flavia Finna.
Con la ricostituzione dell'esercito Vespasiano curò anche la difesa della frontiera del Danubio, rafforzandone la flottiglia e creando due campi stabili, uno a Vindobona, l'altro a Carnuntum, ciascuno dei quali presidiò con una legione.

Anche le province vennero riordinate. La Cilicia fu staccata dalla Siria ed eretta a provincia; una sola provincia formarono la Licia e la Panfilia, la Siria fu ingrandita con la Commagene e le città di Emesa ed Aretusa, alla Cappadocia furono unite la Galazia, l'Armenia minore, l'Isauria e la Licaonia; l'Acaia, cui Nerone aveva concessa la  libertà, divenne provincia senatoriale e la Sardegna e la Corsica che erano sotto l'amministrazione del Senato passarono alla dipendenza dell' imperatore.

Nel 71 Tito fece ritorno a Roma e celebrò con il padre il trionfo. 
Nel 79, trovandosi in Campania, Vespasiano fu colto da una malattia intestinale e si affrettò a tornare a Roma, dove morì il 23 giugno. 
Si dice che, sentendosi alla fine, egli si alzasse dal letto ed esclamasse che un imperatore doveva morire in piedi.
Aveva regnato dieci anni ed era da poco più di un mese entrato nel settantesimo anno di età.

L' IMPERO DI TITO

A Vespasiano successe il figlio Tito che il padre stesso aveva designato. 
TITO Era nato il 29 dicembre del 41, l'anno in cui era morto Caligola, ed era stato educato con Britannico cui lo legava un'amicizia profonda.  
"Aveva -il ritratto è di SVETONIO- un bell'aspetto, pieno di dignità e di grazia; una forza straordinaria sebbene non fosse molto alto e avesse il ventre grosso; una grande inclinazione a tutte le arti della guerra e della pace. Una memoria meravigliosa, molta abilità nel maneggio delle armi e dei cavalli, una conoscenza profonda delle lettere greche e latine, ed una sorprendente facilità nello scrivere poesie in queste lingue e nell'improvvisare. Si intendeva anche dl musica; cantava e suonava con leggiadria e perizia".

Tribuno militare in Britannia e in Germania, si era acquistata fama di valoroso e| Prudente guerriero; per breve tempo e con successo si era dedicato al Foro; aveva ricoperto la carica di questore; nominato comandante di una legione, era stato mandato in Giudea dove aveva espugnato Tarichea e Gamala e tornato a Roma dopo la guerra giudaica, in cui aveva dato prove magnifiche di valore e di tenacia, era stato sempre al fianco del padre nel governo dell' impero. Collega del padre era stato infatti nella censura, nella potestà tribunizia e in sette consolati e in nome di Vespasiano era solito dettare lettere e firmare i decreti. 
Ma Tito saliva al potere preceduto da una cattiva fama. Lo si credeva avido di ricchezze perché, imitando il padre, cercava con tutti i mezzi di restaurare l'erario; crudele perché in guerra non risparmiava i nemici e, in pace, era spietato con gli avversari di Vespasiano (era stato lui a fare uccidere Cecina); dissoluto perché fino a tarda ora della notte era avvezzo a gozzovigliare con viziosi compagni; lussurioso perché si circondava di eunuchi  e conviveva con la regina Berenice, sorella di Erode Agrippa.| 

Salito all' impero, Tito volle smentire la sua fama e tanto vi riuscì che fu chiamato amore e delizia del genere umano. Tenne lontani da sé i mimi, i ballerini e gli antichi compagni di crapula, rifiutò i doni com'era consuetudine si facevano agli imperatori, sebbene innamorato pazzo di Berenice la rimandò in Oriente, beneficò con le proprie sostanze quanti si rivolgevano a lui e non rimandò mai indietro nessuno senza dargli una speranza. Soleva dire: "Non è giusto che alcuno vada via scontento dopo una udienza avuta con un principe"  e ricordandosi, una volta nel porsi a tavola di non aver beneficiato nessuno quel giorno, esclamò: "Ecco una giornata perduta!".

Si acquistò molto il favore del popolo con le elargizioni, gli spettacoli e i suoi modi democratici. Nelle terme da lui costruite ammise la plebe anche quando vi era lui a prendere il bagno; diede spettacoli gladiatori e naumachie, terminò la costruzione del Colosseo e lo inaugurò con grandiose feste che durarono cento giorni: in un solo giorno fece combattere nell'arena cinquemila belve.

Disarmò la diffidenza del Senato abolendo i processi di lesa maestà, ordinando punizioni per i delatori, confermando le cariche e i privilegi e prescrivendo che in una medesima accusa non fosse lecito valersi di leggi diverse e che, trascorso un certo numero di anni, non si  indagasse più sulla condotta passata dei defunti. Accettò il pontificato massimo dicendo di voler tenere pulite le mani; e mantenne la parola sebbene non gli mancassero le occasioni di punire giustamente. 
Due patrizi avevano congiurato contro di lui: scoperti e denunciati Vespasiano li rimproverò soltanto dicendo loro che l'impero è un dono della sorte, poi li invitò a pranzo, li fece sedere ai suoi fianchi in uno spettacolo di gladiatori e per mostrare che non temeva di essere ucciso mise nelle loro mani due spade perché le esaminassero; mandò inoltre un corriere alla madre di uno di essi per rassicurarla che il figlio non aveva nulla da temere.

 Suo fratello Domiziano, avido di regnare, più volte tentò di mettergli contro le truppe: Tito non lo punì mai, lo trattò sempre affettuosamente e lo considerò come collega e suo successore. 
Il breve impero di Tito fu funestato da gravissime calamità che contribuirono ad accrescere la fama di principe buono e generoso che aveva. 

TERREMOTO E ERUZIONE DEL VESUVIO


Il 6 febbraio del 63 un terremoto aveva scosso la Campania producendo gravi danni alla città di Pompei; un altro terremoto nel 76, aveva colpito Ercolano. Erano questi i lontani annunzi del disastro che nel 79 doveva funestare la regione distruggendo tre città.

II 23 agosto di quell'anno, precisamente due mesi dopo l'avvento di Tito all'impero, una nube, enorme, simile ad un immenso pino, squarciata da frequenti lampi; sormontò improvvisamente la sommità del Vesuvio e l'aria echeggiò di cupi boati, il naturalista PLINIO, comandante della flotta, che si trovava a Misene, volendo osservare da vicino il fenomeno, ordinò che gli si preparasse un battello, e stava per lasciare la casa quando gli giunsero richieste di soccorsi.

Plinio fece mettere in mare le quadriremi e, imbarcatesi, accorse verso i luoghi minacciati dall'eruzione mentre fuggivano spaventati gli abitanti. Sulle navi cadeva una pioggia rovente di cenere e di lapilli; Plinio approdò a Stabia e di là volle ammirare il tremendo spettacolo; dal cratere del vulcano  la lava colava a valle come un immane torrente che tutto distruggeva al suo passaggio, sanguigno era il ciclo contro cui s'avventavano le infuocate materie violentemente eruttate mentre la terra tremava.

L'aria era irrespirabile a causa dei gas venefici che si sprigionavano dai lapilli del Vesuvio. Avvicinandosi il pericolo, Plinio tentò di porsi in salvo con la fuga, ma il mare era tempestoso e l'imbarcazione sulla quale il naturalista era salito fu costretta a ritornare alla riva dove egli morì asfissiato. Con lui periva Stabia e venivano sepolte Ercolano e Pompei; la prima dalla lava che scendeva a valle dopo giorni e giorni di pioggia, la seconda da un alto strato di cenere.
(vedi la relazione di suo nipote PLINIO IL GIOVANE)

Saputa la notizia dell'immane disastro, Tito mandò dei consolari in Campania con viveri e denari e per soccorrere i danneggiati ordinò che a questi venissero distribuite le sostanze dei cittadini senza eredi periti nell'eruzione del Vesuvio.

L'anno dopo (80) un terribile incendio scoppiò a Roma distruggendo i teatri di  Pompeo e di Balbo, la Biblioteca di Augusto, le Terme di Agrippa, e sei templi, fra cui il Pantheon e quello di Giove Capitolino di recente costruzione:
Dopo l'incendio, una peste, che aveva fatta la sua comparsa sotto Vespasiano,  tornò ad infuriare in tutta l'Italia e Tito si prodigò per venire in aiuto dei colpiti, mettendo a disposizione dell'infelice penisola la cassa dello stato e i suoi beni privati.

Nella villa di Rieti, dove era morto Vespasiano, il 13 settembre dell'81, dopo due anni, due mesi e venti giorni di regno, nel quarantunesimo anno di età, moriva Tito.
L'annunzio della sua morte piombò nel più grave lutto l'impero e i senatori, accorsi nella Curia prima di essere convocati, resero al morto imperatore tanti elogi e ringraziamenti quanti non ne ne aveva mai ricevuti in vita.

DOMIZIANO

Non era ancora, spirato Tito che il fratello Domiziano correva a farsi proclamare imperatore. Questo fatto e l'odio che il secondogenito di Vespasiano nutriva per il fratello fecero sì che qualche storico attribuisse a Domiziano la causa della morte di Tito. Ma su ciò non esistono prove. 
Sebbene precocemente calvo e di vista debole, Domiziano era un bell'uomo, alto come persona  e rubicondo di viso, ma pare che non riuscisse simpatico.  La sua giovinezza era trascorsa tra le dissolutezze e queste non cessarono. Smoderatamente libidinoso tolse la moglie ad Elio Lamia, disonorò la nipote Giulia, figlia di Tito e fu causa della sua morte; poi tornò a convivere con la moglie Domizia dopo averla prima ripudiata di adulterio.

Più grande della libidine era la sua ambizione: dopo la morte di Vitellio si era fatto salutare Cesare; nel 71 aveva voluto prender parte al trionfo del padre e del fratello seguendoli sopra un cavallo bianco; invidioso della gloria militare di Tito, aveva tentato di acquistarsi fama sollecitando il comando per una spedizione in Oriente, sebbene non fosse pratico di guerre. Smanioso di regnare, aveva dopo la morte del padre, pensato di guadagnarsi l'animo dei soldati con l'offrire il doppio della solita gratificazione.

Tenuto a freno prima da Vespasiano poi da Tito, negli ozi forzati si era dato agli studi, ma non era riuscito che a far pochi e meschini versi. In seguito volle procurarsi fama per mezzo delle cortigiane lodi di poeti e protesse Stazio e Marziale che di lui fecero  bugiardi elogi, e volle rendersi benemerito della coltura facendo ricostruire con ingenti spese le biblioteche distrutte dagli incendi, facendo cercare esemplari dei libri in ogni parte e ordinando che fossero copiate in Alessandria le opere perdute.

Al pari di Tito egli cercò di guadagnarsi il favore popolare con elargizioni, banchetti, feste e spettacoli. Per tre volte distribuì trecento sesterzi ad ogni cittadino povero; diede magnifici conviti nelle feste della sua pretura e in quelle celebratesi quando si commemorò l'aggiunta di un settimo monte a Roma; celebrò ogni anno le feste di Minerva, e con grandissima solennità fece celebrare i ludi secolari elevando fino a cento il numero delle corse giornaliere dei cocchi; istituì in onore di Giove Capitolino una gara quinquennale di musica, di corse di cavalli e di esercizi ginnastici; diede naumachie  in un lago scavato presso il Tevere e nell'anfiteatro, combattimenti di fanti e cavalieri, giochi gladiatori e cacce notturne al lume delle fiaccole. Ai combattimenti fece partecipare le donne e delle vergini alle corse nello stadio. Per mantenersi fedele l'esercito, Domiziano aumentò la paga dei soldati: i pretoriani ebbero mille denari annui, cinquecento le milizie urbane, trecento i legionari.
 
Senza dubbio mossi dal desiderio di acquistarsi popolarità furono molti provvedimenti di ordine finanziario. Sebbene non fossero molto ricche le casse dello Stato a causa delle spese che Tito aveva dovuto sostenere, Domiziano rifiutò le eredità lasciategli da chi aveva figli, condonò le multe dovute al fisco che erano state elevate da un quinquennio, lasciò agli antichi proprietari, come acquistate per usucapione, quelle terre che erano state invase dopo la distribuzione fatta ai veterani e represse le persecuzioni fiscali; ma più tardi, preoccupato dalle tristissime condizioni dell'erario, si diede a confiscare con ogni pretesto eredità e usò estremo rigore nel percepire le imposte dai Giudei. 

Verso a Senato Domiziano non seguì la politica del padre e del fratello: l' imperatore prese la censura a vita e la carica di console ordinario che nel '84 si fece dare per la durata di dieci anni. Con ciò egli rafforzava maggiormente il potere imperiale; la diarchia anche nelle forme si avviava verso la monarchia assoluta; difatti a Domiziano veniva dato il titolo di dio e padrone e l'imperatore cominciava ad indossare il manto di porpora.

L'impero di Domiziano è notevole per la cura con cui venne amministrata la giustizia e vennero governate le province e per le leggi tendenti a rialzare il sentimento religioso e a frenare il malcostume. "Amministrò la giustizia — scrive SVETONIO — con zelo e diligenza, tenendo in via straordinaria tribunale anche nel Foro; annullò le sentenze partigiane dei centumviri; ammonì i giudici a non prestar troppa fede alle parole ambigue e insultò quelli corrotti e le loro sentenze. Indusse un tribuno della plebe ad accusare di concussione un sordido edile e a chiedere contro di lui giudici al Senato. E mise tanta cura i nel frenare i magistrati urbani e i governatori delle province che essi non furono mai più né più moderati né più giusti: molti di questi dopo di lui li vedemmo accusati di ogni delitto".

Sotto il suo impero, in Italia e nelle province fu ampliata la rete stradale: in Italia fu costruita la via che da Sinuessa conduce a Pozzuoli, in Oriente la Galazia, il Ponto, la Oappadocia, la Pisidia, la Paflagonia e l'Armenia Minore furono allacciate da vie.
Per porre un freno alla corruzione dei costumi proibì la diffusione dei libelli calunniatori e comminò pene per gli autori; radiò dal Senato un ex-questore che soleva fare il mimo e il ballerino; alle meritrici tolse il diritto di andare in lettiga e di ricevere legati o eredità, cancellò dall'albo dei giudici un cavaliere romano che aveva sposata di nuovo la propria moglie già ripudiata per adulterio; rigorosissimamente punì le vestali ree d'incesto, prima con la decapitazione poi facendole seppellire vive secondo l'antica usanza.
Alle sorelle degli Oculati a Varronilla, che avevano commessi incesti, diede facoltà di scegliersi la morte ma quando la prima delle Vestali, Cornelia, che era già stata assolta, fu accusata nuovamente e risultò colpevole, le fece seppellire vive. Severe punizioni furono comminate contro i seduttori: questi prima si ebbero l'esilio poi in pubblico comizio furono battuti a morte con le verghe.
Con un editto proibì che si facessero degli eunuchi e fissò il prezzo di quelli che si trovavano presso i mercanti di schiavi; proibì agli istrioni di calcare le scene concedendo di esercitare la loro arte nelle case private; perché si desse incremento alla coltivazione del grano, che riteva trascurata, vietò di piantare in Italia nuove vigne e ordinò che nelle province si riducessero della metà le piantagioni di viti. Proibì inoltre che le legioni ponessero il campo le une vicino alle altre e che la plebe assistesse agli spettacoli mescolata coi cavalieri.
Perché non fosse impunemente offeso il culto degli dei fece demolire il sepolcro che un suo liberto, servendosi di pietre destinate al tempio di Giove, aveva fatto costruire al figlio e ne fece gettare la salma in mare.

Quanto egli avesse cura della religione lo dimostrano i templi da lui fatti costruire: ne vennero per ordine suo innalzati a Iside e a Serapide, quello a Giove Capitolino fu condotto a termine e ornato di colonne di marmo pentelico, nel Campo Marzio fu edificato un tempio a Minerva Calcidica che venne circondato da portici (Foro Palladio) e un tempio fece innalzare alla famiglia Flavia. Per avere aderito al Cristianesimo, come sembra, furono messi a morte Flavio Clemente e il consolare Acilio Glabrione. Scrive Svetonio che Domiziano nella sua giovinezza aborriva talmente l'effusione di sangue che, nell'assenza del padre, ricordando il verso di Virgilio "empia gente, che si nutrì degli uccisi giovenchi" voleva proibire per editto che si immolassero buoi.
Purtroppo egli non perseverò nella clemenza e ben presto diede prova di crudeltà.
Ritornarono in vigore i processi di lesa maestà che Tito aveva abolito. Furono espulsi da
Roma i filosofi, parecchi dei quali ricoprivano i loro sentimenti avversi all' imperatore con le dottrine dello stoicismo: Erennio Senecione fu ucciso perché aveva scritto la vita di Elvidio Prisco e la stessa sorte ebbe Giunio Rustico che aveva fatto l'elogio di Trasea Peto. Messo a morte fu anche il figlio di Elvidio Prisco e perì pure la madre, accusata di aver fornito ad Erennio notizie sulla vita del marito. Fine simile fece Pomponia, moglie di Rustico. Né questi furono i soli delitti di cui Domiziano si macchiò. Perirono Civico Ceriale, proconsole in Asia, e il senatore Salvidieno Orfito, Elio Lamia, Salvio Coneiano, Mezio Pompesiano, Flavio Sabino, Arrecino Clemente, un discepolo del pantomimo Parire, Ermogene da Tarso e parecchi altri.

Pareva che in Domiziano rivivessero Caligola e Nerone. Ma la sua crudeltà doveva avere un termine e dovevano essere i suoi stessi familiari, spinti dall'odio e dal timore, a liberare Roma dal sanguinario tiranno. Prima però di narrare la congiura per la quale Domiziano doveva perire parleremo delle guerre che durante il suo impero furono combattute.

GUERRE E MORTE DI DOMIZIANO

Le guerre sotto l'impero del fratello di Tito, furono due: una contro i Daci e l'altra contro i Britanni. La guerra germanica di cui nell'84 Domiziano celebrò a Roma il trionfo non fu nemmeno combattuta. I Chatti che stavano molestando la frontiera all'avvicinarsi delle legioni romane furono pronti a ritirarsi nei boschi della loro regione.
I Daci erano un popolo bellicoso stanziato alla sinistra del Danubio. Un principe audace e di larghe vedute di nome Decebalo aveva fondato un regno vasto e potente che oltre i Daci comprendeva i vicini popoli dell'ovest. Desideroso di estendere il territorio del suo regno alla destra del Danubio e sicuro che le popolazioni indigene soggette a Roma gli avrebbero agevolata l'impresa, raccolto un tortissimo esercito, passò il fiume ed invase la Mesia. Qui non si trovava che una legione al comando di Cajo Oppio Sabino. Questi non riuscì a opporre una valida resistenza all'invasione; i suoi soldati vennero travolti e lui stesso fu ucciso.

Al primo annunzio di questi fatti Domiziano affidò il comando della guerra a Cornelio Fusco, prefetto del pretorio e reputava così grave la situazione che egli stesso volle recarsi sul teatro delle operazioni, guardandosi però bene, dal prendervi parte (85).
I Daci, sperando di attirare i Romani nel proprio territorio, ripassarono il fiume e Domiziano, visto il pericolo allontanarsi, fece ritorno in Italia.

L'anno seguente (86) Cornelio Fusco per vendicare la morte di Oppio Sabino e dare un colpo alla potenza dei Daci, passò il Danubio e si inoltrò nel territorio nemico. La sua imprudenza gli costò la vita. Assalito improvvisamente dai Daci, l'esercito romano fu sconfitto e il generale ucciso.
 Messo il governo della guerra nelle mani di Giuliano, governatore della Mesia superiore, questi passò audacemente, alla testa delle sue truppe, nella Dacia e, incontrato il nemico presso Sarmizegetusa, gli diede battaglia sconfiggendoli in una battaglia sanguinosa.
Da questa vittoria i Romani avrebbero potuto trarre non pochi vantaggi, ma Domiziano non volle aderire alle richieste di pace di Decebalo e la guerra si riaccese più| violenta di prima. Questa volta, oltre i Daci, scesero in campo alcuni popoli Sarmatici  tra cui i Iazigi e alcune popolazioni germaniche contro le quali altre volte i Germani avevano avuto da fare, come i Suebi, i Marcomanni e i Quadi.

L'irresolutezza di Domiziano, le forze insufficienti mandate a fronteggiare il nemico e la mancanza di un valente generale furono le principali cause dell' infelice esito della guerra. La quale avrebbe potuto risolversi in favore dei Romani se l'imperatore, cui piacevano più le guerre immaginarie che le vere, preoccupato dalle vaste proporzioni ch'essa andava assumendo e prevedendola lunga e dispendiosa, verso la fine dell'89 non avesse deciso di venire ad un accordo con Decebalo. Il re barbaro si impegnava di non molestare la frontiera del Danubio, in compenso Domiziano forniva a Decebalo un certo numero di artieri. Non fu certo un accordo molto onorevole ma neppure vergognoso come certi storici pretendono che se si deve credere a Svetonio -sebbene la notizia non sia confermata- Decebalo accettò la sovranità nominale dell'impero sulla Dacia e mandò a Roma il fratello Diegis per ricevere la corona dalle mani di Domiziano.

La guerra britannica ebbe risultati migliori della dacica.
Partito Svetonio Paulino, l'isola di Mona (Anglesey) era stata perduta; in una ribellione il governatore Trebellio Massimo era stato costretto a fuggire; Giulio Frontino aveva rialzato il prestigio di Roma sottomettendo i Briganti e i Siluri.
A continuare l'opera di Frontino, Tifo mandò nel 78 il generale Gneo Giulio Agricola, suocero dello storico Tacito che ne scrisse poi la biografia in un'operetta dal titolo De vita et moribus Julii Agricoloe.
Agricola sottomise gli Adovici, rioccupò l'isola di Mona e spinse le sue legioni fino agli estuari di Clota (Clyde) e Bodotria (Forth). L'istmo che divide l'Atlantico dal Mar del Nord fu fortificato perché costituisse una valida barriera contro le incursioni della bellicosa Caledonia. Queste non si fecero aspettare: capitanati da Galeag, intrepido guerriero, i Caledoni scesero dalle loro montagne e in numero di trentamila assalirono i Romani al monte Graupio. Agricola mandò contro di essi solo ottomila ausiliari e tremila cavalieri, ma questi furono tenuti a distanza e tormentati da un efficacissimo lancio di frecce e la vittoria sarebbe stata dei Caledoni se il generale romano non avesse mandato  contro di loro cinque coorti e non avesse incoraggiato i suoi scendendo da cavallo.

Vano fu il valore dei fieri montanari: respinti, ritornarono alla battaglia tentando di accerchiare i legionari romani; ributtati una seconda volta tornarono ancora all'assalto, ma dopo parecchie ore di combattimento dovettero darsi alla fuga. Ventimila Caledoni rimasero morti sul campo; i superstiti, uccisi i figlioletti e le mogli, si dispersero tra i boschi e sui monti della Scozia che venne poi invasa  dai Romani. ,*
Nel frattempo la flotta di Agricola giungeva alla punta settentrionale della Britannia e dava la notizia che questa era un'isola.
Malgrado i successi di Agricola, Domiziano lo richiamò in Italia. Tacito attribuisce il richiamo del suocero alla invidia dell' imperatore, non sappiamo noi con qual fondamento. Si potrebbe però pensare che Domiziano non fosse molto contento dell'opera di Agricola, il quale nei sette anni del suo governo in Britannia aveva vinto, sì, non pochi popoli, ma non aveva saputo portarvi la pace e la civiltà romana, aveva fatto spreco di uomini ed aveva causato gravi spese all'erario.

Agricola tornò a Roma e si ebbe le insegne trionfali, poi si ritirò a vita privata e di lì a poco cessò di vivere. Non mancò chi della morte sospettò autore l'imperatore medesimo.
Domiziano sapeva di essere odiato. Due congiure erano state scoperte avevano dato luogo a severissime condanne; nel 93 Lucio Antonio Saturnino, governatore della Germania superiore, che si diceva discendente del triumviro Marco Antonio, d'accordo col patriziato romano, ribellò all'imperatore le due legioni di cui aveva il comando e chiamò in suo aiuto i Germani. Ma essendo questi trattenuti sulla destra del Reno dallo sgelo del fiume, L. Appio Massimo, governatore dell'Aquitania, riuscì a piombare sui ribelli e a farne una strage. Lucio Antonio fu ucciso.

Dopo questo avvenimento Domiziano era divenuto sospettosissimo. Temendo per  la sua vita, aveva raddoppiata la guardia del palazzo, aveva cambiato sovente il prefetto urbano e il capo dei pretoriani e aveva prese infinite altre precauzioni. Ma queste non furono sufficienti a salvarlo dall'odio di coloro che avevano deciso di sopprimerlo per sfuggire alla pena capitale cui Domiziano li riserbava.
Fra costoro la moglie Domizia, i prefetti del pretorio Nerbano e Petronio. Partenio, cameriere dell'imperatore e il suo liberto Massimo, Claudiano aiutante di un tribuno, Saturìo decurione dei camerieri, parecchi gladiatori e il liberto STEFANIO procuratore di Domitilla, moglie di Flavio Clemente, la quale, dopo l'uccisione del marito era stata mandata in esilio a Pandataria.
A quest'ultimo fu commesso di uccidere l'imperatore e si fissò la data del 18 settembre del 96.
Venuto il giorno stabilito, Stefanio, il quale per allontanare i sospetto da qualche tempo portava il braccio fasciato, chiese di parlare a Domiziano per informarlo di una cosa gravissima. Il principe lo ammise in una sua stanza, e appena entrato, il liberto gli disse di avere scoperto una congiura e gli porse un foglio dov'era l'elenco dei presunti congiurati. Mentre l'imperatore era intento a leggere la carta, Stefanio tirò fuori dalla fasciatura, in cui lo teneva nascosto, un pugnale e vibrò un colpo al ventre del tiranno, producendogli una lieve ferita. Allora tra l'imperatore e il liberto s'impegnò una violenta colluttazione e questi avrebbe avuto la peggio se al rumore non fossero accorsi altri congiurati, Claudiano, Massimo, Saturio e alcuni gladiatori, che trucidarono Domiziano con Sette colpi. 

Quando morì, l'imperatore contava quarantaquattro anni ed era nel quindicesimo del suo regno.
La salma fu portata in una bara plebea ed ebbe modestissime esequie in una casa di campagna sulla via Latina appartenente a Fillide nutrice dell' imperatore, che dopo la cremazione del cadavere portò poi di nascosto i resti nel tempio della stirpe dei Flavi unendola alle ceneri di Giuba figlia di Tito.

Il popolo alla notizia dell'uccisione, accolse con gioia la morte di Domiziano, un po' meno i pretoriani che dall'imperatore erano stati favoriti. Tumultuando accorsero nel palazzo, e Stefano non riuscì ad evitare di essere fatto a pezzi. Volevano continuare dando la caccia anche agli altri congiurati, non rispettando perfino i loro capi, Norbano e Petronio, che però riuscirono a indurli alla calma, soprattutto quello che -promettendo loro ricchi donativi- poi divenne imperatore:
cioè COCCEIO NERVA

di cui parleremo nel prossimo capitolo riassuntivo, il....


 "PERIODO NERVA E TRAIANO dagli anni 96 al 117 d.C."

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