ANNI 568 - 590 d.C.

I LONGOBARDI IN ITALIA  (Da Alboino ad Autari)

I LONGOBARDI PRIMA DELLA VENUTA IN ITALIA: GUERRE CON GLI ERULI E CON I GEPIDI; UCCISIONE DI TORRISMONDO E CUNIMONDO; ROSMUNDA - LE CONDIZIONI DELL'ITALIA PRIMA DELL'INVASIONE LONGOBARDA - LA LEGGENDA DI NARSETE CHE INVITA I LONGOBARDI - ALBOINO NELLA VENEZIA -ASSEDIO E PRESA DI PAVIA -ALBOINO E ROSMUNDA - UCCISIONE DI ALBOINO - MORTE DI ELMICHI E ROSMUNDA - IL REGNO DI CLEFI - INTERREGNO E FEDERAZIONE DEI DUCATI LONGOBARDI - BIZANTINI E LONGOBARDI - SPEDIZIONI CONTRO I FRANCHI - I SASSONI LASCIANO L' ITALIA - CHILDEBERTO IN ITALIA - INNALZAMENTO DI AUTARI AL TRONO - SUA POLITICA - SUE GUERRE COI BIZANTINI E I FRANCHI - TEODOLINDA SPOSA AUTARI - PACE CON I FRANCHI - MORTE DI AUTARI
-------------------------------------------------------

L' INVASIONE LONGOBARDA - ALBOINO - ROSMUNDA


Un nuovo popolo compare ora nella storia d'Italia: quello dei Longobardi.
Sulla loro origine notizie leggendarie dobbiamo quasi tutti rifarci a Paolo Diacono, il loro storico, che ci narra essere oriundi della Scandinavia.

(per una più dettagliata narrazione, e con l'elenco di tutti i re Longobardi)
vedi QUI: "I LONGOBARDI"


Da VELLEIO PATERCOLO, che li chiama più feroci della ferocia germanica, sappiamo che essi abitavano anticamente presso il corso inferiore dell' Elba e che, sotto Augusto (anno 5), furono guerreggiati da Tiberio. Più tardi furono confederati dei Marcomanni; nella guerra tra Maraboduo ed Arminio combatterono accanto ai CHERUSCHI; nel 47 aiutarono Italico, nipote di Arminio, per riconquistare il trono cherusco; nel 125 con i MARCOMANNI e gli UBI invasero la Pannonia, ma furono sconfitti e respinti oltre il Danubio; fecero parte forse dell' impero unno e, quando, verso il 490, i RUGI sconfitti da Odoacre abbandonarono il loro territorio, i Longobardi, guidati dal re GODEOC, vi si stabilirono e abbracciarono l'arianesimo.

Da allora noi vediamo i Longobardi crescere in potenza. Venuti a guerra con gli ERULI, li sconfissero intorno al 508, ne uccisero in battaglia il re Rodolfo ed occuparono le loro sedi. Era allora re dei Longobardi TATONE, figlio di CLAFFO e nipote di GODEOC. Nel 510 Tatone fu sbalzato dal trono da VACONE e sotto di lui, che regnò fino al 540, i Longobardi ebbero un periodo di intensa attività guerresca: sottomisero gli Svevi, si allearono con i Bizantini e con i Turingi, furono richiesti di alleanza da VITIGE e strinsero legami di amicizia con i GEPIDI, la figlia dei cui re andò in sposa a VACONE, che più tardi diede in matrimonio due sue figliole ai re Franchi Teodeberto e Teodebaldo.

A VACONE successe il figlio VALTARI, che regnò fino al 546 sotto la tutela di AUDONIO, il quale, divenuto a sua volta re dopo la morte di quello, condusse il suo popolo nella Pannonia, che Giustiniano aveva ceduto ai Longobardi per contrapporli ai turbolenti e pericolosi GEPIDI.

Tra i due popoli vicini - com'era da prevedersi - presto scoppiò la guerra, che, dopo parecchi anni e varie vicende, doveva finire con la rovina dei Gepidi. Nel 551 i Longobardi, sostenuti da un corpo di milizie bizantine comandate da AMALAFRIDO, invasero il territorio dei Gepidi e li sconfissero in una grande battaglia nella quale TORRISMONDO, figlio del re gepido TORISINDO, trovò la morte per mano di ALBOINO, che era il figlio di re AUDOINO.

Secondo una leggenda, dopo la battaglia, ALBOINO si recò al campo dei Gepidi per ricevere da TORISINDO le armi del figlio che gli aveva ucciso e, cavallerescamente invitato, sedette alla mensa del nemico, e a suo figlio CUNIBONDO con accanto a sua volta la figlia.

Fu in questa occasione che ALBOINO vide la bellissima nipote del re, ROSMUNDA, e se ne innamorò. Divenuto re nel 565, sposò CLOTSUINDA, figlia di CLOTARIO I, re dei Franchi, ma, morta questa dopo aver dato alla luce ABSUINDA, tentato invano di ottenere in sposa Rosmunda, la fece rapire, o la rapì lui stesso. Questo fatto di carattere familiare, diede origine ad una nuova guerra tra Longobardi e Gepidi: Alboino, sconfitto, dovette restituire Rosmunda al padre Cunibondo.

Moriva intanto GIUSTINIANO, e GIUSTINO II, suo successore, iniziava una nuova politica disdicendo le alleanze e togliendo alle vicine popolazioni barbariche i sussidi che l' impero aveva in precedenza sempre dati. Una di queste popolazioni era quella degli AVARI, che, venuti nella seconda metà del secolo V dalle regioni del Caspio, avevano formato un forte regno nel basso Danubio.

Desideroso di vendicarsi dei Gepidi, ALBOINO chiese l'alleanza di BAIANO; re degli Avari, e l'ottenne. I Longobardi - questi erano i patti - in compenso dell'aiuto degli Avari avrebbero ceduto a questi la decima parte del loro bestiame, metà del bottino e il territorio tolto ai Gepidi.

Dall'alleanza alla guerra corse breve tempo. Cunimondo, figlio di Torisindo che alla morte del padre era diventato re dei Gepidi, chiesti invano aiuti all'imperatore, assalì vigorosamente i Longobardi sperando di vincerli e di gettarsi poi contro gli Avari, ma la sorte gli fu avversa. Egli stesso cadde in combattimento per mano di Alboino che gli tagliò la testa e del teschio fece una tazza per bervi nei fastosi banchetti, secondo il loro costume barbarico.

La confitta dei Lepidi fu completa: quarantamila uomini perirono sul campo, grandissimo fu il numero dei prigionieri e ingente la preda. Fra i prigionieri fu Rosmunda, la quale, sebbene, dopo la morte del padre, nutrisse odio contro Alboino sempre invaghito com'era di lei, fu costretta a sposarlo.

Conseguenza della disfatta fu la fine del regno gepido. Al pari degli Eruli e di altri popoli germanici, i Lepidi non formarono più una nazione e di loro la storia non fa più menzione: parte di loro si unirono ai Longobardi, parte divennero sudditi degli Avari, che ne occuparono il territorio secondo i patti stipulati con Alboino.

Ma se la sconfitta fu fatale ai Lepidi, la vittoria non recò gran vantaggio ai Longobardi. Questi venivano a trovarsi accanto ad un popolo potentissimo, gli AVARI, che dalla rovina della nazione gepida avevano ricavato alla fine i maggiori benefici. Né con loro era possibile una buona vicinanza, come si poté rilevare dalle dure condizioni imposte per l'alleanza. Forse quel vicinato cominciò a rendersi impossibile fin dai primi giorni che seguirono la fine della guerra e determinò nei Longobardi il proposito di cercarsi una nuova sede.

Questa non poteva essere che l'Italia, regione a pochissima distanza dalla Pannonia, mèta costante delle migrazioni barbariche, di cui di certo Alboino aveva sentito più d'una volta parlare dal padre e dagli altri Longobardi che nel 552 vi erano stati con Narsete. E forse lo stesso Alboino durante le operazioni di guerra che Narsete utilizzò in Alta Italia. ("circa 2500 feroci guerrieri, con al seguito altri 3000 uomini armati, a cavallo")

La conquista dell' Italia non offriva serie difficoltà. Per le guerre e le altre calamità sofferte essa era stremata di forze; la popolazione non avrebbe aiutato di certo i Bizantini di cui non era contenta; le milizie dell'impero sparse nelle varie città non avrebbero potuto validamente opporsi ad un'invasione; salvo Pavia, dotata di una ragguardevole guarnigione, le altre città non avrebbero resistito a lungo; i Goti superstiti all'apparire dei Longobardi si sarebbero certamente pronunziati per loro; infine mancava in Italia un generale che potesse contrastare con successo l'avanzata di un invasore.
C'era, è vero, NARSETE; ma il vecchio patrizio era stato esonerato dal comando per la nuova politica di economie inaugurata da GIUSTINO II e per il malcontento delle popolazioni che aveva provocato, un'ambasciata di nobili romani si recò a Costantinopoli per lamentarsi e subito ci fu il richiamo di Narsete e l' invio di un successore, LONGINO, che giunto a Ravenna con scarse truppe non aveva di certo un esercito da opporre, né del resto aveva l'indole di predisporre una valida difesa.

Si diffuse piú tardi, la leggenda che a chiamare i Longobardi in Italia sia stato lo stesso Narsete. Secondo questa leggenda Narsete si sarebbe rifiutato di partire dall' Italia e l' imperatrice Sofia avrebbe esclamato: "… Farò chiudere io questo vecchio eunuco nel gineceo a filar lana con le donne…".

E il generale di rimando: ".. Ed io filerò tale matassa che lei in tutta la sua vita non sarà capace di dipanarla…".
Per vendicarsi delle ingiuriose parole dell' imperatrice e del richiamo, - dopo tutto quello che aveva fatto in Italia- Narsete avrebbe invitato Alboino a passare le Alpi mandandogli per allettarlo alcuni dei meravigliosi frutti che l'Italia produceva. II generale, che si era ritirato a Napoli, convinto di aver fatto male e invitato da Papa GIOVANNI III a difendere l'Italia, si sarebbe recato a Roma dove fu colto dalla morte.

Così la leggenda, che ha trovato sostenitori anche fra gli storici moderni, ma che non regge all'esame della critica. Le fonti contemporanee, ne fanno poca parola ed è strano che i cronisti greci non facciano cenno dell'accusa mossa a Narsete. A sfatare la leggenda c'è anche il fatto che alla salma del generale, portata a Costantinopoli, furono tributate solenni onoranze e che il tempo che intercede tra il richiamo di Narsete e la partenza dei Longobardi dalla Pannonia è così breve da rendere impossibili i preparativi della spedizione. Si aggiunga la storiella davvero amena delle frutta le quali - come acutamente osserva il Villari - "… se spedite da Napoli, si può ben immaginare in quali condizioni sarebbe arrivate in Pannonia".

Prima di partire Alboino concluse un patto con gli Avari. A questi erano cedute le terre dei Longobardi; però gli Avari le avrebbero restituite se gli antichi padroni entro un dato numero d'anni ritornavano sul territorio. Anche con i Sassoni, Alboino trattò, invitandoli ad unirsi a lui nella spedizione, ed accettarono; quindi i Sassoni parteciparono a questa invasione con circa ventimila uomini.

A quanto ascendesse il numero dei Longobardi che si recarono in Italia non è possibile dire. Forse non erano meno di cinquantamila veri combattenti" (WINNILI = cioè "guerrieri" - così erano conosciuti come popolo, prima di assumere il nome Longobardi), fra i quali bisogna mettere anche quei Gepidi che dopo la disfatta si erano uniti ai vincitori, e i ventimila Sassoni. Alcuni dicono che erano in tutto 200.000, altri ancora 500.000. Di certo sappiamo che era un popolo intero. E con gli uomini, guerrieri e no, e con donne e bambini, e schiavi, forse il numero dovrebbe essere quello in mezzo: quindi circa 300.000. Attendibile se prendiamo anche il numero di animali che avevano al seguito.

Essi vestivano abiti di tela, portavano calzari bianchi, avevano l'occipite rasato e i capelli divisi sulla fronte e cadenti lungo le orecchie sulle spalle; erano rozzi e feroci, in parte ariani in parte ancora pagani, non curavano l'agricoltura ed erano dediti all'allevamento del bestiame principalmente da sella e alla guerra. Portavano con sé, come già accennato le donne, i figli, gli schiavi, le masserizie di casa su pesanti carri e si traevano dietro gli armenti.
Circa 100.000 doveva essere questa popolazione al seguito, con una mandria di bestiame di circa 30.000 capi di bovini, 10.000 maiali, e 10.000 fra pecore e capre.
Divisi in "fare" o "farae" - un "insieme" (un "clan") con i capi di queste "fare" (36) che erano anche i capi guerrieri dei "gruppi" che erano a fianco di Alboino, e che in seguito diventeranno i vari "duc", assegnatari dei territori conquistati; cioè i vari duchi del regno longobardo.

La data della partenza dalla Pannonia si fa comunemente cadere il 1° aprile del 568; incerta però è la via ch'essi presero per arrivare in Italia. Forse, attraversata la valle della Sava, giunsero alle Alpi Giulie e scesero nel Veneto dal Passo di Predil, attraverso la Valle del Vipacco; la leggenda narra che ALBOINO si sia soffermato a guardare il panorama del territorio che si accingeva a conquistare dalla vetta di un monte che da allora, fino alla metà del XX secolo fu chiamato Monte del Re, o Monte Re, oggi noto come Nanos, nella accezione slovena.
Rifacciamoci a quel passo che (Paolo Varnefrido) conosciuto come Paolo Diacono ci ha lasciato: "…Habitaverunt autem in Pannonia annis quadraginta duobus. De qua egressi sunt mense Aprili, per indictionem primam alio die post sanctum pascha, cuius festivitas eo anno iuxta calculi rationem ipsis Kalendis Aprilibus fuit, cum iam a Domini incarnatione anni quingenti sexaginta octo essent evoluti. ("Erano rimasti in Pannonia per quarantadue anni. La lasciarono il giorno dopo la Pasqua, che in quell'anno, secondo il calcolo, era caduta il 1 aprile, nell'anno 568 dall'incarnazione del Signore, indizione prima…".

Il primo punto da loro occupato e fortificato fu Forum Julii (Cividale). Qui Alboino lasciò un certo numero di famiglie (fare) a guardia del confine e ne diede il comando al cugino GISULFO. "Forum Julii" costituì quindi il primo ducato longobardo in Italia.

Per tutta la primavera, l'estate e l'autunno di quell'anno, Alboino si limitò ad occupare territori della Venezia. Gli abitanti delle campagne fuggivano, come al tempo di Attila, verso la laguna e i Longobardi non incontravano resistenza nella loro marcia, anche perché evitavano le città fortificate che, come Monselice, Mantova e Padova, potevano agevolmente difendersi. Grado offrì rifugio a moltissimi fuggiaschi: fra questi il patriarca di Aquileia. Il vescovo di Treviso, invece, avendo saputo che Alboino non era un ariano fanatico, si presentò a lui e, ottenuta garanzia per i beni della sua chiesa, gli aprì le porte della città. Anche Vicenza e Verona si arresero.

Padrone di quasi tutto il Veneto, Alboino vi svernò, e nella primavera del 569 estese la sua invasione occupando Mantova e Trento e spingendosi fino a Brescia e a Bergamo. Il 3 di settembre, essendo il vescovo ONORATO fuggito a Genova, anche Milano si arrese. Pavia però chiuse le porte e si apprestò a fare, imitata da Piacenza e da Cremona, un'accanita resistenza, che doveva durare tre anni. Pavia, che era una delle più importanti città dell'Alta Italia, non poteva esser lasciata indietro nella marcia d'invasione. Alboino vi lasciò all'assedio una parte delle sue forze, con l'altra scese verso l'Italia centrale. Quella dei Longobardi non era un'occupazione sistematica; era più un'avanzata di predoni che di un esercito e i Bizantini avrebbero potuto avere non difficilmente ragione del nemico se fossero stati comandati da un generale più abile dell'esarca Longino e se avessero avuto a disposizione un buon contingente di truppe.

I Longobardi procedevano senza un disegno prestabilito di conquista; mancava loro anche l'unità di comando. Divisi in varie schiere si gettavano sulle città indifese; presero Parma, Modena, Bologna, Imola, si spinsero fino ad Urbino, occuparono il Passo del Furlo; ma - come Padova, Monselice, Cremona e Piacenza - rimasero in potere dei Bizantini Genova e le due riviere, Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Senigaglia, Ancona, Perugia e Roma e quasi tutta l' Italia meridionale dove più tardi una schiera di Longobardi doveva istituire il ducato di Benevento che, insieme con quello di Spoleto, doveva diventare indipendente, e l'unico -il primo- a sopravvivere all'invasione carolingia.

Nel 572, dopo circa tre anni di assedio, Pavia si arrese ed Alboino fece il suo ingresso trionfale nella città per la porta di S. Giovanni, sopra un superbo cavallo.

Sebbene avesse espresso il desiderio di punire Pavia della lunga resistenza che aveva fatto, Alboino si mostrò umano con il popolo di una città che forse, fin da quando la teneva stretta d'assedio, aveva pensato di farne la capitale del suo nuovo regno. Sua sede preferita fino allora era stata Verona e qui egli nello stesso anno 572 o --- come altri vogliono - nel 573 trovò la morte, il cui racconto è giunto sino a noi, nelle pagine degli storici, nei più minuti particolari.

Secondo la narrazione di Paolo Diacono, verso la fine di un banchetto, cui avevano partecipato i suoi generali, Alboino, riempita di vino una tazza formata col teschio di CUNIMONDO, la porse alla moglie ROSMUNDA invitandola a bere "in compagnia di suo padre". Rosmunda bevve, ma giurò in cuor suo un'atroce vendetta.
Accordatasi con ELMICHI, di cui era l' amante, decise di uccidere il marito. Elmichi era fratello di latte del re e, non volendo macchiarsi di sangue fraterno o non avendo il coraggio di trucidare Alboino, consigliò alla regina di rivolgersi a un sicario, a PEREDEO, prode guerriero di stirpe gepida, che era a sua volta l'amante d'un'ancella di Rosmunda. Ma neppure questi volle accettare. La regina lo costrinse al delitto mediante un audacissimo stratagemma. Preso il posto dell'ancella, diede convegno a Peredeo, poi, fattasi riconoscere lo minacciò di svelare al re quanto era avvenuto tra loro. Soltanto allora Peredeo cedette; e il piano criminoso fu stabilito.

Un pomeriggio, essendosi Alboino, dopo copiose libagioni, addormentato, Rosmunda legò la spada che stava appesa al capezzale, in modo da non potersi sfoderare, poi fece entrare furtivamente nella camera Peredeo, il quale, avventatosi sul re che, svegliatosi tentava di difendersi, lo uccise.

Diversamente narrano altri storici la fine di Alboino. Secondo Mario Aventicese, il delitto fu conseguenza di una congiura più vasta, capeggiata da Elmichi, e Rosmunda non vi ebbe altra parte che quella di aver dato il consenso. Nell' "Origo gentis langobardorum" è detto che Alboino fu ucciso da Elmichi e Rosmunda per istigazione di Peredeo.

Forse in quest' ultima versione sta il vero, pur non volendo ritenere leggendario il racconto di Paolo Diacono. Peredeo era un Gepido, era forse uno dei più influenti capi di quei Gepidi che si erano uniti, dopo la sconfitta, ai Longobardi e che probabilmente non si erano rassegnati ad avere una parte secondaria nella conquista dell'Italia. Per togliere di mezzo Alboino egli sfruttò l'odio che contro il marito nutriva Rosmunda e la fece partecipe della congiura e autrice, forse, del delitto.
Dal momento che, ucciso il re, sarebbe stato difficile alla minoranza gepida avere il sopravvento, Peredeo scelse come complice principale il longobardo Elmichi che, essendo un uomo debole, solo in apparenza sarebbe divenuto re: in sostanza avrebbe regnato Rosmunda, sorretta e guidata da Peredeo e dagli altri Gepidi.

ROSMUNDA difatti sposò l'ex amante ELMICHI e tenne il regno per circa due mesi, ma non riuscì a far riconoscere re il nuovo marito a capi guerrieri longobardi; dovette anzi con lui salvarsi, fuggendo, dalla reazione violentissima dei duchi longobardi, che forse erano venuti a conoscenza della criminale tresca. In compagnia di pochi fidati e della giovane figlia di Alboino, Albsuinda, portando con se il tesoro regio, per mezzo di una nave lungo il Po, si rifugiò a Ravenna presso l'esarca LONGINO che aveva fornito l'imbarcazione per la fuga, e forse era stato lui uno degli istigatori del delitto, o per il potere o per una segreta passione, visto che cosa accadde subito dopo.

Infatti, dopo che si era svolta la tragedia di Verona un'altra se ne svolse a Ravenna. Elmichi (e forse era stato solo utilizzato) era diventato un inutile peso per Rosmunda, di cui si era invaghito lo stesso Longino. Per riuscire a sposare l'esarca la regina tentò di sbarazzarsi del secondo marito. Mentre questi era nel bagno gli offrì una bevanda in cui aveva posto del veleno, ma, essendosi Elmichi accorto che la bevanda, di cui aveva ingerito una parte, era avvelenata, obbligò la donna, minacciandola con la spada, a bere il resto. E così entrambi morirono, la prima subito, il secondo fra atroci spasimi. Longino a quel punto per non sporcarsi ulteriormente le mani, inviò a Costantinopoli la giovane Albsuinda e il tesoro portato da Rosmunda.

AUTARI

Dopo la morte di Alboino la capitale del regno -com'era desiderio del re morto, offrendo la città alta garanzie di difesa- divenne Pavia e qui si radunarono i capi longobardi per eleggere il successore. Fu scelto CLEFI, della nobile famiglia dei Beleo, sotto il regno del quale, non durato neppure due anni, molto dovette soffrire la popolazione italiana, specie i nobili e i ricchi, dei quali, al dir di Paolo Diacono, alcuni furono spogliati dei beni, altri furono uccisi, altri cacciati in esilio. Fu forse sotto il suo regno che una schiera di Longobardi - con qualche capo non abbastanza accontentato nelle spartizioni dei territori già conquistati- si spinse nell'Italia, meridionale, verso Benevento, e un'altra nel territorio di Spoleto.

CLEFI, nel 574, fu ucciso da uno schiavo, lasciando un figlioletto di nome Autari. Non potendosi mettere d'accordo nella scelta del nuovo re o non volendo, come pare, dipendere da un sovrano, i duchi lasciarono che ciascuno di loro governasse il proprio ducato e così lo stato longobardo, al quale, anche sotto Alboino e Clefi, aveva sempre fatto difetto l'unità di comando, divenne quasi una confederazione politico-militare di ducati che faceva capo a quello di Pavia retto da ZABANO.

Paolo Diacono fa ascendere a 36 i ducati longobardi, ma di molti di loro non si sanno con precisione i nomi e della maggior parte si ignora chi fossero i duchi (gli ex capi "fare"). Citiamo come certi quelli di Pavia, Brescia, Trento, Forum Julii, Milano, Spoleto, Benevento. Altri ducati dovettero essere Bergamo, Torino, Asti, Ivrea, Isola di S. Giuliano, Verona, Vicenza, Treviso, Ceneda, Parma, Piacenza, Chiusi, Lucca, Firenze, Fermo, Rimini, Brescello, Istria, Reggio, alcuni dei quali furono forse istituiti più tardi.

La mancanza di un potere accentratore tornò a tutto svantaggio della popolazione italiana, che invece di un solo padrone ne ebbe così trentasei, tutti avidi, e che uccisero non pochi latifondisti per impadronirsi delle loro terre, ridussero alla condizione di tributari gli altri, spogliarono dei loro beni le chiese e trucidarono perfino parecchi sacerdoti.
In breve gli Italiani si trovarono in tali condizioni da rimpiangere la signoria degli Ostrogoti e il mal governo stesso dei Bizantini. Questi non facevano nulla per cacciare dalla penisola gli invasori. Avevano creduto che l'invasione longobarda, come quella dei Franco-Alemanni, fosse una scorreria e, chiusi nelle turrite città, avevano aspettato che i barbari se ne ritornassero con il bottino razziato - com'era sempre avvenuto prima di allora- oltre le frontiere; quando s'accorsero che era una conquista, i Longobardi si erano troppo rafforzati ed occorrevano, per cacciarli, una guerra lunga e forze ragguardevoli.

Ma di forze da mandare in Italia l' impero non disponeva, impegnato come era contro i Persiani e gli Avari. Conclusa la pace con questi ultimi, GIUSTINO nel 575 spedì il proprio genero BADUARIO in Italia, ma questi, scontratosi nella Campania con il nemico, fu battuto ed ucciso. La sconfitta ebbe per conseguenza il peggioramento delle condizioni di quella parte della penisola non ancora occupata dai Longobardi. Roma si vide interrotte le comunicazioni con Ravenna: morto nel luglio del 575 papa GIOVANNI III, il suo successore BENEDETTO I dovette aspettare dieci mesi per esser consacrato non potendo ottenere prima la sanzione imperiale e nel 579 PELAGIO II fu costretto a fare a meno della conferma dell'imperatore.
Soltanto Perugia resisteva tra Roma e Ravenna, ma il suo territorio era percorso e continuamente saccheggiato dai Longobardi e l'audacia di questi era cresciuta così tanto che nel 579 una schiera, comandata dal duca di Spoleto FAROALDO, poteva spingerci fin presso Ravenna ed occupare Classe.

In questo stato di cose le speranze degli Italiani erano riposte solo su Costantinopoli. Soltanto l'imperatore poteva alleviare tanti mali iniziando una seria lotta contro i Longobardi. A lui perciò fu inviata un'ambasceria di senatori e di sacerdoti, che portava con sé tremila libbre d'oro e pregava che fossero mandate truppe a difendere Roma, il papa e la Chiesa dai barbari ariani. Ma GIUSTINO II era allora gravemente ammalato e TIBERIO II, che con il titolo di "Cesare" lo sostituiva, pensava più alla guerra contro i Persiani che a mandare aiuti in Italia. Egli consigliò agli ambasciatori di comprare con l'oro qualche schiera di Longobardi e, se il tentativo di disgregare con il denaro il nemico falliva, di rivolgersi per aiuti ai Franchi.

Buoni rapporti di vicinanza non esistevano tra i Longobardi e i Franchi, che si trovavano allora sotto la signoria dei tre figli di CLOTARIO I, GONTRANO, CHILPERICO e SIGEBERTO, il primo dei quali regnava in Borgogna, il secondo nella Neustria e il terzo nell'Austrasia. Anzi i due popoli più di una volta erano venuti alle armi: nel 569, un anno appena dopo la venuta di Alboino in Italia, alcune schiere di Longobardi, operando per proprio conto, erano penetrate in Borgogna, dove avevano subito una sanguinosa disfatta; l'anno dopo avevano ritentata la prova nella Provenza ed erano riusciti a sconfiggere i Borgognoni comandati dal patrizio Amato ch'era caduto in battaglia e a ritornare in Italia con ricco buttino.
Una terza invasione l'avevano fatta nel 571, ma con esito infelice: sbucati dal Monginevro, nella valle della Duranza, erano stati assaliti presso Embrun da MUMMOLO, figlio di Amato, ed erano stati messi in rotta con gravissime perdite. Esito migliore non aveva ottenuto, poco dopo, un'incursione dei Sassoni giunti in Italia con i Longobardi. Questi - se si deve credere a Paolo Diacono - erano malcontenti dei Longobardi perché non era permesso loro di vivere secondo le proprie antiche consuetudini. Desiderosi di tornarsene alle loro terre, avevano cercato di aprirsi la via tra i Franchi e, dopo essere stati sconfitti da Mummolo, tra il 572 e il 573 l'unica cosa che ottennero fu quella di poter tornare nella Svevia passando per la Gallia. Ma le loro terre nel frattempo erano state occupate da altri barbari e, venuti con questi alle armi, i Sassoni erano stati sterminati.

A queste invasioni altre due avevano tentato i longobardi, nel 574 e nel 575. Nella PRIMA, ZABANO, duca di Pavia, dopo avere saccheggiata l'alta valle del Rodano, era stato sconfitto a Beg dai Borgognoni e costretto a ripassare le Alpi, nella seconda lo stesso Zabano con il concorso dei duchi RODANO e AMONE, aveva tentato un audace colpo nella Narbonese, ma dopo alcuni successi era stato battuto dal solito MUMMOLO.

Il consiglio dell'imperatore fu seguito dal Papa PELAGIO II che nel 580 o nel 581 scriveva al vescovo di Augerre perché convincesse i Franchi a difendere Roma e l' Italia dai Longobardi. Agli incitamenti del Pontefice si aggiunsero quelli del successore di Tiberio, Maurizio di Cappadocia, il quale, spinta dall'apocrisario Gregorio che doveva più tardi diventar papa, inviò a CHILDEBERTO, re d'Austrasia, cinquantamila solidi d'oro per indurlo ad assalire i Longobardi.

CHILDEBERTO che allora era un 18enne giovanissimo re, spinto anche dalla madre (Brunechilde, di cui parleremo ancora), passò con un forte esercito le Alpi nel 584 e costrinse i duchi a chiudersi nelle loro città; ma la sua venuta in Italia non produsse gli effetti che si aspettava l'imperatore, perché il re franco, vinto dai ricchi donativi dei duchi e dalle loro promesse di sudditanza, se ne tornò nel suo regno. Si può anzi dire che la discesa dei Franchi tornò di utilità ai Longobardi: i duchi, infatti, dopo il pericolo, solo allora si accorsero che la debolezza della loro nazione era un prodotto dell'autonomia dei ducati e decisero di ridare l'unità e, con questa, la forza al regno eleggendo un sovrano.

Tra la fine del 584 e il principio del 585 il congresso dei duchi tenutosi a Pavia proclamò re AUTARI, figlio di Clefi e per costituire al monarca un patrimonio stabilì che ogni duca cedesse al re metà delle proprie terre, non pensando forse che questo provvedimento veniva a conferire una grande forza all'autorità del sovrano il quale al potere che gli derivava dal titolo aggiungeva quello, non meno grande, che gli veniva dalla proprietà terriera acquisita in ciascun ducato.

Con AUTARI lo stato longobardo comincia a consolidarsi ed esce dall'anarchia in cui dieci anni di interregno l'hanno gettato. Quasi per legittimare il suo dominio, Autari egli prende il titolo di "Flavio". "…Di fronte all'opposizione dell' Impero e della Chiesa romana - osserva il Tamassia - il re longobardo prende il nome già portato dall'imperatore romano e dai visigoti ed ostrogoti, quasi per indicare che incomincia una nuova era per la monarchia longobarda, che risuscitò così le memorie non lontane della dominazione ostrogota, tanto devota alla romanità…"

Il consolidamento dello stato, oltre che dalla restaurazione monarchica, è prodotto dall'azione personale del re. Egli dà un nuovo indirizzo alla politica estera: osteggiato dai Franchi e dai Bizantini, cerca di avviare trattative di pace con i primi per poter meglio rafforzarsi all'interno e parare i colpi dei secondi. Il tentativo però non gli riesce, ed allora Autari si difende con efficienza con le armi e stringe parentele che possano essergli di aiuto contro i nemici esterni.

Quando lui sale al trono longobardo, un trattato di alleanza esiste tra l'imperatore MAURIZIO e il re franco CHILDEBERTO. Questi, invitato dall'alleato a restituire i cinquantamila solidi o a muover guerra ai Longobardi, ritorna in Italia nel 585, ma subito dopo ripassa le Alpi, essendo sorte discordie fra i suoi generali. Nello stesso anno giunge a Ravenna da Costantinopoli, con un buon contingente di truppe, l'esarca SMARAGDO: Brescello, per il tradimento del longobardo DROTTONE comprato dall'oro imperiale,fu occupata dai Bizantini e Classe riconquistata.

La partenza dei Franchi dà buon giuoco ad Autari: si rivolge subito contro Brescello, se ne impadronisce e costringe Smaragdo a firmare una tregua di tre anni. Questo successo non gli basta; egli ha sempre in mente una pace con i Franchi. Con la pace cerca di trovare una sposa e di procacciarsi una preziosa alleanza. Chiede pertanto in moglie CLOTSUINDA, sorella di Childeberto. Questi è disposto a concederla, ma la madre BRUNECHILDE, fervente cattolica, si oppone alle nozze della figlia con un ariano, e induce Childeberto a sposare la sorella con il re visigoto RECAREDO, convertitosi al cattolicesimo.
Nel 587 la guerra tra i Franchi e i Longobardi ha una violenta ripresa: Childeberto scende nuovamente in Italia, ma affrontato da Autari, subisce gravissime perdite ed è costretto a ripassare le Alpi, con l proposito di ritornare con forze più numerose. Autari accortamente svia il pericolo e manda ambasciatori al re franco, offrendogli un annuo tributo e truppe ausiliarie, che Childeberto accetta.

Finalmente Autari aveva un po' di respiro e poteva pensare a rafforzare la sua posizione personale e lo stato. A conseguire questo duplice scopo un buon matrimonio era il mezzo migliore per quei tempi. Autari fece una buona scelta: TEODOLINDA, figlia del duca GARIBALDO di Baviera (che prima ancora dell'invasione longobarda in Italia venti anni prima aveva sposato una figlia del re longobardo Vacone).
Teodolinda era cattolica ed era stata richiesta in moglie già da CHILDEBERTO che poi aveva mandato a monte il matrimonio. Forse perciò Garibaldo odiava il re franco di cui era vassallo (relativamente, perchè era fortemente autonomista). Con queste nozze Autari si sarebbe procacciato l'aiuto della Baviera, e il duca bavarese l'aiuto dei Longobardi, che avrebbe avuto peso non indifferente in una temuta futura guerra tra Franchi e Longobardi al primo, o Franchi e Bavaresi il secondo.

Ma oltre a questa unione, fu pure assicurata la devozione del duca longobardo Evino, che fin dall'arrivo di Alboino in Italia, da Verona, risalita la Val d'Adige si era spinto fino a Trento, e ne aveva fatto un suo ducato, bramando però di spingersi oltre Lavis (a nord di Trento) e a Salorno, cioè nel territorio bavarese. Ora contemporaneamente a quello di Autari il re bavarese Garibaldo diede al duca EVINO in sposa un'altra figlia, la sorella di Teodolinda. Era un'unione che univa e avrebbe unito in futuro nella sua duplice discendenza dinastica, il Trentino e l'Alto Adige Bavarese in un unico regno.
Purtroppo nel secondo "caos" che provocò poi Carlo Magno, la discendenza dinastica longobarda scomparve, e rimase solo più quella bavarese, che eccetto quel brevissimo periodo napoleonico (quando fu unito al Regno d'Italia) fino al 1914 Bavarese rimase sotto gli Asburgo.

Dobbiamo qui ricordare che la Bavaria (conosciuta poi come Tirolo), dopo la caduta dell'Impero Romano, e il "caos" che ne era seguito, con le valli dell'Alto Adige lasciate al loro destino (e anche poco disturbate dalle guerre della penisola) scendendo dal Passo Resia e dal Passo del Brennero i bavaresi avevano occupato, quello che in seguito prenderà il nome di Sud Tirolo (l'attuale Alto Adige), l'espansione quasi indisturbata era arrivata fino a Salorno, dove la Valle dell'Adige si restringe, fino a formare con la gola una naturale baluardo (allora e in seguito fino all'ultima guerra mondiale). Trento del resto allora era soltanto un ex piccolo castro romano, di "passaggio", e il territorio circostante piuttosto infido. Ben altre prospettive invece offrivano la piana che va da Merano a Bolzano e che prosegue appunto fino a Salorno.

Ritorniamo a questo matrimonio di Autari, che suggerito da ragioni politiche, si trasformò invece in un matrimonio d'amore. Alla storia ora s'innesta la leggenda che ha profumo di romanzo e di poesia.
Narra Paolo Diacono: "il re Longobardo Flavio Autari mandò ambasciatori in Baviera a chiedere al duca Garibaldo la mano della figlia. Avuta risposta affermativa, ebbe desiderio di conoscere la futura sposa. Pertanto preparò una seconda ambasceria, alla testa della quale mise un uomo di sua fiducia, e, partecipandovi egli stesso in incognita al seguito dell'ambasciatore composta da uomini che non avevano mai conosciuto il re di persona, partì per la Baviera. Dopo che furono ammessi alla presenza di Garibaldo e dal capo dell'ambasceria furono offerti i doni, Autari, non riconosciuto da nessuno, si avvicinò al duca di Baviera e gli disse di essere stato incaricato dal suo re di vedere la futura regina dei Longobardi per informarlo poi della sua bellezza. Davanti a questa richiesta, Garibaldo fece subito venire la figlia.
AUTARI stupefatto ammirò silenzioso la bellezza e la grazia di Teodolinda, ed essendogli piaciuta in tutto disse al duca "Poichè tua figlia è così bella da farci veramente desiderare di averla per nostra regina, noi vorremmo, se tu ce lo concedi, ricevere dalla sua mano una coppa di vino da bere insieme". Fu concesso. La fanciulla prese la tazza, la porse prima a chi si era presentato come capo dell'ambasceria, poi l'offerse ad Autari che bevve e, nel restituirgliela, le toccò la mano con un dito che poi portò alla fronte e poi sulle labbra come adorandolo. La giovane, che non gli era sfuggito quel gesto, imbarazzata raccontò il fatto perfino arrossendo alla sua nutrice. Questa le rispose: "Chi ha osato toccarti non può essere che il tuo promesso sposo. Non dir nulla a tuo padre; quel longobardo è degno di averti e gli starebbe bene anche una corona sul capo". Del resto Autari era allora nel fior della gioventù, aveva un nobile l'aspetto, i capelli ricci e biondi, ed era pieno di dolcezza il suo sguardo. Quando l'ambasceria prese commiato dal duca bavarese, questi ordinò che fosse accompagnata da una scorta d'onore.

Giunto al confine; prima che la scorta se ne tornasse, Autari, rizzandosi sulle staffe, lanciò la scure che aveva in mano contro un albero e ve la conficcò, esclamando: "Così colpisce il re dei Longobardi ! ". A quelle parole la scorta seppe solo allora che lui era il re…".

Alla notizia del fidanzamento - o per motivi politici o perché Teodolinda era stata una sua promessa sposa- CHILDEBERTO andò subito su tutte le furie, e per impedire il matrimonio invase con un esercito proprio la Baviera; ma TEODOLINDA temendo di essere rapita, riuscì a fuggire in compagnia del fratello GUNDOALDO (che poi dal re longobardo ebbe in premio il ducato di Asti) e a Verona trovò AUTARI che le era venuto incontro. Le nozze furono celebrate con grande solennità il 5 maggio del 589.

Questo -ora avvenuto- attirò addosso ai Longobardi la collera di CHILDEBERTO, che mosse guerra ad Autari. Naturalmente il re franco agiva d'accordo con i Bizantini. SMARAGDO a Ravenna era stato sostituito dall'esarca ROMANO che da Costantinopoli era giunto con rilevanti forze e portato una gran quantità di denaro per corrompere i deboli duchi longobardi, che erano parecchio venali. Infatti, Romano riuscì a trarre dalla sua parte i duchi di Parma, di Piacenza e di Regio, poi con queste alleanze, o non interferenze, uscito con il suo esercito da Ravenna si impadronì di Modena, Altino e Mantova.

Intanto scendevano dalle Alpi i Franchi, divisi in tre corpi. II primo, al comando di AUDOVALDO, puntò su Milano, il secondo guidato da OLO, scese per Bellinzona, il terzo, comandato da CHEDINO, scese dalla valle dell'Adige marciò su Verona ma qui dovette fermarsi. Assaliti da tanti nemici, i Longobardi si chiusero nella città fortificata, allora (e anche in seguito) una delle più efficienti piazzaforti dell'intera pianura Padana.

L'esarca ROMANO si trovava a Mantova quando seppe che CHEDINO era giunto presso Verona, si affrettò a spedirgli messi per combinare con lui il piano delle operazioni, ma i messi tornarono con una sconfortante notizia: i Franchi si erano accordati con AUTARI e si preparavano a lasciare l'Italia. L'esarca, abbandonato dagli alleati, se ne tornò a Ravenna. Così anche questa guerra, che pareva destinata a spazzare una buona volta i Longobardi dall' Italia, veniva troncata sul più bello e chi ne faceva le spese era la povera popolazione italiana che oltre a quelle dei Longobardi subiva i danni dei saccheggi anche dei Franchi, tre volte nell'arco di pochi anni.

Con i Franchi, Autari iniziò subito delle trattative, offrendo, come l'altra volta, un annuo tributo e truppe ausiliarie. Non erano condizioni onorevoli per i Longobardi, ma questi non erano in grado di sostenere una lotta contro due nemici e la pace con uno di essi, sia pure a patti umilianti, s'imponeva. Soltanto stando in pace con i Franchi, Autari poteva dare vita prima al suo regno, e poi estenderlo con altre conquiste in Italia.
Questo era il suo disegno, che però con questo accordo con i potenti vicini del nord riuscì ad attuare solo la prima parte; l'attuazione della seconda parte gli fu impedita dalla morte che lo colse assai giovane a Pavia il 5 settembre del 590.

FINE

Autari, lascia la bella Teodolinda, e il regno al suo successore Agilulfo
e dei due ci occuperemo nel prossimo capitolo
accennando anche a Papa Gregorio Magno
ed è il periodo che va da Agilulfo a Rotari dall'anno 591 al 652 d.C. > > >


< < < VEDI QUI
PER UNA GENERALE PANORAMICA SUI LONGOBARDI

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE

+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI