ANNI 757 - 773 d.C.

L'ULTIMO RE LONGOBARDO - LA CHIESA 

TENTATIVO DI RACHI DI RIACQUISTARE LA CORONA - ELEZIONE DI DESIDERIO - MORTE DI STEFANO II ED ELEZIONE DI PAOLO I - POLITICA DEL PONTEFICE - ACCORDO FRA PAOLO I E DESIDERIO - LOTTA TRA LE GERARCHIE ECCLESIASTICHE E LA NOBILTÀ LAICA - ELEZIONE DI COSTANTINO - CRISTOFORO E SERGIO - DEPOSIZIONE DI COSTANTINO ED ELEZIONE DI FILIPPO - STEFANO III E IL CONCILIO LATERANENSE - CARLO E CARLOMANNO - POLITICA DELLA REGINA BERTRADA - MATRIMONIO DI CARLO E DESIDERATA - DESIDERIO SOTTO LE MURA DI ROMA - DISORDINI IN ROMA - PAOLO AFIARTA; MORTE DI CRISTOFORO - RIPUDIO DI DESIDERATA - MORTE DI CARLOMANNO - CARLO UNICO RE DEI FRANCHI - ADRIANO I AL PONTIFICATO - ADRIANO I E DESIDERIO -I LONGOBARDI INVADONO L' ESARCATO - ARRESTO E MORTE DELL'AFIARTA - DESIDERIO MUOVE CONTRO ROMA - SUO RITORNO A PAVIA - L'ASSEMBLEA DEI FRANCHI DECIDE LA GUERRA CONTRO I LONGOBARDI - LA BATTAGLIA DELLE CHIUSE - PRESA DI BRESCIA E DI VERONA - FUGA DI ADELCHI - ASSEDIO DI PAVIA - CARLO A ROMA - CONFERMA DELLA DONAZIONE DI PIPINO - RESA DI PAVIA - CAUSE DELLA ROVINA DEL REGNO LONGOBARDO
-------------------------------------------------------------------

DESIDERIO E PAOLO I


Come abbiamo letto nella precedente puntata, nel dicembre del 756, il re longobardo ASTOLFO, cessava di vivere; senza lasciare eredi. Ma c'era però suo fratello monaco RACHI che dal ritiro di Montecassino terminata forse il periodo mistico, aveva continuato a sognare di ritornare sul trono che aveva lasciato al fratello, ed aspettava solo il momento propizio per tentare di riprendere lo scettro.

Dopo la sconfitta longobarda e il trionfo della politica papale, il partito di coloro che spingevano verso l'unità d'Italia aveva perso molto terreno e la politica estera dei Longobardi, persa la sua libertà d'azione, era costretta ad uniformarsi alla volontà del regno franco e, di conseguenza, del Pontefice. A RACHI, il quale aveva dovuto rinunciare al trono per la sua politica remissiva verso la S. Sede, non sembrava quindi difficile riottenerlo, ora che la situazione era molto cambiata. Lasciato, perciò, Montecassino, si precipitò a Pavia nello stesso mese in cui era morto il fratello e si dichiarò re.
Malauguratamente un competitore era però sorto, che aveva un largo seguito tra i Longobardi di Toscana. Era questi DESIDERIO, oriundo bresciano, il quale, per avere l'appoggio del Papa per salire al trono, promise di -cedere alla S. Sede i luoghi dell'Esarcato e della Pentapoli che erano stati occupati al tempo di Liutprando, Bologna, Ferrara, Imola, Faenza, Osimo, Ancona ed Umana.

Era quanto il Pontefice desiderava. I negoziati furono condotti a termine dall'abate Fulrado, da un consigliere Cristoforo e dal fratello del Papa, PAOLO, e Desiderio fu riconosciuto re. RACHI fu minacciato di scomunica se persisteva nel suo atteggiamento e dovette dare un addio al suo sogno e ritornare nella solitudine del convento.
Il papa fece appena in tempo a concludere quest'operazione -che era il compimento del suo capolavoro- quando il 26 aprile del 757, STEFANO cessò di vivere.

Contro la volontà di una fazione che cercava di fargli succedere l'arcidiacono TEOFILATTO, fu eletto PAOLO I, fratello del morto Pontefice. Il nuovo Papa non poteva che seguire la politica del suo predecessore della quale proprio lui era stato un valido strumento.
Questa politica aveva per basi l'amicizia del re dei Franchi e il consolidamento del dominio temporale. Questo secondo punto del programma politico della Santa Sede, trovava in verità degli ostacoli non lievi nella nobiltà laica ("Judices de militia") che non sapeva rassegnarsi alla perdita della propria autorità di fronte a quella sempre crescente delle gerarchie ecclesiastiche ("Judices de clero") e nell'arcivescovo di Ravenna che mirava a divenire il capo dell'Esarcato e a sottrarsi alla sovranità papale.

PAOLO I cercò di superare questi ostacoli per mezzo dell'autorità di PIPINO e riuscì a provocare un monito del re alla nobiltà turbolenta che, per lettera, veniva, invitata a rimaner devota alla Chiesa e al Papa.
Un altro ostacolo alla politica ecclesiastica era costituito dall'atteggiamento del re Longobardo DESIDERIO. Questi aveva restituito Imola e Ferrara, ma indugiava a consegnare le altre città che aveva promesso di restituire.
Il suo indugio era giustificato dalla politica del Pontefice, il quale segretamente, tramite l'abate FULRADO allo scopo d'indebolire sempre più lo stato longobardo, aveva avviato trattative con i duchi di Spoleto e Benevento per staccarli da Pavia e metterli sotto il protettorato dei Franchi, che voleva dire sotto l'influenza della Santa Sede. Questi maneggi non potevano naturalmente piacere a Desiderio. In un primo tempo egli sospese la restituzione delle città dell'Esarcato e della Pentapoli, in un secondo armò un esercito e marciò contro i due ducati del Mezzogiorno.

Il primo ad essere punito fu ALBOINO, duca di Spoleto, il quale fu messo in prigione e sostituito con GISULFO. Il duca di Benevento non aspettò che il re comparisse nel territorio del ducato e se ne fuggì ad Otranto, dopo aver messo al suo posto ARECHI, che divenne più tardi suo genero.

La notizia di questi fatti mise in allarme il Pontefice, che da un canto informò Pipino esagerando la portata degli avvenimenti, dall'altro cercò d'indurre Desiderio a mantenere le promesse, invitandolo a Roma. Desiderio ci andò, ma pose una condizione per la restituzione delle città, che il Pontefice scrivesse al re dei Franchi di rimandare gli ostaggi longobardi. La lettera fu in realtà scritta ed affidata al vescovo di Ostia Giorgio; ma un'altra lettera venne subito dopo mandata segretamente a Pipino nella quale il re era avvertito di non tener conto della prima, di trattenere gli ostaggi e di costringere lo stesso sovrano dei Longobardi a rendere le "giustizie di S. Pietro".

La politica di PAOLO I non era, come si vede, rettilinea; ma alle tortuosità era costretta dai timori e dalle notizie, non tutte fondate, che giungevano al suo orecchio. Egli sospettava di tutti e prestava fede a tutto quello che si vociferava intorno alle intenzioni dei Longobardi, dei Franchi e dell'imperatore d'Oriente. Di DESIDERIO si affermava che volesse avvicinarsi ai Bizantini, ed aiutarli a ricuperare ciò che in Italia avevano perduto; mentre di COSTANTINO COPRONIMO arrivavano notizie di preparativi per una spedizione su Ravenna e Roma e che stringeva accordi con PIPINO; ed anche quest'ultimo non era molto limpido, infatti, cercava con chissà quali scopi di dare in moglie sua figlia Gisella al figlio dell'imperatore, Leone.
Disorientato da tante dicerie, il Pontefice tempestava di lettere Pipino, protestandogli devozione, ricordandoli i servigi resi alla dinastia da Stefano II e scongiurandolo di fare la spedizione in Italia.

Ma Pipino non poteva allontanarsi dalla Francia, impegnato com'era in una grossa guerra nell'Aquitania; tuttavia, desideroso di sistemare le faccende in Italia, vi mandò il Duca AUTICARIO e REMEDIO vescovo di Rouen, che riuscirono nel 763 a mettere d'accordo il Papa e Desiderio.
Fu un accordo però che andava a tutto vantaggio dei Longobardi e se il Papa lo accettò volentieri è spiegato da quello stato di incertezza e di preoccupazione in cui viveva e dall'inesatta nozione che aveva della politica internazionale. Nell'accordo non si dice nulla della restituzione delle città dell'Esarcato e della Pentapoli, ma genericamente dei "patrimoni della Chiesa". Il Pontefice sacrificava così (ma solo apparentemente) le città alle quali agognava. ma in cambio otteneva l'assicurazione che Desiderio non avrebbe più molestato la S. Sede, anzi il longobardo s'impegnava a portarle aiuto in caso di una guerra offensiva dell'impero.

COSTANTINO, FILIPPO E STEFANO III

PAOLO I non riuscì a rallegrarsi a lungo della pace fatta con Desiderio, essendo venuto a morte il 28 giugno del 767. La scomparsa del Papa produsse disordini e violenze a Roma e segnò l'inizio di una furibonda lotta tra le gerarchie ecclesiastiche e la nobiltà laica che dalla politica energica del defunto Pontefice era stata costretta a mordere il freno.
Un duca di Nepi, di nome TOTONE, radunato nella Toscana un gran numero di partigiani, il giorno stesso che Paolo I era spirato corse a Roma alla testa di questi uomini in compagnia di tre suoi fratelli, COSTANTINO, PASSIVO e PASQUALE. Entrato per la porta S. Pancrazio s'impadronì del Laterano e fece proclamare papa il fratello Costantino. Questi era laico, ma con le minacce il vescovo di Preneste fu costretto ad ordinarlo chierico, suddiacono e diacono, e il 5 luglio lo consacrò in S. Pietro con i vescovi di Porto e di Albano.
Un'elezione del genere non poteva che provocare la reazione dell'elemento ecclesiastico. Anima di questa rivolta fu il primicerio dei notai CRISTOFORO, che, per essersi opposto all'elezione di Costantino, era stato costretto a vivere in casa sotto rigorosissima sorveglianza. Fingendo di volere farsi monaco, ottenne di allontanarsi da Roma con il figlio SERGIO, sacellario, e riparò prima a Spoleto, dal duca TEODICIO, poi alla corte di DESIDERIO in Pavia.

II re longobardo, sollecitato, promise il suo appoggio ai due fuggitivi. Ma Desiderio non era certo spinto da una simpatia per il partito ecclesiastico; voleva solo approfittare della situazione per far eleggere papa un suo uomo e in tal modo poter poi dirigere la politica della Chiesa romana.
A Cristoforo e a Sergio diede pertanto come compagno il prete longobardo VALPERTO e questi, radunate nel ducato di Spoleto alcune schiere, marciò su Roma, sotto le cui mura giunse il 28 giugno del 768.
Porta S. Pancrazio fu aperta dai parenti di Cristoforo, il quale riuscì così a entrare in città. A fronteggiare i Longobardi, corse in aiuto TOTONE e sul Gianicolo s'impegnò in una furiosa mischia che sarebbe finita con la vittoria dei Romani se Totone non fosse stato pugnalato da alcuni traditori. La morte del capo causò lo scompiglio delle sue truppe; allora le milizie romane si unirono a quelle longobarde, il Laterano fu circondato e il papa COSTANTINO e il fratello PASSIVO furono fatti prigionieri.

Approfittando del tumulto, Valperto fece proclamare pontefice il monaco Filippo che simpatizzava per i Longobardi; ma quest'elezione non poteva riuscire gradita né all'aristocrazia laica né alle gerarchie ecclesiastiche. Il 1° agosto del 768 il clero, l'esercito e il popolo, tutti uniti, dopo aver deposto Filippo, elessero papa, dietro consiglio del primicerio Cristoforo, il prete siciliano STEFANO (III), che una settimana dopo, il 7 agosto, fu consacrato.
Prima della consacrazione del nuovo Pontefice al povero Costantino furono cavati gli occhi e poi, dalla folla inferocita, fu condotto a cavallo su di una sella da donna in un convento; dove il 6 agosto fu prelevato, portato di peso in Laterano e qui deposto da un'assemblea di vescovi.
Sorte peggiore toccò al prete Valperto: cercò di salvarsi rifugiandosi nella chiesa di Santa Maria a Martyres (Pantheon), ma fu scovato e trascinato in Laterano dove gli furono, anche a lui. cavati gli occhi.

Circa un mese dopo, il 24 settembre, moriva PIPINO e gli succedevano i figli CARLO e CARLOMANNO. Ad entrambi si presentò, mandato da Stefano III, il sacellario SERGIO per informarli degli avvenimenti, per chiedere che l'amicizia dei Franchi fosse mantenuta alla S. Sede e per pregarli che concedessero licenza ai vescovi del loro regno per farli partecipare ad un concilio in cui dovevano stabilirsi le norme per l'elezione dei pontefici.
Il concilio fu tenuto nella basilica lateranense nell'aprile del 769 e vi parteciparono vescovi franchi e quarantun italiani. L'ex-papa Costantino, chiamato dinanzi all'assemblea e interrogato sulla sua elezione, si scolpò dicendo di essere stato costretto con la forza e domandò perdono dei suoi peccati, ma, avendo osato aggiungere che, prima di lui, a Ravenna e a Napoli, dei laici come lui erano stati eletti vescovi, fu battuto, insultato e scacciato.

Le decisioni del concilio furono: che non potesse essere eletto pontefice un laico; che soltanto i preti cardinali e i diaconi potessero essere eleggibili; che l'elezione del pontefice fosse esclusivamente fatta dal clero; che nessuno potesse intervenire armato alla cerimonia dell'elezione e che i laici, civili o militari, della città o della campagna potessero solo acclamare al Papa, di fuori, ad elezione avvenuta. Gli atti del pontificato di Costantino furono bruciati. Il concilio lateranense terminava, come si è visto, con la vittoria completa del clero sul popolo e sull'aristocrazia laica.

RELAZIONI. TRA CARLO, DESIDERIO
E LA S. SEDE DURANTE IL PONTIFICATO DI STEFANO III

v Con l'elezione di STEFANO III e dopo le decisioni del concilio lateranense, pareva che un periodo di pace dovesse inaugurarsi in Roma. E invece i germi della discordia non erano stati eliminati, anzi altri erano sorti. Il malcontento della nobiltà laica era, infatti, cresciuto, e se da una parte era stato tolto di mezzo Totone, dall'altra a occupare il suo posto erano venuti Cristoforo e Sergio. Si aggiunga l'estrema debolezza del Pontefice e la discordia sorta tra Carlo e Carlomanno, che impegnati com'erano a litigare si disinteressavano della Chiesa; si comprenderà facilmente come le condizioni di Roma fossero piuttosto tristi.

Come se ciò non bastasse, le relazioni tra il Papato e la corte di Pavia erano tornate a farsi tese, sia per l'uccisione del prete longobardo Valperto e per la deposizione di Filippo, sia per la politica papale che aveva rimesso in campo le sue pretese sulle città dell'Esarcato e della Pentapoli non ancora restituite da Desiderio e che il patto del 763, promosso da Pipino, era stato messo da parte.
Ricominciavano pertanto le sollecitazioni del Pontefice ai re franchi perché costringessero Desiderio alla restituzione. Ma, come si è detto, tra Carlo, cui erano toccate l'Austrasia, parte dell'Aquitania e la Neustria a nord dell'Oise, e Carlomanno, che aveva avuto il resto dell'Aquitania, la Neustria a sud dell'Oise, la Borgogna, la Settimania, la Provenza, l'Alemannia, l'Alsazia e la Turingia, non correvano buoni rapporti e le sollecitazioni del Papa non potevano presso di loro trovare buon'accoglienza.

A lasciare insoddisfatte le richieste della S. Sede concorrevano anche l'atteggiamento di gran parte della nobiltà franca contraria: alla politica estera inaugurata da Pipino e le vedute e i propositi della regina madre BERTRADA. Questa voleva che i suoi figli vivessero d'accordo, che fossero eliminate le cause di guerre con i popoli vicini e che i Franchi si unissero in alleanza con i Bavaresi e con i Longobardi. Un'alleanza per quei tempi era sempre accompagnata da vincoli nuziali tra le case regnanti e, poiché TASSILIONE duca di Baviera aveva sposato LIUTPERGA figlia di Desiderio, pensò Bertrada di dare in sposa al figlio CARLO l'altra figlia di Desiderio, DESIDERATA.

La notizia di questo disegno di matrimonio giunta a Roma, gettò la costernazione nell'animo del Pontefice e dei suoi consiglieri che avevano fatto base della loro politica la rivalità tra Franchi e Longobardi. Una eloquente testimonianza di questo sconforto noi lo troviamo in una lettera inviata da Stefano III, nel 770, ai re franchi: "…Abbiamo saputo, - scriveva il Pontefice - con nostro gran dispiacere, che Desiderio, re dei Longobardi, vuol dare in sposa sua figlia ad uno di voi. Se ciò corrisponde a verità, non un matrimonio è questo, ma una diabolica unione, un iniquo concubinaggio perché la Santa Scrittura c'insegna che molti uomini caddero in peccato per avere sposato donne di nazione diversa. E quale pazzia è la vostra di voler contaminare la nazione franca, la più illustre del mondo, e la vostra stirpe con la perfida e nefandissima gente longobarda ?... ". E dopo avere ricordato la condotta dei Longobardi e gli impegni assunti da Pipino, Stefano concludeva: "Abbiamo messo questa lettera ammonitrice sulla tomba di S. Pietro, vi abbiamo celebrato sopra la messa, e dà questo luogo ve la mandiamo con le lacrime agli occhi".

Ma questa lettera non ebbe l'effetto desiderato. Bertrada perseverò nel suo proposito, fece un viaggio prima in Baviera poi si recò in pellegrinaggio a Roma allo scopo di mettere d'accordo Pontefice e Desiderio. Non le riuscì difficile: Cristoforo e Sergio erano diventati troppo invadenti e si erano accostati a CARLOMANNO che aveva mandato a Roma il conte Dodone, suo legato, con una schiera di Franchi; quindi il Papa aveva tutto l'interesse di non guastarsi con Carlo e di accordarsi con Desiderio.
Lasciata Roma, Bertrada andò a Pavia, dove erano arrivati alcuni nobili Franchi per celebrare le nozze tra Carlo e Desiderata, poi fece ritorno in Francia conducendo con sé la sposa del figlio.

La politica della S. Sede ora risente della debolezza del Pontefice e dell'intrecciarsi degli odi, delle ambizioni e del desiderio di vendette, e prepara nuovi disordini nella città. Tanto il Papa quanto il re longobardo hanno interesse di fiaccare Cristoforo e Sergio, specialmente Desiderio che vede in loro due gli ostacoli più grandi alla sua politica romana.
Tramite cubiculario del Pontefice di nome PAOLO AFIARTA, il re dei Longobardi prima s'intende con STEFANO III, poi con il pretesto di compiere un religioso pellegrinaggio e di incontrarsi con lui per definire la questione delle "giustizie di S. Pietro", muove verso Roma con un corpo di milizie.

Cristoforo e Sergio però non si lasciarono sorprendere e, armati e radunati nella Tuscia e nella campagna romana, si prepararono a difendersi spalleggiati dai Franchi di Dodone.
DESIDERIO si accampò presso S. Pietro e qui venne a trovarlo Stefano III, mentre l'Afiarta preparava in città la rivolta. Questa scoppiò quando il Papa faceva ritorno in Laterano, ma trovò Cristoforo e Sergio pronti. Con i loro armati presero d'assalto il Laterano e penetrarono nella basilica di San Salvatore dove Stefano III si era rifugiato, ma il contegno impavido del Papa e i soccorsi dell'Afiarta tempestivamente giunti fecero sì che la persona del Pontefice non fosse toccata.

Il giorno seguente Stefano tornò a far visita a Desiderio e quel giorno medesimo, non si sa bene come CRISTOFORO e SERGIO caddero nelle mani dei partigiani del Papa.
Questi promise loro salva la vita ed ordinò che padre e figlio fossero scortati nel lasciare Roma; ma quando stavano per passare le mura furono assaliti improvvisamente da un manipolo di armati che cavarono loro gli occhi. Cristoforo fu condotto nel monastero di S. Agata, dove tre giorni dopo morì: Sergio fu tratto prigioniero in Laterano e di lui non si seppe più nulla. Il re dei Longobardi, soddisfatto dalla fine dei suoi nemici, levò il campo e se ne ritornò a Pavia (771).
Stefano III, scrivendo a Carlo e a Bertrada, li informava degli avvenimenti addossando la colpa a Dodone e lamentandosi di aver corso pericolo di vita. Narrando la fine del primicerio e del figlio, affermava che era avvenuta contro la sua volontà, per opera di alcuni malfattori; infine lodava la condotta di Desiderio ed assicurava che questi era sulla via di mantener le promesse. Quest'ultima notizia però non rispondeva a verità. Il re dei Longobardi non aveva nessun'intenzione di voler mantenere le sue promesse e spadroneggiava a Roma per mezzo dell'Afiarta e del suo partito che di giorno in giorno cresceva di numero e di prepotenza.

Questa situazione in cui Roma era caduta non poteva certo piacere a Carlo. Non riusciva a tollerare che il suocero potesse avere il sopravvento nella politica romana, scalzando chi aveva il titolo di patrizio ed era il difensore della S. Sede. L'edificio costruito da BERTRADA cominciava a sfasciarsi. Crollò improvvisamente quando CARLO, ripudiata DESIDERATA, la mandò a Pavia e condusse a nozze la principessa sveva ILDEGARDA, che uno storico del tempo chiamò la più bella donna di tutto l'Occidente.

Il 4 dicembre del 771 moriva CARLOMANNO, lasciando due figli in tenera età. CARLO, radunata un'assemblea di Grandi a Corbeny (Corbonacum) si fece eleggere re, riunendo nelle sue mani i vasti domini che erano stati del padre Pipino. La vedova GERBERGA, temendo per sé e per i figli, si recò a Pavia ed ottenne ospitalità alla corte longobarda, dove vennero a trovarsi un'infelice e offesa donna (Desiderata di nome ma ripudiata da Carlo) e una madre angosciata in gramaglie che pareva chieder giustizia per i suoi figli.

ADRIANO I - SPEDIZIONE DI CARLO IN ITALIA
FINE DEL REGNO LONGOBARDO

Il 3 febbraio del 772 cessava di vivere STEFANO III. La nuova elezione portò sul soglio di S. Pietro un uomo che era tutto l'opposto del defunto papa. ADRIANO I era di antica ed illustre famiglia romana ed alla pietà religiosa univa un carattere fermo ed una volontà incrollabile. Eletto all'unanimità egli mostrò subito di non appartenere a nessuna fazione e di volersi adoperare soltanto per il bene della Chiesa. Il suo primo atto fu di perdono: furono richiamati dall'esilio i partigiani di Cristoforo e Sergio e furono rimessi in libertà coloro che dall'Afiarta erano stati gettati in prigione.
Quest'amnistia del Pontefice sapeva di sfida a Desiderio, il quale per assicurarsi delle intenzioni di Adriano mandò a Roma un'ambasciata composta di un certo Prandolo e dei duchi di Spoleto e di Ivrea, che in nome del re si congratularono con il Papa della sua elezione, offrendogli l'amicizia della corte di Pavia.

La risposta di Adriano fu quella che Desiderio non si aspettava. Rispose il Pontefice che egli voleva vivere in pace con tutti i cristiani e avere fede al trattato concluso tra Franchi, Longobardi e S. Sede, ma che "non poteva prestar fede alle parole di un re che non aveva mantenuto le promesse fatte a Stefano III".
Gli ambasciatori longobardi cercarono di assicurare il Papa sulle buone intenzioni del loro re ed allora Adriano mandò a Pavia, perché trattassero con Desiderio, il sacellario Stefano e l'Afiarta. Ma quando questi furono a Perugia giunse la notizia che un esercito longobardo aveva occupato Ferrara, Comacchio e Faenza e marciava su Ravenna.

Quest'improvviso mutamento di Desiderio fu da alcuni attribuito al rifiuto opposto dal Pontefice al re longobardo, il quale voleva che Adriano consacrasse re dei Franchi i due figli di Carlomanno e Gerberga. In verità non è necessario ricercar la causa del nuovo atteggiamento di Desiderio nel rifiuto del Papa. Era sufficiente motivo di ostilità la risposta di Adriano ai tre legati regi e l'amnistia concessa ai nemici della fazione longobarda.

L'invasione dell'Esarcato non impressionò molto il Pontefice; anzi mandò in fretta ai suoi ambasciatori a Perugia una lettera per il re in cui gli rinfacciava la sua falsità e gl'intimava di sospendere le operazioni belliche ed allontanarsi dalle terre invase. Stefano e l'Afiarta proseguirono per Pavia, ma la loro missione non ebbe alcun successo. Pare che l'Afiarta, anima venduta dei Longobardi, consigliasse Desiderio di invitare il Pontefice a Pavia per costringerlo poi a incoronare i figli di Carlomanno. E' certo è che i due ambasciatori lasciarono Pavia portando come risposta l'invito del re ad un incontro nella capitale del regno.

Dei segreti maneggi dell'Afiarta senza dubbio doveva esser giunta notizia al Pontefice, il quale saputo anche che, una settimana prima della morte di Stefano III, per ordine dello stesso Afiarta, Sergio, il figlio di Cristoforo, era stato nottetempo condotto presso l'arco di Galliano sull'Esquilino e qui ucciso e sepolto. Il cadavere era stato ritrovato. Allora il Pontefice aveva ordinato all'arcivescovo di Ravenna di catturare l'Afiarta al ritorno da Pavia e mandandogli gli atti del processo già istruito contro di lui, gli aveva ordinato di accertare le responsabilità dell'imputato e quindi di punirlo.
L'Afiarta fu arrestato a Rimini e l'arcivescovo di Ravenna, nemico accanito dei Longobardi, ignorò le istruzioni ricevute dal Papa, e sbrigativamente lo fece giustiziare.

Questo fatto infuriò Desiderio, che, riprese le ostilità, si impadronì di Senigaglia, Montefeltro, Urbino, Gubbio, e invase la Tuscia romana, saccheggiando ed uccidendo o facendo prigionieri gli abitanti.
Naturalmente Adriano non mancò di protestare, ma, ben sapendo che nulla avrebbe ottenuto dal re longobardo con le proteste e che occorreva opporre la forza alla forza, fortificò le mura della città, richiamò a Roma le milizie della Tuscia, di Perugia e della Campania e scrisse sollecitamente a Carlo, informandolo degli avvenimenti, delle intenzioni di Desiderio e del pericolo che la Santa Sede correva e chiedendo pronti aiuti.

Le intenzioni di Desiderio erano evidentissime: egli tendeva a Roma che voleva sotto il diretto dominio e sotto la sua influenza. Tra la fine del 772 e il principio del 773, alla testa di un forte esercito, accompagnato da Gerberga e dai due figli di Carlomanno, si mise in marcia verso Roma.
Ma non doveva andare oltre Viterbo: qui vennero a trovarlo i vescovi di Albano e di Viterbo, che gli portarono una lettera papale nella quale Adriano I minacciava di scomunica il re e i Longobardi se fosse entrato nel territorio romano.
Forse l'anatema del Pontefice avrebbe lasciato indifferente Desiderio. Ma non potevano lasciarlo indifferente: la consapevolezza delle forze di cui disponeva il Papa; il malumore del clero longobardo di fronte ad una guerra contro il loro Capo spirituale; e più d'ogni altra cosa la notizia delle trattative in corso tra Carlo ed Adriano.
Persuaso da questi tre elementi a sfavore, non si spinse oltre, il re levò il campo e fece ritorno a Pavia.

Giungevano intanto a Roma tre ambasciatori franchi, i quali dopo un colloquio avuto col Papa, si recarono alla capitale longobarda per cercar di piegare il re ad un accordo con il Pontefice; ma Desiderio fu irremovibile. Cedere per lui significava rinunciare alla sua politica di espansione nella cui via a poco a poco si era messo; voleva dire perdere le ricche rendite dell'Esarcato e della Pentapoli che gli erano necessarie per colmare i vuoti del suo patrimonio prodotti dalle numerose donazioni da lui fatte in favore di monasteri; significava accrescere il numero degli oppositori che aveva già nel "suo" clero e nella "sua" nobiltà; infine cedere voleva dire provocare la disgregazione del regno che egli tanto si era adoperato a mantenere unito, per diventare un sovrano vassallo dei Franchi, e, quel che era peggio, della Santa Sede.

Decidendosi a non piegare alla pressione franca, Desiderio tentava di uscire da una situazione difficilissima con l'unico mezzo che gli rimaneva: la risolutezza. Questa poteva impressionare i suoi nemici e far loro mutare politica; poteva inasprirli ed indurli alla guerra.
La guerra avrebbe deciso le sorti del regno longobardo: o la fine o l'incontrastata potenza.
Al re franco che si trovava a Thionville ritornarono gli ambasciatori, ALBINO, il vescovo GIORGIO e l'abate WULFARDO, portando la risposta di Desiderio. La guerra era inevitabile; eppure Carlo - anche se aveva ricevuta una segreta ambasciata di alcuni nobili longobardi che lo invitavano a scendere in Italia promettendogli di consegnargli il re e le sue ricchezze ("istum Desiderium tyrannum sub potestate traderent vinctum, et opes multas ...., Anon. Salern.) - volle ancora tentare un pacifico appianamento e propose al re dei Longobardi che restituisse le terre occupate dietro un compenso di quattordicimila solidi d'oro. Ma la risposta di Desiderio fu un nuovo rifiuto.
Allora Carlo convocò a Ginevra un'assemblea di Franchi ("campo di maggio") e qui fu decisa la guerra in Italia.

Raccolte numerosissime forze, Carlo le divise in due eserciti, uno dei quali comandato dallo zio Bernardo doveva passare le Alpi per il valico del monte Giove (Gran San Bernardo), l'altro al suo comando doveva scendere in Italia per la via del Cenisio.
Nella primavera del 773 gli eserciti franchi si misero in marcia verso le Alpi. Carlo con il suo esercito, passato il Cenisio, entrò nella valle di Susa e soggiornò per qualche tempo nel monastero della Novalesa, un monaco del quale, vissuto probabilmente nel secolo decimoprimo, ci lasciò una descrizione, in una sua cronaca ("Chron. Novaliciense"), della battaglia che i Franchi combatterono con i Longobardi alle Chiuse (cronaca probabilmente ritrovata dal monaco nel monastero, scritta da un suo predecessore all'epoca dei fatti).

È impossibile ricostruire nei suoi veri particolari questa battaglia intorno alla quale tante e contraddittorie leggende sono giunte sino a noi. Secondo una di queste il passo era così fortemente difeso da mura, torri e bastioni, che l'esercito franco si sarebbe ritirato rinunziando all'impresa se per un "miracolo divino" i Longobardi non si fossero dati improvvisamente alla fuga.

Secondo un'altra leggenda, ci fu alle Chiuse una battaglia sanguinosissima in cui Adelchi, figlio di Desiderio, giovane forte e valoroso, piombando più di una volta sul nemico con una mazza di ferro che era solito portare, con questa fece più di una strage.
Carlo, disperando di forzare il passo, aveva ormai deciso di rinunciare e tornarsene a casa, quando al suo campo giungeva, inviato dall'arcivescovo Leone di Ravenna, il Diacono MARTINO, che indicò al re un sentiero sconosciuto e quindi non sorvegliato dai longobardi; il re inviando una parte delle sue truppe da quella parte, riuscì a sorprendere alle spalle i Longobardi, che, assaliti di fronte e da tergo, si diedero alla fuga abbandonando le loro posizioni difensive e la lotta.
Secondo un'altra leggenda, chi insegnò a Carlo il sentiero sconosciuto fu un giullare longobardo. Avendo, dopo la vittoria, il re chiesto al giullare che cosa desiderava come compenso, questi salì sopra un colle e suonò un corno, poi chiese che gli fosse dato tutto il territorio fin dove il suono si era udito.
Eppure, in queste leggende un fondo di verità meno miracolistiche le hanno. Si parla di resistenza accanita da parte di Desiderio che non possiamo relegare nel mondo delle favole perché Desiderio un forte esercito lo aveva per davvero; si parla di sentieri nascosti e con l'esercito franco che discende alle spalle su alcuni Longobardi, circostanza questa che, senza la leggenda del giullare e del diacono Martino, non hanno nulla d'inverosimile.
Molti anni prima nella stessa zona era accaduto le stessa cosa.
Anche Napoleone, scoprendo una piccola mulattiera a Bard, aggirò la turrita e invalicabile fortezza beffando gli austriaci (la ricordiamo perché si svolse allo stesso modo e negli stessi due passi)

Noi pensiamo che la vittoria di Carlo fu dovuta al movimento aggirante delle sue truppe. Pipino aveva fatto lo stesso nella sua seconda spedizione in Italia, e il fatto che Carlo avesse mandato attraverso il passo del monte Giove (Gran San Bernardo), lo zio Bernardo ci fa credere che ad una manovra aggirante egli aveva già pensato prima di iniziare le operazioni. Se la colonna aggirante fosse quella di Bernardo o l'esercito dello stesso del re dal Cenisio, noi non lo sappiamo: forse l'una e l'altra insieme.
Quel che è certo è che la difesa delle Chiuse si risolse con la rotta dei Longobardi che si diedero buona parte alla fuga, una parte con Desiderio si chiusero a Pavia, parte con Adelchi a Verona dove si era rifugiata Gerberga con i figli, e altri si ritirarono in altre città dove poi si arresero ai Franchi. Le città che fecero maggiore resistenza furono Pavia, Verona e Brescia. In quest'ultima, furono anima della resistenza un nipote di Desiderio, POTO e il vescovo ASUALDO, ma alla fine furono costretti dal popolo ad arrendersi al conte franco ISMONDO che pose in assedio senza scampo la città.

La sconfitta delle Chiuse, conosciuta subito nelle varie parti del regno longobardo, n'affrettò il disgregamento: Spoleto si elesse un duca proprio, ILDEPRANDO, che fece atto di sottomissione al Papa; lo stesso fecero Osimo, Fermo, Ancona e Città di Castello. Intanto quasi tutta l'alta Italia cadeva nelle mani dei Franchi e sulla fine del settembre del 773 l'esercito di Carlo giungeva sotto le mura della città di cingendola con un poderoso assedio.
Non era più il caso di iniziare trattative con Desiderio: era ormai questa una guerra ad oltranza che doveva finire con la distruzione del regno longobardo. Perciò la resistenza di Pavia fu così lunga. Verona invece resistette un po' meno; nell'autunno dello stesso anno sì arrese: GERBERGA e i figli si consegnarono nelle mani di CARLO e finirono probabilmente rinchiusi in qualche monastero; ADELCHI invece riuscì a fuggire prima a Salerno, poi a Costantinopoli, dove fu accolto benevolmente dall'imperatore.

ILDEGARDA raggiunse Carlo al campo di Pavia e, poiché l'assedio si prevedeva lungo, nella primavera del 774 il re franco stabili di andare a Roma. Il motivo apparente del suo viaggio era la visita alla tomba dell'Apostolo in occasione della Pasqua che cadeva il 2 aprile, il motivo vero da cui era mosso era il bisogno che Carlo aveva di un incontro con il Pontefice per parlare delle cose d'Italia.
A Carlo non dovevano essere ignote le mire della S. Sede. Questa agognava al possesso dell'Esarcato, della Pentapoli e forse di tutta l'Italia longobarda e per legittimare le sue pretese aveva tirato fuori un documento famoso, il "Costitutum Constantini" denunciato come falso nel sec. XV da Lorenzo Valla e come tale oggi ritenuto, in cui si affermava che l'imperatore Costantino, dopo il racconto della sua conversione e della guarigione dalla lebbra per opera di papa Silvestro, concedeva alla Chiesa di Roma il primato su tutte le chiese del mondo e al Pontefice le insegne delle sovranità, il palazzo lateranense e il dominio su Roma e su tutte le province d'Italia e dell'Occidente.
Certo non tutto quello che la S. Sede desiderava Carlo era disposto a dare né del resto sapeva con precisione quello che il Pontefice avrebbe chiesto. Tuttavia per definire il futuro assetto dell'Italia si rendeva indispensabile un incontro con il Papa.

Carlo partì per la metropoli con un numeroso seguito di vescovi, abati, duchi e conti e con una parte del suo esercito. La strada che percorse fu quella della Toscana. A Nova, presso il lago di Bracciano, a trenta miglia da Roma gli vennero incontro i dignitari della Chiesa e i capi delle milizie mandati dal Pontefice a fare atto di sottomissione al re vittorioso; a un miglio dalle mura di Roma Carlo trovò l'esercito romano schierato, gli scolari della città che recavano ramoscelli di palma e di ulivo e cantavano inni in onore dell'ospite regale e infine il clero con croci e vessilli. Il re scese da cavallo, imitato dai suoi, e a piedi si avviò verso la basilica di S. Pietro.

L'antica chiesa, che la tradizione diceva costruita per ordine di Costantino, era assai diversa dalla presente, ed assai più bella, per il suo carattere veramente originale.
Si trovava fuori delle mura, le quali allora non circondavano il quartiere vaticano che era solo un sobborgo all'esterno della Città Imperiale. La vasta basilica a forma di croce aveva cinque navate, la principale delle quali finiva con un'abside semicircolare.
(l'unico documento esistente su questa basilica, è una discreta incisione che si trova oggi custodita a Venezia - Ndr.)

"....Alla chiesa si arrivava traversando un atrio spazioso a forma di chiostro, detto il Paradiso di S. Pietro. Il pavimento, della chiesa come quello dell'atrio, si trovava alcuni metri più in alto della piazza. Vi si ascendeva per una scala larga quanto la facciata o muro esterno. Le novantasei colonne, nonché i mattoni con i quali erano state costruite le mura e gli archi, erano stati tolti dal vicino anfiteatro di Nerone, e da altri edifici pagani: si vedeva una grande varietà di sagome, di capitelli, di colonne. Questo gran tempio cristiano, composto con i frammenti di tempi pagani, sembrava sfavillare da lontano, perché il tetto era formato da tegole di bronzo dorato, prelevati anch'essi dagli antichi tempi di Roma e di Venere. Nell'interno i diversi colori dei mosaici e delle pitture davano a quella chiesa una solenne e severa varietà, che armonizzava con il sentimento religioso assai più del S. Pietro moderno, che sembra quasi un'immensa galleria. Molte erano le statue di marmo e di bronzo, alcune delle quali anch'esse tolte ai tempi pagani, e adattate ad uso cristiano. A tutto ciò si aggiungevano ricchi broccati, veli a trapunto, lamiere d'oro e d'argento. Nel mezzo della croce la Confessione dell'Apostolo, rivestita d'argento, coperta da un tempietto con sei colonne di onice a spira, con un centinaio di lampade e candele, le quali ardevano giorno e notte. Qui vi erano tutti i giorni prostrati in ginocchio migliaia di fedeli di ogni sesso ed età, di ogni condizione sociale, giunti da tutte le parti del mondo a chiedere perdono dei loro peccati. Insomma era un tempio veramente unico, che poteva dirsi il centro religioso del mondo…" (Villari).

Era il sabato santo (10 aprile). In cima alla scala Adriano aspettava il sovrano dei Franchi; l'atrio era gremito di clero e di popolo. Quando Carlo giunse s'inginocchiò ai piedi della scala, poi ne salì i gradini in ginocchio, baciandoli. Il Pontefice lo ricevette fra le braccia e lo baciò e, mentre il clero cantava il versetto del salino "Benedictus qui venit in nomine Domini", entrò con lui nella basilica.

Quello stesso giorno il Papa e il re, seguiti dai nobili delle due nazioni, visitarono la tomba dell'Apostolo e si scambiarono solenne giuramento di fedeltà; poi si recarono a S. Giovanni in Laterano dove il Pontefice somministrò il battesimo alla presenza del re. L'indomani, giorno di Pasqua, Carlo ascoltò la messa celebrata da ADRIANO I in Santa Maria Maggiore e il giorno dopo ebbe luogo un grande banchetto. v Il 4 e il 5 di aprile vi furono solenni cerimonie nelle basiliche di S. Pietro e dì San Paolo.

Il 16 di aprile il Pontefice si recò in processione con il re a S. Pietro e qui, alla presenza del clero e dei magistrati romani, Adriano scongiurò Carlo di adempiere e confermare le promesse di Pipino. Secondo il "Libro Pontificale", il Papa lesse al sovrano la "Promissio carisiaca", consacrata nel diploma di Quierzy, e Carlo fece scrivere, dal suo notaio ETERIO un diploma che confermava la donazione paterna e che fu sottoscritta da lui, dai suoi vescovi, abati, duchi e conti.
Questo documento fu posto sull'altare di San Pietro, poi nella Confessione e infine fu consegnato al Papa che ebbe promessa che sarebbe stato eseguito quello che c'era scritto. Altre due copie furono fatte; una rimase nelle mani del re, l'altra fu deposta sotto gli Evangeli nella tomba dell'Apostolo.

Questo diploma non è giunto sino a noi e se ne ha notizia soltanto dal biografo di Adriano. Di tale documento alcuni critici negarono l'esistenza, altri dissero che in fu interpolato il passo che parlava della nuova donazione di Carlo, altri ancora sostennero che la donazione riguardasse i patrimoni soltanto. Oggi però è opinione comune che il documento di cui parla il biografo sia veramente stato redatto e che siano da escludere le interpolazioni.
Non si può però ammettere che la donazione di Carlo sia stata fatta nei termini di cui si fa parola nel "Libro Pontificale" sia perché in questo si parla di territori, che, come la Corsica, non furono mai conquistati dal re dei Franchi, sia perché vi sono indicati territori che poi non furono concessi.

Carlo trattenutosi ancora pochi giorni a Roma, fece ritorno a Pavia, che dopo otto mesi di assedio, nei primi del giugno del 774 finalmente si arrese. Narra una leggenda che una figlia di Desiderio, presa d'amore per Carlo, cui aveva mandato una lettera infissa in una freccia, prese furtivamente le chiavi che erano appese al letto del padre, aprì di notte le porte al nemico ma fu travolta ed uccisa dalla cavalleria franca. Ma forse la resa più prosaicamente si deve attribuire alla fame, alla pestilenza e infine alle discordie che regnavano tra gli stessi Longobardi (che non erano mai mancate da quando - lo abbiamo visto in tutti questi anni - Alboino era giunto in Italia due secoli prima).

Carlo rimase a Pavia un mese e mezzo circa, poi tornò in Francia recando con sé il tesoro della reggia longobarda, Desiderio, la regina Ansa e una figlia. Di Desiderio si narra che, preso l'abito monastico, e che finì i suoi giorni nel monastero di Corbeia; di Ansa si dice che andò a chiudersi nel monastero bresciano di S. Giulia da lei stessa fondato e di cui era badessa la figlia Anselperga. Forse nello stesso convento morì anche l'infelice DESIDERATA (la moglie ripudiata da Carlo) che poi il Manzoni immortalò.

Con la presa di Pavia finiva di esistere, dopo più di due secoli, il regno longobardo. La mancanza di un forte sentimento nazionale, la turbolenza dei duchi spesso in lotta con il governo centrale, la tendenza all'autonomia e all'indipendenza nei ducati più forte della volontà accentratrice ed unificatrice dei re e causa perciò di guerre, di rivoluzioni, di tradimenti, il dualismo tra duchi e gastaldi, la debolezza del governo bizantino che aveva fatto nascere e sviluppare nelle città italiane l'autonomismo politico e amministrativo e le milizie indigene impedendo ai Longobardi la realizzazione delle loro mire espansioniste, la politica debole, incerta, ineguale di alcuni re, e troppo rigida e intransigente di altri, furono le ragioni che determinarono la debolezza del regno longobardo e ne prepararono la rovina.

Ma la principale causa della caduta del regno longobardo fu la Chiesa romana, fu la S. Sede, che da potenza spirituale divenuta potenza temporale ostacolò prima la politica longobarda delle conquiste e dell'unificazione d'Italia con una politica identica nello scopo, ma più forte, più tenace, più scaltra e più conseguente, e poi minò la compagine stessa della nazione longobarda e indebolì l'autorità della monarchia con la religione. Le sorti del regno longobardo furono segnate il giorno che il primo re ebbe il battesimo.

GREGORIO MAGNO aprì la prima breccia nelle mura della cittadella nemica servendosi dell'acqua lustrale, finì di abbatterle ADRIANO I adoperando la spada dei Franchi. Questa spada però era purtroppo un'arma straniera che doveva aprire nella storia d'Italia un altro e non breve periodo di avvilimento e di schiavitù !
Carlo da Pavia prelevò l'intero tesoro del regno Italico dei Longobardi. Era la prima volta che accadeva in Italia, ma non era l'ultima!

FINE

Partito Carlo, che nei suoi territori ha i suoi problemi,
l'Italia diventa una "colonia", abbandonata a se stessa;
é l'Italia "sotto" i Carolingi
... iniziamo con il periodo che va dall'anno 774 al 795 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi

+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

PROSEGUI CON I VARI PERIODI