ANNI 774 - 795 d.C.

L'ITALIA SOTTO I CAROLINGI (CARLO MAGNO)

 

IL REGNO LONGOBARDO DOPO LA CONQUISTA DEI FRANCHI - CONTRASTI TRA LA S. SEDE E RAVENNA - CONGIURA DI DUCHI - CARLO SCONFIGGE I RIBELLI DELL' ITALIA SETTENTRIONALE - SPEDIZIONE CONTRO I SASSONI - CARLO IN ISPAGNA: LA ROTTA DI RONCISVALLE - LA DONAZIONE DI COSTANTINO - TERZA DISCESA DI CARLO IN ITALIA E SUA ATTIVITÀ LEGISLATIVA - INCORONAZIONE DI LUDOVICO E PIPINO - ACCORDI TRA FRANCHI E BIZANTINI - GUERRE CONTRO I SASSONI - ADRIANO I E L' IMPERATRICE IRENE - IL CONCILIO DI NICEA - SPEDIZIONE DI CARLO CONTRO IL DUCATO DI BENEVENTO - TASSILONE DI BAVIERA - GRIMOALDO DUCA DI BENEVENTO - SPEDIZIONE BIZANTINA NELL' ITALIA MERIDIONALE - FINE DI ADELCHI. - GUERRE CONTRO GLI AVARI - L'ADOZIONISMO E I CONCILI DI RATISBONA E FRANCOFORTE

( APPROFONDIMENTO e BIOGRAFIA )
CARLO MAGNO e il SACRO ROMANO IMPERO > > > > >


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RIBELLIONE DEL FRIULI - GUERRE CONTRO I SASSONI E GLI ARABI 
ACCORDI TRA FRANCHI E BIZANTINI

La resa di Pavia e la vittoria di Carlo non produssero notevoli mutamenti nell'Italia longobarda. Li avrebbero prodotti, se Carlo avesse iniziato la guerra con un piano prestabilito di riforme e se avesse avuto la possibilità di rimanere a lungo nel regno conquistato.
Le riforme non si fanno in un giorno o in un mese e soprattutto in un paese nemico conquistato, che richiedono la presenza e la protezione di numerosi armati. Invece, Carlo aveva necessità di ripassare le Alpi, sospinto dal delinearsi di una nuova guerra contro i Sassoni, non poteva lasciare in Italia forze rilevanti; d'altro canto da politico accortissimo qual era, sapeva che la miglior condotta da seguire con popolazioni di recente conquista era quella di agire con precauzione e con lentezza per non far pesare la nuova dominazione e non suscitare malumori e rivolte nei sudditi.

Perciò Carlo in Italia rimase il tempo indispensabile per ricevere il giuramento di fedeltà dei Grandi e ritenne opportuno di non apportare mutamenti nell'assetto politico ed amministrativo, lasciando, infatti, al governo dei ducati i gli stessi duchi longobardi e al popolo vinto le proprie leggi. Le sole novità prodotte dalla caduta della monarchia longobarda furono il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi assunto dal vincitore e un presidio franco lasciato a guardia di Pavia.

Lasciando le cose com'erano, Carlo sperava che, durante la sua assenza, la tranquillità in Italia non sarebbe stata turbata. Invece s'ingannò: un discendente di Desiderio c'era che non sapeva rassegnarsi alla perdita del regno, ADELCHI, il quale a Costantinopoli si dava da fare per indurre ad una spedizione l'imperatore COSTANTINO COPRONIMO. Questi dal canto suo non era rimasto insensibile agli avvenimenti d'Italia e non aveva rinunciato alla sovranità sull'Esarcato, la Pentapoli e il ducato romano.

A turbare la tranquillità della penisola non potevano che contribuire l'ambizione di alcuni duchi che desideravano rendersi indipendenti e l'appoggio che altri davano alle rivendicazioni di Adelchi. Si aggiungano a tutto questo i dissidi, non nuovi in verità, tra la S. Sede e l'episcopato di Ravenna. L'arcivescovo LEONE, imitando le ambizioni del suo predecessore Sergio, aveva, infatti, manifestato il serio proposito di volere esercitare nell'Esarcato e nella Pentapoli quella medesima autorità che il Papa esercitava sul ducato romano e, ritiratisi i Longobardi, aveva respinto i funzionari della S. Sede dall'Esarcato e da alcune città dell'Emilia era stato lesto a insediare i propri vescovi.

Di tutto ciò che in Italia avveniva Carlo era informato dal Pontefice. Erano informazioni minute e spesso esagerate, erano calde lagnanze e pressanti richieste d'intervento. In una lettera degli ultimi mesi del 775, ADRIANO I dava notizia a Carlo di una grande congiura. Scriveva che i duchi del Friuli, di Chiusi, di Spoleto e di Benevento tramavano d'accordo con ADELCHI e con la corte bizantina e che alla congiura partecipava anche l'arcivescovo di Ravenna. Naturalmente scopo dei congiurati era di sbalzare il re dei Franchi dal trono longobardo, ripristinare la monarchia nazionale, invadere Roma, saccheggiarla e far prigioniero il Pontefice. Il quale implorava il re di scendere in Italia e di venire a sgominare i comuni nemici: gli italiani!

Le notizie che Adriano dava a Carlo erano senza dubbio molto esagerate e forse alcune di queste erano completamente false. Non era, infatti, verosimile che a Costantinopoli, dove nel settembre del 775 moriva Costantino Copronimo, si pensasse ad una spedizione in Italia, che il duca di Benevento, il quale, anche dopo la caduta di Desiderio, era rimasto quasi indipendente, desiderasse proprio lui un ritorno della monarchia longobarda e, infine, che tra i congiurati ci fosse proprio l'arcivescovo di Ravenna che invece godeva da tempo il favore di Carlo.

Ma nelle voci che correvano qualcosa di vero c'era. Una congiura realmente si tramava, ma limitata ad alcuni duchi dell'alta Italia e capeggiata da ROTGAUDO del Friuli. Può darsi che non vi era estraneo Adelchi e che i duchi di Spoleto e di Benevento anche loro erano stati sollecitati di prendervi parte, ma di una loro adesione e partecipazione non si ha prove.

Carlo non diede tempo alla congiura -vera o presunta- di estendersi e, domati ancora una volta i Sassoni, nella primavera del 776 scese con un piccolo esercito in Italia e piombò fulmineamente nel Friuli. Rotgaudo, scontratosi con l'esercito franco, fu sconfitto e messo a morte; Cividale, capitale del ducato, fu espugnata e il Friuli in poco tempo ridotto all'obbedienza.
Poi venne la volta di STABILINIO, genero di Rotgaudo e signore di Treviso. Carlo riuscì ad impadronirsi di questa città con il tradimento di un sacerdote di nome Pietro che in premio ebbe il vescovado di Verdun.

Dopo la presa di Cividale e di Treviso anche le altre città fecero atto di sottomissione e a Treviso, Carlo, il 14 aprile dello stesso anno 776, ebbe modo di celebrare la Pasqua in pace, ma con la vittoria riportata contro i ribelli, su questi furono prese misure d'estremo rigore: molti furono esiliati, molti altri ebbero la confisca dei beni, non pochi furono fatti prigionieri - fra questi il fratello di PAOLO DIACONO (il noto biografo dei Longobardi) - e, tradotti in Francia, furono più tardi amnistiati e riuscirono pure a ritornare in patria e in possesso delle loro sostanze per intercessione del figlio di Carlo, Pipino.

Come nella prima spedizione così in questa, mutamenti notevoli di governo non avvennero: il re lasciò intatta la circoscrizione dei ducati e in generale i duchi longobardi rimasero nella loro dignità, ma nelle città ribelli furono messi presidi e alcuni duchi furono sostituiti da "comites" o "conti".

Brevissimo fu il soggiorno del re in Italia. ADRIANO I lo avrebbe visto volentieri a Roma e forse Carlo gli aveva fatto sperare una sua visita. Ma nella primavera medesima il re se ne tornò in Francia. Non sappiamo i motivi che spinsero Carlo a non incontrarsi con il Pontefice. Può darsi che, ricevute notizie di nuove rivolte dei Sassoni, non poté prolungare la sua permanenza in Italia, ma può anche darsi che di proposito non "abbia voluto" incontrarsi con Adriano per evitare che si parlasse delle discordie tra la S. Sede e l'episcopato di Ravenna e per non sentirsi chiedere la cessione del territorio di Spoleto.

Nel giugno del 776 Carlo era in Francia e si apprestava a fare un'altra spedizione contro i Sassoni, che, ribellatisi per l'ennesima volta, avevano occupato Eresburgo e assediato Sigeberg. Questo fierissimo popolo non sapeva rassegnarsi al giogo franco e, guidato dall'eroe nazionale VITICHINDO, lottava disperatamente per la propria indipendenza. Ma la lotta fu vana sebbene generosa. Carlo ancora una volta ebbe ragione del loro valore e della loro tenacia e Vitichindo dovette porsi in salvo con la fuga.

Non meno fiera fu la guerra che Carlo dovette sostenere subito dopo contro i Mori di Spagna. Chiamato dai Cristiani che si erano ribellati alla dominazione araba, il re tornò in Francia, ricostituì l'esercito e con il fior fiore dei suoi guerrieri e dei suoi paladini ("comites palatini") valicò i Pirenei, prese Pamplona, Saragozza e Barcellona e s'impadronì di tutto il territorio fino all'Ebro, cui conferì il nome di Marca di Spagna.

Ad arrestare i suoi successi giunse la notizia che i Sassoni si erano nuovamente e più gravemente ribellati. Senza porre tempo in mezzo, Carlo si mise sulla via del ritorno, seguito a gran distanza dalla retroguardia, affidata al comando dei suoi migliori capitani tra i quali rimase famoso il conte paladino Rodland, ("Orlando"), che doveva divenire l'eroe di numerose leggende cavalleresche. Ma nella catena dei Pirenei e precisamente nella gola sinistra di Roncisvalle la retroguardia franca fu assalita da una moltitudine schiacciante di Baschi e dopo un'epica, disperata difesa, fu messa in rotta (15 agosto 778).

Gli scrittori ecclesiastici esagerarono l'importanza di questa guerra contro i Mori e nelle loro pagine Carlo e i suoi paladini divennero gli strenui campioni della Fede cristiana contro gl'infedeli.
Ben presto intorno a questa guerra sorsero molte leggende che fornirono ricca materia alle "Chansons de geste", cantate in giro da trovieri ("trouvères") e giullari ("joglers"), fra le quali famosa è la "Chanson de Roland" che si vuole attribuire ad un Turoldo. In queste leggende campeggia più d'ogni altra la figura d'Orlando, e la rotta di Roncisvalle assume l'aspetto di una battaglia gigantesca combattuta da titani. Rodland, il prode conte della Marca di Bretagna, le cui gesta più tardi alimenteranno una rigogliosa fioritura poetica e ispireranno la musa del Pulci, del Boiardo e dell'Ariosto, è il più forte dei paladini di Carlo e possiede una spada infallibile ("Durendal") e un corno d'avorio ("olifant") il cui suono si ode a molte miglia di distanza. E all'olifante dà fiato l'eroe nella giornata fatale, quando ogni umana resistenza è ormai vana. Ma è troppo tardi perché Carlo possa giungere a tempo a portare aiuto alla sua retroguardia e Rodland soccombe fra l'immane strage dei suoi compagni.

L'improvvisa comparsa del re franco arrestò le incursioni dei Sassoni i quali si erano spinti al Reno. Nel 779 in una gran battaglia combattuta a Bockholt, nella Westfalia. Carlo vinse i ribelli e nell'estate dello stesso anno tenne sulla Lippe un'assemblea per riordinare il paese e dare impulso all'opera d'evangelizzazione.

Sul finire del 780, dopo avere allacciate relazioni con i popoli slavi di là dall'Elba, Carlo ritornava in Francia e si preparava per un'altra spedizione in Italia, dove lo stato delle cose reclamava la sua presenza. Difatti continuavano le discordie tra la S. Sede e il vescovo di Ravenna, un terremoto ed una grande carestia avevano ridotto in gravi condizioni le popolazioni d'Italia e - ciò che più preoccupava Carlo -ARECHI, duca di Benevento, aveva assunto un contegno che non poteva essere più tollerato. Questi difatti si era dato il titolo di principe, aveva cominciato a batter moneta con il proprio nome, si era fatto consacrare e incoronare dai suoi vescovi e si era avvicinato ai Bizantini, i quali erano stati favoriti da lui e dal duca di Napoli nel ritogliere Terracina al Pontefice.

ADRIANO I, come il solito, non aveva cessato di informare il re della situazione invocando la sua discesa in Italia, non aveva mai tralasciato di ricordare le "giustizie di S. Pietro" e di pregare Carlo che avrebbe mantenuto le sue promesse. In una lettera del maggio del 778 il Pontefice scriveva a Carlo della famosa donazione di Costantino ed, esaltando i tempi di papa Silvestro, lo esortava ad emulare il grande imperatore facendo riavere alla Chiesa romana tutte quelle cose che imperatori, patrizi ed altri, per la salute delle loro anime e in remissione dei peccati, avevano concesso all'apostolo S. Pietro e alla Santa e Apostolica Romana Chiesa nelle parti della Tuscia, di Spoleto, di Benevento, nella Corsica e nel territorio Sabino e che erano state strappate dalla gente nefanda dei Longobardi.
Ed aggiungeva che nell'archivio del Laterano erano serbati molti documenti che comprovavano quelle donazioni ("plures donationes in sacro nostro scrinio Lateranense reconditas habemus").
(Ma è noto: il documento costituisce uno dei falsi più clamorosi della Storia - lo leggeremo molto più avanti))

Finalmente nell'autunno del 780 CARLO passò le Alpi, accompagnato dalla moglie ILDEGARDA, dai due figlioletti CARLOMANNO e LUDOVICO, dei quali il primo contava quattro anni, tre il secondo, e da molti illustri personaggi della sua corte. Prima di recarsi a Roma fece un soggiorno d'alcuni mesi nell'alta Italia per dare assetto alle cose del regno, emanando leggi con le quali intendeva provvedere ai bisogni del paese ed applicando al regno longobardo capitolari già pubblicati in Francia. Provvedimenti importanti emanò in favore della Chiesa autorizzandola a riscuotere le decime e determinando la dipendenza dei metropoliti dal Papa; altri provvedimenti emanò per il mantenimento dell'ordine pubblico; sciolse le "gilde" che erano associazioni segrete legate dal vincolo del giuramento e revocò le obbligazioni contratte a causa della grave crisi economica, specie quelle di servitù, a contrarre le quali la miseria aveva spinto intere famiglie.

Col capitolare mantovano provvide al riordinamento dell'amministrazione della giustizia, a render più salda la disciplina degli ecclesiastici e a restaurare gli ospedali e gli asili pei poveri.

Nella primavera del 781 Carlo si recò a Roma. Il sabato santo, che cadde ai 14 aprile, fu dal Pontefice ribattezzato il piccolo CARLOMANNO che prese il nome di PIPINO, e il giorno dopo, a Pasqua, i due figli di Carlo furono consacrati e incoronati, PIPINO RE D' ITALIA, LUDOVICO RE D'AQUITANIA, fatto questo di grande importanza perché mostra come fin da allora era sorta nella mente del gran re l'idea della restaurazione dell'impero d'Occidente e perché - come osserva il Romano - "creò il diritto papale alle incoronazioni regie e imperiali e diffuse nei popoli l'opinione che spettasse alla Chiesa di sancire con il suo intervento gli atti più solenni e i più importanti mutamenti degli stati".

Con queste cerimonie la posizione di Carlo moralmente si rafforzava ma in parallelo cresceva l'autorità del Pontefice. Questi, oltre ai vantaggi morali, ottenne anche qualche vantaggio materiale: difatti ebbe dal re il possesso della Sabina, caduta, al tempo di Liutprando, in potere dei Longobardi, e ottenne, che sarebbero stati pagati alle casse della S. Sede anziché alla "curtis regia" i proventi del ducato spoletano e della Tuscia longobarda.

Durante il soggiorno romano di Carlo avvenne un altro fatto di grande importanza. Al trono di Costantinopoli alla morte di Costantino Copronimo era salito LEONE IV, il quale aveva regnato fino al settembre del 780. A lui era successo il figlio decenne COSTANTINO PORFIROGENITO, del quale aveva assunto la tutela la madre IRENE, bella, ambiziosa e di straordinaria energia. Irene, volendo consolidarsi sul trono, pensò di procurarsi l'appoggio del Pontefice e del re dei Franchi. L'appoggio del primo poteva procacciarselo revocando l'editto iconoclasta di Leone Isaurico, quello del secondo stringendo con lui legami di parentela.

Per conseguire i suoi scopi IRENE inviò a Roma due ambasciatori i quali chiesero per COSTANTINO PORFIROGENITO la mano di ROTRUDE, figlia di Carlo. Un tale parentado se era vantaggioso per l'imperatrice d'Oriente non lo era meno per il re dei Franchi che poteva così rendere innocuo Adelchi e togliere al duca di Benevento l'amicizia di Costantinopoli.
Carlo accettò l'offerta di matrimonio e poiché questo non poteva esser celebrato per la giovanissima età dei due fidanzati - Rotrude aveva appena otto anni - fu scambiata la promessa e fu stabilito che l'eunuco ELISEO, notaio della corte bizantina, si sarebbe recato in Francia per insegnare alla futura sposa la lingua greca e le usanze del paese.

Nella primavera del 781 Carlo lasciò Roma e si recò nell'Italia settentrionale dove rimase un mese e pubblicò altri provvedimenti. Fra questi è degno di nota un privilegio concesso da Parma in data del 15 marzo agli abitanti di Comacchio con la quale venivano regolate le loro relazioni commerciali con Mantova ed altri paesi. A Milano il re fece battezzare la figlia GISLA, poi, lasciato a Pavia il piccolo re Pipino con un consiglio di reggenza, nell'estate dello stesso anno fece ritorno in Francia.

Nel successivo autunno Carlo convocò a Worms una dieta generale, alla quale fu presente TASSILONE duca di Baviera e genero di Desiderio, che rinnovò l'atto di sottomissione già fatto a Pipino. Pareva che nei vasti domini franchi dovesse prosperare un periodo di pace quando improvvisa e furiosa scoppiò ancora un'accanita rivolta dei Sassoni.
Fu la guerra più dura e lunga che Carlo dovette combattere contro quelle fiere popolazioni.
Durò dal 782 al 785 ed ebbe fasi con episodi sanguinosi, periodi di stasi e riprese violente. Carlo, deciso di farla finita, si mostrò questa volta implacabile: il suo esercito invase più volte la regione che giace tra il Weser e l'Elba, devastò le campagne, bruciò villaggi, decimò gli abitanti. In un sol giorno, nel 782, ben quattordicimilacinquecento Sassoni fatti prigionieri furono decapitati a Verdu. Anima della rivolta e duce supremo dei Sassoni fu ancora VITICHINDO che combatté disperatamente e fece costar cara ai nemici la vittoria. Alla fine, decimati e stanchi, i Sassoni deposero le armi e Vitichindo con la moglie e i figli si recarono in Francia a fare atto di sottomissione e a ricevere il battesimo.

CONDANNA DELL' ICONOCLASMO
CARLO E I BIZANTINI NELL' ITALIA MERIDIONALE
I CONCILI DI RATISBONA E FRANCOFORTE

Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ADRIANO I cercava di trarre profitto dall'avvicinamento tra la corte bizantina e la corte franca. Mirava a conseguire due scopi: a riavere i patrimoni ecclesiastici confiscati dall'Isaurico nella Sicilia e nella Calabria e a porre fine alla scissione tra l'Occidénte e l'Oriente cristiano provocata dalla dottrina dell'iconoclastia.

Come aveva più volte scritto a Carlo a proposito delle "giustizie di S. Pietro", così con lo stesso tono ora scriveva all'imperatrice Irene perché restituisse i beni della Chiesa. Ma le sue richieste venivano avanzate in un momento poco propizio, perché in Sicilia il patrizio ELPIDIO, ribellatosi, si era proclamato imperatore e da Costantinopoli avevano mandato TEODORO contro il ribelle, che, alla fine, incalzato dalle truppe bizantine, lasciava l'isola e, portandosi dietro il tesoro pubblico, si rifugiava presso gli Arabi d'Africa (chiedendo a loro di intervenire per cacciare in modo definitivo i bizantini dall'Isola - ne riparleremo in un altro capitolo).

Miglior successo ebbero invece le trattative per comporre il dissidio religioso, ma dovettero passare alcuni anni prima che si arrivasse ad una composizione. Questa fu solo possibile quando, dimessosi l'intransigente PAOLO, salì al patriarcato di Costantinopoli TORASIO, devoto all'imperatrice.
IRENE convocò allora un concilio generale ed invitò il Pontefice a recarsi a Costantinopoli. Adriano, però rifiutò l'invito e inviò come suoi rappresentanti un arciprete e un abate, latori di una lettera papale. In questa il Pontefice difendeva il culto delle immagini dagli attacchi avversari, diceva di aderire al concilio, poiché altro mezzo non c'era per far trionfare la dottrina di Roma, consigliava l'imperatrice di restituire i patrimoni della Sicilia e della Calabria e di riunire le chiese di queste provincia e quelle dell'Illiria al patriarcato di Roma, protestava contro il nuovo patriarca di Costantinopoli la quale aveva assunto il titolo di "ecumenico" spettante solamente ai papi, esortava l'imperatrice e il figlio a revocare il decreto iconoclasta e terminava col affermare che S. Pietro avrebbe concesso i suoi favori all'impero d'Oriente come li aveva concessi al cristianissimo re dei Franchi.

Il concilio iniziò le sue sedute a Costantinopoli nell'estate del 786, poi fu continuato a Nicea e terminò nella capitale dell'impero dove, il 24 ottobre del 787, ebbe luogo la seduta finale. Il concilio costituì uno dei più grandi successi della Chiesa romana: alla presenza di ben trecentocinquanta vescovi, la maggior parte orientali, e di moltissimi monaci ed abati, la dottrina iconoclasta fu condannata e fu ristabilito il culto delle immagini dopo sessant'anni dalla legge che ne decretava l'abolizione.

Si era da poco iniziato il settimo concilio ecumenico, che abbiamo accennato, quando CARLO scese per la quarta volta in Italia. Non è detto chiaramente nelle fonti il motivo che spinse il re dei Franchi a passare le Alpi, ma essere sceso in Italia con un esercito possiamo capire il perché, anche perché di Longobardi in giro non ce n'erano più, tanto meno ribellioni.

A lui non dovevano essere ignote le trattative tra il Pontefice e l'imperatrice Irene. Se da buon cattolico non poteva che compiacersi della composizione che si tentava di fare nel dissidio tra la S. Sede e la corte bizantina, come sovrano del regno longobardo (cioè dell'Italia) non poteva che nutrire preoccupazioni di un riavvicinamento dal quale i Bizantini potevano poi essere indotti ad una pericolosa politica d'ingerenze nelle cose d'Italia.

Lo preoccupava anche il contegno del duca di Benevento, il quale non solo si considerava principe indipendente, ma voleva allargare i suoi domini e si trovava in guerra con il ducato di Napoli al quale tentava di strappare il territorio di Amalfi.
Si rendeva pertanto indispensabile la presenza di Carlo in Italia sia per ridurre all'obbedienza il duca beneventano, sia per affermare i diritti franchi su quella parte di penisola che era stata dei Longogardi, sia ancora per ammonire Costantinopoli a non mettersi su una strada che avrebbe potuto portare ad un conflitto con la monarchia carolingia.

Quando Carlo partì dalla Francia e che via seguì non lo sappiamo; ma che passasse da Pavia e che vi soggiornasse qualche giorno è lecito supporlo. È certo però che Carlo passò il Natale del 786 a Firenze ed è probabile che in quest'occasione abbia fatto donazione di quattro case alla chiesa di San Miniato in suffragio dell'anima della moglie Ildegarda, morta nel 783 a breve distanza dalla madre Bertrada.

Da Firenze Carlo si recò a Roma e qui venne a trovarlo, mandato dal padre per fargli omaggio, ROMUALDO, figlio del bellicoso duca ARECHI di Benevento. Il re volentieri avrebbe fatto a meno di una spedizione nel ducato, impresa che si rendeva superflua dopo le promesse di sottomissione da parte del duca; ma spinto dal Pontefice e convinto che avrebbe giovato al suo prestigio una dimostrazione di forza nell'Italia meridionale, trattenne presso di sé Romualdo ed entrò alla testa del suo esercito nel ducato beneventano.

Arechi, che per non trovarsi fra due nemici, aveva stipulato un accordo col ducato di Napoli e per non farsi cogliere alla sprovvista si era chiuso nella città fortificata di Salerno da dove gli sarebbe stata più facile un'eventuale la fuga, inviò altri ambasciatori a Capua, dove era accampato Carlo e gli riuscì a concludere un accordo con il quale lui si riconosceva vassallo del re e si obbligava a pagargli un tributo annuo di settemila soldi d'oro e di consegnargli, oltre al figlio minore Grimoaldo, dodici ostaggi. Solo allora Romualdo fu lasciato libero.

Fra le condizioni dell'accordo c'era anche la cessione da parte di Arechi alla Santa Sede di Aree, Aquino, Arpino, Sora, Teano e Capua e dei patrimoni ecclesiastici di Benevento e Salerno; ma Carlo, forse per non rendersi sgradito ai Beneventani, non si curò di fare eseguire questa cessione e per accontentare il Pontefice che non aveva mancato di protestare, gli cedette Viterbo, Orvieto, Soana ed altre località della Tuscia longobarda.

Nell'estate dello stesso anno Carlo, per Ravenna, Mantova e Pavia, faceva ritorno in Francia e nel luglio convocava a Worms la dieta. A questa, sebbene invitato, non si presentò il duca di Baviera TASSILONE, il quale, spinto dalla moglie, si era ancora ribellato al re franco. Ma la sua fu ribellione di corta durata. Dopo averlo invano, anche tramite il Pontefice, ammonito di sottomettersi, Carlo si preparò ad invadere la Baviera con un esercito raccolto nella Neustria. Altri due eserciti, dei quali uno era italiano, l'altro composto di Sassoni, Turingi ed Austrasi, dovevano puntare sulla Baviera il primo da sud e l'altro da nord.

Questi preparativi spaventarono Tassilone che, mutato atteggiamento, il 3 ottobre del 787 si presentò a Carlo e gli fece atto di sottomissione ottenendo il perdono e il ducato in cambio di ostaggi tra cui il figlio Teodone.

Ma la sottomissione del duca di Baviera non era sincera. Scongiurato il pericolo dell'invasione, cominciò a macchinare con gli Avari, con i Sassoni e forse con i Bizantini, i cui rapporti con i Franchi - essendo a quel tempo andato a monte il matrimonio tra Costantino Porfirogenito e Rotrude - erano molti tesi.
Carlo, che era a conoscenza degli intrighi di TASSILONE, convocò l'assemblea del regno nel giugno del 788 e il duca di Baviera, allo scopo di non destar sospetti dei suoi maneggi, vi si recò. Ma era appena entrato nel palazzo di Ingelhein, dove l'assemblea doveva riunirsi, che fu arrestato e disarmato. Più tardi l'assemblea lo condannava come traditore e spergiuro alla pena capitale, che il re, con un ultimo atto di generosità, commutò in quella di relegazione in un monastero. La stessa pena la subirono la moglie Liutperga e i figliuoli. La Baviera diventò una provincia del regno franco.
v Era da poco più di un mese tornato Carlo dall'Italia quando (21 agosto del 787) cessava di vivere ARECHI, preceduto nella tomba dal figlio ROMUALDO. Il governo del ducato beneventano fu assunto dalla vedova Adelperga, donna energica ed accorta, la quale si affrettò a mandare ambasciatori al re perché lo pregassero di far tornare dalla Francia, dov'era stato trattenuto da Carlo come ostaggio, Grimoaldo.

ADRIANO I, che non aveva abbandonato le sue pretese sulle terre del ducato di Benevento, sconsigliò il re di rimandare il figlio di Arechi, scrivendo fra le altre cose a Carlo che la vedova macchinava segretamente con la corte bizantina. Ma pare proprio che questa era -come al solito- esagerazione o pura invenzione. Tentò è vero la corte di Costantinopoli di persuadere ADELPERGA ad avvicinarsi ai Bizantini per mezzo di due spatari che da Agropoli si erano recati a Salerno, ma i due non vi riuscirono, e Carlo, assicuratosi che le notizie del Pontefice non avevano alcun fondamento, rimandò a Benevento Grimoaldo, a patto però che lo riconoscesse come sovrano, che mettesse il suo nome nei diplomi e nelle monete e in segno di fedeltà doveva impegnarsi a far radere il mento ai Longobardi.

Nel maggio del 788 GRIMOALDO faceva ritorno al suo ducato, accolto con grandi dimostrazioni di gioia da parte dei suoi sudditi. Proprio allora i Bizantini muovevano contro Benevento, comandati dal logoteta GIOVANNI, da TEODORO patrizio di Sicilia e da ADELCHI; ma la loro spedizione doveva avere un esito disastroso. Aiutato da una schiera di Franchi spedita da Carlo al comando di GUINIGISO e dalle truppe di Spoleto guidate dal duca ILDEBRANDO, Grimoaldo mosse con i suoi alla volta della Calabria contro i Bizantini e in una violenta e sanguinosa battaglia li mise in rotta. Le perdite subite dai Bizantini furono molto gravi: quattromila morti tra cui il logoteta Giovanni e mille prigionieri. Adelchi scampato e ritornato a Costantinopoli accantonò per sempre l'idea di riconquistare il regno paterno; passò il resto della sua vita nella capitale bizantina.

Terminata l'impresa di Benevento. Carlo non riposa che per breve tempo: l'anno dopo (789) è contro i Vilzi e nel 791 contro gli Avari che costituiscono una continua minaccia per il Friuli e la Baviera. Gli Avari sono attaccati da due parti: dall'Italia muove contro di loro l'esercito di PIPINO che, entrato nella Pannonia, sconfigge in battaglia il 23 agosto, il nemico mettendo insieme pure un ricco bottino; dall'Ems, dove si trovava accampato, muove lo stesso CARLO che per cinquantadue giorni corre e devasta il territorio nemico e lo abbandona solo quando un'epidemia scoppiata fra i cavalli lo consiglia al ritorno.

CARLO ha in animo di ritornare contro gli Avari l'anno dopo, ma altre vicende lo tengono occupato altrove fino al 795. Nel 792 difatti è costretto a reprimere una congiura ordita dal proprio figlio naturale PIPINO, detto il Gobbo, il quale, vinto, è poi relegato nel convento di Prumia; nel medesimo anno, mentre i Sassoni tornano a ribellarsi provocando una guerra che durerà più di tre anni, Carlo deve mandare gli eserciti contro GRIMOALDO, che ha ripreso il titolo di principe, ha sposato una nipote dell'imperatore d'Oriente e si è apertamente ribellato ai Franchi togliendo dai diplomi e dalle monete il nome del re. Questa spedizione contro il duca beneventano finisce con un insuccesso prodotto da una grave carestia che costringe gli eserciti dei due fratelli, i figli di Carlo, ad abbandonare l'impresa.

La guerra contro gli Avari fu ripresa nel 795 e durò fino al 797. La prima spedizione fu capitanata dal valoroso ERICO, duca del Friuli, che, penetrato nella Pannonia, assalì e conquistò il campo trincerato del nemico, impadronendosi delle immense ricchezze che vi si trovavano e che, mandate in Francia, furono da Carlo date ai suoi devoti, ai vescovadi, alle abbazie, al Papa e ai poveri.
Una seconda spedizione fu condotta da Pipino, che riuscì ad espugnare un altro campo e ad impadronirsi d'altre ingenti ricchezze nel 796. La terza ed ultima spedizione, avvenuta nel 797, ebbe ancora per capo Erico, il quale sconfisse definitivamente gli Avari, del cui regno ora la storia non avrebbe fatto più parola. La Pannonia fu annessa al regno franco e quella parte del popolo che non emigrò si sottomise a Carlo e per opera del vescovo ARNONE di Salisburgo, innalzato poi alla dignità di metropolita della Baviera, si converti al Cristianesimo.

Mentre badava ad estendere i suoi vasti domini e rafforzare in questi il suo potere, Carlo attendeva anche all'organizzazione della Chiesa e si occupava di cose religiose. Di questa sua attività nel campo religioso fanno fede i "Capitoli aquisgranesi" e i famosi "Libri carolini" e, più di questi, i concilii del 792 e del 794.

Il primo fu tenuto a Ratisbona e fu presieduto dallo stesso re: in questo fu condannata la dottrina dell' "Adozionismo", sorta nella Spagna, che ammetteva la doppia natura di Cristo o sosteneva che, come Verbo, era figlio di Dio, come uomo era figlio soltanto per grazia e volere del Padre. Il secondo fu tenuto a Francoforte e raccolse un numero imponente di arcivescovi, vescovi ed abati di tutte le parti dell'Occidente dipendenti dal re franco. In questo concilio fu nuovamente condannata l'eresia dell'"Adozionismo" e furono discusse le decisioni del settimo concilio di Nicea sul culto delle immagini. In opposizione delle conclusioni nicene fu approvata la dottrina dei "Libri carolini" in cui si sosteneva che le immagini dovevano essere onorate, non adorate.

Più che dal lato dottrinario questo concilio ha per noi grande importanza dal lato politico. E quest'importanza la riconobbe lo stesso Pontefice, il quale, stimando prudente non schierarsi contro Carlo, gli scriveva che non aveva approvato gli atti del concilio niceno perché la corte bizantina non aveva restituiti alla Santa Sede i patrimoni della Sicilia e della Calabria e non aveva riunito l'Illiria al patriarcato di Roma.

Il Papa sapeva benissimo che il re, con il concilio di Francoforte, più che risolvere una questione dottrinale, aveva voluto prendere una posizione contro la corte di Costantinopoli, affermando che l'autorità di Carlo in Occidente si estendeva non solo sullo stato ma anche sulla Chiesa.
Contro quest'autorità che così energicamente si manifestava, era inutile anzi era pericoloso elevare proteste. ADRIANO I non ci pensò neppure; se anche ci avesse pensato e intenzionato a fare qualcosa per rialzare il prestigio del Papato, eclissato dalla potenza del re, non avrebbe avuto tempo di agire: la morte lo colse il 23 dicembre del 795.

Ventiquattro anni erano passati dalla sua elevazione al pontificato e appena diciotto mesi dal concilio di Francoforte.

FINE

Dopo la morte di Adriano, al soglio sale LEONE II
con CARLO all'apogeo della sua potenza,
e gli manca più solo il titolo d'Imperatore
ed è appunto di questo che parleremo nel
prossimo capitolo che va dall'anno 795 al 814 d.C. > > >

( APPROFONDIMENTO e BIOGRAFIA )
CARLO MAGNO e il SACRO ROMANO IMPERO > > > > >


Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi

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