ANNI 888 - 924 d.C.

L'ITALIA E IL PERIODO FEUDALE
ARNOLFO, GUIDO, LAMBERTO, BERENGARIO I, MAROZIA

NUOVI STATI FORMATISI DOPO LA FINE DELL' IMPERO CAROLINGIO - ELEZIONE DI BERENGARIO I, E CONTRASTI COL MARCHESE DI SPOLETO - ARNOLFO DI GERMANIA - BATTAGLIA DELLA TREBBIA - GUIDO RE D'ITALIA - STEFANO V E LA SUA POLITICA - GUIDO RICEVE LA CORONA IMPERIALE - PAPA FORMOSO - SPEDIZIONE IN ITALIA DI SVENTIBALDO - DISCESA DI ARNOLFO E RITORNO IN GERMANIA - LAMBERTO RE D'ITALIA E IMPERATORE - SECONDA SPEDIZIONE ITALIANA DI ARNOLFO - PRESA DI ROMA E INCORONAZIONE DI ARNOLFO - ACCORDO TRA LAMBERTO E BERENGARIO - STEFANO VI E IL PROCESSO DI PAPA FORMOSO - IL PONTEFICE GIOVANNI IX - I CONCILI DI ROMA E DI RAVENNA - ADALBERTO E BERTA DI TOSCANA - MORTE DI LAMBERTO - GLI UNGARI IN ITALIA - BATTAGLIE DEL BRENTA E DI ALBIOLA - LUDOVICO DI PROVENZA IN ITALIA: SUA INCORONAZIONE - BERENGARIO E IL REGNO - VICENDE DEL PAPATO - LA FAMIGLIA DI TEOFILATTO - GIOVANNI X - DISTRUZIONE DELLA COLONIA MUSULMANA DEL GARIGLIANO - BERENGARIO IMPERATORE - DISCESA DI RODOLFO DI BORGOGNA E DI UGO DI PROVENZA - INCENDIO DI PAVIA - MORTE DI BERENGARIO I
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Deposto ed esiliato CARLO il Grosso, a Francoforte l'11 novembre del 887,
ARNOLFO di CARINZIA si proclamava imperatore.
Con la sua salita al trono di Germania, sorgevano tanti Stati - che a quel tempo corrispondevano approssimativamente alle divisioni etniche dell'Europa romano-germanica - e si sfasciava tutto l'impero carolingio.

Infatti, nel mese stesso della morte di Carlo il Grosso (13 gennaio dell'888), un'assemblea di Grandi, riunitasi a S. Maurizio nel Vallese, proclamava e incoronava il conte RODOLFO, pronipote dell'imperatrice Giuditta, seconda moglie di Ludovico il Pio, re della "Borgogna Transiurana", che si estendeva dal Giura alle Alpi Pennine.

Un mese dopo, il 26 febbraio, a Compiègne i Grandi eleggevano re di Francia il conte ODDONE che aveva strenuamente difeso Parigi dai Normanni, e più tardi, a Valenza, nell'890, un'assemblea di laici e di vescovi, innalzava al trono di Provenza LUDOVICO, figlio di Bosone.

Erano, questi, sovrani effettivamente indipendenti, ma il concetto dell'unità, teorica se non, di fatto, dell'impero carolingio non era scomparso; erede di Carlo il Grosso si considerava ARNOLFO e a lui gli altri re, sorti dal dissolvimento dell'impero, riconobbero la supremazia; nel giugno dell'888, ODDONE si recò a Worms a fare omaggio al re germanico; alla fine dell'ottobre dello stesso anno Arnolfo ricevette a Ratisbona quello di RODOLFO e a Valenza furono i messi di Arnolfo che, dopo la proclamazione, diedero a LUDOVICO l'investitura del regno.

Anche l'Italia ebbe il suo nuovo re. Aspirava alla corona, cui aveva qualche diritto essendo nipote di Ludovico il Pio, BERENGARIO marchese del Friuli, il signore più potente dell'Italia settentrionale, i cui Grandi, prima ancora che morisse Carlo il Grosso, a fine dicembre, lo proclamarono re d'Italia a Pavia e lo fecero pure incoronare da un prelato.

Il solo che in Italia a Berengario poteva allora contrastare lo scettro era GUIDO di SPOLETO, potente quanto il primo, e che abbiamo già conosciuto quanto ad ambizione, fino al punto che ora -appena saputo della morte di Carlo- non aspirava alla corona d'Italia ma al trono di Francia. Per questa ragione, non opponendosi al rivale, valicava le Alpi, non si sa bene se chiamato da Folco, arcivescovo di Rheims, suo parente, e a Langres, nei primi di marzo, fu eletto re da un'assemblea poco numerosa di Grandi e incoronato dal vescovo GEILONE.
Saputo però che qualche settimana prima a Compiègne lo scettro era stato dato ad ODDONE e, convinto di non avere forze abbastanza da contrastarlo, Guido lasciò la Francia, seguito da parecchi nobili, e fece ritorno in Italia con il proposito di strappare la corona del regno a BERENGARIO.

L'impresa non era poi tanto difficile, ma Guido vi si accinse con grande impegno. Attrasse dalla sua parte i conti longobardi MAGINFREDO di Milano e SIGIFREDO di Piacenza, si procurò con denaro e con promesse l'appoggio di alcuni partigiani di Berengario e, alle forze di costoro unite a quelle condotte dalla Francia e alle sue di Spoleto e di Camerino, nell'autunno dell'888 mosse contro il rivale.
Berengario, che allora si trovava a Verona, avuto notizia dell'avvicinarsi del marchese di Spoleto, uscì con un esercito accettando lo scontro con le armi.
La battaglia avvenne presso Brescia, nell'ottobre, e fu oltremodo sanguinosa. L'esito senza esser decisivo, pare che sia stato favorevole a Berengario; entrambi i rivali però avevano subito gravissime perdite e per contare i propri morti e per riposarsi, stipularono una tregua fino all'Epifania dell'anno seguente.

Un nuovo nemico intanto sorgeva a contrastare il regno di Berengario e il suo antagonista: ed era ARNOLFO di Germania, figlio ed erede di Carlomanno, che attraverso il passo del Brennero e lungo la Val d'Adige, muoveva alla volta dell'Italia con un potente esercito.

Contro questo nuovo nemico che disponeva di forze notevolmente superiori, BERENGARIO non aveva speranza di vittoria; deciso pertanto di scendere a patti con lui, gli mandò prima ambasciatori, poi si recò personalmente ad incontrarlo a Trento dove si era accampato pronto a scendere su Verona.
Berengario cedette ad Arnolfo due corti nella Val d'Adige e gli porse l'omaggio feudale; in cambio il sovrano germanico confermò a Berengario il possesso d'Italia.

Dopo l'accordo ARNOLFO fece ritorno nel suo regno germanico, ma spedì nel Friuli alcuni reparti che dovevano aiutare Berengario nella lotta contro Guido il quale, terminata la tregua armistiziale, fatalmente doveva riaccendersi. Questa volta però il successo doveva arridere al marchese di Spoleto: questi, nei primi di febbraio dell'889, presso la Trebbia sconfisse il suo rivale e lo costrinse a ritirarsi a Verona.

La disfatta sottrasse al vinto il favore di quei vescovi che lo avevano eletto, i quali, con molti altri, riunitisi in assemblea a Pavia verso la metà del febbraio, proclamarono GUIDO re d'Italia, ma gli imposero delle condizioni, che il marchese di Spoleto non esitò ad accettare. Guido, prima di ricevere la dignità regia, s'impegnava di riconoscere l'autorità della Chiesa Romana, di garantire ai vescovi il libero esercizio delle loro funzioni, di confermare i possessi ecclesiastici, di non aggravare di nuovi pesi i vescovadi e le abbazie, di proteggere infine i beni e la libertà dei sudditi dalla prepotenza dei grandi e dalle truppe della Francia che erano scese ad aiutarlo.

Ricevuta, a questi patti, la corona, Guido non proseguì nella guerra contro Berengario, forse perché non si sentiva tanto forte da assalirlo nel Friuli, o forse perché temeva di provocare l'intervento di Arnolfo in favore del rivale.
Stimolato dalla moglie Ageltrude, figlia del principe beneventano Adelchi e donna ambiziosa quanto il marito, Guido pensò in grande, e invece della corona italiana, puntava ora a scalzare lo stesso Arnolfo per ottenere la corona imperiale ricorrendo all'intrigo con l'aiuto al Pontefice.

Guido contava molto negli amichevoli rapporti che erano corsi fin allora tra lui e papa STEFANO V. Questi però, se aveva avuto l'interesse (lo abbiamo visto nella precedente puntata) di ingraziarsi il marchese di Spoleto quando per la debolezza di Carlo il Grosso nessuna possibilità aveva di esser difeso dal prepotente Guido, vedeva ora quanto fosse pericoloso per il Papato avere vicino un tale amico, cresciuto in potenza, il quale da protettore non avrebbe tardato a cambiarsi in padrone.

Seguendo la vecchia politica papale (degli equilibri) che di due protettori preferiva il più lontano e anche spinto dalle prepotenze e ruberie che i mercenari franchi di Guido commettevano in Italia spesso anche in danno dei beni ecclesiastici, Stefano V questa volta si rivolse ai tedeschi vale a dire ad Arnolfo, invitandolo a scendere nella penisola.
Ma la sua richiesta riuscì vana perché Arnolfo, trattenuto in Germania da un'insurrezione della Svezia e dalle invasioni normanne della Lotaringia non era in grado d'intraprendere una spedizione di qua dalle Alpi.
Perciò ancora una volta il Pontefice dovette far buon viso a cattiva sorte e l'11 febbraio dell'891 a Roma, pose sul capo di Guido la corona imperiale. Il Duca di Spoleto -e moglie- poteva ritenersi soddisfatto; a quell'investitura mirava.

GUIDO, assumendo la dignità imperiale non aspirava certo ad ingrandire i suoi domini oltre le Alpi; ma voleva affermare il proprio prestigio come Imperatore.
Dopo la cerimonia di Roma, la sua politica fu rivolta a legittimare il proprio innalzamento e a render più saldi i propri domini e la sua autorità sugli stessi. Per conseguire la prima cosa fece incidere nel suo sigillo il motto degli imperatori carolingi, di cui voleva mostrare di essere il continuatore in Italia: "Renovatio regni Francorum"; per raggiungere l'altro obiettivo largheggiò in donazioni e privilegi alle chiese e ai vescovi e in un capitolare pavese del 1° maggio dell'891 emanò, fra le altre cose, provvedimenti per la tutela dell'ordine pubblico e per la repressione dei troppi mercenari franchi che entravano in Italia.

Pochi mesi dopo la coronazione romana di Guido, moriva il 14 settembre 891 STEFANO V e gli succedeva il 19 dello stesso mese, non senza contrasti, FORMOSO, quel vescovo di Porto che Giovanni VIII aveva deposto e scomunicato e papa Marino I poi aveva assolto e rimesso nella sede vescovile.
Guido conosceva il carattere violento di Formoso, sapeva anche che il nuovo Pontefice gli era contrario. Per ingraziarselo si recò personalmente a Roma ad ossequiarlo e il 27 aprile dell'892 fece incoronare da lui il figlio LAMBERTO di 12 anni, che si era associato al regno e confermò alla Chiesa Romana gli antichi diritti e il possesso dei beni.
Ma se Guido riuscì nelle sue cose formali, in quelle di entrare nelle grazie non ci riuscì. Formoso, suo malgrado, dovette piegarsi come il suo predecessore; ma i suoi pensieri erano rivolti ad Arnolfo che però in quel momento non poteva interessarsi dell'Italia.

L'imperatore germanico, infatti, era uscito da poco da una grossa guerra contro i Normanni: sconfitto sulla Gueule (affluente della Mosa) in una terribile battaglia in cui era perito l'arcivescovo di Magonza, aveva sulla Dyle, il 1° novembre dell'891, sbaragliato gl'invasori. Ora egli si preparava a marciare contro gli Slavi guidati da SWATOPLUK, che minacciavano la Baviera. Arnolfo, alla testa di un forte esercito, invase la Moravia nel giugno dell'892 e, poiché il nemico era arretrato nei luoghi ben difesi, l'imperatore occupò e devastò il paese, il quale, l'anno seguente, fu però di nuovo invaso e saccheggiato.

Nell'estate dell'893, credendo giunto il momento di richiedere l'intervento dell'imperatore germanico nelle cose d'Italia, Formoso gli mandò a Ratisbona, dove il monarca si trovava, ambasciatori per mezzo dei quali lo pregava "di togliere dalle mani dei cattivi cristiani il regno italico e le cose di S. Pietro".
Arnolfo fece buona accoglienza ai legati pontifici, ma non volendo allontanarsi dalla Germania per timore di Swatopluk, mandò in Italia suo figlio SVENTIBALDO con un esercito composto di Svevi.

SVENTIBALDO passò con sollecitudine le Alpi e, unitosi a Verona alle milizie di Berengario, marciò contro Pavia, dove Guido si era ritirato non avendo forze sufficienti per misurarsi in aperta campagna con il nemico. Per tre mesi Sventibaldo tenne assediato Guido a Pavia; poi stanco o eseguendo gli ordini ricevuti dal padre, tolse l'assedio e fece ritorno in Baviera mentre Berengario si ritirava anche lui a Verona.

Cessava intanto di vivere SWATOPLUK lasciando la Moravia ai suoi tre figli che invece di proseguire la politica del padre si affrettavano a chieder pace ad Arnolfo.
Questi, cessato il pericolo slavo, ai primi di gennaio dell'894 passò le Alpi con un poderoso esercito di Alemanni e giunto a Verona iniziò le operazioni per togliere a Guido il regno.
La prima città che vide giungere le orde di Alemanni fu Brescia, la quale s'arrese quasi subito senza resistere; Bergamo invece oppose un'energica resistenza, che però rimase senza premio.
Espugnata dalle truppe di ARNOLFO il 2 febbraio, fu trattata barbaramente dai vincitori che saccheggiarono le case e i monasteri e trucidarono un gran numero di abitanti. Atterrite dalla sorte di Bergamo, Milano e Pavia, preferirono aprire le porte al monarca germanico.

MAGINFREDO, conte di Milano e sostenitore di Guido, fece atto di sottomissione; lo imitarono parecchi grandi, fra cui ADALBERTO marchese di Toscana, il fratello BONIFACIO e i conti ILDEBRANDO e GERARDO che, recatisi a Pavia, furono arrestati poi ottennero di essere liberati ma solo quando prestarono giuramento di fedeltà ad Arnolfo.

L'imperatore nel marzo si recò a Piacenza, con il proposito forse di scendere nell'Italia centrale e di snidare Guido il quale -fuggito da Pavia- si era rifugiato nelle montagne della sua marca.
Ma sia perché il suo esercito era forse stanco, sia perché temeva che RODOLFO di BORGOGNA invadesse la Lotaringia, sia perché Adalberto di Toscana gli si era levato contro e con le sue forze gli sbarrava la via degli Appennini, fece ritorno a Pavia e qui, convocata un'assemblea, si fece lui proclamare re d'Italia, ma affidò il governo del regno a BERENGARIO, poi si mise in marcia per la Germania.

Arnolfo era sceso in Italia attraverso il passo del Brennero; ma per il ritorno in Germania scelse quello del Gran S. Bernardo. Ma ad Ivrea gli contesero il passo le milizie inviate da Rodolfo di Borgogna e il conte Anscario, fautore di Guido, e solo dopo molte difficoltà il re riuscì ad attraversare la valle d'Aosta e per S. Maurizio e Costanza raggiungere la Germania.
Appena partito Arnolfo, GUIDO di Spoleto riprese le armi e, costretto Berengario a rifugiarsi nel Friuli, tornò lui ad essere il padrone del regno italico. Ma non lo fu per molto tempo forse nel novembre dell'894, mentre si trovava tra Parma e Piacenza, morì improvvisamente lasciando il trono al figlio, il giovane 18 enne LAMBERTO.

LAMBERTO
Con il figlio di Guido sembra che il Pontefice si riconciliò, accettando le preghiere dell'arcivescovo Folco di Rheims, lo stesso che non era riuscito a metter d'accordo Guido e il Papa. Rispondendogli il Pontefice scriveva che di "Lamberto avrebbe avuto cura paterna, che lo avrebbe trattato come un figlio carissimo e con lui avrebbe mantenuto una concordia intangibile".
Lamberto, assunse il titolo imperiale, lasciò Spoleto, raggiunse Pavia dove fu incoronato Re d'Italia dall'arcivescovo di Milano.

Ma i propositi espressi da Papa nella lettera a Folco, se pur furono sinceri, durarono poco, perché un mese dopo averla inviata, nel settembre dell'895, il Pontefice mandava ambasciatori ad Arnolfo e gli rinnovava l'invito a ritornare in Italia per difendere Roma e la Chiesa; anche se ora non c'era più Guido, e sicuramente il giovane figlio non è che poteva insidiare più di tanto lo Stato Pontificio.

Qualche storico ha voluto spiegare il passo fatto da Formoso con l'atteggiamento di AGELTRUDE (che non aveva mai smesso di essere ambiziosa quanto e più del marito) la quale aveva in animo di far sottomettere al figlio i ducati longobardi dell'Italia meridionale, i domini da sempre agognati dalla S. Sede e da tutti i Papi.
ARNOLFO si affrettò ad accoglier l'invito del Pontefice, però questa volta era risoluto a disfarsi non solo di Lamberto, ma anche di Berengario il cui contegno, dopo che aveva lasciato l'Italia, era divenuto sospetto (del resto il duca del Friuli era rimasto molto deluso dopo averlo lui chiamato in Italia; a Pavia l'imperatore gli aveva dato solo la reggenza del regno italico ma non la corona, che si era invece fatto mettere lui in testa).

ARNOLFO partito nell'ottobre, ai primi del dicembre 895 era a Pavia.
Il primo atto politico del sovrano germanico colpiva al cuore Berengario. Pare che a questo gli fu tolta addirittura la marca del Friuli che era il suo ducato; infatti, a Pavia l'Imperatore divideva l'Italia cispadana in due parti, delle quali quella ad Oriente dell'Adda affidava il governo al conte VALFREDO di Verona, quella ad occidente al conte MAGINFREDO di Milano.
Arnolfo rimase nella Cispadana pochissimo tempo, solo qualche giorno; nello stesso mese di dicembre il re passò il Po e, diviso l'esercito in due corpi, uno composto di Alemanni lo mandò a Firenze per la via di Bologna, l'altro, di Franchi, lo guidò egli stesso per la Lunigiana alla volta di Roma. A Lucca celebrò il Natale dell'anno 895, indi si rimise in marcia, e dopo un cammino lento e difficile per l'inclemenza della stagione e l'ostilità delle popolazioni, giunse sotto le mura di Roma, dove una sorpresa lo aspettava.

AGELTRUDE, improvvisatasi condottiera, messo in sicuro il figlio a Spoleto, era corsa a Roma e, fatto rinchiudere dalle sue truppe il Pontefice a Castel Sant'Angelo, si era rinforzata nella Città Leonina pronta a tener testa all'Imperatore e a non far togliere al figlio lo scettro e il titolo imperiale.
Arnolfo, che non credeva di dover fare uso delle armi, il 21 febbraio dell'896 ordinò l'assalto delle mura leonine dal lato di Porta S. Pancrazio; l'assalto fu condotto con tale impeto che in poche ore la città cadde in potere delle milizie germaniche. Ageltrude, caduta la città Leonina, abbandonò frettolosamente Roma e questa aprì le porte alle truppe del sovrano.
Il giorno seguente Arnolfo fece il suo ingresso a Roma con grande solennità, ricevuto dalla nobiltà laica ed ecclesiastica e dal popolo con croci e vessilli.
Sulla scalinata di S. Pietro lo aspettava il liberato Pontefice, il quale, dopo averlo condotto nella basilica, alla presenza di una moltitudine acclamante, gli pose sul capo la corona imperiale. Qualche giorno dopo il popolo romano, riunito nella medesima basilica, prestò al nuovo imperatore il giuramento di fedeltà.
Ricevuta la corona e il giuramento, ARNOLFO rivolse il pensiero a Lamberto, che, con la madre Ageltrude si era ritirato e fortificato a Spoleto.
Dopo quindici giorni dal suo arrivo a Roma ARNOLFO, i primi giorni di marzo lasciò la metropoli diretto a Spoleto, ma durante quel breve tragitto fu colto da un improvviso malore che l'obbligò a rinunziare al suo piano offensivo e presa la strada di casa in gran fretta raggiunse la Baviera (morirà poi nel 899 a Ratisbona lasciando il trono vacante).

Partito l'imperatore germanico, il partito tedesco perse subito i suoi sostenitori in Italia e ritornò invece potente il partito spoletino con madre e figlio. LAMBERTO, recatosi nell'Italia settentrionale, con imperio annullò gli atti di Arnolfo e si vendicò terribilmente di coloro che lo avevano favorito. Fra questi era Mangifredo a Milano cui fu tagliata la testa e il governo della Cispadana occidentale fu affidato al conte palatino AMEDEO. Il conte Valfredo, al quale Arnolfo aveva dato quella orientale, era morto.
Lesto era stato anche Berengario, che rioccupata Verona, aveva nuovamente ristabilito la sua autorità sulla marca del Friuli e probabilmente si preparava a contendere nuovamente la corona del regno con il duca di Spoleto.
Ma con lui il giovane LAMBERTO ritenne opportuno giungere ad un accordo, che fu messo in atto a Pavia. Berengario ebbe l'Italia superiore tra il Po e l'Adda; il resto rimase a Lamberto, la cui sovranità si estendeva inoltre sulle marche di Toscana, di Camerino e di Spoleto.
Anche a Roma il partito spoletino aveva rialzato la testa. Dopo l'abbandono dell'imperatore, pochi giorni dopo, 4 aprile dell'896 , anche Papa FORMOSO (protettore di Arnolfo) era morto, e gli era successo BONIFACIO VI. Il pontificato di questo Pontefice fu brevissimo: quindici giorni dopo tormentato da un male aveva cessato di vivere e la fazione spoletina assieme alla fazione romana anti-tedesca, aveva innalzato al seggio papale STEFANO VI, accanito nemico personale di Formoso e dei tedeschi che appoggiava.

Fu sotto questo Pontefice che a Roma si condusse un macabro processo passato alla storia con il nome di "sinodo orrendo" che mostra di quali eccessi fosse capace l'odio degli uomini di quei tempi.
Il processo, presenti LAMBERTO e la madre AGELTRUDE, fu fatto a Formoso nel febbraio dell'897.
Il cadavere del Papa, che da parecchi mesi riposava nella tomba, fu esumato, vestito dei paramenti pontificali e portato nella sala del concilio. Qui fu ingiuriato e duramente accusato di nefandezze; poi contro il morto fu pronunziata la condanna. La salma di Formoso fu spogliata, gli furono tagliate le tre dita della mano destra che usava per impartire la benedizione, infine i miseri resti furono prima trascinati per le vie infine gettati nel Tevere.

Simile barbarie non rimase però impunita: ben presto i partigiani del morto reagirono difendendone con scritti polemici la memoria; il popolo, commosso dal sacrilegio e abilmente sobillato dagli amici di Formoso, si levò a tumulto; STEFANO VI fu preso e chiuso in un carcere, dove verso la fine del luglio dell'897 fu poi strangolato.

Gli successero ROMANO e TEODORO II sul soglio pure loro due per qualche mese fino al successivo gennaio dell'898 quando salì al seggio papale GIOVANNI IX che contese il soglio a Sergio appoggiato dal partito filo-italico; lui non proprio filo-tedesco ma piuttosto imparziale oltre ad essere avveduto, cercò di rialzare il prestigio della S. Sede cancellando l'onta "sinodo orrendo" contro Formoso e, piuttosto che combatterlo cercò l'appoggio di LAMBERTO.

Il primo suo atto fu la convocazione di un concilio nella basilica di S. Pietro. Qui furono annullati gli atti del sinodo dell'onta, confermati gli atti di Formoso, la cui memoria fu riabilitata, furono scomunicati i promotori del processo e fu fatto divieto che in avvenire si giudicassero i Pontefici defunti.
Le più importanti deliberazioni del concilio furono quelle a carattere politico. I vescovi riuniti stabilirono che nella consacrazione dei Papi si operasse con l'approvazione dell'imperatore e alla presenza dei messi imperiali; confermarono LAMBERTO imperatore e dichiararono nulla, perché imposta dalla violenza "barbarica" la consacrazione dell'imperatore ARNOLFO.

Un altro importante concilio fu poi tenuto a Ravenna alla presenza del Pontefice, dell'imperatore e di settantaquattro vescovi, che proietta molta luce sulle misere condizioni in cui versava lo stato pontificio.
Lamberto rimise in vigore i provvedimenti emanati dai suoi predecessori a difesa dei liberi contro gli abusi dei pubblici ufficiali; proibì ai conti d'infeudare i diritti della corona e di richiedere indebite prestazioni; ordinò che i conti e i giudici non manomettessero i beni ecclesiastici e che fossero regolarmente pagate ai vescovi le decime; confermò i diritti della Chiesa Romana, cui restituì le terre e le città occupate nelle guerre antecedenti; ma nello stesso tempo, ordinando che a nessun romano, laico ed ecclesiastico, fosse vietato di ricorrere all'imperatore per far valere i suoi diritti, ed infine affermava la sua sovranità su Roma e sullo stato pontificio.

Nel concilio di Ravenna LAMBERTO assicurava inoltre al Pontefice la sua protezione contro il marchese Adalberto di Toscana, che aveva osteggiato l'elezione di GIOVANNI IX. Era in quel momento ADALBERTO il più forte di tutti i feudatari di Lamberto. Con lui era passata in seconde nozze la vedova di Tebaldo di Provenza, Berta, figlia di Lotario II e di Valdrada. Donna ambiziosissima e intrigante, forse desiderava ingrandire la fortuna del marito a danno dell'imperatore.

Se si deve prestar fede al cronista LIUTPRANDO, fu lei che spinse lo sposo a ribellarsi a Lamberto. Questi, dopo il Concilio di Ravenna, si trovava a villeggiare a Marengo quando seppe che Adalberto di Toscana alla testa di un grosso esercito marciava verso Pavia.
Senza perder tempo l'imperatore gli andò incontro con una schiera di armati: di sorpresa lo assalì a Borgo S. Donnino, lo sconfisse e lo condusse prigioniero a Pavia (luglio dell'898).

Questo successo aumentò enormemente il prestigio di Lamberto che era già uscito più saldo dal concilio di Ravenna. Giovane, ardito, risoluto, l'imperatore faceva sperare in un assetto definitivo d'Italia sotto una monarchia nazionale.
Disgrazia volle però che nel fiore degli anni (ne aveva solo 18) la sua vita fosse troncata: si trovava a caccia nel bosco di Marengo quando una caduta da cavallo gli procurò la morte (I5 ottobre dell'898).
Voci destituite di fondamento, raccolte dal cronista della Novalesa, dissero che la morte di Lamberto fu dovuta ad Ugo, figlio di quel conte Maginfredo che il padre di Lamberto Guido di Spoleto, aveva fatto decapitare a Milano.

BERENGARIO
La morte di Lamberto, ancora una volta rialzò inaspettatamente le sorti di BERENGARIO, che anche questa volta si affrettò a marciare su Pavia, che occupò; liberò dal carcere, in cui si trovava, Adalberto di Toscana e, ricevutone l'omaggio, gli restituì i beni; fu riconosciuto da molti sostenitori di Lamberto, e la stessa Ageltrude ne accettò la sovranità ricevendo in cambio la conferma delle donazioni che il marito e il figlio le avevano fatto.

Ma la fortuna, che così insperatamente lo aveva aiutato, ben presto gli volse le spalle, e BERENGARIO si trovò ad un tratto di fronte ad un nemico che in breve volger di tempo doveva fargli perdere le conquiste facilmente ottenute.
I nemici erano gli Ungari. Un popolo di razza oralo-finnica, penetrati in Europa nel secolo VIII e rimasti per moli anni nella regione tra il Volga e il Dniester sotto la dominazione dei Cazari, finche, sospinti dai Petceneghi, di origine turca, se erano stanziato tra il Dnieper e il Danubio. Sotto il comando di Arpad, gli Ungari o Magiari, si erano gettati nella Moravia nello stesso tempo in cui Arnolfo di Germania faceva guerra a Swatopluk, e nell'894 avevano invaso la Pannonia.

La vicinanza di questo popolo selvaggio e feroce costituiva un gravissimo pericolo per l'Italia, la quale quattro anni dopo, nell'898, vide le sue frontiere orientali varcate dagli Ungari. Ma questa non fu che una semplice ricognizione nella quale i barbari non andarono oltre il Brenta. Ritornarono invece numerosissimi nell'agosto dell'899 e, non trovato alcun ostacolo, percorsero, saccheggiando e devastando, la Venezia e la Lombardia e si spinsero fino alla capitale del regno italico.

A fronteggiare il nemico corse sull'Adda Berengario con un esercito di circa quindicimila uomini. La sua comparsa atterrì gli Ungari, i quali fecero offerte di pace al re, promettendo di restituire la preda e chiedendo in cambio di non essere molestati nella via del ritorno.
Berengario rifiutò l'offerta.
Ritiratisi sul Brenta, i barbari tornarono a chieder pace a condizioni che il re avrebbe dovuto trovare vantaggiose; non desideravano che di ritornare nella Pannonia ed erano pronti a lasciare il bottino, i prigionieri e le armi e di dare perfino ostaggi. Avuto un secondo rifiuto, a quel punto, e altro non potevano fare, stabilirono di difendersi disperatamente.

Era il 24 settembre dell'898: mentre i soldati di Berengario bivaccavano tranquillamente a Cartigliano, gli Ungari assalirono all'improvviso e con estrema decisione il campo che, dopo una sanguinosissima lotta, cadde nelle loro mani. L'esercito italiano andò quasi completamente distrutto con un vero e proprio massacro.
Resi baldanzosi dalla vittoria, gli Ungari tornarono a saccheggiare l'Italia settentrionale, una città dietro l'altra, Treviso, Vicenza, Bergamo, Vercelli e si spinsero fino al Gran S. Bernardo. Al ritorno scesero e misero a sacco Modena, Reggio, incendiarono Nonantola, predarono Bologna.

Ritiratisi infine nel territorio di Treviso, tentarono un colpo di mano su Venezia, ma ad Albiola, attaccati dalla flotta veneziana capitanata dal doge Pietro Tribuno, subirono una grave sconfitta. Ricorreva, nel giorno in cui avvenne la battaglia, la festa di S. Pietro e i veneziani, grati all'Apostolo della protezione che aveva accordata alle loro armi mettendo in "volta" (=fuga) i barbari, decretarono ad Albiola il nome di San Pietro della Volta.

BERENGARIO, non solo non seppe trarre profitto dalla vittoria dei veneziani, ma pur di liberarsi degli Ungari, li convinse a lasciare l'Italia offrendo ricchi doni e ostaggi.
La sconfitta e il massacro avuto sul Brenta abbassò ad un tratto il prestigio di Berengario. In Italia, contava non pochi nemici tra i sostenitori della casa di Spoleto. Si aggiunga poi ADALBERTO di Toscana, il quale, invece di essere riconoscente a Berengario che lo aveva liberato dalla prigionia, ne sopportava malvolentieri la sovranità.
Approfittando della infelice condizioni in cui Berengario si trovava e forse anche irritati dalla condotta che aveva tenuto con gli Ungari, Adalberto di Toscana, Adalberto d'Ivrea, e molti potenti signori italiani invitarono LUDOVICO di PROVENZA, figlio di Bosone ed Ermengarda, a scendere in Italia.
LUDOVICO accettò l'invito: verso la fine del settembre del 900 passò le Alpi e, mentre Berengario si ritirava nei suoi domini del Friuli, giunto a Pavia, il provenzale fu da un'assemblea eletto re; indi, recatosi a Roma, verso la metà di febbraio del 901, riceveva la corona imperiale dalle mani del papa BENEDETTO IV successo a Giovanni IX nel febbraio dello stesso anno.

Uno dei principali artefici della rapida -ma breve- fortuna in Italia di Ludovico di Provenza era stato Adalberto di Toscana. Ma fu anche uno dei primi ad abbandonare il nuovo imperatore.
Si narra che Ludovico, a Lucca visitando la corte fastosa di Adalberto avesse mostrato la sua invidia per la magnificenza del suo feudatario, provocando nell'animo di questo giustificati timori.
Questa, forse è ingenua storiella con la quale i cronisti vollero spiegare il voltafaccia del marchese di Toscana. Forse la vera spiegazione del contegno di Adalberto è meglio trovarla nel suo carattere e nell'ambizione della moglie.
ADALBERTO era uno dei più potenti, forse il più potente dei feudatari italiani ed avrebbe potuto -se avrebbe voluto- e senza grandi difficoltà prendersi la corona.
Erano però tempi quelli, in cui la corona passava facilmente da una testa all'altra, e Adalberto alla instabile dignità regia preferiva un potere più duraturo e meno esposto alle invidie, tuttavia per esercitarlo questo potere nelle sue terre gli era pure necessario che nessun re in Italia riuscisse a consolidare troppo la propria autorità, che realmente o solo potenzialmente poteva mettere in pericolo la sua.

Per questo semplice motivo, come si schierò contro Guido, contro Arnolfo, contro Lamberto e contro Berengario così ora si schierò contro Ludovico, favorendo, con altri grandi, il Berengario, la cui debolezza (dopo il Brenta) dava più garanzie.

Incerte sono le vicende di questo periodo di storia e incertissime le date. Da un diploma emesso in favore del vescovo di Reggio da Berengario risulta che il 17 luglio del 902 questi era in Pavia da lui chiamata "caput regni nostri"; e poiché il 12 maggio di questo stesso anno sappiano con sicurezza che a Pavia si trovava LUDOVICO dobbiamo porre la cacciata del re di Provenza dall'Italia tra queste due date.

Riacquistato il regno, BERENGARIO cercò di rafforzare la sua posizione con concessioni e privilegi a favore di chiese e monasteri. Fra i diplomi emessi dal re ne troviamo uno dell'11 settembre del 903 in favore del monastero di Bobbio; con un altro del 4 gennaio del 904 Berengario, sollecitato dalla regina Bertilla, concedeva alla chiesa di Reggio danneggiata dagli Ungari, il monte Crovara; con un terzo che porta la data del 23 giugno dello stesso anno, confermava alla chiesa di Bergamo le donazioni fatte, le concedeva l'immunità e permetteva al vescovo di riparare le mura della città distrutte da Arnolfo.

Malgrado queste concessioni ed altre di cui furono favorite le chiese di Aquileia, di Asti e di Treviso, Berengario non riuscì a consolidarsi fino al punto da imporsi ai grandi; i suoi stessi provvedimenti anzi dovettero contribuire a suscitar contro di lui l'invidia dei feudatari fra i quali troviamo ancora in prima linea Adalberto di Toscana alla cui moglie si attribuisce da qualcuno la proposta di un secondo invito a Ludovico di Provenza. Questi ripassò nuovamente le Alpi al principio dell'estate del 905. Berengario, abbandonato dai signori italiani, si ritirò a Verona; ma non vi rimase a lungo: minacciato dalle forze del provenzale di molto superiore alle sue, cercò rifugio in Baviera.
Lasciando l'Italia però concepiva un ardito progetto per ritornarvi. Giunto in Baviera, fece divulgare la notizia che era morto allo scopo di non fare rimanere sul chi vive Ludovico e di potere mettere in atto il colpo di mano che aveva in progetto di attuare.
Quando seppe che il suo rivale a Verona, sicuro del regno e tutto intento in conviti, e fu informato che il presidio della città era molto inadeguato a difendersi, Berengario con un forte esercito raccolto in Baviera a marce forzate scese dalle Alpi, piombò improvvisamente su Verona e prima ancora che i difensori impugnassero le armi se ne era già impadronito. LUDOVICO, caduto nelle mani del suo nemico, fu barbaramente accecato, anche se gli permise di tornare vivo in Provenza.
La cinica punizione - afferma ma non si sa con qual fondamento, un cronista - fu inflitta per aver violato Ludovico il giuramento fatto nel 902 che non avrebbe mai più messo piede in Italia (era fine del luglio del 905).

BERENGARIO I - LE CONDIZIONI DEL PAPATO E GIOVANNI X
I MUSULMANI DEL GARIGLIANO

Partito il povero Ludovico, privo della vista, nella sua Provenza, Berengario riuscì - dopo tante lotte che gli era costata- a godere per qualche tempo in pace la corona. Non aveva del resto rivali, perché LUDOVICO il FANCIULLO, nel frattempo successo ad Arnolfo di Germania nell'899, minacciato in casa dagli Ungari non poteva certo pensare all'Italia, mentre i signori italiani, sotto l'incubo del pericolo magiaro se ne stavano quieti.

Del periodo di tranquillità, che seguì alla vittoria su Ludovico di Provenza, Berengario approfittò per consolidare nel regno la sua posizione concedendo altre donazioni e privilegi a chiese e a monasteri, di cui fan fede numerosi diplomi da lui firmati. Contemporaneamente faceva in varie località costruire opere di fortificazione nell'eventualità di nuove invasioni da parte degli Ungari e accarezzava l'idea di cingere la corona imperiale.
In verità questo sogno di facile o difficile attuazione non era quello che Berengario tanto vagheggiava, perché la dignità imperiale, da qualche tempo aveva perso l'importanza che prima aveva; era ridotta a poco più che un semplice titolo onorifico, e il Papato, che era solito conferirla, anche questo caduto in uno stato d'indescrivibile degrado, quel titolo non lo negava a nessuno; come abbiamo visto si concedeva ad uno e subito dopo e quasi nello stesso tempo anche al suo avversario. Degrado dovuto anche alla poca autorevolezza e alla caducità del seggio papale, perché non solo non era più salito sul soglio un papa con un carattere forte, ma negli ultimi anni molti l'avevano occupato il soglio solo per pochi mesi, i più fortunati per uno o al massimo un paio d'anni. E, purtroppo, questa situazione non cambiò neppure negli anni successivi.
Roma era in balia al disordine, insofferente ai freni e corrotto vi era il clero, mentre potenti famiglie si contendevano l'autorità pontificia per farne solo uno strumento delle loro ambizioni. A Benedetto IV, morto nel luglio del 903, era successo Leone V ed a questo successe CRISTOFORO I, finiti entrambi in modo violento.
Nel gennaio del 904 aveva ripreso la tiara SERGIO III, il nemico acerrimo di Giovanni IX (gli contese il soglio e fu esiliato) che era vissuto per sette anni alla corte di Adalberto di Toscana; fu eletto con il favore della fazione dei nobili.

Nella fazione de nobili romani, era potentissimo TEOFILATTO, da Giudice divenuto Senatore e salito alle altissime cariche di "Vesterarius", di "Magister militum", Console, marito di TEODORA e padre di MAROZIA, due donne entrambe bellissime, spregiudicate e perverse che per alcuni anni dominarono le feste e le riunioni mondane di Roma e furono loro due ad "arbitrare" i papi che salivano e scendevano dal soglio, fin quando alla fine misero a fare il papa anche gli amanti e i figli. Se si deve credere a LIUDPRANDO cronista, SERGIO III fu l'amante di Marozia, che sposata ad Alberico di Spoleto dalla quale ebbe (da lui?) un figlio più tardi (marzo 931) lo fece nominare pontefice con il nome di Giovanni XI. Ovviamente aumentò di molto il prestigio e la potenza di Teofilatto e alla seconda figliuola di questo, conferì il titolo di senatrice.
Poi morto Alberico, sposò poi Ugo, e lo fece diventare Re d'Italia e Imperatore.
Insomma Papato, Senato, Consolato, "magister militum", Re d'Italia e Imperatore, tutto "fabbricato" in casa fra le lenzuola di Marozia.

SERGIO III pontificò fino al 14 aprile del 911 ed ebbe come successori prima ANASTASIO III, poi nel luglio 913 LANDONE e nel marzo del 914 GIOVANNI X. Alla famiglia di Teofilatto si collega la fortuna (ma alla fine sfortuna) di quest'ultimo Pontefice, che per come arrivò al soglio non fece certo rimpiangere i suoi inetti predecessori.

Prete sconosciuto, mandato in missione dall'arcivescovo di Ravenna a Roma, divenne l'amante di Teodora e con il suo aiuto fu poi vescovo di Bologna, poi arcivescovo di Ravenna e infine Papa. Dopo una serie di Pontefici che forse non avevano ben compreso l'altezza del loro ufficio, Roma ebbe in GIOVANNI X un Papa che subito mostrò di esser dotato di una fortissima tempra e s'impegnò in un'attività infaticabile in pro del Papato e dell'Italia.

E di un Pontefice della sua forza aveva veramente bisogno Roma che viveva sotto l'incubo dei Saraceni del Garigliano (di cui abbiamo narrato in un precedente capitolo le scorrerie), come l'Italia superiore sotto quello degli Ungari, o dei Musulmani di Frassineto, i quali ultimi per tutta la prima metà del secolo X furono il terrore della Liguria e del Piemonte.
Rafforzati dai coloni di Agropopoli, da bande venute dall'Africa e dalla Sicilia e forse da non pochi dei soldati che avevano seguito IBRAHIM in Calabria, i Saraceni avevano fatto del loro campo sul Garigliano una fortezza inespugnabile, e da qui infestavano con continue scorrerie i territori vicini. Le campagne di Siponto, Venosa, Frigento, Canosa, Taurasi, Avellino, Benevento erano state da loro corse e saccheggiate, incendiato il monastero d'Alife, distrutto quello famoso di Farfa nella Sabina, assalite Nepi, Orte e Narni, resa un deserto la campagna romana.

GIOVANNI quel famoso progetto di LUDOVICO II e di Giovanni VIII, lo fece suo, anche perché questa volta si presentava di più facile attuazione dato il numero molto esiguo dei nemici che dovevano esser affrontati e combattuti.
Ma come nel secolo IX, affinché i Musulmani del Garigliano potessero essere scacciati era necessario riunire le forze dei paesi cristiani vicini, anche per il fatto che la forza dei Saraceni era principalmente costituita dalla divisione e dalle rivalità dei vari stati d'Italia, e non tanto dal loro numero.

A quest'opera si accinse il Pontefice e non si riposò più fin quando non l'ebbe compiuta.
Per la prima volta tacquero gli odi, gli egoismi, le diffidenze, e l'Italia aderì alla nobile iniziativa del Papa formando una coalizione. BERENGARIO diede il suo contributo alla lotta permettendo che vi partecipassero le forze dei marchesati di Spoleto e di Camerino sotto il comando del marchese ALBERICO; nella lega entrarono, oltre lo stato pontificio, LANDOLFO principe di Capua e di Benevento, GUAIMARO di Salerno, GREGORIO duca di Napoli e GIOVANNI di Gaeta. L'imperatore bizantino vi prese anche lui parte mandando forti schiere di Calabresi e Pugliesi e una flotta comandata dall'abile stratega NICOLÒ PICINGLI.
Il re d'Italia BERENGARIO, forse non sentendosi abbastanza sicuro nell'Italia superiore, non scese personalmente in campo; vi scese invece lui papa GIOVANNI X alla testa delle milizie di Roma, del Lazio e della Tuscia romana, capo morale dell'impresa, perché il vero condottiero doveva essere e fu Alberico di Spoleto.

Le prime operazioni ebbero lo scopo di scacciare subito i Musulmani dal Lazio, dalla Sabina e dalla Toscana meridionale.
Le ostilità furono iniziate con un colpo di mano ben riuscito effettuato da una sessantina di uomini del Pontefice che sorpresero e fecero a pezzi una schiera di razziatori nemici. Incoraggiate da questo successo da ogni parte le popolazioni cristiane, uscite dalle terre, si diedero a far guerra ai saraceni e mentre un AKIPRANDO di Rieti li sconfiggeva sulle rovine di Trovi, le milizie di Nepi e di Sutri li sbaragliavano a campo Baccani. Dopo queste disfatte i Musulmani di Narni e di Ciculi si ritirarono sul Garigliano, dove nel giugno del 915 andarono poi ad assalirli quelli della coalizione.

Tre mesi durò l'assedio. Sloggiati dal piano dove si trovava il loro campo trincerato ("kairuan"), i Saraceni si ritirarono sulle cime delle vicine alture, che costituivano la loro rocca e qui si difesero anche bene, respingendo i quasi quotidiani assalti, specie di Alberico e di Landolfo che fornirono prova, superba del loro valore. Poi decimati dall'aspra e continua giornaliera lotta, stretti da ogni lato, impossibilitati ad operare delle sortite per procurarsi perfino il cibo e tormentati dalla fame, anziché arrendersi, i Saraceni stabilirono di forzare il blocco e raggiungere poi in qualche modo le coste della Sicilia.
Affinché la sortita si effettuasse con una probabilità di riuscita appiccarono agli alloggiamenti e, approfittando del trambusto, irruppero dalla cinta e si sparsero nei boschi circostanti. Allora cominciò da parte dei cristiani una caccia accanita e senza quartiere: la cronaca narra che nessuno degli infedeli si salvò; scovati in ogni dove dagli inseguitori, buona parte furono passati a fil di spada, e il resto catturati e condotti in schiavitù (agosto del 915).

La notizia della distruzione del covo musulmano che da alcune decine di anni terrorizzava tutto il territorio, produsse in tutta l'Italia un senso di sollievo. E ci voleva un prete per risolvere quella sporca faccenda.

Giovanni X, che era stato non solo l'organizzatore infaticabile dell'impresa, ma anche il protagonista, al ritorno della strabiliante "missione", fu accolto trionfalmente a Roma dal popolo, e dalla vittoria il suo prestigio uscì grandemente accresciuto.
Ma chi fra tutti s'acquistò fama maggiore fu ALBERICO di SPOLETO, al quale in gran parte, sotto il profilo bellico, era dovuto il merito del successo. Se n'acquistò tanta di fama da far nascere in Teofilatto il desiderio di imparentarsi con lui.
Alle grazie di MAROZIA non riuscì difficile trarre nella rete il marchese di Spoleto, che appena vista la bellissima adescatrice, innamoratosi, non gli parve vero di unirsi a lei e la sposò. Da questo matrimonio nacque un figlio che ebbe lo stesso nome del padre e che era destinato ad avere una parte importantissima nelle vicende di Roma, e in quella di sua madre Marozia.

Della vittoria del Garigliano si avvantaggiò moltissimo Berengario che vi aveva contribuito mandando contro i Musulmani le milizie del suo vassallo Alberico. Il Pontefice, o perché grato, o perché volesse premiarlo, o perché sentisse il bisogno di frenare la potenza della nobiltà romana dalla quale non intendeva essere padroneggiato, o perché indovinò il desiderio di Berengario coltivato da anni, o per tutte queste ragioni insieme, conferì al re d'Italia la dignità imperiale.

La cerimonia dell'incoronazione avvenne verso la fine di novembre o ai primi di dicembre del 915 e si svolse con grande solennità.
Berengario giunse a Roma dal campo di Nerone; fuori le porte della città gli andarono incontro il clero, la nobiltà, le milizie e le "scholae" degli stranieri che gli resero omaggio e lo accompagnarono fino alla basilica di S. Pietro. Qui lo aspettava il Pontefice con gli alti dignitari della Chiesa. Papa e re si baciarono, poi entrarono nel tempio e pregarono sulla tomba dell'Apostolo. Qualche giorno dopo, nella medesima basilica Berengario ricevette dalle mani del Pontefice la corona imperiale e al popolo che lo aveva acclamato lesse un diploma con il quale confermava tutte le donazioni concesse alla Chiesa Romana.

Il nuovo imperatore, si fermò nella metropoli alcune settimane; si mise sulla via del ritorno probabilmente verso la fine del dicembre e poi il 2 gennaio del 916 lo troviamo in Toscana, nel Mugello. Non sappiamo se Berengario fece una lunga sosta in Toscana. Nonostante il suo infido vassallo, il potente marchese ADALBERTO non era più tra i vivi e aveva in mano il governo della marca toscana il figlio Guido, figlioccio (stranamente, non come la madre) devoto all'imperatore, ci fa credere che Berengario si sia trattenuto un po' di giorni a quella Corte, dove però viveva ancora, e vi esercitava non poca autorità, la vedova di Adalberto, la marchesa Berta.

Questa donna era, oltre che ambiziosa quanto il defunto marito, tenace negli odi e negli effetti. Essa non poteva dimenticare di essere stata prigioniera di Berengario a Mantova e desiderava vendicarsi. Berta non era la sola nemica di Berengario: l'odiava anche la bellissima figlia Ermengarda che aveva sposato il marchese Adalberto d'Ivrea, vedovo di Gisla, figlia dell'imperatore. Questi odi, in un'epoca in cui le donne prendevano tanta parte alla politica, non potevano che suscitare intrighi, congiure e ribellioni fra i grandi d'Italia, i quali - come argutamente osservò il cronista Liudprando - "amavano avere due padroni per tenere in rispetto l'uno per mezzo dell'altro"
Questi odi, le ambizioni di simili donne, la poca autorità di cui l'imperatore godeva ed altri motivi di cui non siamo a conoscenza provocarono una nuova ribellione che doveva avere per effetto l'intervento di un sovrano straniero.

Il primo a ribellarsi, circa cinque anni dopo la battaglia del Garigliano, fu il conte palatino OLDERICO. Preso prigioniero, fu dall'imperatore dato in custodia a Lamberto arcivescovo di Milano. Ma poiché questi odiava segretamente Berengario che gli aveva arbitrariamente imposto un tributo, si mise d'accordo con il prigioniero, con il marchese d'Ivrea e con il conte GILBERTO SAMSON di Bergamo e insieme invitarono RODOLFO II di BORGOGNA a scendere in Italia. La cosa non fu fatta così segretamente da non venire all'orecchio dell'imperatore. Berengario informato che i ribelli radunavano le loro forze nel territorio di Brescia, volle anticiparli e, ingraziatisi alcune bande di Ungari che erano comparse con il proposito di scorazzare e predare dentro i confini del regno, Berengario promettendo a loro chissà cosa, le convinse e le lanciò contro i suoi nemici che nello scontro di questa ciurmaglia subirono la peggio.
OLDERICO fu ucciso; il marchese d'Ivrea e il conte di Bergamo furono fatti prigionieri; ma il primo riuscì a fuggire, il secondo, inopportunamente graziato, passò le Alpi e si recò in Borgogna da RODOLFO cui portò la "santa lancia", simbolo della sovranità.
Poco tempo dopo, accompagnato dal vassallo ribelle e seguito da un forte esercito, il sovrano borgognone scendeva in Italia e senza incontrare resistenza occupava Pavia, dove, da un'assemblea, si faceva proclamare Re (febbraio del 923).
Berengario si era ritirato nella forte Verona, ma non si era certo rassegnato a perdere in quel modo il regno; raccolte delle milizie, diede battaglia nel luglio del 923, presso Fiorenzuola, a Rodolfo e sarebbe riuscito vincitore se non fosse sopraggiunto, mentre il combattimento volgeva sfavorevole per i Borgognoni, un esercito condotto dal conte BONIFAZIO, cognato di Rodolfo.

L'arrivo di questi rinforzi cambiò le sorti della battaglia e le truppe di Berengario furono sconfitte con gravi perdite. Il vinto tornò a ritirarsi a Verona, dove pare che Rodolfo non andò a molestarlo. Stando anzi a quel che scrive COSTANTINO PORFIROGENITO, tra i due rivali sarebbe stato stipulato un trattato di pace con la quale Berengario abbandonava il titolo imperiale e la sovranità sopra una parte del regno. Dai diplomi sappiamo che l'autorità di RODOLFO (nuovo re e imperatore) si estendeva sul marchesato di Spoleto, dove il conte Bonifazio aveva sostituito Alberico, e su tutta l'Italia settentrionale, eccettuata la marca friulana che con la Toscana e forse anche con Roma riconoscevano invece Berengario.
BERTA di Toscana -covando l'antica vendetta, poteva esser contenta che Berengario avesse perduto parte del regno. Invece non lo era, sia perché il figlio GUIDO si era mantenuto fedele al nemico della madre, sia perché avrebbe voluto opporre a Berengario un altro figlio meno "traditore". Berta aveva avuto dal primo letto (con Teobaldo, duca di Arles) un figlio, UGO di PROVENZA, e desiderava da qualche tempo che il giovane venisse in possesso del regno italico.

Spinto dalla madre, UGO, approfittando dell'assenza di RODOLFO, che nel dicembre del 923 aveva fatto ritorno in Borgogna, calò in Italia nel 924 con un gruppo di milizie provenzali, ma trovò un forte ostacolo ai suoi progetti in Berengario, il quale, non si fece sorprendere, dopo aver assalito il nuovo concorrente, lo sconfisse e lo costrinse a ripassare le Alpi.
Questa vittoria e le bande mercenarie ungariche di cui ora disponeva fecero concepire a BERENGARIO il proposito di togliere a RODOLFO i territori usurpati.

Sul finire dell'inverno del 924, mentre il monarca borgognone si trovava ancora assente dall'Italia, una numerosa banda di Ungari comandata dal voivoda SALARDO andò a mettere l'assedio a Pavia. La città cadde in potere dei barbari il 12 marzo e fu messa a sacco. Molte case furono incendiate e una parte degli abitanti trucidata: tra le vittime ci furono i vescovi di Pavia e di Vercelli. I cittadini superstiti ottennero il riscatto pagando a Salardo otto moggi d'argento che riuscirono a ricuperare tra le macerie degli edifici distrutti.

Non era ancora passato un mese dal martirio di Pavia e BERENGARIO moriva sotto il ferro di una congiura: si trovava la notte del 7 aprile, a pregare solo dentro una chiesa di Verona, quando, preso a tradimento, fu assassinato.
Aveva 73 anni, di famiglia franca, nipote di Ludovico il Pio, marchese del Friuli, divenne re d'Italia dall'888 (ma ne poté disporre solo nel 905), sostenuto da papa Giovanni X, era diventato imperatore nel 915.

"Principe - scrive il Romano cui, nonostante le lodi del suo panegirista, mancarono molte di quelle qualità che caratterizzano un fondatore di stato: egli non ebbe né le virtù guerriere, né il senno politico, né l'energia di Guido e di Lamberto di Spoleto.
Della sua autorità sempre incerta, sempre precaria fa fede la mancanza d'ogni attività legislativa, anche in periodi relativamente tranquilli, quando il caso, più spesso che la vittoria, pose a sua disposizione tutte le forze del regno.
Eppure, quest'uomo che passa quarant'anni della sua vita sempre battagliando, fra una rapida vicenda d'abbandoni e di risorgimenti, non mancò di valore, né di costanza, e il modo della sua morte, dovuta al pugnale di un assassino, un vassallo che lui aveva beneficato, sparge sulla sua figura non priva di grandezza un raggio di simpatia e di rimpianto".

RODOLFO dopo la sua morte, credeva di essere rimasto il signore incontrastato del regno, e cercò d'essere conciliante con tutti, pur sapendo che non pochi erano gli amici di Berengario. Non bastarono le sue generosità, lui era un sovrano straniero, e in Italia si stavano costituendo potenti monarchie, decise a lottare per prendersi lo scettro d'Italia.

Prima di ritornare con una puntata su questo nuovo scenario,
che inizia dopo la morte di Berengario nel 924,
dobbiamo tornare nella Sicilia Araba e nel resto dell'Italia Meridionale
ritornando all'inizio del secolo
e andare a Venezia nel periodo precedente e subito dopo, il secolo X
Sicilia, il Sud e Venezia dal 909 al 961 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

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