ANNO 1924

QUANDO PIETRO GOBETTI
PROPOSE DI FARE
LA RIVOLUZIONE
LIBERALE

A 18 anni fondò la sua prima rivista di cultura politica
"Energie Nuove"
A 20  anni "La rivoluzione liberale"

LIBRI DA RILEGGERE Riflessione su un'opera pubblicata nel 1924,
mentre il fascismo era già al potere, e riedita da Einaudi nel 1994

di GIAN LUIGI FALABRINO

Aveva ragione Enzo Mauro a scrivere sul "Corriere della Sera" nel 1995 che "oggi tutti si dichiarano liberali, per lo più senza arrossire" e che "il confronto teorico e ideale fra i conservatori e la sinistra comunista si è svolto finora nell'occultamento dei testi di quei protagonisti, come Gobetti, Amendola, Rosselli e Salvemini, la cui colpa è quella di offrire del liberalismo una visione non arretrata".
E, quando i testi non sono più occultati, si scatenano l'incomprensione e persino la denigrazione. 

Di fronte alla nuova pubblicazione de "La Rivoluzione Liberale" - Saggio sulla lotta politica in Italia, edito per la prima volta nel 1924 e nel 1994 da Einaudi, Lucio Colletti aveva dichiarato "Quel libro serve solo a D'Alema" e Domenico Settembrini, alla domanda "che senso ha proporre Gobetti oggi?", ha lapidariamente risposto "Nessuno".

Anche Dino Cofrancesco limita la lettura di Gobetti all'errore di aver ritenuto i bolscevichi i liberali del XX secolo: la ragione del suo successo fra gli intellettuali starebbe nel "carattere radicalmente trasversale" del suo pensiero, che avrebbe compensato liberalismo e comunismo.

Ci sembra che la lettura di Gobetti sia molto più complessa e, nonostante certi errori di valutazione sulla politica del suo tempo, molto più utile proprio oggi, quando, di fronte al dialogare di troppi liberalismi, ci si deve chiedere qual è e quale deve essere il vero liberalismo.

Scriveva ancora Enzo Mauro: "Son guai infatti per le classi dirigenti se i giovani apprendono che il liberalismo può essere altro dalla solita lettura moderata, che purtroppo anche settant'anni fa c'erano i liberali a chiacchiere, disposti a barattare l'anima e la legalità per i propri interessi". 
In questo senso, la rilettura del libro di Gobetti può essere utile non tanto a D'Alema ma a chiunque si ponga il problema dell'essenza e dello scopo della sinistra odierna. Piero Gobetti è intanto una personalità affascinante. 

Nato nel 1901, a diciott'anni fonda "Energie nuove", rivista quindicinale sulla scia dell' "Unità" di Gaetano Salvemini e, dopo una breve infatuazione per i liberisti come Einaudi, matura la sua concezione della politica come forma di educazione e della cultura come coscienza storica.
Dopo un anno, nel 1920 la rivista finisce le pubblicazioni; nel '22 Gobetti fonda il settimanale "La Rivoluzione liberale", con molti collaboratori della cessata "Unità salveminiana" affiancata da una rivista letteraria, "il Baretti" e da una piccola casa editrice. 

A 23 anni, nel 1924, raccoglie, elaborandoli, molti articoli apparsi sulla rivista e, con lo stesso titolo, Rivoluzione Liberale, pubblica il Saggio sulla lotta politica in Italia. Era il mese d'aprile: nel giugno viene ucciso Matteotti e il 3 gennaio 1925 Mussolini trasforma il suo governo in regime. Per tutto l'anno si susseguono i sequestri della rivista, finchè il 1° novembre Gobetti deve pubblicare la diffida del prefetto di Torino contro il periodico, accusato di mirare "alla menomazione delle istituzioni monarchiche, della Chiesa, dei poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale". 

Una settimana dopo, esce l'ultimo numero della rivista, che segue il destino de "Il Caffè" pubblicato a Milano da Riccardo Bauer, con Parri, Gallarati Scotti, Arpesani, Borsa e Sacchi (chiuso in maggio), del fiorentino "Non Mollare" di Salvemini, Ernesto Rossi e dei fratelli Rosselli (finito in ottobre), e di tante altre voci libere invise al nuovo regime dittatoriale. 
Bastonato da una squadraccia fascista, Gobetti ripara con la moglie a Parigi, dove morirà nel 1926. (A 25 ANNI !!)

Riletto oggi, il libro di Gobetti sorprende per le molte notazioni originali sul Risorgimento e sulla lotta politica del tempo. Per esempio, la considerazione di Cavour come autore di una grande rivoluzione liberale rimasta incompiuta, e dello stesso Risorgimento come incompiuto e non come "rivoluzione mancata"; la rivalutazione del Piemonte settecentesco e ottocentesco come di un paese contraddistinto dall'assenteismo dell'aristocrazia, dallo spezzettamento della grande proprietà agraria e dalla diffusione degli affittuari, dalla laicità dello Stato e dalla presenza di una singolare cultura moderna "in questo vecchio Stato nemico della cultura".


A differenza di tanti intellettuali di trenta o quarant'anni dopo, Gobetti riconosce il valore della fabbrica che "educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà" e riconosce altresì il valore positivo della città moderna, "organismo sorto per lo sforzo autonomo di migliaia d'individui".

In Gobetti appare per la prima volta il concetto di fascismo come "autobiografia della nazione". "Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi".

E fin dalla prima pagina del libro fa una dichiarazione fulminante e valida più che mai oggi: "Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità"

La confusione politica del 1919-24 ha molti punti di contatto con gli anni novanta: dissolti o molto sminuiti i partiti tradizionali del centro-destra, si sono affermati nuovi partiti, allora il popolare e il fascista, oggi Forza Italia, Alleanza Nazionale e la Lega. Sia allora che oggi, le sinistre sembrano sbandate e alla ricerca di un nuovo ubi consistam. 

Le analogie sono fortissime e messe in luce con forza dalla prefazione di Paolo Flores D'Arcais. Ci sono, in Gobetti, anche curiosità che fanno pensare: 

"La sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l'amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione dell'enfasi…..L'ordinaria amministrazione con la sua monotonia è un altro fiero nemico del presidente; se egli non avesse un piacevole divertimento nelle trovate sportive che gli riconciliano la popolarità, il compito quotidiano sarebbe snervante e senza risorse".

Di chi parla? Di Mussolini certamente, allora. E oggi? Ma ci sono soprattutto analisi acute e ancora valide della storia e del carattere italiani e molti concetti innovatori.
Nel capitolo su "Liberali e democratici", premesso che la più grave deficienza del liberalismo italiano si potrebbe cercare "nella lunga mancanza di un partito politico francamente conservatore", Gobetti scrive: "insomma la parola d'ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: "tutti liberali". La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l'azione storica dei ceti che vi sono interessati". Posto che i veri liberali sono una minoranza, "Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sui grani per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative". 

Gobetti vede il carattere arretrato e illiberale della borghesia italiana, che chiede favori e una politica protezionista, una non-borghesia se confrontata con i ceti dirigenti conservatori di altri paesi. Riconosce che in Italia ci sono due borghesie, ma quella weberiana (come la chiama Flores D'Arcais) resta in minoranza, mentre domina il "ceto dirigente contento di sé".
Gobetti riconosce la necessità storica e i valori della civiltà capitalistica, ma vede i suoi limiti nelle nazioni più povere, la Russia e l'Italia. Nel nostro Paese, allora come oggi, si contrappongono l'individualismo regolato dalle leggi e una tradizione "istintivamente individualista" che ha prodotto un popolo "in perenne atteggiamento anarchico".

Per Gobetti, "il liberalismo ha elaborato un concetto della politica come disinteresse dell'uomo di governo di fronte al popolo interessato… Solo attraverso la lotta di classe il liberalismo può dimostrare le sue ricchezze…Essa è lo strumento infallibile per la formazione di nuove élites, la vera leva, sempre operante, del rinnovamento popolare".

Certo, l'errore di Gobetti è stato di vedere in Gramsci e nei consigli di fabbrica, promossi da "Ordine nuovo", aspetti e valori liberali; da qui, la sua illogica simpatia per Lenin, benchè riconosca il carattere "accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa".

Ciò non toglie che egli si era reso conto, sulle orme di Salvemini, degli errori della sinistra, in particolare del riformismo e del "parassitismo cooperativistico".
Ancora più importante, e decisivo per la valutazione di Gobetti, è il riconoscimento del fatto che il primato dell'uguaglianza rispetto alla libertà è la causa delle degenerazioni del movimento operaio. A questo proposito, commenta Flores D'Arcais: "Pure, la convinzione gobettiana che se l'ossessione dell'eguaglianza sociale governa e comanda la politica operaia, umiliando le libertà a strumento tattico nella lotta per il potere, sono a repentaglio gli stessi interessi dei lavoratori - interessi nel senso più pieno e materiale del termine".

E infatti Gobetti aveva sostenuto con grande chiarezza: "Il problema del movimento operaio è un problema di libertà e non di uguaglianza sociale". Qui merita citare ancora Flores D'Arcais: contro la "disponibilità ''moderata'' di massa al tradimento del liberalismo"…
"Contro questo rischio di populismo, perciò sempre più irrinunciabile si dimostra l'intuizione di Gobetti, che ai lavoratori dipendenti e alle forze politiche che li rappresentavano vada innanzi tutto affidata la difesa, la cura e il radicamento del liberalismo. Sono gli unici, infatti, ad avere un interesse intrattabile ad una convivenza civile fondata sul governo delle regole e non sulle regole di chi governa"
.
In Destra e sinistra, Norberto Bobbio ha scritto che il valore "eguaglianza" è quello che contraddistingue la sinistra.

Ma un conto è constatare che nella storia del movimento operaio l'eguaglianza sia sempre stato il valore dominante; altro è riconoscere con Gobetti che la sottovalutazione della libertà è stato un errore. Oggi, la sinistra è alla ricerca di una funzione, di un ideale, di un concetto informatore.
Rileggendo Gobetti, non è utopistico pensare che la bandiera della minoranza intellettuale antifascista, rappresentata dal partito d'azione, possa diventare adesso la connotazione di una sinistra popolare, non socialdemocratica né limitatamente migliorista.
Giustizia e libertà: eguaglianza come mito, come direttrice per una società migliore, e libertà nella pratica di ogni giorno, nelle istituzioni, nelle regole del vivere civile e politico, Libertà significa anche eguaglianza di fronte alle leggi, negazione di ogni favore e privilegio, negazione del familismo in tutti i suoi aspetti, fino alla connivenza camorristica e mafiosa, e quindi è educazione a un costume di convivenza civile e tollerante (proprio il contrario dell'aggressività dilagante oggi a tutti i livelli). 

Senza l'appoggio e la convinzione di un grande movimento politico popolare, l'educazione alla libertà non può divenire patrimonio comune. E, come aveva intuito Gobetti, i lavoratori a reddito fisso e gli imprenditori non speculatori e non protezionisti hanno interesse comuni: l'equità fiscale, innanzi tutto, che è un problema di eguaglianza e anche un aspetto del libero mercato, se si volesse tentare di farlo esistere almeno in parte; e la lotta alla corruzione e alle clientele politico-affaristiche, che è un problema di giustizia. 

La stessa giustizia "giusta", della quale Mani pulite ha dato un esempio, ahimè troppo breve, la giustizia non asservita ai potenti e gli affaristi, è contemporaneamente un'attuazione dell'eguaglianza e della libertà dei cittadini. Nessuno di questi grandi obiettivi potrà essere raggiunto se la libertà sarà ancora vista come "formale" o "borghese", oppure come una condizione già raggiunta.
La libertà va realizzata nelle coscienze, nell'educazione, nelle regole della vita civile e politica, essa è la condizione per ogni sforzo di eguaglianza. La rivoluzione liberale, mai realmente attuata in Italia, dev'essere una rivoluzione di giustizia, che necessita sia di una profonda educazione etica, sia di un'azione politica di grandi orizzonti.

di GIAN LUIGI FALABRINO

Ringrazio per l'articolo
Gianola direttore di
"Storia in Network"


NOTA

vedi anche QUANTO APPARE NEL 1926

PIERO GOBETTI - Nato a Torino nel 1901. Studente universitario di acuta intelligenza, promotore della rivista culturale Energie Nuove. Esponente della sinistra liberale progressista, collegata con l'intellettuale meridionalista Gaetano Salvemini. Estimatore di Antonio Gramsci e del giornale socialista e poi comunista Ordine Nuovo, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. Nel 1922 promuove la nascita della rivista Rivoluzione Liberale che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, collegato ad altri nuclei liberali di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.

Più volte arrestato nel '23-24 dalla polizia fascista, la sua rivista ripetutamente sequestrata. Nel settembre del '25 è duramente picchiato a Torino, lasciato esanime sulla porta di casa, con gravi ferite invalidanti. Costretto a espatriare in Francia, mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nel febbraio del 1926. Saggista e autore di numerosi scritti culturali e politici pubblicati in Italia e all'estero, simbolo del liberalismo progressista sensibile al riscatto delle classi lavoratrici.

Mussolini in persona inviò una minuta al prefetto di Torino suggerendo di "vigilare per rendere la vita difficile a questo insulso oppositore". Lo zelante Piero Brandimarte con la sua squadraccia torinese si incaricò lui di dargli una intimidatoria "lezione". Il 22 novembre, Gobetti, fu duramente malmenato e lasciato privo di sensi dentro un portone.
Il 26 gennaio, lasciò Torino per Parigi. Debilitato com'era per l'aggressione subita, e per il freddo, e per il viaggio, quando arrivò a Parigi, il 3 febbraio si ammalò; rimase febbricitante alcuni giorni, poi il 16 dello stesso mese moriva. Non aveva compiuto nemmeno i 25 anni.

ANTONIO GRAMSCI - Nato ad Ales (Cagliari) nel 1891 da famiglia piccolo-borghese. Di salute cagionevole fin dall'infanzia, vince una borsa di studio per l'Università di Torino, laureandosi in lettere e filosofia. Nel 1913 aderisce al Partito socialista del quale diventa, nel '17, segretario della sezione torinese. Affascinato dal pensiero e dall'opera di Lenin, in Russia, nel 1919 promuove la formazione della corrente comunista nel Partito socialista, dalla quale, nel 1921, nasce il Partito comunista d'Italia. Direttore del quotidiano L'Ordine nuovo, nel '22 è componente dell'Esecutivo dell'Internazionale comunista. Si sposa a Mosca; avrà due figli per i quali, dal carcere italiano, scriverà una serie di commoventi favole pubblicate con il titolo L'albero del riccio. Rientrato in Italia, è eletto deputato per il collegio Veneto e segretario generale del Partito comunista. Nel 1926 viene arrestato dalla polizia fascista nonostante l'immunità parlamentare, il re e Mussolini sciolgono la Camera dei deputati, mettendo fuori legge i comunisti. Gramsci e tutti i deputati comunisti sono processati e confinati: Gramsci nell'isola di Ustica e successivamente nel carcere di Civitavecchia e Turi. Non essendo adeguatamente curato è abbandonato al lento spegnimento fra sofferenze. Muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione, senza aver mai rivisto i figlioletti. Negli anni della reclusione scrive 32 quaderni di studi filosofici e politici, definiti una delle opere più alte e acute del secolo; pubblicati da Einaudi, nel dopoguerra, sono noti universalmente come i Quaderni dal carcere, tradotti in tutte le lingue più importanti.

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